Si debbono togliere i crocefissi dalle scuole? La Corte Costituzionale dice NO (Corte Costituzionale, Ordinanza 17 dicembre 2004, n. 389).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Valerio ONIDA                                                                     Presidente

– Carlo MEZZANOTTE                                                           Giudice

– Fernanda CONTRI                                                                     ”

– Guido NEPPI MODONA                                                           ”

– Piero Alberto CAPOTOSTI                                                       ”

– Annibale MARINI                                                                      ”

– Franco BILE                                                                               ”

– Giovanni Maria FLICK                                                              ”

– Francesco AMIRANTE                                                              ”

– Ugo DE SIERVO                                                                        ”

– Romano VACCARELLA                                                            ”

– Paolo MADDALENA                                                                 ”

– Alfio FINOCCHIARO                                                                ”

– Alfonso QUARANTA                                                                ”

– Franco GALLO                                                                          ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 190 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), come specificati, rispettivamente, dall’art. 119 (e allegata tabella C) del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare), e dall’art. 118 del regio decreto 30 aprile 1924, n. 965 (Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media), e dell’art. 676 del predetto decreto legislativo n. 297 del 1994, promosso con ordinanza del 14 gennaio 2004 dal TAR per il Veneto sul ricorso proposto da Soile Lautsi in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale contro il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, iscritta al n. 433 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, edizione straordinaria, del 3 giugno 2004.

Visti l’atto di costituzione di Soile Lautsi nonché gli atti di intervento di Paolo Bonato ed altro e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 ottobre 2004 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi l’avvocato Massimo Luciani per Soile Lautsi, l’avvocato Franco Gaetano Scoca per Paolo Bonato ed altro e l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto

che, con ordinanza emessa il 14 gennaio 2004, pervenuta a questa Corte il 20 aprile 2004, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, nel corso di un giudizio per l’impugnazione di una deliberazione del consiglio di istituto di una scuola, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento al principio di laicità dello Stato, e, “comunque”, agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, degli artt. 159 e 190 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), “come specificati”, rispettivamente, dall’art. 119 (e tabella C allegata) del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare), e dall’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 (Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media), “nella parte in cui includono il Crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche”, nonché dell’art. 676 del medesimo d.lgs. n. 297 del 1994 “nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni” di cui ai predetti art. 119 (e tabella C allegata) del r.d. n. 1297 del 1928 e art. 118 del r.d. n. 965 del 1924;

che l’impugnato art. 159 del d.lgs. n. 297 del 1994 stabilisce fra l’altro, al comma 1, che “spetta ai Comuni provvedere (…) alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento (…) degli arredi scolastici” nelle scuole elementari, mentre l’art. 119 del r.d. n. 1297 del 1928 stabilisce che “gli arredi, il materiale didattico delle varie classi e la dotazione della scuola sono indicati nella tabella C allegata”, la quale, nell’elencare gli arredi e il materiale occorrente nelle varie classi, include al n. 1, per ogni classe, il Crocifisso;

che, a sua volta, l’impugnato art. 190 del d.lgs. n. 297 del 1994 stabilisce fra l’altro, al comma 1, che “i Comuni sono tenuti a fornire (…) l’arredamento” dei locali delle scuole medie, mentre l’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924 recita che “ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”;

che l’impugnato art. 676 del d.lgs. n. 297 del 1994 stabilisce che le disposizioni non inserite nel testo unico “restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”;

che il Tribunale remittente premette che le disposizioni citate del r.d. n. 1297 del 1928 e del r.d. n. 965 del 1924 costituirebbero adeguato fondamento giuridico del provvedimento impugnato nel giudizio a quo; sarebbero tuttora in vigore in quanto non abrogate per incompatibilità dalle disposizioni dei Patti Lateranensi cui si è data esecuzione con la legge 27 maggio 1929, n. 810, né da quelle dell’Accordo di modifica di detti Patti reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121; non sarebbero incompatibili infine con il testo unico approvato con il d.lgs. n. 297 del 1994, né sarebbero state abrogate per nuova disciplina dell’intera materia in quanto l’impugnato art. 676 del testo unico medesimo dispone che restino salve le norme preesistenti non inserite in esso e non incompatibili con le disposizioni del medesimo testo unico; che dette disposizioni sarebbero destinate ad introdurre norme attuative di dettaglio rispetto ad atti legislativi, e cioè, rispettivamente, il r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, al cui art. 55 corrisponde oggi l’art. 159, comma 1, del d.lgs. n. 297 del 1994, e il r.d. 6 maggio 1923, n. 1054, al cui art. 103 corrisponde oggi l’art. 190 del d.lgs. n. 297 del 1994;

