Smarrimento testamento olografo: il beneficiario non è tenuto ad averne una copia (Corte di Cassazione, Sezione II Civile, Sentenza 30 aprile 2019, n. 11465).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15214-2014 proposto da:

C.V.A., rappresentato e difeso dagli Avvocati ANTONIO LODOVICO MAGNOCAVALLO e FABRIZIO PAVAROTTI, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in ROMA, VIA ARCHIMEDE 112;

– ricorrente e controricorrente all’incidentale –

contro

C.V.M.M., rappresentata e difesa dagli Avvocati PATRIZIO LEOZAPPA, GIUSEPPE CONTINO e MARIA ELISABETTA CONTINO, ed elettivamente domiciliata, presso lo studio del primo, in ROMA, VIA GIOVANNI ANTONELLI 15;

– controricorrente e ricorrente incidentale – e contro

C.V.E., e C.V.L., rappresentate e difese dagli Avvocati BARBARA PICCINI e ATTILIO GUARNERI, ed elettivamente domiciliate presso lo studio della prima, in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 29 – controricorrenti –

avverso la sentenza n. 571/2014 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 20/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/11/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento limitatamente alla vocazione della successione della M.;

uditi gli Avvocati FABRIZIO PAVAROTTI e MARCO BISCEGLIA per delega dell’Avv. ANTONIO LODOVICO MAGNACAVALLO per il ricorrente principale;

ATTILIO GUARNIERI per le controricorrenti E. E C.V.L.;

PATRIZIO LEOZAPPA per la controricorrente e ricorrente principale C.V.M.M., i quali tutti hanno concluso come in atti.

Svolgimento del processo

C.V.L. ed C.V.E. convenivano in giudizio la madre M.R. e i propri fratelli C.V.A. e C.V.M.M. in relazione alla successione al padre Ca.Ve.Al..

Con sentenza parziale n. 820/2007, depositata in data 7.6.2007, il Tribunale di Parma dichiarava che la successione si fosse aperta, in (OMISSIS), in forza di testamento olografo del 5.3.1991, con cui il defunto lasciava alla moglie l’usufrutto vitalizio di tutto il suo patrimonio a tacitazione dei suoi diritti sull’eredità con esonero da inventario e cauzione; lasciava in prelegato al figlio A. la (OMISSIS) (abitazione di V.G.) con tutto il contenuto, il parco e le pertinenze, affidandogliela come a lui era stata affidata dal proprio padre; nominava eredi i figli M.M., L., A. ed E. dividendo tra loro il patrimonio in modo che ad A. toccasse la parte paterna del podere (OMISSIS) e la metà del podere (OMISSIS); a M.M., L. ed E. l’altra metà del podere (OMISSIS), la propria parte della casa di (OMISSIS) con il terreno annesso e dell’appartamento di (OMISSIS), l’appartamento di (OMISSIS) e il terreno di (OMISSIS); divideva il denaro e i suoi rappresentativi in modo che ad A. andasse 1/10, gli altri 9/10 in parti uguali a M.M., L. ed E..

Il Tribunale respingeva la domanda proposta da C.V.L. e da C.V.E., diretta a estendere l’asse ereditario ai beni mobili e immobili di proprietà della madre.

La causa era sorta in quanto un testamento olografo sarebbe andato perduto.

Espletata la prova testimoniale diretta alla ricostruzione del contenuto e della forma del testamento, il Tribunale riteneva che la prova si fosse conclusa positivamente.

Avverso detta sentenza proponevano appello L. ed C.V.E..

In data (OMISSIS) decedeva M.R.. Le appellanti provvedevano a citare per l’udienza già fissata di precisazione delle conclusioni, i fratelli A. e M.M. in proprio e quali eredi della madre.

L. ed C.V.E. riproponevano le medesime domande già proposte al Tribunale, con l’aggiustamento delle quote, derivante dalla morte della madre e, pertanto, accertarsi la loro qualità di eredi legittime e dichiararsi che, in assenza di testamento, l’eredità si fosse devoluta per legge ex art. 581 c.c., in ragione della quota di un sesto per ognuno dei fratelli e di due sesti per la vedova e per essa, poi deceduta, ai quattro figli.

Si costituiva in giudizio C.V.M.M. chiedendo, in via principale, il rigetto dell’appello e, in via subordinata, in caso di successione legittima, dichiarare in suo favore la quota riservata agli eredi legittimari.

