Superbonus: sequestrabile il profitto illecito anche se il credito è stato ceduto (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 1 dicembre 2022, n. 45558).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAMACCI Luca – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Rel. Consigliere

Dott. GAI Emanuela – Consigliere

Dott. CERRONI Claudio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE TRIBUNALE DI PARMA;

nei confronti di:

POSTE ITALIANE S.P.A.;

avverso l’ordinanza del 27/06/2022 del TRIB. LIBERTA’ di PARMA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ALESSIO SCARCELLA;

sentite le conclusioni del PG, Dott.ssa VALENTINA MANUALI che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’impugnata ordinanza, riportandosi alla requisitoria scritta già depositata e comunicata alle parti;

udito il difensore presente, Prof. Avv. PAOLA (OMISSIS), che, nel riportarsi ai motivi di cui alla memoria scritta già depositata nonché alla memoria ex art. 121, cod. proc. pen. depositata in udienza, chiede che il ricorso venga rimesso alle Sezioni Unite e, in subordine, chiede che il ricorso del PM venga dichiarato inammissibile o rigettato.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza 23.05.2022, il tribunale del riesame di Parma, in accoglimento della richiesta di riesame proposta nell’interesse di Poste Italiane S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP/tribunale di Parma 5.04.2022, è stato disposto il dis- sequestro di crediti di imposta dell’importo complessivo di C 6.990.694,00 nella disponibilità di Poste Italiane S.p.A., meglio specificati nel verbale di esecuzione della G.d.F. di Parma del 4.05.2022.

2. Avverso la ordinanza impugnata nel presente procedimento, il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Parma propone ricorso per cassazione, deducendo un unico, articolato, motivo, di seguito sommariamente indicato.

2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 321 c.p.p. e 121, lett. a) e b), e commi 5 e 6, d.l. 34 del 2020, c.d. decreto rilancio, convertito, con modd. in I. 77 del 2020 nonché per mancanza assoluta di motivazione in ordine all’equiparabilità tra credito fittizio e banconote false ed all’utilizzabilità e compensabilità del credito geneticamente illecito, anche alla luce delle inequivocabili indicazioni dell’Agenzia delle Entrate, segnatamente dalla circolare n. 23/E del 23.06.2022, cap. 5.3.

In sintesi, premesso il contenuto dell’art. 121, co. 1, citato – il quale si riferisce ai soggetti che sostengono spese per gli interventi elencati dal co. 2 – il quale prevede che il soggetto legittimato che effettua la scelta tra le tre opzioni possibili (utilizzo diretto della detrazione spettante; sconto in fattura; cessione del credito di imposta) è solo colui che abbia sostenuto spese per interventi edilizi, si censura la decisione dei giudici del riesame per aver aderito in maniera pedissequa ad un’articolata ed ardita ricostruzione difensiva secondo cui, in estrema sintesi, il cessionario del credito acquisirebbe a titolo originario e non derivativo, unico strumento per tentare di sganciare la posizione del cessionario da quella del beneficiario-cedente.

Tale violazione apparirebbe ancor più evidente alla luce delle indicazioni contenute nella richiamata circolare del 23.06.2022 dell’Agenzia delle Entrate in cui si afferma che le comunicazioni inviate alla Piattaforma per le cessioni dei crediti dell’Agenzia delle entrate non rappresentano né sostituiscono gli atti contrattuali di cessione del credito intervenuti tra le parti, che restano disciplinati dalle pertinenti disposizioni civilistiche, evidenziandosi come la comunica- zione rappresenta lo strumento con cui un soggetto rende noto all’Agenzia delle Entrate di aver ceduto un credito di imposta e che la presenza di un credito sulla Piattaforma non implica in alcun caso il riconoscimento della sua esistenza e dell’effettiva spettanza della detrazione da cui lo stesso trae origine.

Tale indicazione di prassi, dunque, secondo il PM, farebbe venir meno qualsiasi valenza argomentativa alla tesi dell’acquisto a titolo originario da parte del cessionario, re- stando la cessione del credito un atto contrattuale tra le parti, meramente comunicato all’Agenzia delle Entrate, con le relative conseguenze in termini di esistenza del credito e di sua compensabilità.

Richiamato, poi, a titolo esemplificativo, uno dei quindici contratti allegati alla memoria difensiva di Poste Italiane S.p.A., il PM rileva come nello stesso più volte compaia il termine “contratto”, censurando il silenzio motivazionale circa la rilevanza di tale tipo di contratto rispetto alla tesi difensiva, essendo prevista sia la risoluzione del contratto che il risarcimento del danno.

Tanto premesso, prosegue il PM, apparirebbe certo che l’indagato (omissis) non avrebbe sostenuto alcuna spesa per interventi edilizi e, dunque, alla radice non avrebbe potuto optare per alcuna delle scelte possibili ex lege, non avendo effettuato alcun lavoro. Il credito di imposta trova pertanto la sua ragion d’essere in una spesa che il beneficiario ha sostenuto, donde sarebbe impensabile che il legislatore, da un lato, abbia previsto agevolazioni condizionate alla effettuazione di lavori e, dall’altro, abbia potuto prevedere a tollerare che a fronte del “nulla” possa esistere un credito da opporre all’Amministrazione finanziaria, sia pure da parte di un soggetto in buona fede, nella fattispecie la cessionaria del credito Poste Italiane S.p.A., visto che il titolare del diritto alla detrazione ed “optante” nulla avrebbe potuto trasferire a terzi.

Quanto, poi, all’ulteriore violazione di legge, relativa all’art. 321, c.p.p. con riferimento all’art. 121, commi 5 e 6, del c.d. decreto rilancio, il PM, richiamato il contenuto normativo, censura la tesi difensiva, avallata dal tribunale, secondo cui i crediti sarebbero sempre esistenti e legittimamente utilizzabili da parte del cessionario che li abbia acquisitati in buona fede, con conseguente possibilità di compensazione, fondando la tesi sulla recuperabilità del credito ex art. 121, commi 5 e 6, d.l. n. 34 del 2020 e succ. modd. ed integrazioni.

Sul punto – pur riconoscendo il PM come indubbio che attraverso la monetizzazione il cessionario abbia subito un danno, costituito dall’esborso di denaro a fronte dell’acquisizione di un credito inesistente – si sostiene nel ricorso che una cosa è la risarcibilità del danno, che Poste Italiane S.p.A. ben potrebbe richiedere al dante causa, cedente/beneficiario, sia in sede penale che civile, altra cosa sarebbe invece la spendibilità del credito inesistente sotto forma di compensazione.

Errata sarebbe, in particolare, la tesi secondo cui la non assoggettabilità a sequestro dei crediti acquisiti da Poste Italiane troverebbe la sua fonte nell’art. 121 del c.d. decreto rilancio, secondo una erronea lettura dei predetti commi dell’art. 121, in quanto ciò comporterebbe un’ingiustificata commistione tra norma fiscale e norma penale, finendo per applicare indebitamente alla seconda i criteri ermeneutici della prima, sovrapponendo la norma fiscale a quella penale.

Nella specie, è indubbio anche per il PM che il Fisco debba rivolgersi per recuperare l’imposta non spettante al beneficiario e non certo al cessionario salvo che quest’ultimo non sia concorso nella violazione (comma 6), ma il comma 5, parla di “recupero” e quindi postula l’avvenuta utilizzazione del credito da parte del cessionario, atteso che è solo l’utilizzazione che può legittimare il recupero, non essendo recuperabile ciò che non si è speso o non si è riscosso.

Tuttavia, prosegue il ricorso, è la richiamata circolare dell’Agenzia delle Entrate del 23.06.2022 a chiarire in che termini è possibile agire, al di là dei casi di concorso nella violazione, anche nei confronti del cessionario, non potendosi dunque escludere che quest’ultimo sia chiamato a rispondere in solido con il beneficiario/cedente, allorquando non abbia utilizzato l’ordinaria ed adeguata diligenza nell’acquisizione dei crediti. Da quanto sopra, a giudizio del PM, deriverebbe la necessità di distinguere il piano tributario, in cui di discute della recuperabilità del credito, da quello penale, in cui si discute di un provvedimento di sequestro preventivo che concerne invece l’utilizzabilità ovvero la spendibilità e, in ultima analisi, la compensabilità del credito fittizio, il quale essendo inesistente, con origine illecita, secondo il PM non potrebbe essere speso in compensazione, mirando del resto il provvedimento cautelare ad evitare l’ulteriore, illecita circolazione del credito, tesi che sarebbe fondata peraltro sul contenuto della più volte richiamate Circolare 23.06.2022.

Infine, quanto alla censurata mancanza di motivazione dell’ordinanza impugnata, il PM contesta che il tribunale del riesame, pur avendo riportato per sin- tesi le argomentazioni dell’organo inquirente, avrebbe del tutto omesso qualsivoglia motivazione finalizzata alla loro confutazione, segnatamente riguardante sia la differenza tra i profili civilistici, fiscali e penali sia l’equiparabilità tra le banco- note false ed i crediti in questione, tema, quest’ultimo, in relazione al quale, alla pag. 8 del ricorso, viene ad essere sintetizzato il ragionamento esposto all’udienza davanti ai giudici del riesame, non confutato in motivazione.

Si tratterebbe, secondo il PM, di un tema centrale rispetto al quale assolutamente dirimente è la richiamata Circolare dell’Agenzia delle Entrate 23.06.2022, cap. 5.3, ff. 99/100, di cui viene richiamato per stralcio il contenuto a pag. 9 del ricorso, e dalla quale emergerebbe inequivocabilmente la posizione chiara del Fisco sul tema, così sintetizzabile:

1) il credito inesistente non può essere utilizzato in compensazione neppure in caso di dissequestro da parte dell’A.G.;

2) i crediti illegittimamente compensati sono oggetto di recupero;

3) l’A.F. ha il potere/dovere di informare l’A.G. nel caso di indebita compensazione effettuata.

3. Con requisitoria scritta del 27.10.2022, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

In particolare, muovendo dalla premessa per cui, nel caso in esame, è assolutamente incontestato il fatto reato di avere creato fittizi crediti d’imposta, avvalendosi delle agevolazioni fiscali e di aver poi monetizzato detti crediti attraverso la loro cessione a Poste Italiane spa, il PG rileva che logico corollario di tale premessa è che, dunque, si è in presenza di un credito inesistente con origine illecita.

Orbene, il sequestro preventivo emesso dal GIP è, appunto, finalizzato alla confisca dei crediti d’imposta fittiziamente creati (profitto del reato) e la cessione del credito, appunto inesistente, non può escludere, di per sé, l’assoggettabilità dello stesso al sequestro.

Né la non operatività del sequestro si può desumere dalla lettura dei commi 5 e 6 dell’articolo 121 del D.L. n. 34 del 2020. Su tale ultimo punto, osserva il PG, la tesi sostenuta dal tribunale del riesame non convince.

E’ evidente la ratio sottesa a tali disposizioni: il Legislatore tributario ha voluto rendere recuperabile l’importo della detrazione solo a carico del beneficiano, in quanto è il beneficiario che ha creato il meccanismo illecito di un credito non dovuto ed è, dunque, nei confronti di tale beneficiario, e non nei confronti del cessionario in buona fede, che l’Agenzia delle Entrate può e deve rivolgersi.

Puntuale conferma di ciò si trova nel successivo comma 6 del medesimo articolo 121, ai sensi del quale l’Agenzia delle Entrate può estendere il “recupero” al cessionario, come pure al fornitore del beneficiario, solo allorquando emerga un concorso nella violazione.

Va, peraltro, evidenziato che il comma 5 dell’articolo 121 cit. parla di “recupero” e, dunque, presuppone l’avvenuta utilizzazione del credito da parte del cessionario: qualora venga accertato che il credito sia (in toto o in parte) insussistente l’Agenzia delle entrate può recuperare l’importo della detrazione non spettante rivolgendosi all’originario beneficiano.

Tutto ciò implica, però, che il credito sia stato utilizzato, perché è solo l’utilizzazione che può legittimare il recupero, mentre non è recuperabile ciò che non si è speso, o che non si è riscosso.

Si deve, tuttavia, puntualizzare che le disposizioni esaminate citate regolano solo il rapporto tra il privato e l’Agenzia delle entrate, escludendo (fuori dei casi di concorso nella violazione o, invero, di utilizzo irregolare o in misura maggiore del credito ceduto) la “responsabilità solidale” del cessionario in ordine all’attività di recupero degli importi corrispondenti al credito d’imposta indebito maggiorati degli interessi (e per il beneficiario anche delle sanzioni).