che il giudice a quo si pone il problema della costituzionalità delle disposizioni regolamentari citate, da cui discenderebbe l’obbligo di esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche, e ritiene che queste, pur non potendo essere oggetto diretto di controllo di costituzionalità, dato il loro rango regolamentare, sarebbero invece suscettibili di controllo indiretto, in quanto specificano e integrano i disposti legislativi impugnati degli artt. 159 e 190 del d.lgs. n. 297 del 1994, il cui art. 676 a sua volta costituirebbe una norma primaria “attraverso la quale l’obbligo di esposizione del Crocifisso conserva vigenza nell’ordinamento positivo”;

che, in punto di non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale remittente sostiene che il Crocifisso è essenzialmente un simbolo religioso cristiano, di univoco significato confessionale; e che l’imposizione della sua affissione nelle aule scolastiche non sarebbe compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato, desunto da questa Corte dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; e che la presenza del Crocifisso, che verrebbe obbligatoriamente imposta ad alunni, genitori e insegnanti, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, attribuendo ad essa una ingiustificata posizione di privilegio;

che si è costituita la parte privata ricorrente nel giudizio a quo, concludendo per l’accoglimento della questione;

che, secondo la parte, l’obbligatoria esposizione del Crocifisso nelle aule violerebbe il dovere di equidistanza dello Stato rispetto alle varie confessioni e contraddirebbe l’esigenza di uno “spazio pubblico neutrale” in cui non potrebbe trovare posto un simbolo religioso; non si potrebbe attribuire al Crocifisso il carattere di un simbolo genericamente civile e culturale, essendo innegabile la sua valenza religiosa, e mancando del resto ogni base costituzionale per poter fare del Crocifisso un simbolo dell’unità della nazione al pari della bandiera; non sarebbe praticabile, infine, nemmeno una soluzione che postuli la permanenza dell’esposizione del Crocifisso salvo che qualcuno degli alunni ritenga di esserne leso nella propria libertà religiosa, poiché sarebbe violato comunque il principio oggettivo di laicità, né si potrebbe costringere il singolo a opporsi apertamente alla eventuale volontà maggioritaria del gruppo sociale di appartenenza;

che sono intervenuti altresì, con unico atto, il sig. Paolo Bonato, in proprio e quale genitore di un’alunna della stessa scuola, e il sig. Linicio Bano, in qualità di presidente dell’associazione italiana genitori di Padova, concludendo per la inammissibilità e comunque per la infondatezza della questione;

che gli intervenienti, affermata la propria legittimazione ad essere presenti nel giudizio in quanto controinteressati nel giudizio a quo, pur se non evocati in esso, nonché in quanto titolari di un interesse direttamente inerente al rapporto sostanziale dedotto nel giudizio medesimo, negano che l’esposizione del Crocifisso nelle aule leda il principio di laicità, il quale non implicherebbe indifferenza dello Stato rispetto alle religioni, e non impedirebbe l’esposizione di un simbolo che rappresenta una parte integrante dell’identità culturale e storica del popolo italiano;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l’inammissibilità e comunque per l’infondatezza della questione;

che l’Avvocatura erariale eccepisce anzitutto il difetto di rilevanza della questione, in quanto, alternativamente, il giudizio davanti al TAR non sarebbe stato proponibile per difetto di contraddittorio e di legittimazione del ricorrente, ovvero il TAR sarebbe carente di giurisdizione;

che, nel merito, la difesa del Presidente del Consiglio sostiene che le norme legislative impugnate e le norme regolamentari richiamate dal remittente non stabiliscono alcun obbligo di esposizione del Crocifisso, e che, in assenza di un obbligo legale di esposizione, il problema sarebbe quello di verificare se le norme costituzionali consentano l’esposizione di quel simbolo del cattolicesimo: esposizione che non sarebbe in contrasto con la laicità dello Stato e sarebbe coerente sia con l’art. 7 della Costituzione, sia con il riconoscimento, contenuto nell’art. 9 dell’accordo di revisione del concordato reso esecutivo con la legge n. 121 del 1985, secondo cui i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano;

