Sull’utilizzabilità delle intercettazioni in materia di abuso d’ufficio (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 14 giugno 2021, n. 23244).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOGINI Stefano – Presidente –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. AMOROSO Riccardo – Consigliere –

Dott. SILVESTRI Pietro – Rel. Consigliere –

Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) Stefano, nato a (OMISSIS) il 20/10/19xx;

avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano l’08/10/2020;

udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott. Pietro Silvestri;

lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Tomaso Epidendio, che ha chiesto il rigetto del ricorso, o in subordine, la rimessione alle Sezioni Unite della Corte.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale della libertà di Milano, in accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico Ministero, ha disposto la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di (OMISSIS) Stefano, ritenuto gravemente indiziato di numerosi fatti di abuso d’ufficio (capi 29-31-32-34-35-37-38-40-41-42-43);

(OMISSIS), nella qualità di dipendente della Agenzia delle entrate con mansioni di certificazioni e rilascio copie, avrebbe svolto, durante le ore di servizio, attività di consulenza e gestito pratiche estranee rispetto ai fini istituzionali, così procurando intenzionalmente un ingiusto vantaggio ad alcune persone.

Il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto nei confronti dell’indagato la misura degli arresti domiciliari per alcuni fatti corruttivi, ma aveva rigettato la domanda cautelare per i capi in esame sul presupposto che le intercettazioni autorizzate per il reato di corruzione non potessero essere utilizzate in relazione agli ipotizzati reati di abuso d’ufficio.

– non è in contestazione che nel caso di specie le intercettazioni fossero state disposte nell’ambito di un unico procedimento;

– i fatti sottoposti al Giudice per le indagini preliminari in sede di richiesta di autorizzazione delle operazioni di intercettazioni sarebbero gli stessi poi confluiti nella imputazioni provvisorie poste a fondamento della domanda cautelare, “alcune delle quali erano state ex post qualificate dal PM – rispetto alla iniziale più grave ipotesi di corruzione-come fattispecie di abuso d’ufficio (contenuta in ognuna delle corruzioni contestate, ma assorbita nel loro maggiore disvalore”;

– in particolare, l’esito della captazioni avrebbe consentito di ricostruire, coerentemente con l’iniziale ipotesi investigativa, numerosi episodi di corruzione, mentre in altri casi le intercettazioni avrebbero documentato l’attività contraria ai doveri di ufficio, ma non anche la promessa o la dazione del denaro o dell’utilità;

– si tratterrebbe, si aggiunge, degli stessi fatti prospettati nelle notizie di reato solo diversamente qualificati ovvero di fatti connessi a quelli più gravi di corruzione, intercettati.

In tale contesto, secondo il Tribunale, si porrebbe la questione relativa alla necessità che, ai fini della utilizzabilità delle intercettazioni, il diverso reato rispetto a quello oggetto dell’autorizzazione alle captazioni sia a sua volta “autorizzabile” ai sensi dell’art. 266 cod. proc. pen.

Si sostiene che:

a) le Sezioni unite con la sentenza “Cavallo” non si sarebbero confrontate con l’orientamento consolidato secondo cui le intercettazioni ritualmente autorizzate sarebbero utilizzabili anche per i reati per i quali il mezzo di ricerca della prova non erano autorizzabili;

b) in casi come quello in esame non si sarebbe in presenza di procedimenti diversi, ma di reati connessi e, dunque, non si verserebbe in ipotesi di inutilizzabilità patologica;

c) il principio affermato dalle Sezioni unite determinerebbe distorsioni incompatibili con il principio di non dispersione della prova;

d) si porrebbe in contrasto con le modifiche apportate dalle legge n. 7 del 28/02/2020, successiva alla sentenza “Cavallo, all’art. 270 cod. proc. pen., che, per effetto dell’intervento legislativo, prevede la possibilità d’uso delle intercettazioni in procedimenti diversi non solo per la prova di delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, ma anche per i “reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen.”: si assume cioè che il nuovo testo della norma confermerebbe la tesi secondo cui il rispetto delle condizioni generali di cui all’art. 266 cod. proc. pen. non sia necessario per la prova del reato connesso a quello per cui l’intercettazione sia disposta.