Non hanno incidenza, e si pongono su un piano nettamente distinto rispetto alle conseguenze penali dei reati che siano stati eventualmente commessi, situazione, questa, che costituisce una ipotesi più ristretta e specifica (oltre che più grave) rispetto alla più ampia e generica “mancata integrazione, anche parziale, dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta”, prevista dal comma 5 del citato art. 121.

La mancata integrazione dei requisiti che danno diritto alla detrazione, è una evenienza diversa rispetto alla originaria inesistenza dell’operazione che può far sorgere il diritto alla detrazione oggetto della contestazione penale (non meramente amministrativo-tributaria), con tutte le conseguenze in ordine alla normativa applicabile in materia di misure reali previste dall’ordinamento penale.

Non si può sostenere che l’intento politico espresso dalla legge di favorire un mercato secondario dei crediti d’imposta, possa consentire, o addirittura agevolare, la circolazione di uno strumento totalmente privo di sottostante.

Una indiretta conferma della piena operatività del sequestro penale si riscontra nel successivo intervento normativo di cui all’art. 3 del decreto-legge n. 13 del 2022, non convertito, ma il cui contenuto è stato trasfuso (senza soluzione di continuità temporale) nell’art. 28-ter del decreto-legge n. 4 del 2022, come convertito con modificazioni dalla legge n. 25 del 2022) sui “[t]ermini di utilizzo dei crediti d’imposta sottoposti a sequestro penale”.

L’art. 28-ter dispone che “[I]’utilizzo dei crediti d’imposta di cui agli articoli 121 e 122 del decreto-legge n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020, nel caso in cui tali crediti siano oggetto di sequestro disposto dall’Autorità giudiziaria può avvenire, una volta cessati gli effetti del provvedimento di sequestro, entro i termini di cui agli articoli 121, comma 3, e 122, comma 3, del medesimo decreto-legge n. 34 del 2020, aumentati di un periodo pari alla durata del sequestro medesimo, fermo restando il rispetto del limite annuale di utilizzo dei predetti crediti d’imposta previsto dalle richiamate disposizioni.

Per la medesima durata, restano fermi gli ordinari poteri di controllo esercitabili dall’Amministrazione finanziaria nei confronti dei soggetti che hanno esercitato le opzioni di cui agli articoli 121 e 122 del medesimo decreto-legge n. 34 del 2020″ con l’ulteriore precisazione che “[I]’Agenzia delle Entrate effettua il monitoraggio sull’utilizzo del credito d’imposta nei casi di cui al precedente comma 1, e comunica i relativi dati al Ministero dell’economia e delle finanze ai fini di quanto previsto dall’articolo 17, comma 13, della legge 31 dicembre 2009, n. 196”.

Tale norma costituisce un’ulteriore riprova della legittima operatività del sequestro penale, che non può ritenersi impedito dalle disposizioni dell’art. 121 del decreto-legge n. 34 del 2020 dal momento che si prevede espressamente la possibilità di utilizzare il credito solo qualora e quando cessino gli effetti del sequestro penale (da ciò la necessita di rideterminare i termini per il suo utilizzo, che sarebbero inutilmente decorsi per cause non imputabili al cessionario).

Peraltro, l’ordinanza impugnata, nel revocare il sequestro, sovrappone la questione della tutela del terzo in buona fede a quella della assoggettabilità a sequestro del fittizio credito d’imposta ceduto, questione che si pone su un piano nettamente distinto.

In primo luogo, va precisato che l’esistenza di cautele legislative o di poteri di controllo attribuiti all’Agenzia delle entrate, non possono esonerare l’acquirente il credito, ai fini della dimostrazione della sua buona fede, dagli ulteriori oneri di controllo che incombono su di lui anche ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2007, in quanto compreso tra i soggetti obbligati dall’art. 3 del medesimo decreto.

Per ottenere il riconoscimento di un proprio diritto, secondo i principi generali affermati dalla giurisprudenza di legittimità, il terzo deve allegare elementi idonei a rappresentare non solo la sua buona fede, intesa come estraneità all’attività illecita in precedenza realizzata dal soggetto colpito dal sequestro, ma anche il suo affidamento incolpevole, inteso come positivo adempimento dell’obbligo di informazione imposto dal caso concreto, volto a escludere una rimproverabilità di tipo colposo (Sez. 3, n. 38608 del 18/04/2019, Italfondiario Spa, Rv. 277159-01).

In particolare, l’adempimento degli obblighi d’informazione e di accertamento che sorreggono l’incolpevole affidamento debbono essere svolti sul dante causa (Sez. 1, n. 45260 del 27/09/2013, Italfondiario Spa, Rv. 257913).

La S.C., ricorda il PG, ad esempio, ha precisato, in riferimento all’art. 52, comma 1, d.lgs. 159/2011 – applicabile in via analogica anche oltre il perimetro delle misure di prevenzione (Sez. 3, n. 38608 del 18/04/2019, Italfondiario, Rv. 277159-02) – che la confisca non determina l’estinzione del preesistente diritto reale di garanzia costituito sulle cose che ne sono oggetto a favore di terzi, a condizione che costoro si trovino in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole (Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, Bacherotti, Rv. 213511).

Mutatis mutandis, tali principi possono essere applicati al caso in esame, con la conclusione che è configurabile la buona fede del terzo – cessionario del credito inesistente- soltanto nel caso in cui, avendo riguardo alla particolare attività svolta dal medesimo, risulti dimostrata:

a) l’estraneità a qualsiasi collusione o compartecipazione all’attività criminosa;

b) l’inconsapevolezza credibile in ordine alle attività svolte dal prevenuto;

c) un errore scusabile sulla situazione apparente del prevenuto (Sez. 6, n. 50018 del 17/09/2015, Intesa Sanpaolo S.p.a., Rv. 265930).

Nel caso di specie, il Tribunale del riesame ha omesso ogni valutazione relativa alla posizione del terzo, non facendo buon governo dei principi di diritto sopra richiamati ed ha reso una pronuncia con motivazione assolutamente carente e apparente rispetto alle prospettazioni della pubblica accusa, oltre che non corretta per quanto riguarda l’interpretazione delle norme applicate.

4. Con istanza del 21.10.2022, telematicamente depositata, la difesa di Poste Italiane S.p.A. ha richiesto (ed ottenuto, con provvedimento del Presidente titolare del 24.10.2022) la trattazione orale del ricorso e, contestualmente, ne ha chiesto la rimessione alle Sezioni Unite, richiesta, quest’ultima, la cui decisione il Presidente titolare ha rimesso a questo Collegio.

5. Con successiva memoria difensiva telematicamente depositata con allegati in data 31.10.2022, la difesa di Poste Italiane S.p.A. ha ulteriormente illustrato le ragioni della richiesta di rimessione alle Sezioni Unite del ricorso del Pubblico Ministero, ovvero ne ha chiesto comunque, il rigetto o l’inammissibilità.

In particolare, la difesa in replica ai motivi di ricorso del PM rileva:

a) che sarebbe inammissibile per genericità l’affermazione del PM secondo la quale nessuna norma autorizzerebbe a ritenere che il riconoscimento del credito d’imposta in capo al cessionario non trovi fonte in una vicenda derivativo-traslativa, ovvero in un atto negoziale di trasferimento del medesimo diritto dal beneficiario al cessionario, bensì in una vicenda estintivo-costitutiva, ovvero nella rinuncia all’utilizzo della detrazione d’imposta da parte del beneficiario, a fronte della creazione (impropriamente definita “cessione”), con l’attribuzione a titolo originario, di un credito d’imposta in capo al fornitore o al cessionario, ciò in quanto il PM avrebbe omesso del tutto di confrontarsi con il complesso degli argomenti difensivi sviluppati nella memoria depositata dinanzi al tribunale del riesame di Parma e depositata come allegato b) al ricorso del Pm;

b) che sarebbe manifestamente infondato il motivo di ricorso del PM, nella parte in cui pretende ricavare una violazione di legge asseritamente rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. b), c.p.p. dal contrasto dell’interpretazione delle rilevanti disposizioni di legge fatta propria dal Tribunale con l’affermazione contenuta nella Circolare n. 23/E dell’Agenzia delle Entrate, ciò a fronte dell’insegnamento della Suprema Corte, secondo cui nessun rilievo può assumere il contenuto di circolari ministeriali, ai fini della valutazione in ordine alla legittimità di un provvedimento giurisdizionale ai sensi dell’art. 606, lett. b), c.p.p.;

c) che sarebbe del tutto privo di pregio sotto entrambi i profili considerati dall’atto di ricorso, l’argomento costituito dalla valorizzazione della circostanza che la titolarità dei crediti d’imposta in capo a Poste Italiane S.p.A. troverebbe esclusivo fondamento nei contratti stipulati con i rispettivi cedenti;

d) che, ancora, sarebbe ulteriormente privo di pregio l’argomento secondo il quale il contenuto della richiamata Circolare ministeriale e dei contratti tra cedenti/beneficiari e Poste Italiane S.p.A. renderebbe evidente – secondo il PM ricorrente – che nel decidere l’istanza di riesame presentata da Poste Italiane S.p.A. il Tribunale del riesame avrebbe violato il combinato disposto degli artt. 321 c.p.p. e 121, commi 1 e 2, D.L. n. 34/2020, ove si consideri che, per espressa previsione contrattuale (cfr. l’art. 3 del contratto costituente l’allegato c) al ricorso), la “cessione” del credito d’imposta indicato nell’atto può ritenersi “perfezionata” solo se e quando il cedente abbia registrato la cessione stessa sulla Piattaforma Cessione Crediti ed il cessionario l’abbia accettata e, dunque, è la duplice comunicazione all’Agenzia delle Entrate a fungere da presupposto costitutivo del diritto al credito d’imposta in capo al cessionario, indipendentemente dall’esistenza e dallo specifico contenuto del singolo contratto di cessione;

e) che, in relazione all’ulteriore motivo di ricorso, secondo cui l’ordinanza impugnata integrerebbe una violazione di legge perché il Tribunale, interpretando le disposizioni dei commi 5 e 6 dell’art. 121 del Decreto Rilancio, avrebbe confuso “piano civilistico e piano penalistico” (con la conseguenza che il recupero dell’importo corrispondente alla detrazione non spettante nei confronti del beneficiario che ha esercitato l’opzione potrebbe avvenire solo una volta che il cessionario abbia utilizzato in compensazione il relativo credito d’imposta), le argomentazioni del PM sarebbero prive di pregio, in quanto dette disposizioni dovrebbero essere interpretate nel senso che se il beneficiario (meramente apparente) dell’agevolazione fiscale ha comunicato all’Agenzia delle Entrate di voler cedere un credito d’imposta a fronte della rinuncia ad utilizzare una detrazione d’imposta cui non avrebbe avuto diritto, tale violazione comporterebbe l’attivazione dell’azione di recupero da parte dell’Agenzia delle Entrate, indipendentemente dal fatto che il cessionario abbia – a sua volta – già utilizzato, o meno, il credito ceduto, portandolo in compensazione, laddove la diversa ricostruzione prospettata dal PM ricorrente, oltre a non trovare fondamento nella inequivoca formulazione delle disposizioni in esame, porterebbe a conseguente aberranti, meglio descritte alle pagg. 15/16 della memoria;

f) che, in particolare, la confusione che si verifica nel cassetto fiscale del cessionario tra tutti i crediti d’imposta aventi il medesimo codice tributo renderebbe concretamente impossibile verificare se il credito d’imposta acquisito per effetto di una determinata operazione di cessione sia stato utilizzato in compensazione, oppure no, quantomeno con riferimento a tutti i crediti d’imposta generati dall’esercizio delle opzioni comunicate fino al 30.4.2022, dal momento che solo a partire dall’1.5.2022, per effetto della previsione di cui al comma 1-quater dell’art. 121, inserito dall’art. 28, comma 1-bis, lett. a), n. 3), D.L. 27 gennaio 2022, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 marzo 2022, n. 25, ad ogni credito d’imposta generato dall’esercizio dell’opzione di cui all’art. 121, comma 1, D.L. n. 34/2020 viene attribuito un codice identificativo univoco, da indicare nelle comunicazioni delle eventuali successive cessioni da trasmettere all’Agenzia delle Entrate;