che nella memoria presentata in vista dell’udienza l’Avvocatura erariale argomenta nel senso della legittimità costituzionale della presenza del Crocifisso nelle aule, quale “evenienza naturale” nell’ordinario svolgimento della vita scolastica: il Crocifisso sarebbe bensì anche un simbolo religioso, ma sarebbe “il vessillo della Chiesa cattolica, unico alleato di diritto internazionale” dello Stato nominato dalla Costituzione all’art. 7, e dunque sarebbe da considerarsi alla stregua di un simbolo dello Stato di cui non si potrebbe vietare l’esposizione, al pari della bandiera e del ritratto del Capo dello Stato.

Considerato

che l’intervento spiegato nel giudizio è stato ammesso dalla Corte con ordinanza pronunciata in udienza, in quanto la posizione sostanziale fatta valere dal sig. Paolo Bonato, in proprio e in qualità di genitore di un’alunna, è qualificata in rapporto alla questione oggetto del giudizio di costituzionalità, dovendosi in questa sede precisare che la legittimazione ad intervenire non si estende all’altro firmatario dell’unico atto di intervento, sig. Linicio Bano, in quanto presidente dell’associazione italiana genitori di Padova;

che il remittente impugna gli articoli 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, sul presupposto che essi, “come specificati”, rispettivamente, dall’art. 119 (e allegata tabella C) del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, e dall’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, forniscano fondamento legislativo ad un obbligo – contestato dal ricorrente per contrasto con il principio di laicità dello Stato – di esposizione del Crocifisso in ogni aula scolastica delle scuole elementari e medie; e impugna altresì l’art. 676 del medesimo d.lgs. n. 297 del 1994 sul presupposto che a tale disposizione – che sancisce l’abrogazione delle sole disposizioni non incluse nel testo unico che risultino incompatibili con esso – debba farsi risalire la permanente vigenza delle due norme regolamentari citate, dopo l’emanazione dello stesso testo unico;

che tali presupposti sono però erronei;

che, infatti, gli articoli 159 e 190 del testo unico si limitano a disporre l’obbligo a carico dei Comuni di fornire gli arredi scolastici, rispettivamente per le scuole elementari e per quelle medie, attenendo dunque il loro oggetto e il loro contenuto solo all’onere della spesa per gli arredi;

che, pertanto, non sussiste fra le due menzionate disposizioni legislative, da un lato, e le disposizioni regolamentari richiamate dal remittente, dall’altro lato, quel rapporto di integrazione e specificazione, ai fini dell’oggetto del quesito di costituzionalità proposto, che avrebbe consentito, a suo giudizio, l’impugnazione delle disposizioni legislative “come specificate” dalle norme regolamentari;

che, a differenza di quanto rilevato da questa Corte nelle sentenze n. 1104 del 1988 e n. 456 del 1994 (richiamate dal remittente) a proposito dell’ammissibilità di censure mosse nei confronti di disposizioni legislative come specificate da norme regolamentari previgenti, fatte salve dalla legge fino all’emanazione di nuovi regolamenti, nella specie il precetto che il remittente ricava dalle norme regolamentari non si desume nemmeno in via di principio dalle disposizioni impugnate degli artt. 159 e 190 del testo unico;

che, infatti, per quanto riguarda la tabella C allegata al r.d. n. 1297 del 1928, e richiamata nell’art. 119 dello stesso, essa contiene soltanto elenchi di arredi previsti per le varie classi, elenchi peraltro in parte non attuali e superati, come ha riconosciuto la stessa amministrazione;

che l’assenza del preteso rapporto di specificazione è ancor più evidente per quanto riguarda l’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924, che si riferisce bensì alla presenza nelle aule del Crocifisso e del ritratto del Re, ma non si occupa dell’arredamento delle aule, e dunque non può trovare fondamento legislativo nella – né costituire specificazione della – disposizione censurata dell’art. 190 del testo unico, volta anch’essa, come si è detto, a disciplinare solo l’onere finanziario per la fornitura di tale arredamento;

