Stupefacenti: confermato il sequestro preventivo di una ingente somma di danaro cd “confisca per sproporzione”, o “allargata” (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 28 agosto 2020, n. 24430).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MELIS ANTONIO nato a CAGLIARI il 22/03/1983;

avverso l’ordinanza del 20/02/2020 del TRIB. LIBERTA’ di CAGLIARI;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA;

lette le conclusioni del PG, nella persona del Procuratore generale Dott. OLGA MIGNOLO che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 20/2/2020 il Tribunale di Cagliari, rigettava la richiesta di riesame, per l’effetto confermandolo, avverso il decreto di sequestro preventivo del 1/2/2020 del GIP del Tribunale di Cagliari della somma di euro 109.965,00 in danno dell’odierno ricorrente Melis Antonio.

Era accaduto che il 17/1/2020 il PM cagliaritano aveva emesso decreto di perquisizione locale e personale nei confronti di Melis Antonio, sottoposto a indagini nel procedimento intestato per diverse condotte di reato in materia di stupefacenti, commesse nel corso del 2019 attraverso la ripetuta cessione di quantitativi di cocaina pari a circa 50,00 grammi per volta.

Il 20/1/2020, nel dare esecuzione al decreto di perquisizione e sequestro del pubblico ministero presso l’abitazione di Antonio Melis, situata nella Piazza Valsassina n. 10 a Cagliari, i carabinieri della Stazione di Sant’Antioco hanno rinvenuto e sottoposto a sequestro la somma in contanti di 7935,00 curo (iii banconote di diverso taglio), trovata nel marsupio dì Antonio MELIS e consegnato spontaneamente dallo stesso, e la somma in contanti di 102.030,00 euro (in banconote di diverso taglio), trovata nella camera da letto del figlio di Antonio MELIS e consegnata spontaneamente dallo stesso.

Con decreto del 21/1/2020, il pubblico ministero ha convalidato il sequestro della complessiva somma di 109.965,00 euro, ritenendolo corpo di reato e, in particolare, “denaro, per la sproporzionata entità e per le sue modalità di conservazione e occultamento, costituente prodotto e profitto dell’illecito commercio di cocaina effettuata da MELIS Antonio e MELIS Francesco”.

In ogni caso, in data 27/1/2020, lo stesso pubblico ministero ha chiesto al giudice procedente di disporre il sequestro preventivo della somma di 109.965,00 euro in vista della sua confisca.

E, come detto, il 1/2/2020, il giudice per le indagini preliminari ha accolto la richiesta dell’ufficio requirente, ritenendo sussistere il fumus commissi delicti a carico dell’odierno impugnante e del fratello Francesco MELIS in ordine a una sistematica attività di spaccio di sostanze stupefacenti che aveva originato, in data 15 gennaio 2020, l’adozione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di Francesco e, nel corso dell’esecuzione della misura cautelare personale, il rinvenimento nella disponibilità del coindagato Antonio della ingente somma di 109.965,00 curo.

Secondo il giudice procedente, inoltre, l’importo in questione non appare riconducibile all’attività di somministrazione svolta anche in forma ambulante da Antonio Melis e dalla sua famiglia allargata, nella quale sono ricompresi il padre Giuseppe e le compagne dei fratelli Antonio e Francesco.

Avverso tale decreto veniva proposta tempestiva richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo del GIP, con riserva di indicazione dei motivi.

In quella sede la difesa di Antonio Melis deduceva l’insussistenza dei presupposti per procedere a sequestro preventivo della somma, concentrandosi, in particolare, sull’assenza degli elementi richiamati dall’art, 240 bis c.p., considerato che l’attività commerciale dei Melis avveniva prevalentemente in contanti e che il denaro rinvenuto nella casa di Antonio doveva ricondursi all’esercizio dell’impresa di famiglia, sia come provvista per pagare i fornitori e i debiti tributari, sia come profitto (al riguardo il ricorrente ricorda essere stata prodotta documentazione relativa alla gestione della impresa di famiglia).

Il pubblico ministero sosteneva, invece, la legittimità del sequestro preventivo, chiedendo il rigetto dell’impugnazione. E in tal senso si orientavano i giudici del gravame cautelare.