2. Ha proposto ricorso il difensore dell’indagato articolando due motivi.

2.1. Con il primo si lamenta violazione di legge processuale e vizio di motivazione; si ribadiscono le ragioni poste a fondamento delle affermazioni della sentenza “Cavallo” e si evidenzia come detti principi siano stati ribaditi anche successivamente dalla Corte di cassazione.

2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di gravità indiziaria ed alla riconducibilità del fatto alla fattispecie di abuso d’ufficio come riformulata dalla legge 11 settembre 2020, n. 120.

Sul punto il Tribunale si sarebbe limitato a fare riferimento alla violazione dell’art. 97 Cost. ed al principio di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

2. Quanto al primo motivo, che ha carattere pregiudiziale, il tema attiene innanzitutto al se ed in che limiti il richiamo alla sentenza delle Sezioni unite “Cavallo” sia dirimente nel caso di specie.

L’oggetto della sentenza delle Sezioni unite n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo, attiene alle ipotesi in cui, rispetto al fatto-reato per cui sono state autorizzate le intercettazioni, emergano fatti-reato diversi ed ulteriori per effetto delle captazioni eseguite; in tale contesto le Sezioni unite hanno fissato le condizioni necessarie per utilizzare i risultati delle captazioni al fine di provare il fatto – reato diverso ed ulteriore rispetto a quello oggetto di autorizzazione.

In tal senso depone il principio di diritto affermato dalle stesse Sezioni unite, secondo cui “in tema di intercettazioni, il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate — salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza — non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 cod. proc. pen., a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata “ah origine” disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cod. proc. pen.” (Sez. U., n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395).

In tal senso depone chiaramente la motivazione della sentenza “Cavallo” nella parte in cui, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale, si chiarisce testualmente che: – l’art. 270, comma 1, cod. proc. pen. pone «una norma del tutto eccezionale»: «la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni disposte nell’ambito di un determinato processo limitatamente ai procedimenti diversi, relativi all’accertamento di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, risponde all’esigenza di ammettere una deroga alla regola generale del divieto di utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti, giustificata dall’interesse dell’accertamento dei reati di maggiore gravità»; in altri termini, «la norma che eccezionalmente consente, in casi tassativamente indicati dalla legge, l’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi, limitatamente all’accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale, costituisce indubbiamente un non irragionevole bilanciamento operato discrezionalmente dal legislatore fra il valore costituzionale rappresentato dal diritto inviolabile dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e quello rappresentato dall’interesse pubblico primario alla repressione dei reati e al perseguimento in giudizio di coloro che delinquono» (Corte cost., sent. n. 63 del 1994); – l’autorizzazione del giudice non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive l’utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all’autorizzazione stessa risultino riconducibili: essa, infatti, deve dar conto dei «soggetti da sottoporre al controllo» e dei «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991); riferimento, quest’ultimo, che rende ragione della delimitazione dell’utilizzabilità probatoria dei risultati dell’intercettazione ai reati riconducibili all’autorizzazione giudiziale, delimitazione che, a sua volta, è condizione essenziale affinché l’intervento giudiziale abilitativo non si trasformi, come si è visto, in una “autorizzazione in bianco”.

Hanno chiarito le Sezioni unite che:

– al di là degli eccezionali casi, tassativamente previsti dalla legge ed afferenti all’accertamento di reati di maggiore gravità presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale, l’autorizzazione del giudice si connota per una piena portata abilitativa e, dunque, costituisce non solo il fondamento di legittimazione del ricorso all’intercettazione, ma anche il limite all’utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione;

– il giudice, nella verifica della esistenza dei presupposti legittimanti il ricorso al mezzo di ricerca della prova, esercita «una funzione di controllo e di garanzia, essendogli riservato il potere di autorizzare l’atto, ovvero di convalidarlo, nel caso peculiare in cui l’urgenza non consenta un suo intervento preventivo» (Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, in Supp. Ord. n. 2 alla G.U. n. 250 del 24 ottobre 1988 – Serie generale).

In tale contesto le Sezioni unite hanno affrontato il “problema della necessità o meno che il reato accertato sulla base dell’intercettazione autorizzata in specifica relazione ad altro reato rientri nei limiti di ammissibilità del mezzo di ricerca della prova” e chiarito che “consentire, in caso di connessione dei reati o di emersione del nuovo reato nel procedimento ab origine iscritto, l’utilizzazione probatoria dell’intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe…. nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti, «con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall’art. 266 cod. proc. pen. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all’art. 15 della Costituzione”.