che, per quanto riguarda l’art. 676 del d.lgs. n. 297 del 1994, non può ricondursi ad esso l’affermata perdurante vigenza delle norme regolamentari richiamate, poiché la eventuale salvezza, ivi prevista, di norme non incluse nel testo unico, e non incompatibili con esso, può concernere solo disposizioni legislative, e non disposizioni regolamentari, essendo solo le prime riunite e coordinate nel testo unico medesimo, in conformità alla delega di cui all’art. 1 della legge 10 aprile 1991, n. 121, come sostituito dall’art. 1 della legge 26 aprile 1993, n. 126;

che l’impugnazione delle indicate disposizioni del testo unico si appalesa dunque il frutto di un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una questione di legittimità concernente le norme regolamentari richiamate: norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né, conseguentemente, un intervento interpretativo di questa Corte;

che, pertanto, la questione proposta è, sotto ogni profilo, manifestamente inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), come specificati, rispettivamente, dall’art. 119 (e allegata tabella C) del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare), e dall’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 (Ordinamento interno delle Giunte e dei Regi istituti di istruzione media), e dell’art. 676 del predetto d.lgs. n. 297 del 1994, sollevata, in riferimento al principio di laicità dello Stato e, comunque, agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2004.

Valerio ONIDA, Presidente e Redattore

Depositata in Cancelleria il 17 dicembre 2004.

Allegato

ordinanza letta all’udienza del 26 ottobre 2004

ORDINANZA

Visto l’intervento spiegato in giudizio, in termini, dal Sig. Paolo Bonato e dal Sig. Linicio Bano;

considerato che la posizione sostanziale fatta valere nel presente giudizio dal Sig. Paolo Bonato in proprio e quale genitore dalla minore Laura Bonato appare qualificata in rapporto alla questione oggetto del giudizio di costituzionalità.

per questi motivi

ammette l’intervento di cui in premessa.

 

____//

 

Consiglio di Stato

Sezione Sesta

Decisione 13 febbraio 2006 n. 556

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello proposto da S. L., rappresentata e difesa dall’avv. Luigi Ficarra e dall’avv. Corrado Mauceri, ed elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell’avv. Fausto Buccellato, viale Angelico, n. 45,

contro

il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è per legge domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,

e nei confronti

di P. B.o, in proprio e quale genitore della minore L. B., e di L. B., nella qualità di Presidente della Associazione Italiana Genitori (A.GE.), rappresentati e difesi dall’avv. prof. Franco Gaetano Scoca, ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in Roma, via G. Paisiello, n. 55,

dell’Associazione Forum, rappresentata e difesa dall’avv. Ivone Cacciavillani, il quale agisce oltre che in qualità di presidente dell’Associazione, in proprio uti civis ex art. 86 c.p.c., e dagli avv. ti Sergio Dal Prà e Luigi Manzi, ed elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio di quest’ultimo, in via Federico Confalonieri, n. 5,

per l’annullamento della sentenza n. 1110 del 2005 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sez. III, resa inter partes.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio delle parti intimate;

Visti gli appelli incidentali del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di Paolo Bonato e di Linicio Bano, e dell’Associazione Forum;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 13 gennaio 2006, relatore il Consigliere Sabino Luce, uditi l’avv. Buccellato per delega dell’avv. Mauceri, l’Avvocato dello Stato Palatiello, l’avv. Giusti per delega dell’avv. Scoca, e l’avv. Luigi Manzi.

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

FATTO

1.- Premette la ricorrente di avere, in proprio e quale madre dei minori D. e S. A., alunni, all’epoca, della scuola media “Vittorino da Feltre” di Abano Terme, chiesto innanzi al TAR Veneto l’annullamento della deliberazione del 27 maggio 2002 del Consiglio di Istituto, nella parte in cui respinge la proposta di escludere tutte le immagini e i simboli di carattere religioso negli ambienti scolastici in ossequio al principio di laicità dello Stato, lasciandoli esposti nelle aule, sulla base dei seguenti motivi:

a) violazione del principio di laicità dello Stato (artt. 3 e 19 della Costituzione, art. 9 della Convenzione dei diritti dell’uomo, resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, 848);

b) violazione del principio di imparzialità della Amministrazione (art. 97 della Costituzione).

