Tradimento: bastano le foto per inchiodare il marito e ottenere l’addebito.

Le foto che mostrano chiaramente la relazione extraconiugale del marito se non contestate in punto di fatto fanno piena prova dell’adulterio, senza bisogno di ulteriori indagini o prove testimoniali.

A stabilirlo è il Tribunale di Milano con una recente sentenza, dando ragione a una moglie che aveva esibito in giudizio le immagini del tradimento del consorte chiedendo che gli venisse addebitata la separazione, per aver impedito la prosecuzione della convivenza coniugale proprio a causa della relazione adulterina instaurata con altra donna. 

L’unica obiezione del marito sulle fotografie prodotte era stata di carattere formale (ovvero la mancata prova dell’autorizzazione prefettizia dell’agenzia investigativa), ma in tal modo, a detta del giudice meneghino, aveva contestato “in senso tecnico giuridico le produzioni di controparte con ciò rendendole utilizzabili ai fini della complessiva valutazione del materiale probatorio senza necessità alcuna di conferma testimoniale”.

Richiamando i precedenti dello stesso tribunale, il giudice milanese, ha osservato infatti che “in tanto il rapporto investigativo deve essere oggetto di conferma probatoria mediante escussione testimoniale dei testi di riferimento, in quanto sia stato specificamente contestato dalla controparte, assumendo, altrimenti, un valore pieno di prova documentale” (cfr., ex multis, Trib. Milano 13 maggio 2015).

Analogamente si è espressa la Cassazione, secondo la quale, ai sensi dell’art. 115 c.p.c. “la non contestazione specifica costituisce un comportamento univocamente rilevante, con effetti vincolanti per il giudice, il quale deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e deve, perciò, ritenere la circostanza in questione sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo in concreto spiegato espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti” (cfr. Cass. n. 14594/2012).

Beninteso che, si legge in sentenza, il principio di non contestazione enucleato dall’art. 115 c.p.c. “ha vocazione generale e si applica a ogni fatto introdotto specificamente nel processo, pure là dove sia contenuto in una prova documentale”. In altri termini, dunque, “il documento che sia prodotto in modo completo deve essere contestato specificamente – oppure – assume il valore di prova”.

Per cui, non regge la tesi del marito secondo il quale, indipendentemente dalla sua violazione dell’obbligo di fedeltà, “l’unione coniugale era già da lungo tempo compromessa e ogni positiva comunicazione – con la moglie – era cessata”.

Sul punto, infatti, i capitoli di prova prodotti non sono idonei a confortare l’assunto di un matrimonio già finito “e caratterizzato da reciproca indifferenza e autonomia”, bensì mostrano soltanto “una realtà, invero assai comune, di una convivenza un po’ appassita”.

Da qui, consegue, l’addebito della separazione in via esclusiva all’uomo.