2. Ricorre Antonio Melis, a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

Con un primo motivo deduce contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui il tribunale isolano desume la evidenza del collegamento esistente tra le somme sequestrate e lo spaccio di cocaina dalle modalità di occultamento della complessiva somma, il che sarebbe in contrasto con quanto risulta dal verbale di perquisizione del 20 gennaio 2020 che viene allegato al ricorso.

Il tribunale del riesame – evidenzia il ricorrente – ritiene che il denaro oggetto di sequestro in capo a Melis Antonio costituisca il profitto della condotta illecita di cessione di stupefacente ascritta allo stesso.

Uno degli elementi posti a sostegno di tale tesi, riguarda “la modalità di suddivisione ed occultamento della complessiva somma in contanti di 109.965,00 euro”.

Ebbene, il ricorrente rappresenta che nel verbale di perquisizione allegato alla presente impugnazione si afferma esplicitamente che il denaro sequestrato sia stato spontaneamente consegnato dal Melis, che lo custodiva in gran parte in una stanza nella propria abitazione (da cui egli lo ha prelevato e spontaneamente consegnato agli inquirenti) ed in parte all’interno di un marsupio.

La modalità di conservazione del denaro in questione, oltre che la sua spontanea consegna, renderebbe assolutamente illogico il sopra richiamato riferimento alla “modalità di occultamento”.

Inoltre, si lamenta che, quanto alla suddivisione in banconote, il tribunale, nell’elencarne il taglio, ometta del tutto di dare atto del fatto che le uniche banconote di piccolo taglio erano custodite all’interno del marsupio e che tale circo- stanze rendeva, perciò, le stesse “assolutamente compatibili” con l’attività lavorativa di Melis Antonio, ampiamente documentata dalla difesa, consistente nella gestione di un chiosco per la venduta e somministrazione di prodotti alimentari.

Il tribunale ometterebbe, poi, del tutto di confrontare la più sopra richiamata valutazione con l’alternativa lecita di detenzione, omettendo dal percorso logico argomentativo di considerare un acquisito elemento di fatto, più che rilevante, costituito proprio dal tipo di attività economica svolta dall’odierno ricorrente.

Con un secondo motivo lamenta contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato in ordine alla confiscabiità per sproporzione della somma di denaro sottoposta a sequestro preventivo.

Si evidenzia in ricorso che, in seno alla memoria a sostegno del riesame depositata dalla difesa all’udienza del 20/2/2020 si deduceva la totale liceità della provenienza delle somme di denaro, detenute dal Melis in ragione dell’attività economica svolta da costui e dalla sua famiglia.

In particolare, in riferimento all’art. 240 bis cod. pen. si deduceva che “…la norma in parola, invero, letteralmente individua, i beni confiscabili in quelli di cui il condannato per taluni delitti, “non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla propria attività economica”.

Ebbene il riferimento all’attività economica sarebbe ridondante se il legislatore non avesse inteso estendere il vaglio della proporzionalità del patrimonio accumulato non solo al reddito dichiarato ma anche, e dunque prescindendo dal primo, all’attività economica svolta.

Si evidenzia ancora una volta che, nel caso che ci occupa, è provato che detta attività fosse esistente e che l’esercizio della stessa producesse certamente profitti non trascurabili.

A tal fine, in ogni caso, il ricorrente allega alcune fatture di acquisto del 2019 (relative a pagamenti effettuati in contanti) presso i fornitori delle materie prime impiegate per la preparazione degli alimenti somministrati Il tribunale del riesame non rispondendo a tale osservazione specificamente dedotta e documentata dalla difesa, si sarebbe limitato a ricalcare la valutazione operata dal GIP nel decreto di sequestro preventivo, riproponendo una schema riepilogativo dei redditi dichiarati dai componenti della famiglia dell’odierno ricorrente senza vagliare in nessun modo la copiosa produzione documentale della difesa attinente ad acquisti in contati operati dal Melis relativi a prodotti necessari allo svolgimento dell’attività lavorativa per un importo complessivo più che cospicuo.