g) che, dunque, a voler correttamente interpretare tali disposizioni, una volta che l’accertamento dell’inesistenza dei requisiti che danno diritto alla detrazione determini l’avvio delle procedure di “recupero” in conformità a quanto disposto dai commi 5 e 6 dell’art. 121, se si inibisse al cessionario rimasto estraneo alla violazione commessa dall’apparente beneficiario la possibilità di portare in compensazione il credito di imposta acquisito in buonafede (a fronte del pagamento al cedente di un congruo corrispettivo), ritenendo quel credito “inesistente” e dunque non compensabile, il “recupero” sarebbe sostanzialmente duplicato e la sua funzione ne risulterebbe snaturata: da strumento per riportare in equilibrio una situazione nella quale l’Erario ha subito una passività non dovuta, si trasformerebbe in uno strumento idoneo a determinare, in capo all’Erario, un arricchimento senza causa;

h) che, ulteriormente, il motivo è infondato, in quanto neppure alla luce delle novità introdotte dal c.d. Decreto Antifrodi (che ha introdotto l’art. 122-bis, nel testo dell’originario d.l. n. 34 del 2020), il cessionario è mai stato gravato dell’obbligo di acquisire e verificare la documentazione comprovante l’effettiva realizzazione dei lavori che danno diritto alla detrazione d’imposta in capo al soggetto che ha esercitato l’opzione da cui origina il credito acquistato, donde le circostanze della definizione del testo dell’art. 3 del Decreto Antifrodi concretamente entrato in vigore evidenzierebbero l’erroneità della interpretazione dell’art. 121, comma 6, del Decreto Rilancio, prospettata dalla Circolare n. 23/E del 23.6.2022, che si porrebbe altresì in contrasto con i principi che regolano la fattispecie del concorso di persone in qualsiasi illecito amministrativo;

i) che, inoltre, sarebbe priva di pregio la doglianza del PM circa l’asserita mancanza di motivazione in ordine alle argomentazioni con le quali la Procura ha sostenuto che i crediti d’imposta indebitamente generati dalle false comunicazioni di esercizio dell’opzione trasmesse all’Agenzia delle Entrate dall’indagato (omissis) debbano considerarsi “inesistenti” ed essere considerati alla stregua di banconote false, ciò in quanto diversamente dalla banconota falsa o dalla “carta straccia” (mutuando tale espressione dall’impugnazione in questa sede), che sono oggetti pacificamente individuabili, nella loro materialità, anche se inseriti in un insieme di banconote vere o di fogli di “carta pregiata”, i crediti d’imposta generati dalle illecite condotte dell’indagato (omissis) non sarebbero affatto individuabili nell’insieme di crediti d’imposta aventi il medesimo codice tributo, presenti nel cassetto fiscale di Poste Italiane S.p.A.;

I) che, sempre in relazione al predetto motivo, il Procuratore della Repubblica non aveva mai esibito al Tribunale del riesame la Circolare n. 23/E del 23.6.2022, né alla stessa aveva fatto alcun riferimento durante la camera di consiglio del 27.6.2022, celebrata appena quattro giorni dopo la sua emanazione, ed è proprio per tale motivo che l’omessa considerazione della stessa, nella motivazione dell’ordinanza impugnata, non potrebbe assolutamente fondare una censura di carenza di motivazione su tale specifico aspetto, ribadendosi peraltro l’erroneità della circolare 23.06.2022 alla luce della stridente contraddizione tra la stessa e quanto in precedenza sostenuto dalla Circolare n. 24/E dell’8.8.2020, ma anche nella Circolare n. 30/E del 22.12.2020, nonché nelle dichiarazioni rese dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate nel corso dell’audizione dinanzi alla Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria del 18 novembre 2020, conseguendone pertanto che quali che siano le ragioni per cui l’Agenzia delle Entrate, nel corso del 2022, ha deciso di sconfessare sé stessa, il dato che oggettivamente se ne ricaverebbe è l’estrema fragilità di qualsiasi argomento fondato sulle ondi- vaghe prese di posizione della stessa Agenzia;

m) da ultimo, la difesa di Poste Italiane S.p.A. alle pagg. 30 ss. della memoria difensiva, svolge una serie di considerazioni rispetto alla sentenza di questa Corte (n. 40867/2022), depositata nelle more della trattazione del presente giudizio, avente ad oggetto il ricorso presentato da Poste Italiane S.p.A., in qualità di terza interessata, contro l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame di Napoli in data 1.3.2022, nell’ambito del proc. pen. n. 30613/21 R.G.N.R. della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli.

Richiamato il contenuto motivazionale di tale decisione (che ha escluso ogni ipotesi di estinzione del diritto alla detrazione d’imposta, con contestuale creazione di un diritto diverso dal primo, quello al credito d’imposta), la difesa di Poste Italiane S.p.A., evidenzia come esisterebbe una differenza di sicuro rilievo tra la fattispecie concreta oggetto di quella decisione e la fattispecie oggetto del presente procedimento, in quanto la prima riguardava un decreto di sequestro preventivo “impeditivo”, emesso ai sensi del comma 1 dell’art. 321 c.p.p., mentre l’attuale riguarda un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei crediti d’imposta di proprietà di Poste Italiane S.p.A., emesso ai sensi del comma 2 dell’art. 321 c.p.p.

L’ordinanza del Tribunale del riesame di Parma, oggetto del presente procedimento, rileva la difesa, ha evidentemente dovuto prendere in considerazione anche gli argomenti che la sentenza n. 40867/22 ha omesso di considerare, perché estranei a quel giudizio, occorrendo valutare se ed in quale misura gli argomenti sviluppati dalla difesa nell’ambito del presente procedimento, per contestare la ritenuta confiscabilità dei crediti d’imposta di Poste Italiane S.p.A., possano revocare in dubbio le conclusioni cui è pervenuta la citata sentenza.

A tal fine, richiamate le considerazioni svolte al punto V.3 della memoria difensiva allegata al verbale della camera di consiglio del 27.6.2022 innanzi al Tribunale del riesame di Parma (secondo cui «Una volta confluiti nel cassetto fiscale del cessionario, i singoli crediti perdono la loro individualità», atteso che «Le caratteristiche del cassetto fiscale e le (conseguenti) concrete modalità di esecuzione del sequestro, invero, confermano quanto fin qui osservato in merito alla sostanziale novità e alterità dei crediti in questione rispetto alle detrazioni fiscali apparentemente connesse alle false comunicazioni trasmesse dal Sig. (omissis)»), si osserva come il tema sarebbe stato affrontato erroneamente solo in via incidentale dalla sentenza n. 40867/22 in quanto, alla luce del concreto funzionamento della Piattaforma Cessione Crediti, l’affermazione della S.C. che non troverebbe fondamento nell’assetto normativo vigente dal momento della sua istituzione e fino alla introduzione del comma 1-quater nell’art. 121 D.L. n. 34/2020, ovvero nel periodo in cui sono stati commessi i fatti oggetto del presente procedimento, non essendo certo dalla formulazione del decreto di sequestro, infatti, che può ricavarsi se un determinato bene ha natura fungibile o meno, trattandosi, piuttosto, di una circostanza che dipende unicamente dalla disciplina legislativa di quel determinato bene. In tal senso, la difesa di Poste Italiane S.p.A. qualifica come “fallace” l’affermazione contenuta nella sentenza n. 40867/22 che sembrerebbe escludere la natura fungibile (“come se fossero somme di denaro”) dei crediti d’imposta destinati a confluire nel cassetto fiscale del contribuente che si renda cessionario dei crediti stessi, per il semplice fatto che ognuno di quei crediti ha un’origine ben individuata.

Diversamente, prosegue la difesa, ove si consideri che solo a partire dall’1.5.2022 a ciascun credito d’imposta originato per effetto dell’esercizio dell’opzione di cui al comma 1 dell’art. 121 D.L. n. 34/2020 è stato “attribuito un codice identificativo univoco da indicare nelle comunicazioni delle eventuali successive cessioni” (così, testualmente, il citato comma 1-quater dell’art. 121), è evidente che tutti i crediti originati precedentemente, come riconosciuto dalla stessa Polizia Giudiziaria nell’ambito del presente procedimento, avevano natura sicuramente fungibile, con la conseguenza che così come il denaro fuoriuscito dal conto corrente dell’autore delle truffe aggravate dell’esempio precedente e trasferito al terzo estraneo a quei reati, che lo abbia ricevuto per effetto di una transazione effettuata in buona fede, non è mai confiscabile una volta confluito nel conto corrente di quest’ultimo, allo stesso modo, i crediti d’imposta fraudolentemente originati dall’opzione per la cessione esercitata da chi non aveva il diritto alla detrazione fiscale corrispondente, una volta transitati nel cassetto fiscale di chi li abbia acquisiti in buona fede (rimanendo estraneo al reato commesso dall’apparente beneficiario), non potrebbero assolutamente essere confiscati.

Conclusivamente, secondo la difesa, l’affermazione contenuta nella sen- tenza n. 40867/22, secondo cui la cessione del credito d’imposta fraudolentemente creato determinerebbe una sorta di “evoluzione” (e non di sostituzione) della detrazione a monte nel credito a valle, con la conseguente inesistenza di un credito d’imposta derivante da una detrazione d’imposta inesistente, si fonderebbe su una interpretazione assolutamente non convincente della disciplina legislativa concretamente vigente fino all’introduzione del comma 1-quater dell’art. 121 del D.L. n. 34/2020.

E tale circostanza apparirebbe certamente idonea a determinare la possibilità di un contrasto giurisprudenziale circa le questioni di diritto connesse alla interpretazione delle disposizioni di legge introdotte nell’ordinamento dal D.L. n. 34/2020 e, in particolare, dall’art. 121 del citato Decreto.

A ciò si aggiunga, prosegue la difesa di Poste Italiane S.p.A., che l’interpretazione “restrittiva” delle disposizioni dei commi 4, 5 e 6 dell’art. 121 del Decreto Rilancio (cfr. i punti 12 e 13 della motivazione) non implicherebbe affatto che la diversa interpretazione prospettata dall’ordinanza impugnata postuli l’esistenza di una “disciplina derogatoria a quella ordinaria penale con riferimento al sequestro preventivo”, in quanto, una volta preso atto della confusione che si realizza nel cassetto fiscale del cessionario tra tutti i crediti d’imposta aventi il medesimo codice tributo, infatti, le conclusioni raggiunte dall’ordinanza del Tribunale del riesame di Parma in ordine alla non confiscabilità dei crediti d’imposta sequestrati a Poste Italiane S.p.A. risulterebbero assolutamente coerenti con la “ordinaria disciplina penale” in materia di sequestro preventivo.

Né quanto dedotto dalla difesa potrebbe in alcun modo essere messo in crisi dall’osservazione per cui la disposizione dell’art. 28-ter D.L. n. 4/22 confermerebbe l’ammissibilità del sequestro nei confronti del cessionario, secondo le regole generali, così ribadendo che non si è in presenza di un acquisto a titolo originario, impermeabile ad ogni vicenda illecita precedente (cfr. il punto 15 della motivazione), in quanto la disposizione in esame non prenderebbe posizione circa la legittimità di qualsiasi sequestro eseguito nei confronti del cessionario, ma si limiterebbe a disciplinare le situazioni che si verificano “una volta cessati gli effetti del sequestro”.

Da ultimo, non convincerebbe nemmeno l’affermazione, contenuta nella richiamata sentenza, secondo cui la disposizione dell’art. 28, comma 3, D.L. n. 4/22, stabilendo la nullità dei contratti di cessione conclusi in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 121, comma 1, 122, comma 1, e del comma 2 dello stesso art. 28, confermerebbe ulteriormente il carattere derivativo dell’istituto (cfr. il punto 17 della motivazione), poiché la mera circostanza della derivazione da una determinata transazione non è affatto idonea a privare un de- terminato bene della sua intrinseca fungibilità, ove questa sia ricavabile dalla disciplina legislativa concretamente applicabile.

6. La difesa di Poste Italiane S.p.A., infine, all’udienza di discussione del 16 novembre 2022, ha depositato ulteriore memoria ex art. 121, cod. proc. pen., illustrandone oralmente i contenuti, ed insistendo sulle richieste di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite o, in subordine, per l’inammissibilità o il rigetto del ricorso del PM.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Parma, trattato oralmente ex art. 23, comma 8, d.l. n. 137/2020 e successive modd. ed integrazioni, è fondato, non ravvisandosi peraltro ragioni per la rimessione del medesimo alle Sezioni Unite, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte progressivamente formatasi sulla questione.