Ciò, dunque, ha giustificato l’affermazione secondo cui “l’utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte nell’ambito di un “medesimo procedimento” (nell’accezione di seguito delineata…) presuppone che i reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dalla legge.

3. Dunque le Sezioni unite sono intervenute nelle ipotesi in cui dalle captazioni emergano reati diversi ed ulteriori – rispetto a quello oggetto di autorizzazione – per i quali non è consentito l’arresto obbligatorio in flagranza- atteso che, diversamente, opererebbe chiaramente l’art. 270 cod. proc. pen.- e che sono in connessione con quello per il quale le intercettazioni sono state autorizzate; in caso di connessione, cioè, l’utilizzabilità delle intercettazione disposte per altro reato è pur sempre subordinata alla condizione che il nuovo reato sia a sua volta autorizzabile.

Si è precisato che in caso di imputazioni connesse ex 12 cod. proc. pen., il procedimento relativo al reato per il quale l’autorizzazione è stata espressamente concessa non può considerarsi “diverso” rispetto a quello relativo al reato accertato in forza dei risultati dell’intercettazione.

“La parziale coincidenza della regiudicanda oggetto dei procedimenti connessi e, dunque, il legame sostanziale – e non meramente processuale – tra i diversi fatti-reato consente di ricondurre ai «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991), di cui al provvedimento autorizzatorio dell’intercettazione, anche quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione: il legame sostanziale tra essi, infatti, esclude che l’autorizzazione del giudice assuma la fisionomia di un'”autorizzazione in bianco”.

Questo, pare al Collegio, il senso e la portata dei principi affermati dalle Sezioni unite con la sentenza “Cavallo”.

4. In tale contesto la prima questione che si pone rispetto ai fatti di causa è se i principi affermato dalla sentenza “Cavallo”, nella parte in cui si richiede che anche l’altro- ulteriore e diverso – reato – connesso con quello per cui l’autorizzazione è stata disposta – sia autorizzabile, si applichi anche ai casi non vi sia un altro reato – che si aggiunge a quello per cui si procede – ma si tratti dello stesso fatto-reato sin dall’inizio “autorizzato”, seppur diversamente qualificato in seguito alle risultanze delle captazioni.

Sul tema la giurisprudenza della Corte, che, a parere del Collegio, mantiene rilevanza- nei limiti di cui si dirà – anche dopo la sentenza delle Sezioni unite, è consolidata nell’affermare il principio della irrilevanza del mutamento dell’addebito ed in tal senso si valorizza la valenza della verifica c.d. statica da parte del giudice, di quella cioè da collocare nel momento genetico della intercettazione, ovvero in quelli successivi di autorizzazione di proroghe, della sussistenza del rispetto dei presupposti previsti dalla legge per disporre il mezzo di ricerca della prova, e, in particolare, della esistenza dei gravi indizi della esistenza del reato (art. 267 cod. proc. pen.).

La Corte di cassazione ha in più occasioni ritenuto utilizzabili i risultati delle operazioni disposte in riferimento ad un titolo di reato per il quale le stesse sono consentite, anche quando vi sia stata una successiva diversa qualificazione giuridica del fatto (Sez. 1, n. 12749 del 19/03/2021, Cusumano, Rv. 280981; Sez. 1, n. 24163 del 19/05/2010 Rv. 247943; Sez. 6, n. 50072 del 20/10/2009, Rv. 245699).

5. Si tratta di un principio che deve essere esplicitato.

5.1. La Giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni affermato, in tema di intercettazioni telefoniche (Sez. 6, n. 36874 del 13/06/2017, Romeo, in motivazione; Sez. 6, n. 12722 del 12/02/2009, Lombardi Stronati, Rv. 243241; Sez. 5, n. 1407 del 17/11/2016, dep. 2017, Nascetti, Rv. 268900), che la motivazione dei decreti autorizzativi, nel chiarire le ragioni della sussistenza dei presupposti che legittimano il ricorso a detto intrusivo mezzo di ricerca della prova, deve necessariamente spiegare i motivi che impongono l’intercettazione di una determina utenza telefonica che fa capo ad una specifica persona, indicando la base indiziaria del reato per il quale si procede ed il collegamento tra l’indagine in corso e la persona che si intende intercettare, affinché possa esserne verificata, alla luce del complessivo contenuto informativo e argomentativo del provvedimento, l’adeguatezza del mezzo rispetto alla funzione di garanzia prescritta dall’art. 15, comma 2, Cost.