Chiede pertanto che questa Corte annulli l’ordinanza impugnata, con tutte le conseguenze di legge.

3. In data 20/6/2020 il P.G. presso questa Suprema Corte ha rassegnato le proprie conclusioni scritte per l’odierna udienza camerale senza discussione orale celebrata ai sensi dell’art. 83, comma 12-ter, d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, come convertito dalla I. 24 aprile 2020, n. 27 chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso, con le statuizioni conseguenti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il proposto ricorso è inammissibile.

2. Preliminarmente, va ricordato, in punto di diritto che, l’art. 325 cod. proc. pen. prevede contro l’ordinanza in materia di appello e di riesame di misure cautelari reali che il ricorso per cassazione possa essere proposto per sola violazione di legge.

Già tale considerazione, tenuto conto che il ricorrente propone due censure che evocano vizi motivazionali, con testuale riferimento nell’atto di impugnazione all’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., porterebbe, da sola, alla inevitabile declaratoria di inammissibilità del ricorso in questa sede di legittimità.

La giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha più volte ribadito, tuttavia, come nella nozione di violazione di legge debbano ricomprendersi sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (vedasi Sez. Un. n. 25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 239692; conf. Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093; Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016, Faiella, Rv. 269296).

È stato anche precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l”’iter” logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (così Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Gabriele, Rv. 254893 nel giudicare una fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento impugnato che, in ordine a contestazioni per i reati previsti dagli artt. 416, 323, 476, 483 e 353 cod. pen. con riguardo all’affidamento di incarichi di progettazione e direzione di lavori pubblici, non aveva specificato le violazioni riscontrate, ma aveva fatto ricorso ad espressioni ambigue, le quali, anche alla luce di quan- to prospettato dalla difesa in sede di riesame, non erano idonee ad escludere che si fosse trattato di mere irregolarità amministrative).

Di fronte all’assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell’atto.

Va anche aggiunto che, anche se in materia di sequestro preventivo il codice di rito non richiede che sia acquisito un quadro probatorio pregnante come per le misure cautelari personali, non è però sufficiente prospettare un fatto costituente reato, limitandosi alla sua mera enunciazione e descrizione, ma è invece necessario valutare le concrete emergenze istruttorie per ricostruire la vicen- da anche in semplici termini di “fumus”.

3. Nel caso in esame, si è senz’altro al di fuori di tali ipotesi perché il Tribunale di Cagliari ha seguito un percorso motivazionale del tutto coerente laddove ha dato atto In punto di fumus commissi delicti rileva il provvedimento impugnato come l’esame complessivo degli atti investigativi, che da ultimo hanno determinato l’ufficio requirente a emettere un avviso di conclusione delle indagini, tra gli altri, nei confronti di Antonio Melis, per il delitto di cessione di quantitativi di cocaina, dalla fine del 2018 sino al gennaio 2020, in concorso col fratello Francesco Melis, rende certamente configurabile lo stesso con riferimento alle condotte delittuose confluite nei capi D) e 3) dell’avviso di cui all’art. 415 bis cod. proc. pen.

In particolare il provvedimento impugnato ricorda come le indagini svolte dai carabinieri della Stazione di Sant’Antioco, i servizi di osservazione e controllo, i sequestri dì cocaina e i correlativi arresti e le intercettazioni telefoniche ed ambientali sul conto dei due fratelli Melis, iniziate dal mese di dicembre 2018, hanno documentato una redditizia attività di spaccio di cocaina, concretatasi nel costante approvvigionamento a favore di terzi, che ha permesso di rifornire la droga a diversi soggetti, alcuni dei quali sottoposti ad indagini (come i coindagati Fabio Cadeddu e Gian Manuel Pau), che provvedevano a rivendere la droga a numerosi consumatori nel territorio di Sant’Antioco.

