Stazionare sulla pubblica via per spacciare, rende ancora più grave il reato (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 18 giugno 2021, n. 23916).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAPALORCIA Grazia – Presidente

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. SEMERARO Luca – Consigliere

Dott. GAI Emanuela – Consigliere

Dott. GALTERIO Donatella – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) MARCELLO, nato a (OMISSIS) il 14.12.19xx;

avverso la sentenza in data 31.5.2019 della Corte di Appello di Catania;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Donatella Galterio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Domenico Seccia, che ha concluso per l’annullamento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio e per l’inammissibilità nel resto.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 31.5.2019 la Corte di Appello di Catania ha confermato la penale responsabilità di Marcello (OMISSIS) per i reati di cui all’art. 73, primo comma d.P.R. 309/1990 di detenzione a fini di spaccio e cessione di sostanza stupefacente tipo cocaina posti in essere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, riducendo tuttavia la pena inflittagli dal Tribunale della stessa città all’esito del primo grado di giudizio a quattro anni ed otto mesi di reclusione ed C 18.000 di multa.

2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione formulando un unico pluriarticolato motivo con il quale lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 73 d.P.R. 309/990 e 133 cod. pen. e al vizio motivazionale, sia il mancato riconoscimento dell’ipotesi di lieve entità prevista dal quinto comma dell’art. 73 T.U. Stupefacenti alla luce dell’esiguo quantitativo della droga rivenuta in suo possesso, pari ad appena 8 grammi e delle modalità organizzative del tutto rudimentali dello spaccio, sia la pena inflittagli nella misura di sette anni ed otto mesi di reclusione e dunque superiore al vigente minimo edittale di sei anni per effetto della pronuncia di parziale incostituzionalità n. 40 del 2019 della Consulta.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Le doglianze relative alla mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73 quinto comma d.P.R. 309/1990, sostanziandosi in contestazioni che si appuntano sul giudizio valutativo reso dai giudici di merito e che riproducono quelle già articolate con l’atto di appello senza confrontarsi con le puntuali argomentazioni spese al riguardo dalla sentenza impugnata, non possono ritenersi ammissibili.

Nell’adeguarsi all’univoco orientamento giurisprudenziale che richiede a tal fine una valutazione complessiva degli elementi fattuali selezionati dalla norma, tenendo conto non solo dell’entità della droga, ma altresì delle concrete capacità di azione del soggetto e delle sue relazioni con il mercato di riferimento, del numero di assuntori riforniti, della rete organizzativa e/o delle peculiari modalità adottate per porre in essere le condotte illecite al riparo da controlli delle forze dell’ordine (cfr. ex multis Sez. 6, n. 13982 del 20/02/2018, Rv. 272529 e Sez. 3, n. 6871 dell’08/07/2016, Rv. 269149).

La Corte territoriale ha ragionevolmente valorizzato, oltre al dato quantitativo di per sé non modesto, essendo dallo stesso ricavabili 53 dosi medie giornaliere in aggiunta alle due appena cedute, la capacità dell’imputato di diffondere in modo non episodico od occasionale la sostanza stupefacente: conclusione coerentemente desunta dalle dichiarazioni dei due acquirenti qualificatisi come suoi clienti abituali, dalla circostanza, riferita dagli stessi cessionari, che egli fosse solito stazionare sulla pubblica via e che pertanto costituisse uno stabile e noto riferimento nella zona di spaccio per i vari avventori, nonché dalla rilevante somma di danaro anch’essa trovata in possesso dell’imputato, ritenuta, in assenza di diverse giustificazioni, il provento di pregresse cessioni, neppure confutata con il presente ricorso.

Deve perciò ritenersi che il percorso motivazionale della sentenza impugnata, perfettamente in linea con le coordinate interpretative prima esposte, resista ampiamente alle obiezioni difensive, formulate peraltro in termini generici, focalizzate come sono esclusivamente sul dato ponderale e sull’assenza, solo apoditticamente affermata, di una sofisticata struttura organizzativa volta alla commercializzazione dello stupefacente.

Del pari inammissibili devono ritenersi le contestazioni in ordine alla dosimetria della pena.

Manifestamente infondato risulta, invero, l’assunto difensivo secondo cui i giudici del gravame, nel rideterminare il trattamento sanzionatorio, siano partiti dal minimo corrispondente al previgente arco edittale dell’art. 73 d.P.R. 309/1990: al contrario, la pena base fissata in sette anni ed otto mesi, e dunque in misura inferiore al minimo di otto anni previsto dalla norma prima della pronuncia della Corte Costituzionale n. 40/2019, dimostra la conformità della pena alla vigente cornice edittale, il cui discostamento dal minimo di sei anni di reclusione è stato coerentemente giustificato nell’esercizio della propria discrezionalità dalla Corte siciliana, unitamente alla riduzione conseguente al riconoscimento delle attenuanti generiche in misura inferiore alla massima estensione, dal dato quantitativo e dalla capacità del prevenuto di diffusione della droga sul mercato, avvalorata anche dai suoi precedenti penali, elemento quest’ultimo che non è stato oggetto della benché minima contestazione difensiva.

Segue all’esito del ricorso la condanna del ricorrente a norma dell’art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per escluderne la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €. 3.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 4.11.2020.

Depositata in Cancelleria il 18 giugno 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.

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