Si tratta di una verifica che deve essere compiuta al momento in cui la captazione è richiesta ed autorizzata, non rilevando, come detto, ai fini della utilizzabilità dei risultati della attività di intercettazione, la circostanza che all’esito delle indagini, l’originaria ipotesi accusatoria non sia stata confermata.

La motivazione del provvedimento autorizzativo assolve ad una ineliminabile funzione di garanzia perché, attraverso essa, deve essere esplicitato il collegamento tra l’indagine e la persona le cui comunicazioni si intendono intercettare e, più in generale, la sussistenza dei presupposti che legittimano l’adozione del mezzo di ricerca della prova.

Ciò che è indispensabile, in ossequio ai canoni di proporzione e ragionevolezza a fronte della forza intrusiva del mezzo usato, è, innanzitutto, che la qualificazione, pure provvisoria, del fatto risulti ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari che ne sorreggano, per un verso, la corretta formulazione da parte del pubblico ministero e, per altro verso, la successiva, rigorosa, verifica dei presupposti da parte del giudice chiamato ad autorizzare le relative operazioni intercettative; fermo restando il sindacato di legittimità della Corte di cassazione in ordine all’effettiva sussistenza di tali presupposti (così testualmente, Sez. U., n. 26889 del 28/04/2016, Scurato, in motivazione).

Tale verifica si articola su due direttrici, occorrendo distinguere il caso in cui il destinatario della intercettazione sia un soggetto indagato da quello in cui l’intercettato sia una persona terza, non indagata.

Nel primo caso, ciò che deve essere verificato, soprattutto nelle ipotesi in cui si faccia riferimento a reati di criminalità organizzata, è la consistenza della ipotesi accusatoria, della qualificazione del fatto ipotizzato, della struttura della base indiziaria, prescindendo dal “quantum” di colpevolezza; si tratta di una verifica che deve essere compiuta in relazione all’indagine nel suo complesso e non con riferimento alla responsabilità di ciascun indagato (Sez. 6, n. 28252 del 06/04/2017, Di Palma, Rv. 270565; Sez. 2, n. 42763 del 20/10/2015, Rv. 265127); si è osservato in maniera condivisibile che “il presupposto dei “gravi indizi di reato”, infatti, non ha una connotazione “probatoria”, in chiave di valutazione prognostica della colpevolezza, ma esige un vaglio di particolare serietà delle esigenze investigative, che vanno riferite ad uno specifico fatto costituente reato, in modo da circoscrivere l’ambito di possibile incidenza dell’interferenza nelle altrui comunicazioni private” (cosi, Sez. 6, n. 36874 del 2017, cit.).

Il giudizio prognostico che deve effettuare il magistrato è sulla probabilità che sia stato commesso uno dei reati previsti per legittimare un’intercettazione, ed ovviamente il vaglio del giudice deve essere eseguito in modo idoneo ad indicare l’attendibilità della fattispecie probatoria e la necessità del mezzo di ricerca della prova “de quo“.

Una gravità oggettiva che degrada a sufficienza indiziaria nel caso di fattispecie criminose che attengono ai delitti di criminalità organizzata ai sensi della L. n. 203/1991, atteso che in questa ipotesi lo spirito del legislatore è quello di ritenere prevalente l’esigenza di tutela della collettività, rispetto alla garanzia dei diritti dei singoli alla comunicazioni, per delitti di grave allarme sociale; ciò spiega perché allorché si proceda per delitti di criminalità organizzata sono sufficienti frammenti probatori idonei ad indicare l’esistenza di elementi essenziali di indagine, per consentire e legittimare l’autorizzazione dell’intercettazione.