Viene posto in evidenza come, a seguito della richiesta di misure cautelari personali nell’ambito del presente procedimento, il GIP abbia emesso ordinanza in data 15 gennaio 2020 con la quale è stata applicata a Francesco Melis la misura coercitiva degli arresti domiciliari in relazione alla cessione di oltre mezzo etto di cocaina, avvenuta il 27 gennaio 2019 a Cagliari, a favore di Fabio Cadeddu e di Valentina Mei, a cui la droga era stata rinvenuta dai carabinieri durante il loro rientro da Cagliari a Sant’Antioco, dopo l’incontro tra Cadeddu e Melis presso il locale/chiosco “Lo Sfizio”, situato nella piazza Maria Teresa di Calcutta, nel pieno centro di Cagliari.

Quello del 27 gennaio 2019 – si legge ancora nel provvedimento impugnato – è stato l’unico episodio di reato in relazione al quale il pubblico ministero ha chiesto l’applicazione della misura coercitiva personale nei confronti di Francesco Melis, fermo restando che la lettura degli atti e, in primo luogo, dei risultati dell’attività di intercettazione, ha consentito di attribuire a Francesco e Antonio Melis – con un grado di gravità indiziaria che si pone ben al di sopra dei parametri richiesti per disporre una misura cautelare reale – una attività di detenzione di cocaina e di spaccio della stessa sostanza pressoché continuativa tra la fine del 2018 e il gennaio 2020, che, per quanto attiene ai Melis, aveva il suo riferimento logistico a Cagliari presso il citato chiosco “Lo Sfizio”, gestito per l’appunto dalla famiglia Melis (l’operazione della RG. è stata denominata “hot dog”, proprio per la centralità del chiosco paninoteca bisteccheria nella gestione degli affari crimi- nali dei Melis).

Sul conto dei fratelli Francesco e Antonio Melis il tribunale cagliaritano richiama, segnatamente, i dati investigativi compendiati alle pagine da 12 a 20 dell’annotazione finale di servizio redatta dai militari di Sant’Antioco, in cui si dà conto nel dettaglio dei fortissimi elementi a loro carico, peraltro non sfiorati da alcuna deduzione nella difesa approntata nella presente ‘impugnazione cautelare reale.

4. Dato conto della sussistenza del fumus commissi delicti per una serie di redditizie cessioni di cocaina in cui erano occupati, per un arco temporale di circa 13/14 mesi, i fratelli Francesco e Antonio Melis, molteplici ragioni giustificano pienamente, ad avviso dei giudici del gravame cautelare, il sequestro preventivo, in funzione della confisca all’esito del giudizio (ad, 321 comma 2 cod. proc. pen.), della ingente somma di 109.965,00 euro rinvenuta nella disponibilità di Antonio Melis il 20 gennaio 2020, in occasione dell’esecuzione della misure cautelare personale nei confronti del fratello Francesco e del decreto di perquisizione e sequestro del pubblico ministero presso l’abitazione cagliaritana dello stesso Antonio Melis.

Il provvedimento impugnato, con motivazione priva di aporie logiche, confuta argomentatamente la tesi difensiva secondo cui la somma in contanti rinvenuta presso la sua abitazione costituisse sia il profitto della florida attività commerciale di somministrazione di cibi e bevande svolta dalla famiglia Melis sia la provvista, sempre, collegabile a tale attività, per l’acquisto dai fornitori delle materie prime necessarie per il suo svolgimento.

È lampante, ad avviso del tribunale cagliaritano, che il considerevole importo in oggetto costituisse il profitto della condotta di commercializzazione della cocaina realizzata, anche in concorso, dai fratelli Antonio e Francesco Melis, per un lungo periodo temporale, con la conseguenza che di tale somma dovrà essere disposta la confisca diretta ai sensi dell’art. 73 comma 7 bis DPR 309/90.

Depongono in tal senso, da una parte il considerevole valore della cocaina sulla piazza (numerose intercettazioni danno conto del considerevole prezzo della sostanza nelle transazioni tra gli odierni indagati) e il fatto che lo stupefacente fosse stato ceduto per un lungo periodo dai Melis, tra la fine del 2018 e il gennaio. 2020, in quantitativi rilevanti a soggetti che provvedevano a diffonderlo nelle zone di propria competenza, come quella sulcitana di Sant’Antioco, tutte circostanze che chiariscono per i giudici della cautela come i fratelli Melis realizzassero altissimi profitti dalla loro attività illegale, nell’ordine delle decine di migliaia di euro (nei dialoghi intercettati sul conto dei fornitori Melis si leggono, nelle pagine da 12 a 20 dell’annotazione finale della P.G. riferimenti a cospicue somme, oggetto delle transazioni illecite di stupefacenti o comunque di crediti maturati dai Melis verso gli acquirenti di cocaina che si approvvigionavano da loro).

