Un transessuale attraverso il social ‘Facebook’ aveva apostrofato un esponente politico come “frocio schifoso”. Condannato per diffamazione (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 17 maggio 2021, n. 19359).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CATENA Rossella – Presidente –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SETTEMBRE Antonio – Rel. Consigliere –

Dott. MOROSINI Elisabetta Maria – Consigliere –

Dott. FRANCOLINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) EFE nato il 05/05/19xx;

avverso la sentenza del 09/01/2020 della CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Antonio SETTEMBRE;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Giuseppe LOCATELLI, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Milano ha confermato la decisione di primo grado, che aveva condannato (OMISSIS) Efe per diffamazione in danno di (OMISSIS) Michele.

L’imputato, transessuale esercente la prostituzione, aveva, comunicando con più persone attraverso Facebook, sostenuto la presunta omosessualità del (OMISSIS), nonché di aver intrattenuto con un lui un rapporto sessuale; inoltre, lo aveva apostrofato come “frocio” e “schifoso”.

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato con tre motivi.

2.1. Col primo lamenta la violazione degli artt. 8 e segg. cod. proc. pen. per il fatto che il giudizio si è celebrato a Milano, ritenuto luogo di domicilio dell’imputato, sebbene quest’ultimo non abbia mai dichiarato di essere domiciliato nel capoluogo lombardo.

Secondo il ricorrente, siccome il reato è stato commesso con l’ausilio di Internet, riconducibile ad un provider italiano, la competenza sarebbe stata dell’Autorità giudiziaria di Roma.

2.2. Col secondo contesta il carattere diffamatorio delle espressioni indirizzate a (OMISSIS), che avrebbero perso, per “l’evoluzione” della coscienza sociale, il carattere dispregiativo ad esse attribuito dal giudicante.

Con lo stesso motivo contesta che la comunicazione a mezzo Internet integri l’aggravante di cui all’art. 595, comma 3, cod. pen., atteso che la messaggistica di Facebook sarebbe riconducibile alla sfera privata.

2.3. Col terzo motivo si duole della mancata assunzione di una prova decisiva, rappresentata dall’audizione del conduttore della trasmissione “La Zanzara”, sebbene fosse stata acquisita a dibattimento la registrazione radiofonica del 30 giugno 2016 effettuata dall’emittente suddetta.

2.4. Col quarto motivo si duole del fatto che la Corte di merito abbia considerato diffamatoria l’ulteriore espressione a lui attribuita: “se un uomo sta con un altro uomo a letto cosa è? In gergo è un frocio. Mi Sbaglio?”.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

1. In base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte – ostentatamente ignorata dal ricorrente – la competenza per territorio per il reato di diffamazione, commesso mediante la diffusione di notizie lesive dell’altrui reputazione allocate in un sito della rete “Internet”, va determinata in forza del criterio del luogo di domicilio dell’imputato, in applicazione della regola suppletiva stabilita dall’art. 9, comma secondo, cod. proc. pen. (cass., n. 16307 del 15/3/2011).

Immune da censure, pertanto, è la decisione del giudicante, che ha tenuto conto, per valutare la competenza, del domicilio dell’imputato, che vive stabilmente a Milano e ivi esercita la propria attività.

2. Destituita dì ogni fondamento è l’affermazione, contenuta in ricorso, che le espressioni imputate a (OMISSIS) Efe abbiano perso il carattere dispregiativo ad esse attribuito dal giudicante, per una presunta “evoluzione” della coscienza sociale (motivi 2 e 4).

Le suddette espressioni costituiscono invece, oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate – in ogni dove – dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono – per recare offesa alla persona – proprio ai termini utilizzati dall’imputato.

3. La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, anche se non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico (cass., n. 4873 del 14/11/2016).

Correttamente, pertanto, è stata ritenuta integrata, nella specie, l’ipotesi aggravata di cui al terzo comma dell’art. 595 cod. pen., trattandosi di comunicazione avvenuta con un social di ampia diffusione.

4. L’acquisizione della registrazione della trasmissione radiofonica di “Zanzara” non aveva bisogno del consenso della difesa dell’imputato. Si tratta di prova ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen. che può essere acquisita senza consenso e può essere liberamente apprezzata dal giudicante, come è in effetti avvenuto.

Peraltro, il ricorrente non deduce nemmeno di essersi opposto, a suo tempo, all’acquisizione della prova suddetta e non deduce nemmeno la difformità della registrazione acquisita rispetto alla trasmissione originaria, sicché non è dato apprezzare la rilevanza della questione.

Quanto alla rinnovazione dell’istruttoria, finalizzata a esaminare il conduttore della trasmissione televisiva, trattasi, anche in questo caso, di deduzione manifestamente infondata, dal momento che l’imputato non ha mai contestato il proferimento delle frasi a lui attribuite, essendosi sempre limitato, nel merito, a dedurre la liceità del suo operato.

Logicamente e correttamente, pertanto, i giudici hanno ritenuto irrilevante l’allargamento della piattaforma probatoria.

5. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stresso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000 a favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.