Anche rispetto ad un soggetto indagato, è necessario inoltre che il mezzo di ricerca della prova in questione sia indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini: “per giustificare l’indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini, la motivazione deve necessariamente dar conto delle ragioni che impongono l’intercettazione di una determinata utenza telefonica che fa capo ad una specifica persona e, perciò, non può omettere di indicare il collegamento tra l’indagine in corso e l’intercettando.

Tale obbligo incombe in maniera espressa e diretta sull’autorità giudiziaria (art. 15 Cost. e art. 267 c.p.p., comma 1)” (Così, Sez. 6, n. 12722 del 12/02/2009, Lombardi Stronati, Rv. 243241; nello stesso senso, più recentemente, Sez. 5, n. 1407 del 17/11/2016, dep. 2017, Nascetti, Rv. 268900).

Il collegamento può essere riferito non necessariamente ad uno specifico soggetto “intercettando” (magari neppure coinvolto nelle indagini, come si diceva, né tanto meno gravato da pesanti indizi di colpevolezza), ma ad una determinata utenza, indipendentemente dal titolare della stessa, rispetto alla quale potrebbero anche essere diversi i soggetti “intercettandi”.

Al di là delle parole impiegate è importante, comunque – ai fini di una corretta motivazione del provvedimento autorizzativo – che vengano in essa indicate le “ragioni” sulla cui base il giudice ritenga di dover autorizzare le intercettazioni richieste dal pubblico ministero, in quanto proprio quelle intercettazioni, relative a quella particolare utenza, risultano “indispensabili” per il completo accertamento del fatto specifico cui si riferiscono le indagini, nonché per la individuazione dei responsabili.

Nelle ipotesi in cui il collegamento sia riferito ad un soggetto non indagato la necessità di motivare la correlazione tra l’indagine in corso e l’intercettato è oltremodo maggiore; in tali casi, oltre alla verifica di cui si è detto, relativa alla base indiziaria oggettiva, è necessario che il giudice indichi ed espliciti chiaramente l’interesse investigativo sottostante, chiarisca cioè le ragioni di collegamento diretto o indiretto (conoscenza) tra il soggetto ed il fatto di reato oggetto di accertamento; è necessario che si indichino i motivi per i quali il soggetto terzo che si intende intercettare dovrebbe essere “informato sui fatti” e perché si ritiene che vi possano essere conversazioni o comunicazioni attinenti a quei fatti.

5.2. Dunque, in caso di modifica, a seguito delle captazioni, della qualificazione giuridica del fatto-reato autorizzato in altro reato non autorizzabile, l’inutilizzabilità delle intercettazioni opera solo se i presupposti per disporre il mezzo di ricerca della prova mancassero già al momento in cui il procedimento autorizzativo si è compiuto e perfezionato attraverso il controllo del giudice.

I risultati della captazione correttamente autorizzata restano invece immuni rispetto al successivo sviluppo fisiologico del procedimento, atteso che in tal caso non rileva la sopravvenuta mancanza del presupposto legittimante per effetto della riqualificazione del fatto autorizzato.

Certo, esiste una forte esigenza di contemperamento tra la necessità di non ritenere inutilizzabili i risultati delle intercettazioni in presenza di un fatto storico rimasto sostanzialmente immutato rispetto a quello autorizzato ma solo non completamente riscontrato per effetto di fisiologici mutamenti emersi proprio a seguito degli esiti della intercettazione, e quella di evitare abusi, che potrebbero configurarsi con il ricorso pretestuoso alla descrizione di un fatto – reato autorizzabile al fine di aggirare i limiti legali stabiliti dagli artt. 266 — 267 cod. proc. pen.

Si tratta di situazioni in cui, come detto, assume centrale rilievo il controllo del giudice al momento della autorizzazione del mezzo di ricerca della prova.

La questione non riguarda tanto le ipotesi in cui la divergenza tra fatto-reato di cui si chiede l’autorizzazione ad intercettare ed il fatto emergente dalle risultanze investigative si manifesti già al momento in cui l’intercettazione è richiesta, atteso che in tali casi il giudice è tenuto a non autorizzare l’intercettazione se non vi sia rigorosa conformità tra ciò che si richiede e le risultanze delle indagini: ciò impedisce la elusione delle regole poste dal legislatore e delle garanzie dei diritti.