Si costituiva anche C.V.A. chiedendo il rigetto dell’appello e condanna delle appellanti in solido alle spese del grado di appello.

Le appellanti lamentavano che il Tribunale avesse ammesso la ricostruzione del contenuto del testamento per via testimoniale, senza avere previamente preteso la prova dei necessari elementi, tra cui l’incolpevole perdita, in applicazione dell’art. 2725 c.c., art. 2724 c.c., n. 3.

C.V.A. obiettava che il presupposto dell’incolpevole perdita si applicasse nel caso in cui fosse l’erede stesso, che invocava la prova testimoniale, a detenere il testamento, mentre nella fattispecie il documento era detenuto dalla madre, che non rivestiva la qualità di erede.

Con sentenza n. 571/2014, depositata in data 20.2.2014, la Corte d’Appello di Bologna, in parziale accoglimento dell’appello, dichiarava devoluta ex lege, in assenza di testamento, l’eredità di Ca.Ve.Al. e che spettava, quali eredi legittimi, a L., E., A. e M.M. la quota di un sesto ciascuno, e la quota di due sesti della madre deceduta.

Confermava nel resto la sentenza di primo grado.

In particolare, la Corte d’Appello riteneva che C.V.A. non si sarebbe preoccupato di chiedere la pubblicazione del testamento ex art. 620 c.c., sicchè la perdita del testamento non poteva essere ritenuta incolpevole; inoltre la testimonianza di C.V.G., sorella del defunto, sarebbe stata inattendibile per l’inverosimiglianza del suo racconto.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione C.V.A. sulla base di dieci motivi;

resistono con controricorso E. e C.V.L.; resiste anche C.V.M.M. con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale sulla base di cinque motivi.

Tutte le parti hanno depositato rispettive memorie.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo del ricorso principale, il ricorrente deduce la “Nullità dell’atto di appello e della sentenza per violazione dell’art. 342 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4)”, in ragione della mancata specificazione dei motivi di appello. Il fatto che le appellanti E. e C.V.L. si fossero limitate alla mera trascrizione di diverse pagine della comparsa conclusionale, renderebbe evidente che l’atto di appello non rappresentasse una critica argomentata alla motivazione della sentenza.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Con riferimento all’art. 342 c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012, ai sensi dell’art. 54, commi 2 e 3-bis detto D.L.), questa Corte (ex plurimis, Cass. sez. un. 3033 del 2013) – sottolineato che l’originario connotato di novum iudicium del processo d’appello (disciplinato dal codice di rito del 1865), notevolmente attenuato nel nuovo codice del 1940 dalle disposizioni contenute negli artt. 342, 345 e 346 c.p.c. a seguito delle profonde modifiche apportate dalla L. n. 353 del 1990, non è più riscontrabile nell’attuale processo civile, nel cui ambito il giudizio di secondo grado costituisce una revisio prioris instantiae, incanalata negli stretti limiti devoluti con i motivi di gravame – ha ribadito che, nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata.

In sostanza, l’appello deve puntualizzarsi all’interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma “comunque” sostituiti dalla sentenza di appello (Cass. sez. un. 28498 del 2005).

Pertanto, la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi, con la conseguenza che tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che la sorreggono; pertanto, nell’atto di appello deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame rilevabile d’ufficio, una parte argomentativa che contrasti le ragioni addotte dal primo giudice” (Cass. sez. un. 23299 del 2011; nonchè, Cass. n. 18704 del 2015; Cass. n. 12280 del 2016).

1.3. – Al fine quindi di verificare la corretta applicazione della norma in esame, si deve ribadire che non si rivela sufficiente il fatto che l’atto d’appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con idoneo grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (Cass. sez. un. 16 del 2000; Cass. sez. un. 28498 del 2005).

Da ciò, la affermata inammissibilità dell’atto di appello redatto in modi non rispettosi dell’art. 342 codice di rito (Cass. sez. un. 16 del 2000, cit.), che va tuttavia applicato senza inutili formalismi e senza richiedere all’appellante il rispetto di particolari forme sacramentali (v., tra le altre, Cass. 12984 del 2006; Cass. n. 9244 del 2007; Cass. n. 25588 del 2010; Cass. n. 22502 del 2014; Cass. n. 18932 del 2016; Cass. n. 4695 del 2017).

