TFS lavoratori pubblici: differenza di disciplina. Non si applica la prescrizione decennale per il TFR lavoratori privati (Corte Costituzionale, Sentenza 20 dicembre 2022, n. 258).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Daria de PRETIS;

Giudici: Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30, commi primo, lettera b), e secondo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), promosso dalla Corte d’appello di Roma, quarta sezione lavoro, nel procedimento vertente tra A. P. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 27 aprile 2021, iscritta al n. 118 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 novembre 2022 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;

uditi l’avvocato Piera Messina per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 22 novembre 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza iscritta al n. 118 del registro ordinanze 2021, la Corte d’appello di Roma, quarta sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30, commi primo, lettera b), e secondo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), «nella parte in cui sia applicabile all’errore di calcolo determinato da fatto imputabile all’amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente».

Il Collegio rimettente riferisce di dover decidere, in grado di appello, sulla domanda azionata da A. P., già professore associato presso l’Università «La Sapienza» di Roma, che ha contestato una pretesa restitutoria avanzata, nei suoi confronti, dall’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS). Cessato dal servizio in data 1° novembre 2011, A. P. aveva ottenuto dall’INPS la liquidazione del trattamento di fine servizio con provvedimenti dell’8 febbraio e del 1° marzo 2012. Successivamente, con lettera del 12 aprile 2017, l’INPS gli aveva tuttavia comunicato di aver proceduto alla riliquidazione del trattamento, con conguaglio a suo debito pari ad euro 75.509,64, in quanto l’Università (come da missive in data 1° e 10 marzo 2017) aveva dovuto rideterminare i compensi erogati in costanza del rapporto di lavoro.

Nel contestare la pretesa restitutoria dell’INPS, A. P. aveva sostenuto, preliminarmente, l’intervenuta decadenza del potere di modifica, per effetto della scadenza del termine annuale previsto dall’art. 30, secondo comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973. In primo grado, tuttavia, il Tribunale di Roma aveva rigettato tale «eccezione», sostenendo che il dies a quo di quel termine si sarebbe dovuto individuare, per il caso in esame, nel giorno in cui l’amministrazione di appartenenza aveva comunicato all’INPS i nuovi dati retributivi rettificati. Con il primo motivo di appello, A. P. si è doluto pertanto dell’errata individuazione del dies a quo, sostenendo che il termine annuale decorre (come precisa il dettato normativo) «dalla data di emanazione» del provvedimento errato.

Richiamato il contenuto delle norme sottoposte a censura (le quali, precisa il rimettente, avrebbero «valore di legge ordinaria, in quanto emanat[e] ai sensi dell’art. 6 della L. n. 775/1970, che delegò il Governo ad emanare testi unici […] espressamente “aventi valore di leggi ordinarie”»), il giudice a quo ricostruisce il panorama normativo di riferimento, osservando che, ai sensi dell’art. 26, secondo comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973, ai fini della liquidazione dell’indennità di buonuscita, l’amministrazione di appartenenza del dipendente trasmette all’ente previdenziale un «progetto di liquidazione». Nel caso in cui «vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo di riscatto o nel calcolo dell’indennità di buonuscita o dell’assegno vitalizio» (così l’art. 30, primo comma, lettera b, del medesimo d.P.R.), l’art. 30, secondo comma, stabilisce che «il provvedimento è revocato, modificato o rettificato non oltre il termine di un anno dalla data di emanazione».

Osserva il rimettente che il terzo comma dell’art. 30 individua, poi, un diverso termine di decadenza (pari a «sessanta giorni dalla ricevuta comunicazione dell’amministrazione statale») per l’ipotesi prevista dall’art. 26, sesto comma, del medesimo d.P.R., che si riferisce alle «[e]ventuali modifiche relative a provvedimenti dell’amministrazione statale, che comportino variazioni concernenti l’indennità di buonuscita già erogata» (modifiche che, precisa la norma, «saranno comunicate all’amministrazione del Fondo di previdenza, ai fini del pagamento di supplementi dell’indennità predetta ovvero del recupero, mediante trattenute sul trattamento di quiescenza, delle somme non dovute»).

