Sebbene assolto, i Giudici gli negano il risarcimento per ingiusta detenzione (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 28 ottobre 2020, n. 29853).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente – 

Dott. TANGA Antonio Leonardo – Consigliere –

Dott. PICARDI Francesca – Rel. Consigliere –

Dott. FERRANTI Donatella – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

CITO COSIMO nato a TARANTO il 26/11/1968;

avverso l’ordinanza del 19/05/2020 della CORTE APPELLO di LECCE;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa FRANCESCA PICARDI;

lette le conclusioni del PG.

RITENUTO IN FATTO

1. Cosimo Cito, a mezzo del proprio difensore di fiducia, ha impugnato l’ordinanza della Corte di Appello di Lecce, con cui è stata rigettata la sua richiesta di riparazione per ingiusta detenzione patita, in regime di custodia cautelare, dal 24 giugno 2013 al 2 dicembre 2014 (sino al 19 luglio 2013 in regime di custodia cautelare e successivamente in regime di arresti domiciliari).

2. Il ricorrente, sottoposto alla misura cautelare per il reato di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto indagato di partecipazione nell’associazione, per aver messo a disposizione il proprio circolo per lo svolgimento dell’attività illecita, è stato assolto in primo grado per non aver commesso il fatto.

3. La Corte di Appello ha rigettato l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione, ritenendo che la complessiva condotta del ricorrente, caratterizzata da colpa grave, sia stata causalmente rilevante ai fini dell’adozione e del mantenimento della misura cautelare, atteso che, come affermato nella stessa sentenza di assoluzione, Cito Cosimo era al corrente di ciò che avveniva nel proprio locale (“in fase cautelare e, poi in dibattimento, si è infatti rilevato che il Cito Cosimo era a perfetta conoscenza dell’utilizzazione del proprio esercizio commerciale come base logistica per le attività del sodalizio…gli associati.. per impedire captazioni di conversazioni programmavano periodiche bonifiche dell’immobile e delle aree esterne, evidentemente col consenso del titolare”), essendo addirittura coinvolto nell’acquisto di sostanza stupefacente (come confermato da una intercettazione), ma che, in sede di interrogatorio di garanzia, ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere e di non chiarire la propria posizione.

4. Il ricorrente, con l’odierna impugnazione, ha denunciato il vizio di motivazione, avendo la Corte di Appello attribuito eccessiva enfasi alla asserita (ma non dimostrata) conoscenza, da parte sua, dell’attività illecita dei sodali all’interno del suo circolo, da cui non può desumersi la sua colpa, ed alla sua scelta difensiva di non rispondere all’interrogatorio di garanzia, che è espressione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito.

5. La Procura Generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

RITENUTO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può essere accolto.

2. Occorre premettere che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per verificare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito una motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002 cc. – dep. 15/10/2002, Rv. 222263 – 01 ).

Si è, inoltre, precisato che il giudice della riparazione, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione “ex ante” – e secondo un iter logico- motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (Sez. 4, n. 3359 del 22/09/2016 Cc. , dep. 23/01/2017, Rv. 268952).

Dal punto di vista probatorio, va sottolineato che, per decidere se l’imputato abbia dato causa per dolo o colpa grave alla misura cautelare, il giudice può tener conto degli atti che nell’ambito del giudizio di cognizione sono risultati inficiati da inutilizzabilità meramente “fisiologica” (v., per tutte, Sez. 4, Sentenza n. 38181 del 23/04/2009 cc. – dep. 29/09/2009, Rv. 245308 – 01; cfr. anche Sez. 4, Sentenza n. 24935 del 29/01/2019 Cc. – dep. 05/06/2019, Rv. 276336 – 01, secondo cui, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini della valutazione del dolo o della colpa grave, il giudice può utilizzare gli esiti di intercettazioni che nel giudizio di cognizione sono risultati “fisiologicamente” inutilizzabili.).

In definitiva, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi, che possono portare a conclusioni del tutto differenti: ciò sia in considerazione del diverso oggetto di accertamento (nel giudizio penale la condotta di reato; nel giudizio di riparazione la condotta gravemente colposa o dolosa causalmente rilevante ai fini della misura cautelare) sia in considerazione delle diverse regole di giudizio (applicandosi solo in sede penale la regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio ed una serie di limitazioni probatorie).

Tuttavia, tale autonomia non consente al giudice della riparazione di ritenere provati fatti che tali non sono stati considerati dal giudice della cognizione ovvero non provate circostanze che quest’ultimo ha valutato dimostrate (Sez. 4, n. 12228 del 10/01/2017 Cc., Rv. 270039).

Come si è recentemente precisato (Sez. 4 n. 34438 del 02/07/2019 cc. – dep. 29/07/2019, Rv. 276859 – 01), però, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, laddove le conclusioni nel processo penale siano state fondate sul criterio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, il giudice può attribuire agli stessi fatti accertati nel giudizio di cognizione una diversa valutazione probatoria, posto che il richiamato criterio caratterizza solo il giudizio di responsabilità penale.

3. Vanno, inoltre, ricordati gli orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità, secondo cui:

– la colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’indennizzo ex art. 314 cod. proc. pen. può essere integrata anche da un atteggiamento di connivenza passiva quando detto atteggiamento risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, sebbene il connivente non intendesse perseguire tale effetto e vi sia la prova che egli fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente (Sez. 3, n. 22060 del 23/01/2019 cc. – dep. 21/05/2019, Rv. 275970 – 02);

– la condotta dell’indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave poiché è onere dell’interessato apportare immediati contributi o riferire circostanze che avrebbero indotto l’Autorità Giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare (Sez. 4, n. 24439 del 27/04/2018 cc. – dep. 30/05/2018, Rv. 273744 – 01).

4. Nel caso di specie, il provvedimento impugnato, con una motivazione coerente e non manifestamente illogica, sebbene sintetica, ha correttamente applicato tali principi.

Il giudice della riparazione ha, difatti, desunto i comportamenti gravemente colposi del ricorrente proprio dalla sentenza di assoluzione, che ha, comunque, confermato la piena conoscenza di Cito Cosimo dell’attività illecita che si svolgeva nel suo locale ed il suo coinvolgimento in un episodio di acquisto di sostanza stupefacente.

Tale condotta, sebbene non si traduca nella partecipazione consapevole all’associazione illecita e non abbia, dunque, portato alla condanna penale, integra, comunque, una connivenza, quantomeno, rispetto all’attività di spaccio, idonea a rafforzare la volontà criminale dei sodali, e, dunque, costituisce una colpa grave, idonea a determinare o, quantomeno, a contribuire all’errore dell’autorità giudiziaria nell’adozione della misura cautelare.

A ciò si è aggiunta, come pure correttamente evidenziato dal giudice della riparazione, la scelta processuale del silenzio in sede di interrogatorio di garanzia, che, sebbene legittima, ha escluso un immediato chiarimento a favore del ricorrente.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 21 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.