1.4. – Tali principi hanno trovato conferma anche nelle sentenze delle Sezioni unite n. 28057 del 2008 e n. 23299 del 2011); nonchè da ultimo (con riferimento agli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo certamente più rigoroso, novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, e convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134) in Cass. sez. un. 27199 del 2017, che in coerenza con la regola generale per cui le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale (Cass. n. 10916 del 2017); e non trascurando che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha chiarito in più occasioni che le limitazioni all’accesso ad un giudice sono consentite solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (Cass. n. 10878 del 2015; sent. CEDU 24 febbraio 2009, in causa C.G.I.L. e Cofferati contro Italia) – ha enunciato il seguente principio di diritto: “Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.

Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado” (conf. Cass. n. 13535 del 2018).

1.5. – Orbene, il fatto che le appellanti si fossero limitate alla mera trascrizione di diverse pagine della comparsa conclusionale (testualmente riportate nel ricorso principale), si configura in sè come fattore del tutto neutro onde verificare la ritualità della formulazione dei motivi di appello, nel caso in cui detti motivi – al di là del mancato utilizzo di formule sacramentali – rispondano nella sostanza, ai menzionati requisiti di ammissibilità, nei termini delineati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata.

1.6. – Piuttosto, dalla mera comparazione del testo dell’atto di appello e della comparsa conclusionale il ricorrente ha tratto una apodittica affermazione della inammissibilità di una tale formulazione dei motivi.

La qual cosa, tuttavia, rileva al contrario in termini di carenza di specificità degli stessi motivi di ricorso, che (ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4) devono contenere le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza impugnata.

Se è vero che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014).

Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015).

Questa Corte – rilevato che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato (come nella specie) un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando altrettanto specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso – ha affermato che, pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere (non assolto dalla ricorrente) di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. n. 20405 del 2006; conf. Cass. n. 21621 del 2007; Cass. n. 22880 del 2017).

2. – Con il secondo motivo del ricorso principale, il ricorrente deduce, “In subordine, (la) violazione di norme di diritto: art. 2724 c.c., n. 3 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, richiamando Cass. n. 952 del 1967, secondo la quale, nel caso di perdita del testamento, la norma dell’art. 2724 c.c., n. 3 (“la prova per testimoni è sempre ammessa (…) 3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova”) va interpretata distinguendo il caso dell’erede che abbia avuto la detenzione della scheda testamentaria dal caso dell’erede che non la abbia mai detenuta, per cui quest’ultimo è ammesso a provare per testimoni la preesistenza del testamento e il suo contenuto.

Il ricorrente richiama altresì Cass. n. 880 del 1961), la quale esclude che la responsabilità per la perdita ricada su chi avesse affidato il testamento, essendo ovvio che il fatto che il detentore sia persona avveduta non escluda che il medesimo in qualche occasione possa non esserlo; se ciò può comportare la sua colpa, non implica la colpa di chi si fosse affidato a tale soggetto.

La Corte di merito non avrebbe tratto le conseguenze imposte dall’art. 2724 c.c., n. 3, come interpretato dalla Suprema Corte, dal fatto che C.V.A. non avesse mai avuto la detenzione della scheda e che la detentrice fosse persona avveduta.

Perciò la Corte territoriale ha negato la perdita incolpevole da parte del ricorrente, aggiungendo un requisito non richiesto dalla norma nell’interpretazione datane dalla Cassazione -, cioè avere preteso la pubblicazione del testamento.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – Quanto affermato dal ricorrente confligge con la consolidata giurisprudenza di legittimità, riguardo all’interpretazione del combinato disposto dell’art. 2725 c.c. e art. 2724 c.c., n. 3.

Infatti, la prova testimoniale per gli atti per i quali è richiesta la forma scritta, o ad substantiam o ad probationem, è ammessa solo dopo che sia acquisita la prova di una serie di circostanze di fatto preliminari, quali:

a) l’esistenza del documento;

b) il suo contenuto, onde controllare la sua validità formale e sostanziale;

c) la prestazione di ogni possibile diligenza, tipica del buon padre di famiglia, nella custodia del documento ovvero di una condotta priva di elementi di imprudenza e di negligenza, nel caso di perdita;

d) l’evento naturale o imputabile a terzi, che abbia determinato la perdita del documento (Cass. n. 24100 del 2011; Cass. n. 26155 del 2006; Cass. n. 23288 del 2005).