La fattispecie così descritta dall’art. 26, sesto comma, tuttavia, non corrisponderebbe a quella oggetto del giudizio a quo, perché essa – a giudizio del Collegio rimettente – si riferirebbe «a modifiche dei provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza adottati come “datore di lavoro”», destinati cioè ad incidere «sul rapporto di lavoro (ad esempio una ricostruzione di carriera)», dai quali derivi una diversa quantificazione dell’indennità di buonuscita. Tale interpretazione sarebbe suffragata dal verbo «comportino» utilizzato dalla disposizione in esame.

Nel caso di specie, osserva il rimettente, l’errore nella liquidazione «è dipeso proprio da un errore commesso a suo tempo dall’Università – a rapporto di lavoro del P. ormai estinto – nell’elaborazione del “progetto di liquidazione” del t.f.s.». Esso è derivato, si precisa, da un’errata quantificazione dell’indennità di perequazione, di cui all’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali). In altri termini, il provvedimento correttivo adottato dall’Università costituirebbe «un diverso “progetto di liquidazione”», al quale tornerebbe ad essere applicabile il regime previsto dai primi due commi dell’art. 30 del d.P.R. n. 1032 del 1973, con conseguente termine annuale di decadenza.

Né, secondo il rimettente, potrebbe accedersi alla tesi, «sostenuta da una parte della giurisprudenza capitolina di merito», secondo cui il potere di rettifica dell’INPS, di cui al predetto art. 30, sarebbe limitato ai soli “errori di fatto”, con esclusione di quelli “di diritto” (i quali resterebbero, pertanto, imputabili all’INPS senza possibilità di rimedio). Ciò in quanto la «nozione omnicomprensiva» dell’art. 30 abbraccerebbe, secondo il rimettente, tutti gli errori «“a valle”», indipendentemente dalle ragioni «“a monte”» (di fatto o di diritto) che possano averli determinati.

Ne deriverebbe la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, «in quanto dalla [loro] soluzione dipende l’esito dell’appello e, in particolare, del suo primo motivo, avente carattere preliminare e assorbente».

Così ricostruita «l’astratta applicabilità» del citato art. 30, il giudice a quo passa a esporre i dubbi di illegittimità costituzionale che fonderebbero il requisito della non manifesta infondatezza.

La prima censura involge l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto al lavoro subordinato privato e alle «altre tipologie previste per il pubblico impiego». Per le fattispecie così richiamate, assume il rimettente, troverebbe applicazione la disciplina dell’indebito oggettivo (art. 2033 del codice civile), sottoposta all’ordinario termine di prescrizione decennale (e non, dunque, al termine di decadenza annuale).

Ed anzi – sottolinea il rimettente – assumerebbe rilevanza la circostanza che, nel pubblico impiego, non vi è coincidenza tra soggetto obbligato a pagare il trattamento di fine servizio e datore di lavoro (coincidenza che, invece, sussiste nel lavoro privato), sicché l’imposizione di un termine di decadenza a carico del primo, ossia l’ente previdenziale, per eventuali rettifiche disposte tardivamente dal secondo, «si rivela irragionevole, in quanto pone il debitore (INPS) alla mercé dei possibili errori e/o omissioni del datore di lavoro». Nonostante l’inerzia rilevante, ai fini della decadenza, sia quella di quest’ultimo, la conseguenza ricade a danno dell’INPS, che non è messo nelle condizioni «di recuperare l’eccedenza corrisposta illegittimamente per errore, anche di diritto, dipeso da un fatto ad esso non imputabile». In tal caso, pur essendo salvo il diritto dell’istituto previdenziale di chiedere il risarcimento del danno all’amministrazione di appartenenza dell’ex dipendente, tale rimedio, «pur laddove configurabile, non escluderebbe l’irragionevolezza della disparità di trattamento e, quindi, la violazione dell’art. 3 Cost.».