La situazione è diversa nei casi in cui la elusione non è configurabile perché vi è corrispondenza tra quanto si richiede e ciò che emerge dalle indagini in ordine al fatto reato per cui si procede, ma l’addebito si modifica per motivi sopravvenuti fisiologici, legati cioè alla naturale evoluzione del procedimento che può determinare una modifica del fatto storico e della sua qualificazione giuridica.

In tali casi la fattispecie non è patologica, considerando la provvisorietà dell’addebito, la fluidità degli elementi raccolti, la loro possibile modificazione; ciò che rileva è che al momento in cui viene disposta la intercettazione vi siano i presupposto previsti dalla legge.

Una verifica da parte del giudice che investe l’accertamento della conformità di ciò che si richiede rispetto agli atti al fine di verificare se fin dall’inizio emerga la diversità storica del fatto ovvero sia seriamente prospettabile una differente qualificazione giuridica del fatto, più corretta sotto il profilo della sussunzione nella fattispecie.

6. Alla luce dei principi indicati, ciò che nella ricostruzione del Tribunale non è innanzitutto chiaro è:

a) se i fatti sussunti nella fattispecie di abuso cui al capo 8), siano gli stessi per i quali il giudice espressamente autorizzò sin dall’inizio le captazioni, seppur riconducendoli giuridicamente nel reato di corruzione, ovvero si tratti di fatti- reato diversi che si aggiungono a quelli più gravi di corruzione autorizzati, intercettati nell’ambito dello stesso procedimento (cfr. pag. 7 della ordinanza impugnata in cui il Tribunale ritiene sostanzialmente irrilevante l’alternativa indicata);

b) nel caso in cui i fatti siano gli stessi oggetto della autorizzazione originaria- solo diversamente qualificati, se ed in quali limiti il giudice verificò la conformità della richiesta di intercettazione con le risultanze delle indagini e dunque la esistenza dei presupposti legittimanti le captazioni per il reato di corruzione.

7. Sotto altro profilo, ove si tratti di fatti diversi rispetto a quelli autorizzati, il ragionamento giuridico del Tribunale è nondimeno viziato.

7.1. Intervenendo su ciò che era stato precisato nella stessa ordinanza di rimessione, le Sezioni unite hanno spiegato in modo condivisibile come, al fine della esatta definizione delle portata della questione controversa rimessa, si ponesse il problema della necessità o meno che il diverso reato, accertato sulla base dell’intercettazione autorizzata, rientrasse nei limiti di ammissibilità del mezzo di ricerca della prova.

Dunque, un tema legato in modo essenziale alla questione rimessa.

In tal senso la Corte ha spiegato, come detto, che i limiti di ammissibilità, da una parte, definiscono il perimetro legale all’interno del quale il giudice deve operare le valutazioni relative alla sussistenza, nella fattispecie concreta, dei presupposti dell’autorizzazione, e, dall’altra, sono espressione diretta e indefettibile della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost., che governa la materia delle intercettazioni, e dell’istanza di rigorosa – e inderogabile – tassatività che da essa discende (cfr. Corte cost., sent. n. 63 del 1994).

Questo spiega l’affermazione per cui consentire, in caso di connessione dei reati o di emersione del nuovo reato nel procedimento ab origine iscritto, “l’utilizzazione probatoria dell’intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di rimarcare, nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti, «con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall’art. 266 cod. proc. pen. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all’art. 15 della Costituzione» (Sez. 6, n. 4942 del 2004, Kolakowska Bozena, cit.; conf., nella prospettiva del secondo orientamento, Sez. 1, n. 24819 del 12/07/2016, Boccardi)”.

7.2. Detti principi, che questo Collegio condivide, consentono di superare le molteplici ed articolate argomentazioni critiche sviluppate con la memoria depositata dalla Procura Generale.