In caso di sparizione di un presunto testamento, è dunque necessario rispettare la condizione di cui all’art. 2724 c.c., n. 3, interpretando la sua formula nel senso che, dove si parla di contraente, deve intendersi richiamato l’interessato alla ricostruzione del testamento (che nella specie è sicuramente anche il ricorrente, in quanto largamente beneficiato dall’atto), il quale, ove sia stato in possesso del documento, deve dimostrare di essere incolpevole in ordine al suo smarrimento, mentre nel caso in cui egli non sia stato custode della scheda, il suo onere probatorio riguarda, oltre al fatto di non averla mai posseduta, anche la circostanza che egli non fosse particolarmente tenuto a procurarsene la detenzione, pertanto di non essere stato in colpa circa il fatto di non averla posseduta.

2.3. – La Corte di merito ha dato corretta applicazione ai menzionati principi giurisprudenziali, rilevando che, nella fattispecie, era pacifico che il presunto testamento fosse andato perduto, se mai fosse esistito, per colpa della M. (moglie del de cuius e madre delle parti in causa), destinataria del preteso usufrutto vitalizio di tutto il patrimonio, con esonero da inventario e da cauzione.

Secondo la Corte, infatti, la medesima, come emerge dalle prove raccolte nell’istruttoria del giudizio di primo grado, non avrebbe custodito con la richiesta diligenza l’ipotetica scheda testamentaria, così da determinarne la perdita.

Senza peraltro, tuttavia, dimenticare che anche l’altro erede testamentario, C.V.A., largamente avvantaggiato in quanto destinatario del presunto cospicuo prelegato contenente l’immobile di gran lunga più prestigioso e cioè la celebre (OMISSIS), con tutte le pertinenze annesse, non avrebbe esercitato la richiesta diligenza, non avendo curato personalmente che il presunto testamento fosse adeguatamente custodito, e non preoccupandosi di pretenderne la pubblicazione ai sensi dell’art. 620 c.c.

La Corte osserva, dunque, che ciò che non si riesce a spiegare è la condotta inverosimile della M. e di C.V.A., i quali – anzichè portare al più presto il presunto testamento da un notaio per la sua pubblicazione (tanto più che C.V.G., sorella del de cuius e coadiutrice del fratello nello studio notarile era dotata delle appropriate conoscenze) – o, almeno, estrarne una fotocopia, avrebbero continuato a farlo leggere e rileggere dalla rispettiva cognata e zia ai familiari, aprendo poi, dopo ogni lettura, le discussioni del caso e ciò per circa tre mesi.

Pertanto, osserva la Corte, o si sarebbe dovuto portare il presunto testamento rinvenuto da un notaio per la sua pubblicazione (cosa che avrebbero potuto fare singolarmente sia la M. che il figlio), oppure si sarebbe dovuto custodirlo con adeguata diligenza per evitare sottrazioni.

2.4. – Sulla base di tali argomentazioni deve ritenersi che il giudice d’appello, avendo esaustivamente indicato le fonti e le ragioni del proprio convincimento (senza alcuna violazione delle norme evocate), ha posto in essere un accertamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione (e quindi sottratto al sindacato di legittimità), come tale immune dalle censure sollevate dal ricorrente, che sostanzialmente si limita a prospettare una diversa valutazione delle vicende che hanno dato luogo alla presente controversia (Cass. n. 1916 del 2011).

Spetta infatti solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (Cass. n. 6064 del 2008; Cass. n. 9275 del 2018).

3. – Con il terzo motivo del ricorso principale, il ricorrente deduce l'”Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in relazione alla circostanza che C.V.A. fosse particolarmente tenuto a procurarsi la detenzione del testamento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, poichè, essendo eredi testamentari i quattro fratelli, non era suo esclusivo onere la custodia del testamento e la presa in consegna del medesimo da parte della madre, per essere conservato nella cassaforte familiare, era soluzione tale da escludere una sua responsabilità per un’eventuale perdita.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 20 febbraio 2014) consente (Cass. n. 8053 e n. 8054 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

3.3. – Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe, dunque, dovuto specificamente e contestualmente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Orbene, nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde poter accedere all’esame del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non si ravvisa la necessaria specificazione.