2. Come già ricordato dalla difesa di Poste Italiane S.p.A., questa stessa Sezione (Sez. 3, n. 40867 del 21 settembre 2022 – dep. 28/10/2022), si è già parzialmente pronunciata sui temi oggetto del presente ricorso, in un procedi- mento attivato dal ricorso in tal procedimento presentato da Poste Italiane S.p.A., in qualità di terza interessata, contro l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame di Napoli in data 1.3.2022, nell’ambito di altro procedimento penale pendente presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli.

In tale decisione, sebbene pronunciata – come correttamente rileva la difesa nella memoria depositata in data 31.10.2022 – in una fattispecie nella quale era stato disposto il c.d. sequestro impeditivo ex art. 321, co. 1, c.p.p. a differenza dell’attuale, in cui invece il sequestro è stato disposto a norma dell’art. 321, co. 2, c.p.p., trattandosi cioè unicamente di sequestro funzionale alla confisca in relazione ai reati oggetto di contestazione, questa Corte non ha accolto la tesi difensiva – seguita invece dai giudici del riesame nel presente procedimento – secondo cui, esercitata l’opzione per la cessione del credito, e dunque rinunciato dal beneficiario l’originario diritto alla detrazione (nella misura del 110% delle spese documentate e rimaste a carico), il credito stesso sorgerebbe – in capo al cessionario – a titolo originario, quindi depurato da qualunque vizio, anche radicale, che avesse eventualmente colpito il diritto alla detrazione.

Questa tesi, che intenderebbe il credito ceduto come sempre “garantito” dallo Stato a tutela del cessionario, anche di fronte ad un assoluto difetto di presupposti, non è stata condivisa da questa Corte, non deponendo in tal senso la normativa di riferimento (primaria e secondaria) richiamata sia nell’ordinanza impugnata che nella memoria difensiva, alla quale non può esser riconosciuta alcuna forza derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria.

La richiamata sentenza, anzitutto, ha ricordato in sintesi il funzionamento della disciplina introdotta dal decreto rilancio, che può essere così sintetizzata.

L’art. 121, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla I. 17 luglio 2020, n. 77, stabilisce che i soggetti che sostengono spese per determinati interventi (di recupero del patrimonio edilizio, di efficienza energetica, di adozione di misure antisismiche, di recupero o restauro della facciata di edifici esistenti, di installazione di impianti fotovoltaici, di installazione di colonnine per la ricarica di veicoli elettrici, di superamento ed eliminazione di barriere architettoniche), negli anni di riferimento, possono optare, in luogo dell’utilizzo diretto della detrazione spettante, alternativamente:

1) per il cd. sconto in fattura, ossia un contributo, sotto forma di sconto sul corrispettivo dovuto, fino a un importo massimo pari al corrispettivo stesso, anticipato dai fornitori che hanno effettuato gli interventi e da questi ultimi recuperato sotto forma di credito d’imposta, di importo pari alla detrazione spettante, a sua volta suscettibile di cessione. Con tale meccanismo, dunque, chi ha commissionato gli interventi del comma 2 rimane titolare di un proprio credito d’imposta, ma ne subisce la riduzione – anche sino alla totale scomparsa – per la parte in cui le spese di intervento siano sostenute non da lui, ma direttamente dal fornitore/esecutore, sotto forma di sconto; questi, per la misura corrispondente, vede allora sorgere un proprio ed autonomo credito d’imposta, che potrà portare in compensazione o, a sua volta, cedere nei termini di cui alla stessa norma;

2) per la cessione di un credito d’imposta di pari ammontare ad altri soggetti, compresi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari, a sua volta suscettibile di cessione, nei termini (più volte modificati) del comma 1, lett. b), o di essere portato in compensazione con debiti erariali.

La sentenza n. 40867/2022 ha dunque chiarito come, dalla lettura dell’art. 121, comma 1, emerge con chiarezza che il meccanismo del Superbonus in oggetto è stato costruito dal legislatore su percorsi alternativi, sebbene evidentemente legati nei presupposti e sostenuti dall’identica finalità di incentivare gli interventi indicati: all’utilizzo diretto della detrazione fiscale spettante, previsto come ipotesi ordinaria, sono state infatti aggiunte le due opzioni appena richiamate, che – rimesse alla scelta dell’unico beneficiario (colui che ha sostenuto le spese) – costituiscono un’evidente derivazione della prima, utile per ottenere un’immediata monetizza- zione del proprio diritto, senza dover attendere cinque anni per la complessiva detrazione.

Con particolare riguardo alla cessione del credito, oggetto del ricorso del PM, il beneficiario si spoglia dunque del proprio diritto alla detrazione, che assume la veste – nell’identico contenuto patrimoniale – di un credito suscettibile di circo- lare nei termini indicati dalla legge, e che viene contestualmente ceduto; come confermato, d’altronde, dall’originaria Versione dello stesso art. 121, comma 1, lett. b), che menzionava un’opzione, per l’appunto, “per la trasformazione (corsivo dell’estensore) del corrispondente importo in credito d’imposta, con facoltà di successive cessioni ad altri soggetti, ivi inclusi istituti di credito e altri intermediari finanziari”.

Deve, quindi, darsi continuità al principio affermato secondo cui non si riscontra l’estinzione di un diritto alla detrazione (in capo al beneficiario) e la contestuale costituzione ex nihilo di un credito (in capo al cessionario), come sostenuto dall’ordinanza impugnata in accoglimento della tesi della difesa di Poste Ita- liane S.p.A., né un fenomeno novativo di sorta, ma soltanto l’evoluzione – non la sostituzione – del primo nel secondo, espediente tecnico necessario per consentire quella cessione a terzi ritenuta dal legislatore un fattore ulteriormente incentivante la procedura, e, dunque, uno strumento ancora più utile per la ripresa economica del Paese, fiaccato dalla pandemia.

Ne consegue, allora, in tal senso condividendosi quanto già argomentato nella richiamata sentenza, che non risultano decisive le ampie considerazioni svolte dall’ordinanza in accoglimento della tesi difensiva della cessionaria, circa le differenze tra il diritto alla detrazione ed il credito di imposta; come appena affermato, infatti, la norma è sorta con il fine di agevolare l’esercizio dell’unico diritto a contenuto patrimoniale sorto in capo al beneficiario che ha sostenuto le spese, e ciò ha reso necessaria l’individuazione di appropriati strumenti tecnici che lo consentissero, eventualmente anche in favore di terzi, ed anche più volte.

Tra questi, per l’appunto, la cessione qui in esame.

La diretta ed immediata derivazione di questo credito dall’originario diritto alla detrazione, peraltro, come già evidenziato dalla sentenza n. 40867/2022 (con argomentazione rispetto alla quale la memoria difensiva 30.10.2022 non si confronta), si ricava anche dall’art. 121, comma 3, d.l. n. 34 del 2020, in forza della cui prima parte “I crediti d’imposta di cui al presente articolo sono utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, sulla base delle rate residue di detrazione non fruite.

Il credito d’imposta è usufruito con la stessa ripartizione in quote annuali con la quale sarebbe stata utilizzata la detrazione”.

A conferma ulteriore, dunque, di un credito che deriva proprio dall’originario diritto alla detrazione, senza alcuna vicenda estintivo-costitutiva, conservando di questo non solo il valore economico, ma anche le modalità di esercizio, qualora – non nuovamente ceduto – utilizzato in compensazione.

3. Deve, parimenti, essere ribadito in questa sede che a conclusioni diverse non si può pervenire valorizzando i commi 4, 5 e 6 dell’art. 121 in esame, in tema di controlli e sanzioni.

In particolare, a norma del comma 4, prima parte, “ai fini del controllo, si applicano, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1, le attribuzioni e i poteri previsti dagli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni.

I fornitori e i soggetti cessionari rispondono solo per l’eventuale utilizzo del credito d’imposta in modo irregolare o in misura maggiore rispetto al credito d’imposta ricevuto”.

A norma del comma 5, prima parte, poi, “qualora sia accertata la mancata sussistenza, anche parziale, dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta, l’Agenzia delle entrate provvede al recupero dell’importo corrispondente alla detrazione non spettante nei confronti dei soggetti di cui al comma 1”.

A norma del comma 6, infine, “il recupero dell’importo di cui al comma 5 è effettuato nei confronti del soggetto beneficiario di cui al comma 1, ferma restando, in presenza di concorso nella violazione, oltre all’applicazione dell’articolo 9, comma 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, anche la responsabilità in solido del fornitore che ha applicato lo sconto e dei cessionari per il pagamento dell’importo di cui al comma 5 e dei relativi interessi”.

Ebbene, nel condividere quanto già argomentato nella richiamata sentenza n. 40867/2022, deve rilevarsi che, anche a voler ammettere che il legislatore abbia voluto assegnare a queste disposizioni un ambito ulteriore rispetto a quello esclusivamente tributario (ipotesi, peraltro, che parrebbe smentita dal richiamo ai poteri di controllo dell’Agenzia delle entrate, al recupero dell’importo, alla responsabilità in solido di fornitori e cessionari in caso di concorso nella violazione), il Collegio ribadisce comunque che i commi 4, 5 e 6 non introducono affatto una disciplina derogatoria a quella ordinaria penale con riferimento al sequestro preventivo.

Ma, a differenza di quanto avvenuto nel procedimento campano, in cui veniva in rilievo un vincolo impeditivo, nel caso in esame rileva in questa sede l’eventuale responsabilità del terzo cessionario (qual è Poste Italiane S.p.A., peraltro persona offesa del capo 3), tema su cui si ritornerà infra.

Ciò che preme sottolineare e ribadire anche in questa sede, però, è che proprio la possibilità che il terzo fornitore ed il cessionario siano chiamati a rispondere ai sensi del comma 6, in caso di concorso, evidenzia ulteriormente il nesso derivativo che il credito ceduto ha rispetto all’originario diritto alla detrazione stessa, non ravvisandosi presupposti, diversamente, per un “recupero” anche nei confronti di questi dell’importo corrispondente alla detrazione medesima.

4. Il Collegio condivide inoltre l’affermazione contenuta nella richiamata sentenza n. 40867/2022 secondo cui non costituisce argomento a sostegno della tesi difensiva neppure l’art. 28-ter, d.l. 27 gennaio 2022, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla I. 28 marzo 2022, n. 25, in forza del quale “l’utilizzo dei crediti d’imposta di cui agli articoli 121 e 122 del decreto-legge n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020, nel caso in cui tali crediti siano oggetto di sequestro discosto dall’Autorità giudiziaria può solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo (v., in termini, Sez. 3, n. 6619 del 7.2.2012, dep. il 17.2.2012, Rv. 252541; Sez. 3, ord. n. 25170 del 13.6.2012, dep. il 25.6.2012, Rv. 252771; Sez. 3, n. 2757 del 6.12.2017, dep. il 23.1.2018, Rv. 272029).

Sulla natura ed efficacia delle circolari va peraltro ricordato che si sono già pronunciate le Sezioni Unite Civili di questa Corte evidenziandone, proprio con riferimento a quelle interpretative in materia tributaria, la natura di atti meramente interni alla pubblica amministrazione che esprimono esclusiva- mente un parere dell’amministrazione medesima non vincolante per il contribuente, per gli uffici, per la stessa autorità che l’ha emanata e per il giudice (SS. UU. civili n. 23031, 2 novembre 2007).

Osservano, in particolare, sul punto le SS. UU. civili che “la circolare emanata nella materia tributaria non vincola il contribuente, che resta pienamente libero di non adottare un comportamento ad essa uniforme, in piena coerenza con la regola che in un sistema tributario basato essenzialmente sull’auto tassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata (almeno in una prima fase, quella, appunto, della determinazione dell’imposta da corrispondere) direttamente al contribuente.

La circolare nemmeno vincola, a ben vedere, gli uffici gerarchicamente sottordinati, ai quali non è vietato di disattenderla (evenienza, questa, che, peraltro, è raro che si verifichi nella pratica), senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall’ufficio (atto impositivo, diniego di rimborso, ecc.) possa essere ritenuto illegittimo “per violazione della circolare”: infatti, se la (interpretazione contenuta nella) circolare è errata, l’atto emanato sarà legittimo perché conforme alla legge, se, invece, la (interpretazione contenuta nella) circolare è corretta, l’atto emanato sarà illegittimo per violazione di legge.