Dall’altra, le modalità di suddivisione e occultamento della complessiva somma in contanti di 109.965,00 curo trovata nell’abitazione di Antonio MELIS (7935,00 curo, nei suo marsupio, in banconote di diverso taglio: da 5, da 10, da 20, da 50 e da 100,00 euro; 102.030,00 euro, nella camera da letto del figlio, in banconote di diverso taglio: da 5, da 10, da 20, da 50, da 100 e da 200,00 euro) appaiono assolutamente compatibili, per il valore complessivo e la ripartizione, delle, banconote, con la prosperosa attività di cessione della cocaina in cui erano impegnati stabilmente i Melis e con i considerevoli profitti, per decine di migliaia di curo, sopra indicati.

Il tema dirimente che rende irrilevanti in radice le deduzioni difensive, comunque infondate, come si vedrà, sulla liceità della somma, in quanto derivante dall’attività commerciale di somministrazione alimentare della famiglia Melis è che, anche a non volerle considerare profitto diretto del reato, le somma in questione sono in qualunque modo certamente sottoponibili a confisca obbligatoria “per equivalente” ai sensi dell’ultima parte dell’art. 73 comma 7 bis DPR 309/90. Dal 24 novembre 2016, infatti, con l’entrata in vigore del d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202, che ha dato attuazione alla direttiva 2014/42/UE relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, tale norma, infatti prevede che: “7-bis. Nel caso di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti, a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, è ordinata la confisca delle cose che ne sono il profitto o il prodotto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, fatta eccezione per il delitto di cui al comma 5, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto”.

5. Quelle appena ricordate sono considerazioni che portano i giudici cagliaritani a ritenere queste somme in primis confiscabili ex art. 240 cod. pen. perché profitto della condotta di commercializzazione della cocaina o comunque confiscabili per equivalente ai sensi del sopra citato art. 73 co. 7bis Dpr. 309/90.

Ma, quand’anche non si ritenessero praticabili tali due strade – e davvero risulta poco probabile qualora intervenga condanna – il provvedimento impugnato evidenzia correttamente che in ogni caso, vi sarebbero nel caso in esame i presupposti per procedere alla cosiddetta “confisca per sproporzione”, o “allargata”, di cui all’art. 240-bis co. 1 cod. pen. – per lungo tempo disciplinata dall’art. 12 sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 3061 -richiamato, in relazione al delitto di cui all’art. 73 DPR 309/90, dall’art. 85 bis DPR 309/90; ragione per la quale appare certamente giustificato, in questa fase procedimentale, il suo sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321 comma 2 cod. proc. pen.

L’art. 85 Dpr. 309/90, inserito dall’art. 6 del D. Lgs. 01/03/2018, n. 21 concernente “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103″, con decorrenza dal 06/04/2018, prevede, infatti, che: ” 1. Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’artico- lo 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dall’articolo 73, esclusa la fattispecie di cui al comma 5, si applica l’articolo 240 bis del codice penale”.

E l’articolo 240-bis del codice penale, a sua volta, anch’esso inserito dall’art. 6 del D. Lgs. 01/03/2018, n. 21 con decorrenza dal 06/04/2018 prevede che “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.

In ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, salvo che l’obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge”.