Sicché, le censure mosse in riferimento a detto parametro si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una rivalutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018), inammissibile seppure effettuata con asserito riferimento alla congruenza sul piano logico e giuridico del procedimento seguito per giungere alla soluzione adottata dalla Corte distrettuale e contestata dal ricorrente.

4.1. – Con il quarto motivo del ricorso principale, il ricorrente lamenta la “Violazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”, in quanto il giudizio di inattendibilità della testimonianza resa da C.V.G. si fonda sulla asserita “inverosimiglianza” del suo racconto; e poichè il parametro della verosimiglianza/inverosimiglianza del fatto oggetto della prova esorbita dall’ambito del prudente apprezzamento del Giudice di merito e si risolve in uso distorto della discrezionalità.

4.1.1. – Con il quinto motivo del ricorso principale, il ricorrente denuncia la “Falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)” giacchè la ritenuta inverosimiglianza del racconto della teste C.V.G. si basa su presunzioni prive dei necessari caratteri di gravità, precisione e concordanza.

4.2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

4.2.1. – I motivi non possono trovare accoglimento.

4.3. – E’ consolidato il principio per cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare (come nella specie la Corte ha fatto) le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).

Ed è altresì pacifico che il difetto di motivazione censurabile in sede di legittimità è configurabile (sotto il profilo del vizio di motivazione, secondo i canoni di cui al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) solo quando, dall’esame del ragionamento svolto dal Giudice di merito e quale risulta dalla stessa sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre a una diversa decisione, ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza del processo logico che ha indotto il Giudice al suo convincimento, ma non già quando vi sia difformità rispetto alle attese del ricorrente (Cass. n. 13054 del 2014).

4.3.1. – Sotto altro profilo (a contestazione del racconto della teste C.V.G.) il ricorrente deduce come sia dato di comune esperienza che il testamento – se non si trovi già nella mani di un notaio – venga consegnato da chi ne entri in possesso ai familiari.

Essendo ciò quanto nel caso è avvenuto, là dove la sorella del testatore, G., sua coadiutrice nell’attività professionale notarile, a conoscenza del luogo in cui si trovava il testamento, lo aveva prelevato e ne aveva data lettura ai familiari, consegnandolo alla madre (che lo aveva custodito in cassaforte) e prendendo contatto con un notaio per la sua pubblicazione, poi rinviata per le richieste di L., cessate solo quando il testamento era scomparso.

Tuttavia, a sostegno del suo convincimento, il giudice d’appello ha esplicitato altri profili di inverosimiglianza del racconto della teste, quali:

a) l’impressionante precisione nel ricordo, che, secondo la Corte, poteva essere spiegata dalla qualità professionale della teste;

b) l’età della teste ultraottantenne;

c) il tempo trascorso.

Da ciò, traendo la conclusione che la testimonianza presentasse importanti aspetti di inverosimiglianza (giammai formulando l’ipotesi che il teste avesse riferito scientemente il falso), incidenti non solo quanto alla prova di una incolpevole perdita, ma anche della esistenza stessa di un testamento.

4.3.2. – Peraltro, va rilevato che la complessiva censura di cui ai presenti motivi, si risolve, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, cosi mostrando la ricorrente di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018), giacchè (come detto) la valutazione del materiale probatorio operata dalla Corte d’appello è sorretta da argomentazioni logiche e coerenti tra loro, con motivazione sufficiente e non contraddittoria, tali da non vulnerare gli evocati profili di censura di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

5.1. – Con il sesto motivo del ricorso principale, il ricorrente lamenta la “Violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2733 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, poichè la Corte territoriale ha ritenuto che la testimonianza di C.V.G. fosse la sola fonte probatoria che affermasse l’esistenza del testamento, fornisse gli elementi di forma e di contenuto e riferisse dell’inspiegabile scomparsa nonostante la custodia in cassaforte; ignorando viceversa la confessione giudiziale resa da C.V.M.M. nella comparsa di risposta di primo grado, dalla medesima sottoscritta (con effetto di confessione spontanea ex art. 229 c.p.c.), la quale confermava: che, in data 11.9.2001, C.V.G. aveva presentato agli eredi, riuniti in una stanza di (OMISSIS), la busta chiusa reperita in un cassetto della scrivania del fratello nello studio notarile del medesimo; che questa apriva la busta che conteneva un foglio di carta da lettera, la cui prima facciata era manoscritta e sottoscritta dal testatore e recava la data del 5.3.1991; che G. ne aveva data lettura e il testo era lo stesso indicato a pagg. 3-4 della comparsa di risposta di C.V.A..