La circolare non vincola addirittura la stessa autorità che l’ha emanata, la quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere l’interpretazione adottata…

La circolare non vincola, infine … il Giudice tributario (e, a maggior ragione, la Corte di Cassazione) dato che per l’annullamento di un atto impositivo emesso sulla base di una interpretazione data dall’amministrazione e ritenuta non conforme alla legge, non dovrà essere disapplicata la circolare, in quanto l’ordinamento affida esclusivamente al Giudice il compito di interpretare la norma (del resto, al Giudice tributario è attribuita, nella materia tributaria, la giurisdizione esclusiva)”.

Del resto, con la consueta onestà intellettuale, è la stessa memoria difensiva 31.10.2022 a specificare a pag. 7 che al medesimo principio di diritto risulta evidentemente ispirato il punto 16.1 della motivazione della sentenza n. 40867/22, “laddove, con specifico riferimento ai contenuti di una circolare dell’Agenzia delle Entrate, si sottolinea che «si tratta soltanto della lettura di un testo normativo … non di un’interpretazione autentica vincolante erga omnes»”.

Proprio per tale ragione, quindi, perdono di spessore argomentativo le considera- zioni svolte nella predetta memoria difensiva in merito alla stridente contraddizione rilevabile tra la posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate nel corso del 2020 e quella assunta nella Circolare del 23.6.2022, circolari i cui contenuti, del resto, la S.C., con la sentenza n. 40867/2022, ha richiamato unicamente al fine di confutare l’argomentazione, contenuta in quel ricorso – e sostanzialmente riproposta nell’istanza di riesame accolta dal tribunale del riesame di Parma – che si basava proprio sulla circolare dell’8.08.2020, che affermava che “il cessionario che ha acquistato il credito in buona fede non perde il diritto ad utilizzare il credito d’imposta”.

La circostanza che, successivamente, la stessa Agenzia delle Entrate abbia mutato il proprio ‘orientamento interpretativo con la successiva circolare n. 23/E del 23 giugno 2022 (con argomenti che già erano stati espressi in sede di audizione in Senato, V^ commissione bilancio, del Direttore Generale dell’Agenzia delle Entrate in data 10 febbraio 2022, richiamata nel § 16.1. della richiamata sentenza n. 40867/2022), non assume all’evidenza alcun rilievo e, come non può essere valorizzata dal PM ricorrente per sostenere un vizio di omessa motivazione, allo stesso modo non può rilevare né per sostenere l’erroneità dell’interpretazione della circolare 23.06.2022 (come sostenuto nella memoria difensiva 31.10.2022), né per sorreggere l’impianto motivazionale dell’ordinanza impugnata rispetto ai precedenti documenti di prassi (come invece risulta a pag. 10 dell’ordinanza impugnata, in cui si valorizza proprio la circolare 8.08.2020 il documento informativo AdE dell’aprile 2021, la circolare AdE n. 24/E o la nota di chiarimenti della Banca d’Italia 5.01.2021) che, a detta dei giudici del riesame, confermerebbero la correttezza della tesi difensiva accolta nel provvedimento impugnato.

6. Conclusivamente, sul punto, ribadisce il Collegio che proprio la mancata previsione di una disciplina espressa di segno contrario costituisce la conferma alla lettura offerta dal Procuratore Generale presso questa Corte, non emergendo dal d.l. n. 34 del 2020, e successive modificazioni, alcuna previsione derogatoria ai principi generali, con particolare riguardo anche all’ipotesi del sequestro finalizzato alla confisca ex art. 321, comma 2, c.p.p.

Anzi, come già affermato nella richiamata sentenza n. 40867/2022, la stessa normativa successiva ha confermato che proprio di cessione di un credito già esistente si tratta, e non di una vicenda estintivo-costitutiva: l’art. 28 del citato d.l. n. 4 del 2022, infatti, al comma 3 stabilisce la ipotesi di nullità dei “contratti di cessione”, quando conclusi in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 121, comma 1, 122, comma 1, e del comma 2 dello stesso art. 28, così confermando ulteriormente il carattere derivativo dell’istituto e, dunque, la corretta interpretazione operata nel ricorso del PM.

7. Quanto, poi, alle osservazioni contenute nella memoria difensiva, secondo cui, in assenza di elementi identificativi, la misura colpirebbe non esattamente i crediti originati dalle artificiose condotte poste in essere dagli indagati, ma crediti pari alla somma del valore nominale di tutti i crediti d’imposta oggetto di cessione a Poste Italiane S.p.A., con la conseguenza che la misura, pur disposta nei confronti dei crediti d’imposta individuati con richiamo alle condotte contestate, sarebbe stata concretamente eseguita su una massa indistinta di crediti solo di importo equivalente a quello oggetto di indagine, in quanto presenti nel cassetto fiscale di Poste Italiane S.p.A., il Collegio non può che dare continuità a quanto già argomentato sul punto con la sentenza n. 40867/2022.

Ed invero, al di là della rilevanza della questione afferente all’assenza, al momento dei fatti, di uno specifico codice identificativo (introdotto soltanto con disposizioni successive a partire dall’1.5.2022), deve in questa sede ribadirsi che le pure apprezzabili argomentazioni difensive sviluppate nella memoria difensiva 31.10.2022 confermano tuttavia che la tesi sostenuta in realtà era ed è funzionale alla denuncia di un vizio attinente non al provvedimento impositivo del vincolo, ma alla sua concreta esecuzione (affermazione, questa, contenuta nel § 19.1 della sentenza n. 40867/2022 su cui, del resto, la memoria difensiva 31.10.2022 nulla dice): un argomento, dunque, si evidenzia nuovamente, che è estraneo al giudizio di questa Corte, in forza del costante principio per cui i provvedimenti riguardanti le modalità di esecuzione del sequestro preventivo non sono né appellabili né ricorribili per cassazione e le eventuali questioni ad essi attinenti vanno proposte in sede di incidente di esecuzione (per tutte, Sez. 1, n. 8283 del 24/11/2020, Sforza, Rv. 280604; conformi, in precedenza: Sez. 2, n. 44504 del 03/07/2015 – dep. 04/11/2015, Steccato Vattumè, Rv. 265103 – 01; Sez. 6, n. 16170 del 02/04/2014 – dep. 11/04/2014, Stollo, Rv. 259769 – 01).

8. Ritiene, inoltre, il Collegio di dover replicare alle considerazioni svolte dalla difesa di Poste Italiane S.p.A. nel corso dell’udienza di discussione del 16.11.2022, consacrate nella memoria difensiva ex art. 121, c.p.p., depositata in udienza, al fine di evidenziarne la non accoglibilità.

In estrema sintesi, la tesi difensiva, sviluppata con la memoria, è che la corretta interpretazione delle disposizioni introdotte dal decreto Rilancio (segnatamente l’art. 121, d.l. 34/2020), omettendo di inibire al cessionario l’uso del credito d’imposta una volta che risulti accertata l’inesistenza del diritto alla detrazione a monte, non mettano minimamente in dubbio l’esistenza di quei crediti.

Con la conseguenza, dunque, che tali disposizioni offrirebbero conferma del fatto che, pur in assenza dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta, ossia le spese per interventi edilizi, i crediti di imposta originati dall’esercizio dell’opzione di cui al comma 1 dell’art. 121, d.l. citato, sarebbero considerati dal legislatore sempre esistenti, oltre che legittimamente compensabili dal cessionario che li abbia acquisiti in buona fede, senza concorrere nella violazione del beneficiario, anche se solo apparente, della detrazione a monte.

9. La prospettazione difensiva, pur pregevolmente argomentata dalla difesa della ricorrente, non può tuttavia essere accolta.

Ed invero, è anzitutto erroneo il presupposto interpretativo da cui la stessa muove, ossia che dalla normativa del decreto Rilancio non possa ricavarsi in via esegetica l’inesistenza del credito, che sarebbe quindi frutto di un’interpretazione erronea.

La norma di riferimento, il comma 5 dell’art. 121, infatti, nella sua originaria versione, prevede che “Qualora sia accertata la mancata sussistenza, anche parziale, dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta, l’Agenzia delle entrate provvede al recupero dell’importo corrispondente alla detrazione non spettante nei confronti dei soggetti di cui al comma 1”, aggiungendo al comma 6 (nella sua originaria stesura) che “Il recupero dell’importo di cui al comma 5 è effettuato nei confronti del soggetto beneficiario di cui al comma 1, ferma restando, in presenza di concorso nella violazione, oltre all’applicazione dell’articolo 9, comma 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, anche la responsabilità in solido del fornitore che ha applicato lo sconto e dei cessionari per il pagamento dell’importo di cui al comma 5 e dei relativi interessi”.

E’ agevole, sul punto, rendersi quindi conto di come la normativa preveda il “recupero” riferendosi ovviamente all’importo corrispondente alla detrazione non spettante in capo al beneficiario “qualora sia accertata la mancata sussistenza, anche parziale, dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta”, coinvolgendo il cessionario in presenza di concorso nella violazione, per quanto qui interessa, come responsabile “in solido” con il soggetto beneficiario.

E’ quindi in astratto corretto quanto affermato dalla difesa del cessionario, nel senso di ritenere che il legislatore, con il d.l. n. 134 del 2020, abbia contemplato solo l’ipotesi del “recupero” riferendola all’importo corrispondente all’ammontare della detrazione non spettante, che fonda tuttavia il suo presupposto sull’accertamento della “mancata sussistenza, anche parziale, dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta”.

E’ proprio questo il punto che occorre tenere in considerazione per risolvere la questione, al di là delle pur puntuali e convincenti osservazioni del PM ricorrente, condivise dal PG nella sua requisitoria, fondate sul comma 5 del citato art. 121, il quale parla di “recupero”, e quindi postula l’avvenuta utilizzazione del credito da parte del cessionario, atteso che è solo l’utilizzazione che può legittimare il recupero, non essendo recuperabile ciò che non si è speso o non si è riscosso.

Orbene, sul punto osserva il Collegio che se, infatti, l’attivazione della procedura di “recupero” consegue all’accertamento della mancata sussistenza dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta, è conseguenza logica – e in tal senso non rileva la circostanza che il legislatore del 2020 non lo abbia espressa- mente previsto – che se quel diritto alla detrazione non spetta (va) al titolare, soggetto beneficiario, ove quest’ultimo abbia esercitato l’opzione di cedere quel credito, derivante, come detto, dal diritto alla detrazione, ovviamente quel credito, che deriva da un diritto di detrazione “non spettante”, ex lege può essere, secondo la normativa penal-tributaria, o “non spettante” (ricadendosi in caso di compensazione indebita, nell’ipotesi penalmente sanzionata meno gravemente dell’art. 10-quater, comma 1, d. Igs. n. 74 del 2000) oppure “inesistente” (ricadendosi in caso di compensazione indebita, nell’ipotesi penalmente sanzionata più grave- mente dell’art. 10-quater, comma 2, d. Igs. n. 74 del 2000): tertium non datur.

Ed allora, se così è, è agevole rendersi conto di come la tesi difensiva, secondo cui quel credito sarebbe “esistente” è destinata a soccombere, atteso che un credito di imposta originatosi da un diritto alla detrazione non spettante ed oggetto dell’esercizio dell’opzione di “cessione” non può mai considerarsi “esistente”.

Del resto, a ragionare diversamente, come pretenderebbe la difesa, si avrebbe l’illogica conseguenza della “spendibilità” (rectius, opponibilità in compensazione) da parte del cessionario di un credito (inesistente o non spettante) che trova il suo fondamento in un diritto alla detrazione “non spettante”, ed in quanto tale abilitante il suo recupero, in termini monetari, da parte dell’Erario.

10. Che, ancora, il credito di cui di discute sia un credito inesistente, discende, a ben vedere, dalla stessa normativa. In materia tributaria, è infatti necessario distinguere il credito d’imposta “non spettante” dal credito d’imposta “inesistente” perché le conseguenze fiscali sono diverse.

Infatti (art. 121, commi 4 e 5, cit.), per il credito d’imposta “non spettante”:

a) l’Agenzia delle Entrate deve operare il recupero entro il termine di decadenza di cinque anni, sempre nei confronti del beneficiario, salvo il concorso da parte del cessionario;

b) si applica la sanzione del 30%, che può essere ridotta ai sensi dell’art. 13 D.Igs. n. 471/1997;

c) si applica l’interesse del 4% annuo (art. 20 DPR n. 602/73);

d) ai fini penali, per il cessionario del credito che procede alla compensazione si applica l’art. 10- quater, primo comma, D.Igs. n. 74/2000 (da sei mesi a due anni per un importo annuo superiore ad € 50.000).