Il rimettente passa poi ad esporre il dubbio di illegittimità costituzionale incentrato sull’art. 97 Cost., sostenendo la violazione del «principio di buona amministrazione» – «e, quindi, di buona gestione del pubblico danaro» istituzionalmente affidato all’ente previdenziale – derivante da un regime, quale quello in esame, «che tuteli esclusivamente l’affidamento del beneficiario del t.f.s., senza alcuna giustificazione legata alle peculiarità del suo rapporto di pubblico impiego». Si evidenzia nuovamente che «per altre categorie di pubblici dipendenti (come quelli degli enti locali), nonché per i dipendenti privati, l’ordinamento giuridico non prevede alcun termine di decadenza, ma solo quello ordinario di prescrizione».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.

La difesa erariale, preliminarmente, eccepisce l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 97 Cost., per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Ciò, in quanto il ritenuto contrasto con tale parametro costituzionale sarebbe affermato dal giudice remittente in maniera del tutto generica, in particolare senza specificare «se la violazione del principio di buon andamento sia riferibile all’organizzazione dei pubblici uffici sub specie degli uffici previdenziali, ovvero all’apparato burocratico». L’ordinanza di rimessione non chiarirebbe «a quale norma contenuta nell’art. 97 Cost.» essa intenda far riferimento, ciò che impedirebbe «l’immediata percezione dei precetti costituzionali che si assumono violati». In ogni caso, risulterebbero richiamati in modo del tutto generico i principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.

Un’ulteriore eccezione di inammissibilità coinvolge poi entrambi i profili di censura sollevati dal rimettente in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. Secondo la difesa erariale, il giudice rimettente avrebbe omesso la ricerca di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina in esame, non avendo affrontato, se non in modo estremamente sommario, l’esame di «diverse opzioni ermeneutiche» della norma, ed anzi, pur avendo richiamato un orientamento giurisprudenziale «all’apparenza consolidato», se ne sarebbe discostato, tuttavia omettendo «di esplorare anche altre interpretazioni, per cercarne una più aderente ai parametri stessi». In particolare, si rimprovera al Collegio rimettente di aver omesso di accertare «la natura e la funzione dell’ipotesi di decadenza prevista dall’art. 26, sesto comma, d.P.R. n. 1032 del 1973» e di non aver esplicitato il ragionamento che l’ha condotto a ritenere che l’utilizzo, da parte della norma, della forma verbale «comportino» si riferisca solo alle modifiche dei provvedimenti adottati dall’amministrazione come “datore di lavoro”, e che, quindi, incidono sul rapporto di lavoro. Quest’ultima conclusione, «all’apparenza contraria alla lettera della legge», non sembrerebbe «corroborata da alcun chiarimento ulteriore rispetto all’argomento supra riferito», in definitiva rimanendo sorretta da un iter logico-argomentativo poco chiaro.

Nel merito, le censure sollevate dal rimettente sarebbero comunque non fondate.

Quanto a quella ex art. 3 Cost., sarebbe la stessa Corte rimettente a costruire una possibile soluzione, laddove essa ha enunciato l’ipotesi che l’INPS chieda all’amministrazione di appartenenza dell’ex dipendente il risarcimento del danno: si tratterebbe di «un’alternativa alla tutela del diritto dell’ente previdenziale al recupero di quanto indebitamente corrisposto, diversa dalla declaratoria di incostituzionalità della disposizione comminante la decadenza».

Inoltre, l’identificazione, quale tertium comparationis, del rapporto di lavoro subordinato privato non si confronterebbe con l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale quella tipologia di lavoro non può completamente assimilarsi al lavoro pubblico. Il principio di uguaglianza – osserva la difesa erariale – postula l’omogeneità delle situazioni giuridiche messe a confronto e non potrebbe, pertanto, essere invocato in presenza di situazioni intrinsecamente eterogenee. Né – sotto altro profilo – sarebbe riscontrabile una piena coincidenza tra il trattamento di fine servizio e l’indennità premio di servizio che è corrisposta, all’atto della cessazione dal servizio, ai dipendenti degli enti locali, del Servizio sanitario nazionale e degli altri enti iscritti al fondo di previdenza ex Istituto nazionale per i dipendenti degli enti locali (INADEL).