Inoltre, il ricorrente, ha eccepito che il Giudice d’appello aveva ignorato altresì le dichiarazioni contenute nella comparsa di costituzione di primo grado di M.R., con le quali la stessa aveva aderito integralmente alla ricostruzione dei fatti esposta dalla difesa del figlio A..

5.1.1. – Con il settimo motivo del ricorso principale, il ricorrente lamenta, “In alternativa, (la) violazione dell’art. 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”, declinando la medesima censura di mancata valutazione di una prova documentale quale errore processuale della Corte di merito, nel dichiarare che la testimonianza di C.V.G. fosse la sola fonte probatoria che affermasse l’esistenza del testamento, dimostrava di non avere esaminato le altre fonti probatorie (ossia le dichiarazioni confessorie di C.V.M.M. e il comportamento processuale della madre).

5.1.2. – Con l’ottavo motivo del ricorso principale, il ricorrente deduce, “In subordine, (l’)omesso esame di fatti decisivi (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, in quanto la Corte di merito avrebbe del tutto omesso di considerare sia la confessione giudiziale di C.V.M.M., sia le dichiarazioni contenute nella comparsa di costituzione di primo grado della M..

5.2. – In ragione della stretta connessione logico-giuridica di tali motivi di ricorso, gli stessi vanno congiuntamente analizzati e decisi.

5.2.1. – Essi sono in parte infondati ed in parte inammissibili.

5.3. – Certamente, la ricostruzione dei fatti relativi al testamento, resa dalla parte C.V.M.M. non può essere qualificata come “confessione giudiziale”, contenuta nella comparsa di risposta nel giudizio davanti al Tribunale di Parma.

La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (art. 2730 c.c.). La controricorrente ha espressamente affermato di non essersi “opposta nei precedenti gradi di giudizio alla domanda svolta dal ricorrente di riconoscimento della devoluzione della successione paterna in base al documento ricostruito sulla scorta del ricordo della Dott.ssa C.V.G.”; rammentando di avere chiesto, proprio fin dalla comparsa di costituzione e risposta davanti al Tribunale, di “dare atto che la convenuta (…) non si oppone all’accoglimento della domanda riconvenzionale (…) spiegata da C.V.A. nei confronti delle attrici” (v. controricorso e ricorso incidentale, pagg. 12-15).

Sicchè, il valore confessorio attribuito dal ricorrente alla ricostruzione delle vicende relative al testamento, resa nella menzionata memoria, va escluso in mancanza tanto dell’animus confitenti della parte, quanto del fatto che dette dichiarazioni non fossero, sul punto, nè sfavorevoli nè favorevoli, ma semplicemente neutre rispetto all’orientamento assunto dalla M.M. nei confronti delle ragioni del fratello e della madre.

Invero, le dichiarazioni contenute negli atti processuali possono assumere il carattere proprio della confessione giudiziale spontanea, alla stregua di quanto previsto dall’art. 229 c.p.c., purchè sottoscritte dalla parte personalmente, con modalità tali da rivelare inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche ammissioni dei fatti sfavorevoli così espresse (Cass. n. 6192 del 2014; cfr. anche Cass. n. 4744 del 2005; Cass. n. 26686 del 2005).

5.3.1. – Trattasi dunque (al pari di quello tenuto dalla madre M.R.) di semplice comportamento processuale tenuto dalle parti, in ordine al quale (come già detto sub 4.3.) va ribadito che è consolidato il principio per cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare (come nella specie la Corte ha fatto) le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

Resta, quindi, esclusa anche qualsiasi violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non trattandosi nella specie di problematica connessa a vizio in procedendo.

5.3.2. – Sulla base della stesse considerazioni svolte sub 3.2. e 3.3., è inammisssibile l’ottavo motivo, là dove le censure mosse in riferimento ad esso si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una rivalutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018).