Invece (artt. 121, quarto comma, cit. e 27, commi da 16 a 20, D.L. n. 185/2008, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 2 del 28/01/2009), per il credito d’imposta “inesistente”:

a) l’Agenzia delle Entrate deve operare il recupero, a pena di decadenza entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo sempre nei confronti del beneficiario, salvo il concorso da parte del cessionario;

b) si applica la sanzione dal 100% al 200% (art. 13, comma 5, D.Igs. n. 471 cit.), che non ammette la definizione agevolata;

c) si applica l’interesse del 4% annuo (art. 20 DPR n. 602/73);

d) si iscrive a ruolo tutto, ai sensi dell’art. 15-bis DPR n. 602/73 (iscrizione nei ruoli straordinari);

e) ai fini penali, per il cessionario del credito che procede alla compensazione, si applica l’art. 10-quater, secondo comma, D.Lgs. n. 74/2000 (da un anno e sei mesi a sei anni per un importo annuo superiore ad € 50.000).

Tanto premesso, soccorre ai nostri fini anche l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità in sede civile.

Con le sentenze n. 34444 e n. 34445, entrambe depositate il 16 novembre 2021, questa Corte ha chiarito – ponendosi espressamente in contrasto con i precedenti della stessa Corte (si vedano Cass. n. 10112/2017, n. 19237/2017, n. 24093/2020 e n. 354/2021) – che nel nostro ordinamento sussiste la dicotomia tra credito non spettante e credito inesistente. In particolare, si rileva che la definizione di credito inesistente si desume dall’art. 13, comma 5, D.Igs. n. 471/1997, come novellato nel 2015, secondo cui si considera tale il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile attraverso i controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972.

Devono dunque ricorrere entrambi i requisiti per considerare inesistente il credito:

a) deve mancare il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente);

b) l’inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria.

In sintesi, per poter qualificare un credito come inesistente è necessario che lo stesso sia ancorato ad una situazione non reale o non vera, “ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connota zioni di fraudolenza”.

Quanto sopra è confermato anche da altra decisione della Sezione tributaria di questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 34443 del 16/11/2021, Rv. 663029 – 01), in cui è stato sottolineato che il D.Igs. n. 158 del 2015 si innesta nella riscrittura della norma già contenuta nel contestuale articolo 27, comma 18, d.l. n.185/2008 abrogato -che regolava il relativo quadro sanzionatorio- e ha lo scopo, pertanto, di specificare il contenuto del precetto originario, “[…]così ancorando la nozione di “credito inesistente” ad una dimensione anche secondo il linguaggio comune – “non reale” o “non vera”, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza (come pure può evincersi dal contenuto della Relazione illustrativa al Decreto Legge n. 185 del 2008)”.

Del resto, la norma contenuta nel d.l. n. 185/2008, come chiarito dalla stessa Relazione illustrativa, era volta a colpire “comportamenti connotati da aspetti fraudolenti”, rilevabili essenzialmente soltanto a seguito di specifici riscontri di natura contabile tra quanto indicato nei modelli di versamento e le dichiarazioni periodiche dai quali dovrebbero risultare.

La norma, quindi, san- ziona la condotta commissiva riscontrabile soltanto a seguito di controlli di coerenza contabile, verifiche a seguito delle quali emerga “l’inesistenza dei crediti stessi, non essendo, nella maggior parte dei casi, riscontrabili partendo dal controllo delle dichiarazioni fiscali”.

Tale condotta è insidiosa, e quindi connotata da un elevato grado di offensività in quanto idonea – per le modalità di consumazione – ad ostacolare significativamente l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria (in quanto il credito viene generato direttamente nel modello F24, senza prima essere esposto in dichiarazione, ovvero comunque si tratta di un credito “falsamente” creato, pur se riportato in dichiarazione e poi utilizzato).

In altri termini, come nel caso di specie, qualora il credito d’imposta sia effettivamente non reale (ad esempio, come nella specie, perché trova la sua origine in false fatturazioni per operazioni inesistenti), si deve considerare inesistente.

Ed allora, e conclusivamente, derivando i crediti di imposta in questione da un diritto alla detrazione d’imposta, oggetto dell’esercizio di opzione, ma sorto per effetto di operazioni fraudolente secondo il meccanismo descritto dalla stessa ordinanza impugnata, lo stesso non può che essere qualificato come inesistente sia perché manca il presupposto costitutivo sia perché, proprio in considerazione del meccanismo fraudolento mediante il quale si è originato, l’inesistenza non sarebbe stata riscontrabile mediante i controlli automatizzati o formali sulle dichiarazioni ex art. 13, comma 5, D.Igs. n. 471/1997, dovendosi intendere per “errori rilevabili mediante controlli automatizzati e formali” i casi in cui gli errori e le omissioni possono essere rilevati in sede di liquidazione delle imposte dovute ex art. 36 bis e 36 ter del D.p.r. 600/73, controlli automatizzati e formali che di regola non consentono di rilevare anomalie collegate ad attività fraudolente (con creazione di crediti “agevolativi” inesistenti), ma solo quelle conseguenti all’utilizzo di crediti esistenti ma “non spettanti”, come ad esempio nel caso di duplicazioni materiali, riscontrabili in sede di liquidazione “automatizzata” della dichiarazione.

11. Non è poi risolutiva l’ulteriore considerazione sviluppata nella memoria difensiva, secondo cui ove si ritenesse, come in effetti si ritiene, il credito inesistente, l’attività di recupero risulterebbe snaturata nella sua funzione, in quanto il recupero determinerebbe un “arricchimento senza causa” dell’Erario, dal momento che verrebbe realizzato non essendosi mai realizzata una passività in capo allo stesso.

Si tratta di un’affermazione senza dubbio suggestiva ma infondata.

Sia consentito sul punto svolgere le seguenti considerazioni.

La normativa (d.l. n. 134/2020), come anticipato, consente ai soggetti che sostenevano spese per gli interventi edilizi specificamente individuati, rientranti nell’ambito del c.d. Superbonus di scegliere:

a) la detrazione spettante in sede di dichiarazione dei redditi;

b) lo sconto in fattura;

c) la cessione del credito d’imposta con la facoltà di ulteriori cessioni.

La qualificazione di questi crediti d’imposta li rende sia diretti a risparmiare imposta abbattendola, che finalizzati ad agevolare il mercato immobiliare e il mondo del lavoro aumentando appunto la richiesta di interventi edilizi.

Quindi l’esatta qualificazione della loro natura fa sorgere un dub- bio, cioè se questi crediti siano qualificabili come agevolazioni tributarie o meno, e di seguito quali siano poi di riflesso le conseguenze derivanti dal loro utilizzo fraudolento.

Il quesito è rilevante in quanto il Decreto Rilancio ha previsto la possibilità di scegliere diverse modalità di utilizzo di questa agevolazione oltre la detrazione.

L’art. 121, D.L. n. 34/2020, ha previsto sia un contributo anticipato sotto forma di sconto praticato dai fornitori di beni e servizi sul corrispettivo dovuto, fino ad un importo massimo pari al corrispettivo stesso, che la cessione di un credito corrispondente alla detrazione spettante.

La cessione del credito è cedibile al for- nitore, agli istituti di credito e agli intermediari finanziari, ma anche ad altri sog- getti, con una non negata possibilità di infinite successive cessioni (almeno nell’originaria previsione del d.l. n. 34/2020).

Mentre la compensazione si può utilizzare attraverso l’utilizzo del Mod. F24 senza limiti generali previsti per i crediti d’imposta e contributi, né il limite di 250.000 euro applicabile ai crediti d’imposta da indicare nel quadro RU della dichiarazione dei redditi, la quota di credito non utilizzata nell’anno non può essere usufruita negli anni successivi e non può nemmeno essere richiesta a rimborso.

Ancor più rilevante è il fatto che il citato art. 121, al comma 4, per rendere tale strumento appetibile e funzionale prevede, che i fornitori e i soggetti cessionari, rischino, per l’eventuale utilizzo irregolare del credito d’imposta, unicamente che l’Agenzia delle Entrate possa recuperare l’importo corrispondente alla detrazione non spettante, andando quindi a penalizzare i beneficiari della agevolazione.

Orbene, per rispondere al quesito se il credito d’imposta da Superbonus è o meno un’agevolazione tributaria, è necessario collocare il credito d’imposta non nel concetto di rimborso ma nella natura di credito d’imposta.

È a tal proposito indubbio come il credito, che deriva dalla cessione della detrazione spettante (pari al 110% della spesa sostenuta), non rimborsabile, ma solamente compensabile, sia da riferire alla nozione di “agevolazione tributaria”, proprio perché nulla ha a che fare con il presupposto d’imposta e la relativa capacità contributiva del beneficiario ponendo quale presupposto, cui commisurare l'”aiuto”, l’interesse politico economico, sociale o ambientale, inequivocabilmente costituzionalmente rilevante, ma che quindi è evidentemente di natura extrafiscale.

Ed allora, se così è, evidente che la prospettazione difensiva soffre di un errore di impostazione, laddove il “recupero” è evidentemente limitato all’importo “corrispondente alla detrazione non spettante nei confronti dei soggetti” beneficiari (art. 121, comma 5, d.l. 34/2020) e, in caso di concorso nella violazione, sebbene “in solido”, anche dei cessionari (comma 6).

Diversamente, non essendo il credito d’imposta – conseguente all’esercizio del diritto dell’opzione – “recuperabile” ma unicamente “compensabile” da parte del cessionario nei confronti dell’Erario, non potrebbe mai parlarsi di “arricchimento senza causa” da parte dell’Erario, posto che:

1) o l’Erario riesce a recuperare l’importo “corrispondente alla detrazione non spettante” dal soggetto beneficiario, ed allora nessuna conseguenza negativa vi è nei confronti del cessionario;

2) o l’Erario non riesce a recuperare l’importo “corrispondente alla detrazione non spettante” dal soggetto beneficiario, ed il cessionario non è concorrente nella violazione, ed allora nessuna conseguenza ne deriverebbe per quest’ultimo, che ben potrebbe opporre in compensazione all’Erario il credito oggetto di cessione (comma 6) quando cessino gli effetti del sequestro penale, che non può ritenersi impedito dalle disposizioni dell’art. 121 del d.l. n. 34 del 2020 dal momento che si prevede espressamente (art. 28-ter, d.l. n. 4 del 2022, conv. con modd. in I. n. 25 del 2022) la possibilità di utilizzare il credito solo qualora e quando cessino gli effetti del sequestro penale (da ciò la necessita di rideterminare i termini per il suo utilizzo, che sarebbero inutilmente decorsi per cause non imputabili al cessionario);

3) o, infine, l’Erario non riesce a recuperare l’importo “corrispondente alla detrazione non spettante” dal soggetto beneficiario, ed il cessionario è concorrente nella violazione, ed allora subirebbe il “recupero”, attesa la sua responsabilità solidale, per espressa previsione di legge (comma 6).

In tutte e tre le ipotesi, peraltro, non potrebbe parlarsi di “arricchimento senza causa” secondo la prospettazione difensiva, in quanto il presupposto è comune, ed è costituito dall’esistenza di una “passività” in capo all’Erario derivante proprio dall’inesistenza del credito che, ove lo si ritenesse opponibile in compensazione nonostante la mancanza del suo presupposto costitutivo, genererebbe un indubbio danno alle casse dell’Erario, in quanto si consentirebbe al cessionario di compensare crediti (inesistenti) con quanto (realmente) dovuto al Fisco, con indubbio “arricchimento senza causa”, rovesciando la prospettazione difensiva, proprio a favore del cessionario.

Dunque, l’affermazione difensiva secondo cui, procedendo parallelamente alle due attività di recupero, l’Agenzia delle Entrate perverrebbe al risultato di incamerare due volte lo stesso importo, soffre sia di un errore di qualificazione (il “recupero”, ove il cessionario non sia concorrente nella violazione, tecnicamente riguarda solo l’importo corrispondente alla detrazione non spettante nei confronti dell’originario beneficiario, non potendosi parlare invece di “recupero” rispetto ad un credito di imposta per il quale è solo prevista la possibilità di compensazione), sia di un errore di impostazione, in quanto se l’importo non viene “recuperato”, come – almeno allo stato – risulta dagli atti, è evidente che nessun “arricchimento senza causa”, mutuando l’espressione difensiva, può dirsi realizzato in capo all’Erario, essendo funzionale il sequestro degli inesistenti crediti di imposta alla confisca del profitto derivante dalla commissione del reato, confisca che è inibita nei confronti del terzo estraneo al reato solo ove non abbia ricavato vantaggi ed utilità dal reato e che sia in buona fede (tema, quest’ultimo, su cui si ritornerà, infra).