Quanto, poi, alla censura ex art. 97 Cost., a parere dell’Avvocatura generale dello Stato le argomentazioni addotte dal rimettente ridondano nella violazione dell’art. 3 Cost., e, dunque, per esse possono valere le medesime osservazioni di cui si è già riferito. Di seguito, comunque, la difesa erariale passa a confutare l’argomento dell’ordinanza di rimessione secondo cui (come si legge nell’atto di intervento) «la decadenza disposta dalla norma tutela esclusivamente l’affidamento del beneficiario del tfs», e osserva che simile ragionamento non si confronta con la giurisprudenza costituzionale «che ha costantemente riconosciuto il valore del legittimo affidamento, che trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost.». Tale giurisprudenza – evidenzia la difesa erariale – ha escluso che l’interesse al contenimento della spesa pubblica sia sufficiente, da solo, a sacrificare l’affidamento del privato. Nel caso di specie, non emergerebbero «situazioni di gravità» tali da imporre la prevalenza del principio di buona amministrazione.

Infine, si osserva (con argomento che è comune ad entrambe le censure di illegittimità costituzionale), che la Corte d’appello rimettente sarebbe incorsa in un’errata interpretazione dell’art. 26, sesto comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973, che andrebbe inteso nel senso di riferirsi a «un qualunque provvedimento dell’amministrazione cui appartiene il dipendente che abbia come conseguenza una variazione dell’indennità di buonuscita». In aderenza a quanto sostenuto anche dalla giurisprudenza amministrativa (è citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 26 giugno 2012, n. 3748), quella disposizione è applicabile al caso di specie poiché il termine decadenziale può iniziare a decorrere soltanto dal momento in cui l’ente previdenziale acquisisce i dati corretti per effettuare i calcoli ai fini della determinazione dell’indennità di buonuscita.

3.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito l’INPS, concludendo per l’ammissibilità e la fondatezza delle questioni sollevate dalla Corte d’appello di Roma.

L’Istituto ricostruisce anzitutto i fatti oggetto del giudizio a quo, evidenziando che, con un primo prospetto di liquidazione (comunicato, nel 2011, dall’Università di Roma), era stata indicata, quale parametro stipendiale, utile ai fini della liquidazione, la somma di euro 100.428,16, con conseguente importo dell’indennità di buonuscita pari ad euro 260.882,49.

Successivamente, a seguito del nuovo prospetto di liquidazione (comunicato nel 2017), era stata fornita ad esso una nuova e diversa base contributiva dell’indennità spettante a A. P., come rielaborata a seguito di nuovi dati acquisiti in data 13 febbraio 2017, che risultava inferiore a quella precedentemente comunicata. A seguito della conseguente riliquidazione dell’indennità di buonuscita, era emerso un importo negativo pari ad euro 75.509,64.

In diritto, l’INPS ritiene condivisibili le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione. Al caso di specie non sarebbe applicabile l’art. 26, sesto comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973, trattandosi di norma «riferibile unicamente a provvedimenti della amministrazione di appartenenza dell’iscritto, adottati in qualità di datore di lavoro, e che quindi incidano in modo diretto ed immediato sul rapporto di servizio come, ad esempio, una ricostruzione di carriera».

Il raggio di applicazione di tale norma, in altri termini, sarebbe limitato solo alle «ipotesi in cui venga modificato non il prospetto di liquidazione quanto un provvedimento datoriale che a sua volta comporti una modifica del prospetto di liquidazione della indennità di buonuscita». Tale sarebbe «il solo significato logico, prima ancora che giuridico, del predicato verbale “comportino” contenuto nella disposizione in rassegna». Al caso di specie, piuttosto, sarebbe applicabile l’art. 30 del medesimo d.P.R., con il termine di decadenza annuale.

Ciò premesso, a parere dell’INPS la censura riferita alla violazione dell’art. 3 Cost. troverebbe il tertium comparationis «in tutte le altre prestazioni previdenziali di Trattamento di fine servizio e/o di fine rapporto previste dal nostro ordinamento giuridico», per le quali l’azione di recupero di somme indebitamente corrisposte è sempre assoggettata all’ordinario termine di prescrizione.

Ciò varrebbe anche per i dipendenti del comparto Stato assunti dopo la data del 31 dicembre 2000, per i quali trova oggi applicazione il regime del trattamento di fine rapporto ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti).