Si sostiene che:

– «la connessione tra i reati può ben ritenersi idonea ad escludere a monte il pericolo di “autorizzazione in bianco”, e dunque il rischio di una violazione dei principi costituzionali in tema di libertà e segretezza delle comunicazioni, ciò in quanto, trattandosi di captazioni legittimamente autorizzate – e non di intercettazioni ab origine autorizzate per un reato per le quali non sarebbero ammesse -, non si ricadrebbe in alcuna ipotesi di inutilizzabilità patologica, e anzi dovrebbe trovare applicazione il diverso principio di naturale utilizzabilità del risultato di una legittima attività d’indagine nell’ambito del medesimo procedimento»;

– le Sezioni Unite Cavallo hanno apposto, per via giurisprudenziale, un ulteriore limite all’utilizzabilità delle intercettazioni, non legislativamente previsto, né costituzionalmente imposto;

– differenziando il regime di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni all’interno dello stesso procedimento, non solo e non tanto si verrebbe a creare una disparità di trattamento tra i diversi indagati, ma si introdurrebbe una vera e propria intima contraddizione di carattere logico-giuridico nel sistema data dal fatto che, nello stesso procedimento, una medesima base probatoria sarebbe al contempo utilizzabile (ad esempio per il reato di associazione per delinquere) e inutilizzabile (per i delitti scopo non rientranti nei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 cod. proc. pen.) così da rendere il sistema auto-contraddittorio e da condurre a una conclusione contrastante con l’art. 3 Cost.;

– «la soluzione prescelta dalle Sezioni unite Cavallo, espone ora, dopo i recenti interventi legislativi, al rischio di una interpretatio abrogans in relazione al nuovo testo dell’art. 270 c.p.p.;

– «le Sezioni unite si sono espresse su una “questione” che non era stata loro devoluta, su un punto che non era rilevante ai fini della “decisione del ricorso”, sulla base di un contradditorio delle parti – e in primis della Procura generale – da ritenersi istituzionalmente accentrato sulla questione devoluta e sulla decisione del ricorso e non sul diverso principio di diritto affermato, ponendosi infine in contraddizione con un ampio orientamento di legittimità di segno contrario e finendo così per creare esse stesse un contrasto, che non pareva sussistere sul punto nella giurisprudenza precedente (a parte i due isolati precedenti citati nella medesima sentenza)».

Sulla base di tali argomentazioni la Procura generale ha chiesto di rigettare il ricorso o di rimettere alle Sezioni unite la specifica questione della «autorizzabilità autonoma delle intercettazioni per i reati di un medesimo procedimento al fine dell’utilizzazione delle intercettazioni legittimamente autorizzate per un reato connesso».

7.3. Si è già detto delle ragioni per cui i principi affermati dalle Sezioni unite sono condivisibili; prescindendo in questa sede dall’affrontare la questione relativa alla portata del “nuovo” art. 270 cod. proc. pen., ciò che deve essere valutato è il tema relativo a se davvero le Sezioni unite, con la sentenza richiamata, si siano pronunciate su una questione a loro non rimessa, quella, appunto, dell’autorizzabilità autonoma delle intercettazioni per i reati di un medesimo procedimento al fine dell’utilizzazione delle intercettazioni legittimamente autorizzate per un reato connesso. Il tema è legato alla operatività per le Sezioni semplici della Corte del vincolo del precedente costituito dalla pronuncia delle Sezioni unite.

Il comma 1-bis dell’art. 618 cod. proc. pen., aggiunto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, disciplina un meccanismo di rimessione obbligatoria ogni qual volta la Sezione singola ritenga di non condividere il principio di diritto precedentemente enunciato dalle Sezioni Unite; si tratta di un vincolo che non opera nei confronti del giudice di merito il quale, sia pure con l’obbligo di adeguata motivazione, può adottare soluzioni ermeneutiche alternative.

Si è notato in maniera condivisibile che la norma non pone un vincolo interpretativo per le Sezioni semplici le quali possono:

a) attraverso la dissenting opinion esposta nell’ordinanza di rimessione, avviare una interlocuzione con le Sezioni Unite che possono a loro volta ribadire, rafforzandolo, il precedente ovvero superarlo;

b) valutare che la questione non rientri nell’ambito di operatività del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite (distinguishing);

c) decidere il ricorso sulla base della c.d. ragione più fluida.