6.1. – Con il nono motivo di ricorso principale, il ricorrente denuncia un “Error in procedendo: violazione dell’art. 345 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”, lamentando che la Corte di merito, abbia accolto la domanda nuova, proposta nell’atto di riassunzione del giudizio di appello a seguito del decesso della madre, dalle sorelle L. ed E. (che dichiaravano di agire in proprio e quali coeredi della medesima) e che, riproponendo le domande della citazione in appello, chiedevano di accertarsi che ad esse competeva anche la quota parte loro spettante su quella di competenza della madre deceduta, di cui chiedevano l’assegnazione.

6.1.1. – Con il decimo motivo del ricorso principale, il ricorrente deduce, “In subordine, (l’) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, poichè la Corte di merito ha ignorato le specifiche attribuzioni del patrimonio materno, risultanti dal testamento, attribuendo la quota di due sesti, spettante alla M. sulla successione al coniuge, per un quarto ciascuno ai quattro figli. Ciò contro l’evidenza del testamento materno che, come detto, assegnava ai soli A. e M.M. anche i diritti di M.R. sull’eredità del marito, nel caso di mancato accoglimento della domanda del figlio A.. Ove la Corte avesse esaminato il contenuto del testamento avrebbe dovuto dichiarare la quota dei due sesti come spettante unicamente ad A. e C.V.M.M., per metà ciascuno.

6.1.2. – Con il primo motivo del ricorso incidentale, la controricorrente C.V.M.M. deduce la “Nullità parziale di capo del dispositivo della sentenza di appello per avere la Corte d’Appello di Bologna deciso su domanda nuova formulata dalle appellanti nel giudizio di secondo grado per la prima volta con l’atto di riassunzione del procedimento, a seguito del decesso dell’appellata M.R., avente a oggetto la successione di questa, in violazione dell’art. 345 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”.

6.1.3. – Con il secondo motivo del ricorso incidentale, la stessa controricorrente lamenta, “In subordine al primo motivo, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. per avere la Corte d’Appello di Bologna deciso sulla domanda nuova formulata dalle appellanti nel giudizio di appello con l’atto di riassunzione del procedimento, a seguito del decesso della madre, avente a oggetto la successione della medesima, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

6.1.4. – Con il terzo motivo del ricorso incidentale, la stessa controricorrente deduce la “Nullità parziale di capo del dispositivo della sentenza di appello per avere la Corte d’Appello di Bologna violato la disposizione dell’art. 115 c.p.c., che fa obbligo al Giudice di porre a fondamento della propria decisione le prove proposte dalla parti nonchè i fatti non specificamente contestati, avendo viceversa omesso di considerare il testamento di M.R., prodotto da tutte le parti del giudizio di appello riassunto, e omesso di considerare che nessuna parte ha contestato che la successione stessa si sia devoluta in forza di detto testamento, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

6.1.5. – Con il quarto motivo del ricorso incidentale, la controricorrente denuncia, “In subordine al terzo motivo, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2702 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. per avere la Corte d’Appello di Bologna, con la parte impugnata di capo della sentenza, violato la disposizione che fa obbligo al Giudice di porre a fondamento della propria decisione le prove proposte dalle parti, nonchè i fatti non specificamente contestati dalle parti, avendo viceversa omesso di prendere in considerazione il testamento di M.R., prodotto da tutte le parti del giudizio di appello riassunto, e di valutarne l’efficacia probatoria, e omesso di considerare che nessuna parte ha contestato che la successione della stessa si sia devoluta in forza di detto testamento, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

6.1.6. – Con il quinto motivo del ricorso incidentale, la controricorrente denuncia, “In subordine ai precedenti quattro, per avere la Corte d’Appello di Bologna, con l’impugnata porzione di capo della sentenza, omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, quale la vocazione della successione della M., (la violazione) ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

6.2. – In ragione della stretta connessione logico-giuridica del nono motivo del ricorso principale e del primo motivo di quello incidentale, gli stessi vanno congiuntamente analizzati e decisi.

6.2.1. – Detti motivi sono fondati.