Di conseguenza, emergerebbe una disparità di trattamento anche tra i dipendenti statali assunti prima del 31 dicembre 2000 (per i quali vale il regime dell’indennità di buonuscita di cui al d.P.R. n. 1032 del 1973, con il termine di decadenza) e quelli assunti successivamente (per i quali, invece, vale il diverso regime del trattamento di fine rapporto, senza alcuna decadenza, ma solo con il termine ordinario di prescrizione). Né tale disparità potrebbe ritenersi giustificata dal solo naturale fluire del tempo.

In tale quadro, la previsione del termine di decadenza annuale sarebbe irrazionale e illogica, posto che l’istituto previdenziale vede preclusa la propria azione di ripetizione per fatto imputabile solo all’amministrazione statale datrice di lavoro. Del resto, si fa notare, l’INPS, nel calcolare la liquidazione dei trattamenti di fine servizio, provvede sulla scorta dei dati economici e giuridici che gli sono forniti dall’amministrazione (che trasmette il «progetto di liquidazione», ai sensi dell’art. 26, secondo comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973).

Fondata sarebbe anche la censura di cui all’art. 97 Cost., in quanto l’azione di recupero di somme indebitamente erogate «rappresenta il corollario del fondamentale interesse alla corretta gestione del pubblico denaro che, a sua volta, è l’estrinsecazione del principio costituzionale di buona amministrazione», come più volte sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa.

Considerato in diritto

1.– La Corte d’appello di Roma, quarta sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30, commi primo, lettera b), e secondo, del d.P.R. n. 1032 del 1973, «nella parte in cui sia applicabile all’errore di calcolo determinato da fatto imputabile all’amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente», per violazione degli artt. 3 e 97 Cost.

Le disposizioni censurate consentono all’istituto previdenziale di revocare, modificare o rettificare d’ufficio i provvedimenti di liquidazione, afferenti alle prestazioni previdenziali disciplinate dal testo unico del 1973, e ne fissano, all’uopo, sia le condizioni, sia la tempistica.

In particolare, a norma del primo comma dell’art. 30, la revoca, la modifica o la rettifica sono consentite quando:

«a) vi sia stato errore di fatto o si sia omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti;

b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo di riscatto o nel calcolo dell’indennità di buonuscita o dell’assegno vitalizio;

c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l’emissione del provvedimento;

d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi».

Per le ipotesi di cui alle lettere a) e b), il secondo comma dell’art. 30 stabilisce che la revoca, la modifica o la rettifica possono intervenire «non oltre il termine di un anno dalla data di emanazione». Per le ipotesi di cui alle lettere c) e d), invece, la medesima disposizione stabilisce che «il termine è di sessanta giorni dal rinvenimento di documenti nuovi o dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità dei documenti».

A giudizio del rimettente, dette previsioni violerebbero anzitutto l’art. 3 Cost., sotto il profilo di un’irragionevole disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra gli impiegati pubblici in regime di trattamento di fine servizio (TFS), per i quali vale il regime di rettifica appena menzionato, e le altre categorie di lavoratori che risultano assoggettate al diverso regime del trattamento di fine rapporto (TFR), nonché di impiegati pubblici che beneficiano di diverse tipologie di indennità di fine servizio (come ad esempio l’indennità premio di servizio dei dipendenti degli enti locali). Per tali categorie di lavoratori, indicate dal rimettente quali tertia comparationis, l’ordinanza di rimessione osserva che l’eventuale eccedenza dell’importo liquidato, rispetto a quello effettivamente spettante a seguito di un provvedimento di rettifica, «può sempre essere chiest[a] in ripetizione secondo la disciplina dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.), sottoposto unicamente all’ordinario termine decennale di prescrizione».