Perdono, quindi, di spessore argomentativo le conseguenti considerazioni svolte dalla difesa di Poste Italiane S.p.A. circa la possibile frizione di tale soluzione interpretativa con i principi di non contraddizione (che costituisce il fondamento logico-giuridico delle scriminanti), di sussidiarietà (tenuto conto che anche in diritto tributario, oltre che in diritto penale, è illecita la compensazione di un credito, sia esso “non spettante”, sia esso, come nella specie, “inesistente”, ovviamente assumendo rilevanza penale solo quelle condotte di indebita compensazione “sopra soglia”) e di offensività (posto che la compensazione di un credito inesistente o non spettante indubbiamente provoca un danno all’Erario, corrispondente al mancato versamento di un debito di non predeterminata natura per un ammontare corrispondente al credito inesistente o non spettante).

12. Alla luce quindi delle predette considerazioni che pongono il beneficio come rientrante nell’ambito delle agevolazioni e che esso matura nell’ambito del calcolo e della liquidazione dell’imposta, è utile chiedersi in che rapporto si pongono le ipotesi di truffa con i reati tributari e in particolare, con l’art. 10-quater, D.Igs. n. 74/2000.

Se l’iter logico seguito ha un senso, e si muove dal presupposto che il credito d’imposta anche in questa fattispecie sia una agevolazione, allora è senz’altro da ritenere applicabile anche l’art. 10-quater, D.Igs. n. 74 del 2000.

Oltremodo, poi, l’art. 10-quater, D.Igs. n. 74/2000, pone delle chiare differenze di fattispecie criminosa prevista dal comma 1, ovvero quella di utilizzo in compensazione di “crediti non spettanti”, oppure quella recata nel comma 2, afferente l’ipotesi, più grave, dell’utilizzo in compensazione di “crediti inesistenti”, ovviamente a seconda della condotta concreta posta in essere dal contribuente.

Questa stessa Sezione ha del resto evidenziato l’insidiosità della fattispecie di cui all’art. 10-quater, affermando: “come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 35 del 6 dicembre 2017 (depositata il 21 febbraio 2018), con ampi riferimenti all’evoluzione normativa, il delitto di indebita compensazione si differenzia rispetto agli altri delitti in materia di omesso versamento nei casi in cui c’è compatibilità di tali finalità con una uniforme distribuzione dei carichi fiscali e che anche le norme di esenzione o di agevolazione possano, in taluni casi, essere espressione di un principio di ordine generale e superiore” (Sez. 3, sentenza n. 25922 del 17/06/2020 – dep. 11/09/2020, Rv. 280078).

In conclusione, ritiene dunque il Collegio che nel caso in cui il credito è ottenuto fraudolentemente è sicuramente applicabile il comma 2 dell’art. 10-quater D.Igs. n. 74/2000; pertanto, il cessionario che provveda a compensarlo, nonostante la consapevolezza dell’inesistenza del credito medesimo, si espone alla conseguente responsabilità penale.

13. Resta, infine, da esaminare il delicato profilo afferente il tema della buona fede, rilevante in questa sede non solo perché l’intera prospettazione difensiva è fondata sulla dichiarata inesistenza di un “concorso nella violazione” (ex art. 121, comma 6, d.l. n. 34 del 2020), ma anche perché nella specie, si tratta, come anticipato, di un’ipotesi di sequestro funzionale alla confisca ex art. 321, co. 2, c.p.p., che, per poter operare nei confronti del terzo estraneo al reato, richiede che questi non abbia ricavato vantaggi ed utilità dal reato e che non versi in una situazione di buona fede.

Orbene, in relazione a tale profilo, osserva il Collegio come – risultando dagli atti che il cessionario Poste Italiane S.p.A. è stato qualificato dal PM come persona offesa in relazione al delitto di truffa aggravata ai danni di Ente pubblico – ed essendo il sequestro preventivo disposto nel presente procedimento non già a scopo impeditivo ex art. 321, comma primo, cod. proc. pen., quanto, piuttosto, finalizzato alla confisca ex art. 321, comma secondo, cod. proc. pen., rileverebbe indubbiamente lo stato soggettivo della professata buona fede da parte della cessionaria del credito di imposta.

La giurisprudenza di questa Corte è, sul punto, stabile nell’affermare il principio secondo cui in tema di confisca, rientra nella nozione di “persona estranea al reato”, in danno della quale non possono essere confiscate cose o beni ad essa appartenenti ai sensi dell’art. 240, comma terzo, cod. pen., richiamato dall’ultimo comma dell’art. 2641 cod. civ., il soggetto che non ha concorso alla commissione del reato, né ha tratto vantaggio dall’altrui attività criminosa, serbando una con- dotta in buona fede (Sez. 5, n. 42778 del 26/05/2017 – dep. 19/09/2017, Rv. 271441 – 01 che, nella fattispecie, ha riconosciuto l’estraneità dell’istituto bancario ai reati di aggiotaggio e di ostacolo all’attività di vigilanza, di cui era stato incolpato il suo amministratore delegato, in quanto la banca non aveva ricevuto alcun vantaggio, bensì un danno, dall’attività criminosa del suo manager).

Questa stessa Sezione, del resto, ha aderito al predetto orientamento ribadendo che, in tema di sequestro preventivo ai fini di confisca, è persona estranea al reato – nei cui con- fronti non può essere disposta la misura di sicurezza in esame, ai sensi dei commi 2 e 3 dell’art. 240 cod. pen. – il soggetto che non abbia ricavato vantaggi ed utilità dal reato e che sia in buona fede, non potendo conoscere – con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta – l’utilizzo del bene per fini illeciti (Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017 – dep. 14/06/2017, C., Rv. 270250 – 01, in cui questa Corte ha escluso il requisito dell’estraneità nel caso di soggetto, comproprietario di immobile dove si svolgeva attività di prostituzione, che, legato da stretto vincolo parentale all’altro comproprietario che aveva sottoscritto i contratti di locazione, non aveva dato prova di avere ignorato in maniera incolpevole l’utilizzo del bene).

In senso conforme, ancora, si era già in precedenza affermato che, in tema di confisca, è persona estranea al reato – nei cui confronti non può disposta la misura di sicurezza in esame, ai sensi dei commi 2 e 3 dell’art. 240 cod. pen. – il soggetto che non abbia ricavato vantaggi ed utilità dal reato e che sia in buona fede, non potendo conoscere – con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta – il rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato (Sez. 1, n. 29197 del 17/06/2011 – dep. 21/07/2011, Italfondiario S.p.a. e altri, Rv. 250804 – 01, in cui la Corte ha escluso il requisito dell’estraneità nel caso di un istituto bancario che aveva iscritto ipoteca. su di un bene già oggetto di sequestro preventivo, regolarmente trascritto).

14. Tanto premesso, però, è indubbio che il professato stato di buona fede del cessionario del credito debba comunque essere valutato alla luce della situazione di fatto oggetto di accertamento, in base al dettagliato quadro descritto dall’ordinanza in esame.

Vi è peraltro da chiedersi, proprio alla luce del quadro indiziario descritto, alla luce degli elementi di fatto sviluppati dal giudice del riesame, se anche, e soprattutto, alla luce del mutato presupposto giuridico che aveva indotto i giudici del riesame ad accogliere la richiesta di revoca del sequestro proposta dal cessionario Poste Italiane S.p.A. (ossia, in altri termini, alla luce del principio, affermato da questa Corte con la richiamata sentenza che collide invece con l’argomento giuridico accolto dal tribunale del riesame, che ha aderito alla prospettazione difensiva, secondo cui esercitata l’opzione per la cessione del credito, e dunque rinunciato dal beneficiario l’originario diritto alla detrazione, nella misura del 110% delle spese documentate e rimaste a carico, il credito stesso non sorge mai – in capo al cessionario – a titolo originario, essendo anch’esso affetto dal vizio radicale che ha colpito il diritto alla detrazione nella specie non spettante perché fondato su fase fatturazioni per operazioni inesistenti), possa o meno confermarsi quello stato soggettivo di buona fede che aveva indotto i giudici del riesame a ritenere scevro da qualsiasi rimprovero il comportamento complessivo posto in essere da parte del cessionario.

Ciò, lo si noti incidenter tantum, soprattutto alla luce della interpretazione “storica” fornita delle celeberrime Sezioni Unite Bacherotti, che, muovendo dal rilievo che il concetto di “estraneità” fosse stato variamente inteso nella giurisprudenza di legittimità (essendo stato interpretato, talora, nel senso della mancanza di qualsiasi collegamento, diretto o indiretto, con la consumazione del fatto-reato, ossia nell’assenza di ogni contributo di partecipazione o di concorso, ancorché non punibile, e, altre volte, nel senso che non può considerarsi estraneo al reato il soggetto che da esso abbia ricavato vantaggi e utilità), condivisero proprio quest’ultima posizione in quanto sorretta da univoci e convincenti dati interpretativi concorrenti a conformare la portata della nozione di “estraneità al reato” in termini maggiormente aderenti alla precisa connotazione funzionale della confisca, non potendo privilegiarsi la tutela del diritto del terzo allorquando costui abbia tratto vantaggio dall’altrui attività criminosa e dovendo, anzi, riconoscersi la sussistenza, in una simile evenienza, di un collegamento tra la posizione del terzo e la commissione del fatto-reato (Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, Bacherotti, Rv. 213511).

15. Ed allora, proprio alla stregua di tale autorevole insegnamento, non può sottacersi il fatto che, nella disciplina del Decreto rilancio, il cessionario dei crediti di imposta che provveda alla monetizzazione del credito al cedente, anzitutto con- segue indubbiamente un vantaggio economico dalla cessione del credito di imposta.

Ed infatti, i crediti vengono ceduti ad un valore inferiore rispetto al valore nominale, e ciò determina un indubbio utile in capo al cessionario, atteso che quest’ultimo “acquista” il credito di imposta, monetizzandolo al cedente, ad un valore notevolmente inferiore rispetto a quello nominale del credito ceduto, realizzando così un utile sui singoli crediti acquistati.

Ed allora, proprio alla luce di tali considerazioni, è indubbio che la posizione del cessionario che lucra un vantaggio consistente dall’operazione di cessione, in applicazione del predetto principio fissato dalle Sezioni Unite, sia quella di un soggetto difficilmente qualificabile – agli effetti del sequestro e della successiva confisca – come persona “estranea al reato”, proprio perché il cessionario del credito di imposta trae vantaggio dall’altrui attività criminosa, dovendo, anzi, riconoscersi la sussistenza, in una simile evenienza, di un collegamento tra la posizione del terzo e la commissione del fatto-reato.

16. Né, peraltro, potrebbe assumere rilievo dirimente la circostanza, richiamata nel provvedimento impugnato e sostenuta dalla difesa del cessionario Poste Italiane S.p.A., secondo cui nessun profilo di negligenza avrebbe potuto essere attribuito al cessionario, non attribuendo originariamente le disposizioni del Decreto rilancio al cessionario il compito di effettuare controlli circa l’effettiva spettanza del beneficio fiscale in capo al soggetto che, comunicando con l’Agenzia delle Entrate l’esercizio di una delle opzioni concesse dall’art. 121 citato, determina(va) la creazione di un corrispettivo credito di imposta cedibile, ponendosi peraltro un simile onere in contrasto con le finalità perseguite dalla norma, aggiungendosi del resto che in ogni caso l’attivazione dei presidi antiriciclaggio avrebbe consentito a Poste Italiane S.p.A. di rilevare talune anomalie nell’operatività connessa alla cessione dei crediti di imposta da parte di taluno degli indagati, in particolare nella fase successiva alla cessione del credito, anomalie segnalate all’UIF con dieci di- verse segnalazioni, la prima risalente al 9.07.2021.

Ed invero, l’idoneità di tali interventi andrebbe valutata alla luce delle indicazioni che già l’UIF (Unità di Informazione Finanziaria) della Banca d’Italia (istituita dal d.lgs. n. 231/2007, in conformità di regole e criteri internazionali che prevedono la presenza in ciascuno Stato di una Financial Intelligence Unit, dotata di piena autonomia operativa e gestionale, con funzioni di contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo), aveva rivolto agli operatori soggetti al rispetto della normativa antiriciclaggio (tra cui vi rientra anche Poste Italiane S.p.A.).