Si è chiarito (cfr. relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo n. 12 del 2021) che quello della “ragione più liquida” è un principio – affermato dalla giurisprudenza di legittimità nella giurisdizione civile in una prospettiva di economia processuale e di celerità del giudizio in relazione ai principi costituzionali sanciti dagli artt. 24 e 111 Cost. – in ragione del quale la decisione di una causa è comunque possibile dando precedenza ad una questione diversa e di più agevole decisione, anche se logicamente subordinata (Sez. U., n. 9936 del 08/05/2014, Rv. 630490-01; Sez. 6, n. 12002 del 28/0572014, Rv. 631058-01; Sez. 5, n. 11458 del 11/05/2018, Rv. 648510-01; nella giurisprudenza penale, Sez. 1, n. 17850 del 12/01/2017, Castriotta, Rv. 270298, in cui, in una ipotesi di accertato contrasto giurisprudenziale, la Corte ha ritenuto di non percorrere l’opzione di rimettere la questione controversa alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., in presenza di un concorrente motivo di annullamento del provvedimento impugnato).

Le Sezioni Unite (sentenza n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273549) hanno peraltro chiarito che l’ipotesi di rimessione di cui all’art. 618, comma 1 -bis, cod. proc. pen., trova applicazione anche con riferimento alle decisioni intervenute precedentemente all’entrata in vigore della nuova disposizione, atteso che, in tal caso, può essere necessaria una verifica della persistente validità del principio precedente che, soprattutto se datato, potrebbe essere superato.

In tale contesto, sia che si ritenga, come autorevolmente sostenuto, che il vincolo, di cui si è detto, riguardi tutti i principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite, sia che si propenda per la tesi, ugualmente autorevole, secondo cui l’efficacia “rafforzata” deve essere riconosciuta esclusivamente al principio reso con riguardo alla questione controversa, non si dubita che il vincolo per le Sezioni semplici sussista anche in tutti i casi in cui le Sezioni Unite modulino la questione loro sottoposta, delimitandone l’oggetto, i contorni, conformando il potere decisorio “in ragione della problematica interpretativa autonomamente ritenuta sussistente”.

Non diversamente accade quando “le Sezioni Unite nella definizione della questione affermano un principio di diritto che necessariamente presuppone l’affermazione di aspetti preliminari, ovvero implica enunciazioni conseguenziali, eventualmente necessarie per delimitare meglio la portata del principio” (così testualmente l’Ufficio del Massimario e del Ruolo nella relazione citata).

Si tratta di casi in cui il principio di diritto ha natura unitaria e perciò non consente una scomposizione atteso che, se ciò accadesse, ne conseguirebbe una indebita alterazione del significato di quanto affermato dalle Sezioni Unite. In presenza di un principio composito, si tradirebbe il senso della decisione lì dove si consentisse una sorta di “spacchettamento” del principio, enucleando quelle che sono le singole preposizioni dell’unitaria regula iuris.

Nel caso di specie, le Sezioni unite non si sono espresse su una “questione”— l’autorizzabilità autonoma delle intercettazioni per i reati di un medesimo procedimento al fine dell’utilizzazione delle intercettazioni legittimamente autorizzate per un reato connesso – non devoluta, né si sono pronunciate su un punto che non era rilevante ai fini della “decisione del ricorso”: le Sezioni unite hanno risolto la questione loro rimessa precisando i contorni del principio di diritto in ragione della complessiva problematica interpretativa autonomamente ritenuta sussistente.

Dunque, l’affermazione delle Sezioni unite, secondo cui i risultati della intercettazioni sono utilizzabili per l’accertamento del reato diverso e connesso solo se questo sia a sua volta autonomamente autorizzabile, è parte integrante del principio di diritto affermato con la Sentenza “Cavallo” e dunque vincola questo Collegio, che peraltro condivide detto principio.

8. L’ordinanza impugnata deve dunque essere annullata; il giudice del rinvio, applicherà i principi indicati e verificherà, nel senso complessivo in precedenza chiarito, se i fatti posti a fondamento della imputazione provvisoria di abuso d’ufficio siano gli stessi rispetto a quelli per i quali è intervenuto il provvedimento autorizzatorio in relazione al reato di corruzione:

a) nel caso in cui così fosse, le intercettazioni saranno utilizzabili;

b) nel caso in cui così non fosse, le intercettazioni non saranno utilizzabili e si procederà alla c.d. prova di resistenza per la eventuale formulazione del giudizio di gravità indiziaria.

9. Verificato il perimetro cognitivo, il Tribunale verificherà il giudizio di gravità indiziaria, tenendo conto delle specifiche modifiche apportate alla fattispecie di abuso d’ufficio dalla legge n. 120 del 2020.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Milano.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.