Sotto un diverso profilo, il rimettente denuncia la violazione dell’art. 97 Cost., in quanto il descritto regime di rettifica del TFS, che tutela esclusivamente l’affidamento del beneficiario, si paleserebbe «contrario al principio di buona amministrazione di un ente pubblico previdenziale, e, quindi, di buona gestione del pubblico danaro, istituzionalmente affidato a quell’ente», senza che ciò possa trovare «alcuna giustificazione legata alle peculiarità del rapporto di pubblico impiego.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, ha eccepito l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 97 Cost. per difetto di motivazione sul requisito della non manifesta infondatezza, in quanto l’ordinanza di rimessione sarebbe, sul punto, «del tutto generica», omettendo di precisare se la violazione del principio di buon andamento debba riferirsi all’organizzazione dei pubblici uffici, sub specie degli uffici previdenziali, «ovvero all’apparato burocratico». La difesa erariale ha, inoltre, eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. per omessa ricerca, da parte della Corte d’appello, di una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina della cui legittimità costituzionale si dubita e, in particolare, per aver omesso di accertare la natura e la funzione dell’ipotesi di decadenza prevista dall’art. 26, sesto comma, d.P.R. n. 1032 del 1973 (ipotesi che, a parere della difesa erariale, dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie).

2.1.– Nessuna delle due eccezioni è fondata.

2.1.1.– Sotto il primo profilo, non appare affatto generica la motivazione resa dal rimettente sul parametro di cui all’art. 97 Cost. Egli si è riferito, invero, al principio di buona amministrazione dell’ente previdenziale e ha richiamato la «buona gestione del pubblico danaro, istituzionalmente affidato a quell’ente». Tali riferimenti sono compiuti con immediato collegamento alla tematica del legittimo affidamento di colui che ha già percepito le somme liquidate dall’amministrazione e sono volti a sottolineare la (ritenuta) esclusiva protezione, da parte delle norme censurate, dell’interesse del percettore, a totale discapito del contrapposto interesse pubblico, ritenuto insito nell’art. 97 Cost., volto al recupero delle somme indebite. I contorni della censura, pertanto, sono ben chiari.

2.1.2.– Sotto il secondo profilo, vi è da rilevare che l’ordinanza di rimessione ha considerato espressamente la possibilità di applicare, nel caso di specie, la diversa causa di decadenza collegata alla disposizione di cui all’art. 26, sesto comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973 (che si riferisce al provvedimento di rettifica dell’INPS derivante da «modifiche relative a provvedimenti dell’amministrazione statale, che comportino variazioni concernenti l’indennità di buonuscita già erogata» e che si produce, come prevede l’art. 30, ultimo comma, alla scadenza del termine di sessanta giorni decorrente «dalla ricevuta comunicazione dell’amministrazione statale»), ma l’ha esclusa sulla base di una motivazione non implausibile. In punto di rilevanza, il rimettente ha infatti ritenuto che la previsione dell’art. 26, sesto comma, «si riferisce a modifiche dei provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza adottati come “datore di lavoro”», come tali quindi incidenti in via immediata e diretta «sul rapporto di lavoro (ad esempio, una ricostruzione di carriera), dai quali deriva, come conseguenza ulteriore, una diversa quantificazione dell’indennità di buonuscita». Ha pertanto ritenuto applicabile, al caso di specie, la fattispecie di rettifica dell’errore di calcolo, quale prevista dall’art. 30, primo comma, lettera b), del d.P.R. n. 1032 del 1973, e, con essa, il termine di decadenza annuale previsto dall’art. 30, secondo comma, decorrente dalla data dell’originario provvedimento di liquidazione, salvo poi dubitare della legittimità costituzionale di tali disposizioni.

La diversa interpretazione propugnata dalla difesa erariale non risulta, del resto, supportata da orientamenti univoci della giurisprudenza, tale da farla assurgere al rango di “diritto vivente”. Non può, pertanto, rimproverarsi al giudice rimettente di non averla seguita.

3.– Nel merito, le questioni non sono fondate.

3.1.– In linea generale, va ricordato che, come già precisato da questa Corte, «[l]e indennità di fine rapporto, pur nella differente configurazione che hanno assunto nel volgere degli anni, si atteggiano come “una categoria unitaria connotata da identità di natura e funzione e dalla generale applicazione a qualunque tipo di rapporto di lavoro subordinato e a qualunque ipotesi di cessazione del medesimo” (sentenza n. 243 del 1993, punto 5. del Considerato in diritto). L’evoluzione normativa, “stimolata dalla giurisprudenza costituzionale” (sentenza n. 243 del 1993, punto 4. del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 del codice civile (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999, recante “Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti”» (sentenza n. 159 del 2019).

Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva.

Tuttavia la comune matrice non implica necessariamente una totale uniformità di disciplina. Ciascuna figura di indennità, ritagliata nel settore lavoristico cui accede, non può che mantenere caratteristiche proprie e peculiari, legate a quel settore, con conseguente coesistenza «di diverse regolamentazioni riguardanti i meccanismi di provvista, nonché i soggetti gravati dall’onere contributivo e quelli tenuti ad erogare il trattamento» (sentenza n. 458 del 2005), senza che ciò naturalmente trasmodi nella negazione dei tratti fondamentali testé indicati.

3.2.– L’odierno rimettente, di fronte a una disciplina (quella della decadenza dal potere di rettifica dell’ente previdenziale) che si riferisce a un aspetto del tutto particolare della materia, chiede, mediante la censura ai sensi dell’art. 3 Cost., che siano uniformati i regimi giuridici del potere di rettifica rimesso all’INPS. In particolare, viene prospettata l’estensione al TFS della regola, che risulta attualmente vigente per il TFR e per altre figure di indennità di fine rapporto (viene richiamata l’indennità premio di fine servizio, prevista per i dipendenti degli enti locali), secondo la quale la rettifica può essere disposta dall’ente previdenziale entro il più largo termine di prescrizione ordinario, anziché entro il termine di decadenza imposto attualmente, per il solo TFS, dall’art. 30, secondo comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973. Tale estensione, qualora operata, determinerebbe un abbassamento della soglia di protezione del beneficiario del trattamento, il quale si troverebbe maggiormente esposto alle azioni di recupero dell’ente previdenziale.

Così posta la questione, il rimettente non considera, tuttavia, che le figure messe a raffronto – il TFS, da un lato, tuttora previsto per determinate categorie di lavoratori del settore pubblico, e il TFR, dall’altro lato, che costituisce l’istituto di applicazione generale sia per i lavoratori privati sia, in prospettiva, per gli stessi lavoratori del settore pubblico – non sono tra di loro comparabili quanto alla disciplina che, negli aspetti di dettaglio, regolamenta le modalità di calcolo e di erogazione dei relativi assegni. La disciplina del TFS, caratterizzata anche da sostanziali differenze rispetto a quella del TFR, è stata dal legislatore introdotta – e, attualmente, viene ancora mantenuta – in considerazione sia della peculiarità del settore lavoristico cui accede, sia soprattutto della non ancora compiuta armonizzazione con la disciplina generale del settore privato.

3.3.– Nel descritto quadro, questa Corte – nello scrutinare una questione di legittimità costituzionale riguardante i diversi tempi di liquidazione previsti, rispettivamente, per il TFS e per il TFR – ha già sottolineato «la peculiarità del regime applicabile in tale materia al settore pubblico, in considerazione della preminente esigenza di ordinata e trasparente programmazione nell’impiego delle limitate risorse disponibili», peculiarità che, di per sé, è tale da «rendere ragione delle differenze censurate» tra le due discipline poste a raffronto e, conseguentemente, è sufficiente «per escludere la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della dedotta disparità di trattamento» (sentenza n. 159 del 2019, punto 6 del Considerato in diritto). Analogamente, questa Corte ha escluso che i diversi regimi del TFS e del TFR possano essere tra di loro equiparati relativamente alla questione degli adeguamenti economici necessari ad assistere il passaggio dall’uno all’altro: si è quindi esclusa la violazione dell’art. 3 Cost., anche allora prospettata dall’autorità rimettente, proprio perché «l’eterogeneità della struttura, della base di calcolo e della disciplina dei regimi del TFR e del TFS, confermata anche dal laborioso processo di armonizzazione e dalla necessaria gradualità che lo ha governato, preclude la valutazione comparativa sollecitata dal rimettente» (sentenza n. 213 del 2018).