6.3. – La Corte di merito, rilevato che, a seguito del decesso della madre, M.R., si erano costituite nel processo riassunto anche le sorelle L. ed E. – che avevano riproposto le medesime domande già avanzate in Tribunale, con “l’aggiustamento delle quote, derivante dalla morte della madre”, chiedendo di “accertarsi la loro qualità di eredi legittime e dichiarasi che in assenza di testamento l’eredità (paterna) si è devoluta ex lege (art. 581 c.c.) in ragione della quota di un sesto per ciascuno dei fratelli e di due sesti per la vedova e per essa, poi deceduta, ai quattro figli, eredi della stessa” (sentenza impugnata pag. 3) – senza alcuna altra motivazione nel contesto della parte motiva della decisione, ha (solo in dispositivo) dichiarato devoluta in assenza di testamento l’eredità del de cuius Ca.Ve.Al. con successione apertasi il 6.6.2001, e pertanto che spetta, in qualità di eredi legittimi, ai quattro fratelli la quota di un sesto ciascuno, nonchè “per ciascuno, quella costituente parte della quota dei due sesti di M.R., deceduta” (sentenza impugnata, pag, 6).

Il capo della sentenza sopra indicato risulta del tutto autonomo rispetto al contesto della sentenza ed esula dall’oggetto della controversia quale risultante dalle domande delle parti, fino alla riassunzione in appello; essendo infatti pacifico che la vertenza in oggetto attenesse esclusivamente alla successione di Ca.Ve.Al., come rilevato nella stessa sentenza impugnata (pag. 2), che ricorda che il Tribunale aveva respinto la domanda proposta dalle sorelle L. e E., volta a estendere l’asse ereditario ai beni mobili e immobili di proprietà della M..

Nell’atto di riassunzione le due appellanti, rispetto alle conclusioni dell’atto di appello, avevano inserito la richiesta non già d accertare semplicemente quale sarebbe stata la quota spettante alla madre, bensì di decidere come detta quota andasse devoluta in seguito al decesso della medesima. In questo modo è evidente che la controversia sia venuta ad avere ad oggetto anche la successione della madre.

6.4. – Trattasi all’evidenza di domanda nuova, non proponibile per la prima volta in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c., in quanto essa è sopravvenuta alterando i presupposti della domanda iniziale, mediante l’introduzione di un petitum più ampio, e di una diversa causa petendi, fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado ed in particolare su un fatto giuridico costitutivo del diritto originariamente vantato, radicalmente differente, che ha inserito nel processo un nuovo tema d’indagine (Cass. n. 18299 del 2016; Cass. n. 2080 del 2001).

E ciò anche a prescindere dalla (comunque) eccepita inammissibilità dei ricorrenti principale e incidentale, giacchè l’inosservanza del divieto di introdurre una domanda nuova in appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., e, correlativamente, dell’obbligo del giudice di secondo grado di non esaminare nel merito tale domanda è rilevabile d’ufficio in sede di legittimità, poichè costituisce una preclusione all’esercizio della giurisdizione, che può essere verificata nel giudizio di cassazione (anche d’ufficio), non rilevando in contrario neppure che l’appellato abbia accettato il contraddittorio sulla domanda anzidetta (Cass. n. 28302 del 2005; conf. Cass. n. 4318 del 2016).

D’altronde, in termini generali, va rilevato che, nel caso di divisione di beni oggetto di comproprietà provenienti da titoli diversi e, quindi, appartenenti a diverse comunioni, è possibile procedere ad un’unica divisione, invece che a tante divisioni quante sono le masse, solo con il consenso di tutte le parti, consenso che non può risultare da una manifestazione tacita o da un semplice comportamento processuale non oppositivo avverso la domanda di divisione unitaria, ma deve materializzarsi in uno specifico e apposito negozio giuridico, da cui possa evincersi in modo inequivocabile tale comune volontà (Cass. n. 3029 del 2009; Cass. n. 5798 del 1992).

7. – Il nono motivo del ricorso principale ed il primo motivo di quello incidentale devono pertanto, essere accolti; con assorbimento del decimo motivo del ricorso principale e degli altri quattro motivi di quello incidentale. Per il resto, il ricorso principale va rigettato. Cassa, nei limiti di cui in motivazione, la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna, altra sezione, anche per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il nono motivo del ricorso principale ed il primo motivo di quello incidentale; con assorbimento del decimo motivo del ricorso principale e degli altri quattro motivi di quello incidentale.

Rigetta, per il resto, il ricorso principale.

Cassa la sentenza impugnata, nei limiti di cui in motivazione, e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna, altra sezione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2019