Alle pagg. 8 e ss, il provvedimento impugnato dà analiticamente conto di come sotto questo profilo, le indagini svolte dalla P.G. e confluite nella già ricordata annotazione del 21 gennaio 2020 dei carabinieri della Stazione di Sant’Antioco hanno consentito di acquisire una serie di dati reddituali che portano i giudici a ritenere evidente l’assoluta sproporzione tra l’ingente somma di oltre 109 mila curo nella disponibilità di Antonio Melis e il suo reddito e quello dei suoi familiari e delle conviventi sua e del fratello Francesco, nonché il reddito ricavato dall’attività economica di somministrazione di cibi e bevande svolta presso il chiosco “Lo Sfizio, formalmente intestato al padre Giuseppe Melis, ma di fatto gestito, come documentato dalle accurate indagini dei militari di Sant’Antioco, dalla famiglia Melis allargata (chiosco che, come viene ricordato, alla luce delle risultanze d’indagine, costituiva il luogo di riferimento dei trafficanti che si rapportavano coi Melis).

Le affermazioni difensive sulla riconducibilità della ingente somma in contanti alla attività lecita di somministrazione di alimenti e bevande nel chiosco bar bisteccheria nella Piazza Maria Teresa di Calcutta di Cagliari sono per i giudici cagliaritani – con motivazione assolutamente illogica ed immune da vizi di legittimità – in ogni caso del tutto infondate.

Ciò in quanto è innegabile che i fratelli Melis lavorassero nel chiosco bar in questione formalmente intestato al padre Giuseppe e certamente per lo svolgimento di quest’attività abbiano dovuto sostenere dei costi (per le forniture di materie prime, per spese relative al l’elettricità all’acqua e all’occupazione dello spazio e così via), ma, altrettanto sicuramente, la documentazione prodotta dalla difesa non vale affatto a superare il dato della evidente sproporzione tra i magri redditi ritratti da tale attività commerciale (tra l’altro, viene evidenziato nel provvedimento impugnato come i documenti prodotti attestino una parte dei costi, ma nulla indichino in ordine ai ricavi e. soprattutto, agli utili, essendo stati definiti genericamente tutt’altro che trascurabili gli incassi) e il cospicuo valore delle somme rinvenute nella disponibilità di Antonio Melis anche a considerare, così come dedotto dalla difesa, che una parte dei contanti trovati a casa di Melis fosse frutto dell’evasione fiscale riconducibile all’esercizio dell’impresa commerciale in questione.

Rimane quindi acclarato che, anche a voler superare il giudizio sulla riconducibilità diretta di tale ingente somma alla fruttuosa, questa certamente si, condotta illecita di commercializzazione della cocaina addebitabile ai fratelli Melis, sussiste evidente la sua sproporzione con i redditi leciti degli stessi indagati, delle loro conviventi con quelli tratti dall’attività d’impresa svolta presso il chiosco intestato al padre Giuseppe.

Risulta, pertanto pienamente assolto, qualora si ritenesse che la provenienza della somma di denaro non sia riconducibile con immediatezza alla condotta di spaccio, l’obbligo del giudice di motivare, quantomeno in ordine al parametro dell’inattendibilità delle giustificazioni fornite sulla sua provenienza, le ragioni per cui ritiene che in caso di condanna sia possibile la confisca per sproporzione.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 17 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 agosto 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.

____//

Così la cronaca dell’operazione “HotDog”

Droga, venduta dietro il bancone del suo locale di viale Bonaria a Cagliari, e tanti soldi, trovata nella casa del fratello, co-gestore del chiosco.

Francesco Melis, 31enne, è finito agli arresti domiciliari per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti.

Ai domiciliari anche Salvatore Urigu, e Gian Manuel Pau: i due, zio e nipote, hanno più volte acquistato la droga per rivenderla nelle “piazze di spaccio” del Basso Sulcis.

L’operazione è stata condotta dai carabinieri della compagnia di Carbonia, agli ordini del capitano Lucia Dilio, e le indagini sono durate un anno. Sequestrati 143,2 grammi di hascisc e cinquantasei di cocaina. In casa del fratello di Francesco Melis, dentro un marsupio e un armadio, i militari hanno trovato 115mila euro in contanti, tutti soldi ritenuti frutto di spaccio.

Sempre stando alle indagini, nel chiosco di viale Bonaria le vendite di droga raggiungevano, in media, la quota di “cinquecento grammi” alla settimana, per un giro di affari “di diverse migliaia di euro”. Ci sono anche sei persone, tutte indagate sempre per spaccio di droga.

Fonte: QuotidianoNet