In definitiva, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non può che spettare al legislatore la previsione di discipline ragionevolmente differenziate delle singole figure di indennità di fine rapporto, in considerazione del complessivo contesto in cui esse vanno a inserirsi e dell’evoluzione normativa che punta ad armonizzarle, ferma restando, in una prospettiva più generale, la loro riconduzione a una comune matrice unitaria, di natura previdenziale, che questa Corte ha costantemente riconosciuto. La conseguente discrezionalità del legislatore si apprezza particolarmente proprio nel settore del lavoro pubblico, caratterizzato, come già accennato, da un percorso di graduale passaggio dal precedente regime di TFS, che ancor oggi sopravvive, e che risulta regolato proprio dalle norme dettate dal d.P.R. n. 1032 del 1973, a quello del TFR, «tuttora ritagliato all’interno del medesimo regime pubblicistico che connotava il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni prima della privatizzazione dello stesso» (sentenza n. 244 del 2020, punto 4.1.2. del Considerato in diritto).

3.4.– Nel caso di specie, la censurata disciplina dell’art. 30 del d.P.R. n. 1032 del 1973 che regola, per il TFS, i tempi entro i quali l’ente previdenziale può procedere alla rettifica dell’originario assegno di liquidazione, pur differenziandosi da quella dettata per il TFR o per altre figure affini di indennità, non è tale da intaccare la funzione fondamentale dell’istituto. Essa, anzi, si svela pienamente in linea con la funzione previdenziale dell’indennità – da intendersi, come detto, «in tutta la pregnanza delle sue implicazioni» (sentenza n. 159 del 2019) – posto che circoscrive ragionevolmente il potere di rettifica dell’INPS mediante la previsione di due diversi termini di decadenza (annuale o di sessanta giorni), cui corrispondono due diversi dies a quibus (calibrati a seconda della tipologia di errore oggetto di emenda). In tal modo la disciplina risulta opportunamente ispirata alla ratio della tutela dell’affidamento, meritevole di particolare attenzione nel settore delle prestazioni previdenziali. La normativa scrutinata, sotto questo aspetto, opera un ragionevole bilanciamento tra le ragioni dell’Erario e l’interesse del beneficiario del trattamento.

La opzione per la eliminazione di siffatta disciplina allo scopo di favorire il complessivo percorso di riavvicinamento del TFS alle regole attualmente dettate per il settore privato, ovvero per il mantenimento della stessa, in quanto ritenuta più rispondente al perseguimento della finalità previdenziale dell’istituto, ed eventualmente estesa al TFR o alle altre figure di indennità esistenti nel nostro ordinamento, è una valutazione che, per quanto sopra rilevato, non può che spettare al prudente apprezzamento del legislatore (sentenza n. 148 del 2017, riferita a questione del tutto sovrapponibile a quella all’odierno esame, relativa alla lamentata disparità di trattamento tra i lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato quanto alla decadenza dalla possibilità di rettifica dei provvedimenti di liquidazione definitiva del trattamento di quiescenza).

4.– Le suesposte argomentazioni danno conto, altresì, della non fondatezza della censura incentrata sull’art. 97 Cost.

La violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione non può, infatti, essere invocata se non attraverso la denuncia di arbitrarietà e di manifesta irragionevolezza della disciplina censurata, combinandosi, sotto questo profilo, con il riferimento all’art. 3 Cost. ed implicando lo svolgimento di un giudizio di ragionevolezza sulla legge censurata (sentenze n. 208 del 2014, n. 243 del 2005, n. 306 e n. 63 del 1995 e n. 250 del 1993; ordinanze n. 100 e n. 47 del 2013).

Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, con riguardo a una fattispecie parzialmente assimilabile a quella odierna, il termine decadenziale di cui si tratta (un anno dall’adozione dell’originario provvedimento di liquidazione), lungi dal porsi in contrasto con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, rappresenta uno strumento volto, sia pure indirettamente, ad accrescere l’efficienza dell’azione amministrativa, «senza incidere, ovviamente, nel caso di errore non tempestivamente rettificato, sulle eventuali responsabilità individuali» (sentenza n. 191 del 2005).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30, commi primo, lettera b), e secondo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Roma, quarta sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2022.

F.to:

Daria de PRETIS, Presidente

Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2022.

Il Cancelliere

F.to: Dott. Igor DI BERNARDINI

Corte Costituzionale, Sentenza 20 dic. 2022, n. 258 -.