Omicidio preterintenzionale: aspetti procedurali – configurabilità – giurisprudenza.

Figura autonoma di reato prevista dall’art. 584 c.p., l’omicidio preterintenzionale si consuma quando chiunque con atti diretti unicamente a percuotere o a provocare lesioni personali nei confronti di un altro soggetto (ex artt. 581 e 582 c.p.), ne cagioni, senza volerlo, la morte.

Si tratta dell’ipotesi più grave tra le due uniche fattispecie di delitti preterintenzionali contemplate dall’ordinamento giuridico penale italiano (unitamente all’aborto preterintenzionale di cui all’art. 18, comma 2, della l. n. 194/1978 che ricorre quando il soggetto agente, intendendo provocare lesioni ad una donna, ne determina, involontariamente, l’interruzione della gravidanza), che l’art. 43 c.p. definisce delitti “oltre l’intenzione”, ovvero “quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.

La pena prevista per l’omicidio preterintenzionale è la reclusione da dieci a diciotto anni, fatte salve le circostanze aggravanti di cui agli artt. 576 e 577 c.p.

Soggetti e bene giuridico tutelato.

Trattandosi di reato comune a forma libera, l’omicidio preterintenzionale può essere commesso da chiunque (soggetto attivo) nei confronti di qualsiasi individuo, in quanto titolare del bene “vita” (soggetto passivo), alla cui distruzione l’offesa è diretta.

Il bene giuridico tutelato coincide, inoltre, con l’interesse generale dello Stato a proteggere la vita delle persone fisiche, sanzionando severamente, con la norma de quo, tutte quelle condotte che, pur non essendo finalizzate ad uccidere, parimenti, possono provocarne la morte.

Si tratta, in sostanza, dell’applicazione dell’antico criterio “qui in re illicita versatur, tenetur etiam pro casu” che postula l’attribuzione, al soggetto che pone in essere intenzionalmente un’azione illecita, proprio in ragione dell’originario disegno criminoso, anche di tutte le conseguenze ulteriori che possono discenderne, sebbene dovute al caso e non prevedibili.

Elemento oggettivo.

La fattispecie delittuosa dell’omicidio preterintenzionale si configura al verificarsi della morte dell’individuo quale diretta conseguenza di una delle condotte di cui agli artt. 581 e 582 c.p.

Si tratta, pertanto, di un reato evento, che si perfeziona, perciò, con l’avverarsi dell’evento letale non voluto, la cui condotta è caratterizzata dagli “atti diretti”, intenzionalmente, a percuotere o a ledere, mentre la morte rappresenta un “quid pluris”, involontario, rispetto al fine effettivamente perseguito dall’agente.

Ai fini dell’integrazione del reato, pertanto, è sufficiente che dalla condotta, attiva o omissiva, diretta dolosamente a commettere il delitto di percosse o lesioni, derivi un evento dannoso più grave (la morte, appunto), quale conseguenza della stessa: l’agente risponde quindi per fatto proprio al verificarsi dell’evento letale anche se lo stesso non sia stato effettivamente voluto o perseguito (Cass. n. 5582/2012).

Ne discende che, per configurare il reato, non occorre che la volontà dell’agente “di percuotere o di ledere abbia avuto il suo esito materiale, essendo sufficiente che l’autore dell’aggressione abbia commesso atti diretti e percuotere o a ledere,incluso quindi anche il tentativo” (cfr. ex multis, Cass. n. 6403/1990). Anzi, per tale indirizzo giurisprudenziale, “l’ipotesi di cui all’art. 584 c.p. non è legata neppure al presupposto di un tipico tentativo di percosse o di lesioni, poiché nella formula ‘atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p.’ deve ritenersi compreso anche un semplice comportamento minaccioso ed aggressivo, sempre che sia tendente a ledere o a percuotere” (Cass. n. 6403/1990).

Elemento soggettivo.

L’elemento soggettivo del reato è la “preterintenzione”, ossia la condotta volontaria del soggetto agente di realizzare un dato evento, dalla quale deriva un evento più grave di quello voluto.

Sull’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale si sono succeduti nel tempo diversi orientamenti giurisprudenziali, dando vita ad un contrasto tuttora irrisolto.

Secondo una prima impostazione, si tratterebbe di un dolo misto a responsabilità oggettiva: il primo sarebbe ravvisabile nel delitto di base, costituito dalle percosse o dalle lesioni, la seconda, invece, sarebbe attribuita all’agente per l’evento letale, non voluto, sulla base del mero nesso di causalità che collega tale evento ulteriore al delitto originario, “prescindendosi da ogni indagine di volontarietà, di colpa o di prevedibilità dell’evento più grave” (Cass. n. 10134/1982).

Per una diversa impostazione, invece, l’elemento soggettivo richiesto per la configurazione del reato andrebbe individuato nel dolo, per il reato di percosse o lesioni, misto alla colpa, per l’evento ulteriore non voluto dal soggetto agente, il quale intende cagionare alla vittima l’evento minore (percosse o lesioni), ma ottiene, per via del comportamento colposo la morte della stessa (Cass. n. 9294/1983; n. 10994/1981).

Ciò costituirebbe il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e quello preterintenzionale: in quest’ultimo, infatti, “la volontà dell’agente esclude ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’ “animus necandi”, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta” (Cass. n. 14647/2014; Cass. n. 35369/2007).

Giurisprudenza contraria, invece, punta l’accento soltanto sull’aspetto doloso della volontà di cagionare l’evento minore.

Secondo tale orientamento, l’omicidio preterintenzionale “deve  ritenersi caratterizzato, quanto all’elemento psicologico, non dalla coesistenza di dolo e colpa, ma dalla sola presenza del dolo, costituito dalla coscienza e volontà di attentare all’incolumità del soggetto passivo mediante percosse o lesioni; nel che resta assorbita la prevedibilità dell’evento omogeneo più grave costituito dalla morte” (Cass. n. 50557/2013; n. 27161/2013; n. 35582/2012; n. 13673/2006).

Circostanze aggravanti.

Secondo l’art. 585 c.p., la pena prevista per il reato di omicidio preterintenzionale è aumentata da un terzo alla metà, quando concorre una delle circostanze aggravanti previste dall’art. 576 c.p., e fino a un terzo, se concorre alcuna delle circostanze previste dall’art. 577 c.p., “ovvero se il fatto viene commesso con delle armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite”.

In materia di applicabilità delle disposizioni sul concorso di persone nel reato, si sostiene che lo stesso sia configurabile “quando vi è la partecipazione materiale o morale di più soggetti attivi nell’attività diretta a percuotere o ledere una persona senza la volontà di ucciderla e vi sia un evidente rapporto di causalità tra tale attività e l’evento mortale” (Cass. Pen. n. 1751/2005).

Aspetti procedurali.

Il delitto di omicidio preterintenzionale è reato procedibile d’ufficio (art. 50 c.p.p.) e l’autorità giudiziaria competente a decidere è la Corte d’Assise (art. 5 c.p.p.).

Sono consentiti sia l’arresto in flagranza facoltativo ex art. 381 c.p.p. che il fermo di indiziato di delitto previsto dall’art. 384 c.p.p.

Al reato possono essere applicate, inoltre, sia le misure coercitive che quelle interdittive ex artt. 280 e 287 c.p.p.