Sul punto, occorre anzitutto ricordare che l’articolo 1, comma 2, lettera hh), del d.lgs. n. 231/2007, modificato dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 90 (d.lgs. n. 231/2007 o decreto antiriciclaggio), definisce le “Pubbliche amministrazioni” come “le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, gli enti pubblici nazionali, le società partecipate dalle amministrazioni pubbliche e dalle loro controllate, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dall’Unione europea nonché i soggetti preposti alla riscossione dei tributi nell’ambito della fiscalità nazionale o locale, quale che ne sia la forma giuridica”, donde nessun dubbio sussiste in ordine alla individuazione, quale destinatario della predetta normativa antiriciclaggio, anche di Poste Italiane S.p.A., impresa pubblica controllata da Cassa Depositi e Prestiti e dal Ministero dell’economia e delle finanze.

A tale disposizione, fa da pendant il successivo articolo 10, comma 4, del d.lgs. 231/2007, in base al quale, al fine di consentire lo svolgimento di analisi finanziarie mirate a far emergere fenomeni di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, le Pubbliche amministrazioni definite in base ai commi 1 e 2 del medesimo articolo comunicano all’Unità di informazione finanziaria per l’Italia (UIF) dati e informazioni concernenti le operazioni sospette di cui vengano a conoscenza nell’esercizio della propria attività istituzionale.

La UIF, in apposite istruzioni, adottate sentito il Comitato di sicurezza finanziaria (infra, CSF), individua i dati e le informazioni da trasmettere, le modalità e i termini della relativa comunicazione nonché gli indicatori per agevolare la rilevazione delle operazioni sospette.

A tal proposito erano state emanate le “Istruzioni sulle comunicazioni di dati e informazioni concernenti le operazioni sospette da parte degli uffici delle Pubbliche Amministrazioni” in data 23 aprile 2018, pubblicate nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana (G.U. Serie Generale n.269 del 19.11.2018), aggiornate periodicamente al fine di integrare gli indicatori di anomalia per l’individuazione delle operazioni sospette, tenendo conto dell’articolazione delle Pubbliche amministrazioni e degli esiti della mappatura e valutazione dei rischi di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo di cui all’art. 10, comma 3, del decreto antiriciclaggio.

Per espressa previsione dell’art. 12, co. 2, peraltro “I comunicati che riportano istruzioni operative sul contenuto della comunicazione, sul tracciato elettronico nonché sull’accesso e sull’utilizzo della procedura sono pubblicati e periodicamente aggiornati sul sito intemet della UIF”.

Orbene, ai fini che qui rilevano, proprio per mettere in guardia le predette “Pubbliche Amministrazioni” dai rischi di operazioni fraudolente collegate al meccanismo del c.d. Superbonus 110%, l’UIF è intervenuta, anzitutto, con una prima Comunicazione del 16 aprile 2020, in cui veniva richiamata l’attenzione su alcuni fattori di rischio ed elementi sintomatici di possibili operatività illecite venuti in evidenza nel corso della pandemia, anche grazie al confronto tra istituzioni nazionali e nell’ambito di organismi internazionali.

Era stato a tal uopo richiamato il pericolo di truffe, di fenomeni corruttivi, di possibili manovre speculative, nonché il rischio di usura, di acquisizione diretta o indiretta delle imprese da parte di organizzazioni criminali; ulteriori indicazioni avevano riguardato il ricorso a tentativi di sviamento e appropriazione, anche mediante condotte collusive, possibili abusi sia nella fase di accesso al credito garantito dalle diverse forme di intervento pubblico sia in sede di utilizzo delle risorse disponibili, come pure il pericolo di azioni illegali realizzate on line.

Con una successiva Comunicazione dell’11 febbraio 2021 (anch’essa antecedente ai fatti oggetto del presente giudizio), l’UIF aveva ulteriormente sollecitato gli operatori del settore finanziario e creditizio a svolgere una più penetrante attività di controllo e di vigilanza proprio con riferimento alla procedura di cessione del credito di imposta introdotto dal Decreto rilancio.

Sul punto, in particolare, si legge nel predetto Comunicato quanto segue:

“2. Nell’ambito delle misure previste per contenere gli effetti della pandemia, il riconoscimento di detrazioni fiscali a fronte dell’esecuzione di specifici interventi si accompagna alla possibilità di cedere in maniera generalizzata i relativi crediti di imposta, al fine di agevolarne la monetizzazione.

In relazione a detti crediti vanno considerati i rischi connessi con:

i) l’eventuale natura fittizia dei crediti stessi;

ii) la presenza di cessionari dei crediti che pagano il prezzo della cessione con capitali di possibile origine illecita;

iii) lo svolgimento di abusiva attività finanziaria da parte di soggetti privi delle prescritte autorizzazioni che effettuano plurime operazioni di acquisto di crediti da un’amplia platea di cedenti.

In merito al punto sub i), negli schemi rappresentativi di comportamenti anomali concernenti operatività connesse con illeciti fiscali, pubblicati dalla UIF il 10 novembre 2020, è stato evidenziato che le cessioni di crediti vantati nei confronti dell’Erario possono essere oggetto di condotte fraudolente collegate a crediti di natura fittizia indebitamente compensati con debiti tributari, oneri contributivi e premi realmente dovuti dai cessionari.

Nello schema D sono state, in particolare, delineate le anomalie più ricorrenti e significative dal punto di vista del profilo soggettivo dei cedenti e/o cessionari dei crediti (ndr: a tal proposito, riportandosi in nota 3, a titolo esemplificativo, gli indici concernenti le caratteristi- che dell’impresa cedente o cessionaria: costituita o divenuta operativa di recente, con forme giuridiche flessibili e semplici, prive di strutture organizzative reali, coinvolte in plurime cessioni di crediti/accolli di debiti, con frequenti variazioni nella compagine proprietaria e/o amministrativa o con soci e/o esponenti di dubbia reputazione o che appaiono come prestanome, ecc.) e da quello oggettivo dei comportamenti rilevati (ndr: a tal proposito puntualizzandosi in nota 4 come “È stato tra l’altro fatto riferimento a rapporti alimentati in via esclusiva o prevalente dal corrispettivo di contratti di cessione di crediti fiscali; alla stipula di ripetuti contratti di cessione di crediti fiscali o di rami d’azienda costituiti in via pressoché esclusiva da detti crediti, spesso nella medesima giornata e con la ricorrenza dei medesimi soggetti; ad anomalie concernenti il coinvolgimento di professionisti, le condizioni economiche pattuite per la cessione del credito fiscale (prezzo notevolmente inferiore al valore nominale del credito, modalità di riscossione del prezzo notevolmente vantaggiose per il cessionario) o l’impiego del corrispettivo da essa derivante (bonifici verso l’estero, trasferimenti in favore di soggetti collegati, operazioni inerenti all’acquisto di valute virtuali). Il credito fittizio può essere poi utilizzato per il conferimento di capitale in società di nuova costituzione”).

Con riguardo ai crediti di imposta ora riconosciuti sulla base delle misure temporanee introdotte dalla legislazione emergenziale, è quindi importante tenere conto delle predette indicazioni e valorizzare l’intervento dei professionisti cui compete il rilascio di visti di conformità e asseverazioni, allo scopo di intercettare eventuali sospetti di comportamenti funzionali alla creazione artificiosa dei medesimi crediti.

Per quanto concerne i punti sub il) e iii), si consideri che i bonus fiscali possono essere fruiti, oltre che sotto forma di detrazione dalle imposte dovute o di sconto rispetto al corrispettivo da pagare ai fornitori di beni o servizi (cd. sconto in fattura), anche cedendo a terzi il credito corrispondente alla detrazione spettante.

Non sono stabilite limitazioni al numero di cessioni né alla tipologia di cessionari ammissibili; la cessione può quindi avvenire in favore sia di banche e intermediari finanziari sia di altri soggetti non puntualmente identificati, quali fornitori di beni e di servizi necessari alla realizzazione degli interventi, persone fisiche, anche esercenti attività di lavoro autonomo o d’impresa, società ed enti.

Ne deriva l’esigenza di monitorare le operatività connesse con le richiamate cessioni di crediti fiscali, al fine di evitare che la monetizzazione dei bonus sia realizzata con capitali illeciti.

Occorre in particolare calibrare la profondità e l’intensità dei presidi antiriciclaggio, valutando con attenzione il profilo degli eventuali cessionari che entrano in relazione con i soggetti obbligati, intensificando i controlli rispetto a richieste di sconto di crediti acquistati in precedenza, soprattutto se in misura massiva.

Va inoltre attentamente considerata la circostanza che società o enti siano specificamente costituiti allo scopo di essere impiegati nelle cessioni di crediti fiscali; è possibile che attività della specie siano offerte con carattere di professionalità e a una pluralità indifferenziata di soggetti (per esempio attraverso la costituzione di appositi siti web o la diffusione di messaggi promozionali anche a mezzo di social network) tanto da destare il sospetto che esse siano esercitate nei confronti del pubblico in assenza delle prescritte autorizzazioni (omissis)”.

17. Innegabile, dunque, è che l’UIF della Banca d’Italia avesse messo in guardia gli operatori del settore finanziario e creditizio verso possibili fenomeni fraudolenti collegati alla cessione dei crediti di imposta secondo la procedura del Decreto rilancio, fornendo puntuali istruzioni operative in materia, segnatamente delineando le anomalie più ricorrenti e significative dal punto di vista del profilo soggettivo dei cedenti e/o cessionari dei crediti e da quello oggettivo dei comportamenti rilevati, anomalie la gran parte delle quali rilevate nella vicenda oggetto di esame nel presente procedimento, per come descritta nella stessa ordinanza impugnata.

Si noti, tuttavia, come tali attività di vigilanza (a prescindere dai contenuti del decreto Rilancio, non rilevando la circostanza che l’art. 121, comma 4, d.l. n. 34 del 2020, prevedesse che l’Agenzia delle entrate “nell’ambito dell’ordinaria attività di controllo procede, in base a criteri selettivi e tenendo anche conto della capacità operativa degli uffici, alla verifica documentale della sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione d’imposta di cui al comma 1”, senza menzionare i cessionari) erano comunque imposte al cessionario dalla normativa antiriciclaggio ex D.Igs. n. 231 del 2007, e, soprattutto, erano richieste dall’UIF ed avrebbero dovuto svolgersi secondo le istruzioni operative di cui alla richiamata Comunicazione dell’11 febbraio 2021 “intensificando i controlli rispetto a richieste di sconto di crediti acquistati in precedenza”, ciò presupponendo dunque lo svolgimento di attività di controllo preventivo e non già successivo alla monetizzazione dei crediti ceduti, come invece sembrerebbe dalla stessa documentazione prodotta da Poste Italiane S.p.A., che ha evidenziato come l’attivazione dei controlli antiriciclaggio avesse consentito di rilevare talune ano- malie nell’operatività connessa alla cessione dei crediti di imposta da parte di taluno degli indagati, in particolare nella fase “successiva” alla cessione del credito, anomalie segnalate all’UIF con dieci diverse segnalazioni, la prima risalente al 9.07.2021, dunque successiva non solo alla Comunicazione dell’Il febbraio 2021, ma successiva, come sembrerebbe, anche alla cessione dei crediti d’imposta, in violazione delle indicazioni provenienti dall’UIF.

18. Alla luce dei predetti rilievi, pertanto, il giudice del rinvio dovrà risolvere la quaestio iuris relativa al mantenimento o meno del vincolo reale, atteso che la restituzione del bene potrà avvenire solo laddove gli elementi di conoscenza di­sponibili portino alla qualificazione della sua posizione in termini di “persona estra­nea” al reato, ossia una condizione di effettiva “distanza” dalla condotta illecita, con possibile rilievo anche di atteggiamenti antidoverosi di tipo colposo, dovendosi ulteriormente richiamare, a sostegno di tale assunto, quanto già affermato da questa Corte (Cass., 3, n. 29586 del 17 febbraio 2017), secondo cui è persona estranea al reato – nei cui confronti non può essere disposta la confisca, ai sensi dell’art. 240 c.p., commi 2 e 3 – il soggetto che non abbia ricavato vantaggi ed utilità dal reato e che sia in buona fede, non potendo conoscere – con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta – l’utilizzo del bene per fini illeciti.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al tribunale di Parma competente ai sensi dell’art. 324, co. 5, c.p.p.

Così deciso, il 16 novembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 1° dicembre 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.