Il TAR Veneto, con ordinanza n. 56 del 13 novembre 2003, previa reiezione delle eccezioni pregiudiziali (il ricorso è stato proposto da un solo genitore dei minori A.; difetto di giurisdizione del giudice amministrativo; mancata notifica ad almeno uno dei controinteressati; non è stata impugnata la circolare del 3 ottobre 2002 del Ministero dell’Istruzione, con la quale è stata raccomandata l’esposizione del crocefisso a cura dei dirigenti scolastici), ha sospeso il giudizio e rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità degli artt. 159 e 190 del Testo Unico n. 297 del 16 aprile 1994, come specificati rispettivamente dall’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (all. C) e dall’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, nella parte in cui includono il crocefisso tra gli arredi delle aule scolastiche, nonché del predetto T. U. nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni di cui all’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (tab. C) e all’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, in riferimento al principio di laicità dello Stato e, comunque, agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione.

Con ordinanza del 13 dicembre 2004, n. 389, la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità, sollevata dal TAR, in quanto concernente norme regolamentari (i citati artt. 118 e 119), la cui attuale vigenza il TAR erroneamente assume che si ricavi dall’art. 676 del T. U. del 1994, “perché la eventuale salvezza, ivi prevista, di norme non incluse nel testo unico, e non incompatibili con esso, può concernere solo disposizioni legislative e non disposizioni regolamentari, essendo solo le prime riunite e coordinate nel testo unico medesimo, in conformità alla delega…”.

Con la sentenza, di cui viene chiesta la riforma, il TAR Veneto, previa reiezione delle eccezioni sollevate in giudizio dalla Amministrazione e dall’interveniente, ha estromesso dal giudizio la Associazione Forum e la Associazione Genitori di Padova, e ha respinto il ricorso con una motivazione che viene definita dalla appellante “del tutto originale, perché non rispecchia alcuna delle ragioni sostenute dalle parti, e comunque errata”.

Con l’odierno ricorso, vengono reiterate le censure di primo grado in forma strettamente embricata con le argomentazioni del TAR, e si insiste particolarmente sulla abrogazione implicita dell’art. 118 (non 119) del r. d. 965/1924 ad opera del successivo testo unico, che ha regolato tutta la materia senza riprodurlo, e della legge n. 121/1985 di ratifica del nuovo concordato, che ha cancellato la norma che ne costituiva il fondamento, cioè l’art. 1 dello Statuto Albertino.

In ogni caso – si sostiene – l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche è incompatibile col principio costituzionale della laicità dello Stato.

2.- Resiste il Ministero della Istruzione, dell’Università e della Istruzione, il quale sostiene l’infondatezza dell’appello, e propone comunque ricorso incidentale condizionato avverso le statuizioni della sentenza, con le quali:

a) è stata riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo;

b) è stato dichiarato ammissibile il ricorso, nonostante la mancata notifica ad almeno un controinteressato, e nonostante la ricorrente, in proprio, non fosse componente della vita scolastica, ed avesse proposto l’impugnativa quale genitrice dei due minori, senza il manifesto accordo del padre (che pure partecipò alla riunione del Consiglio di Classe), che è esercente la potestà;

c) non è stato considerato che la mancata impugnativa dell’art. 118 del r.d. n. 965/1924 farebbe in ogni caso sopravvivere la contestata deliberazione del Consiglio di Istituto.

Si sono anche costituiti P. B., in proprio e quale genitore della minore L. B., e L. B., in qualità di Presidente dell’A.GE. (Associazione Italiana Genitori) di Padova, intervenuta in giudizio, i quali chiedono la riforma della sentenza impugnata nella parte in cui statuisce l’estromissione dal giudizio della A. GE. e ritiene ammissibile il ricorso, sebbene non notificato ad almeno un controinteressato.

Si è altresì costituita l’Associazione Forum, la quale chiede, con l’appello incidentale proposto, la reiezione del gravame e la riforma della sentenza nella parte in cui dichiara inammissibile il suo intervento, e non declina a favore del giudice ordinario la giurisdizione in un giudizio che ha per oggetto un diritto fondamentale della personalità.

L’eccezione, come precisato in memoria, viene sviluppata in ricorso senza pervenire alla conclusione in calce allo stesso che l’impugnativa debba essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Per questo, si rimanda alla formale proposizione (in forma condizionata) della medesima eccezione da parte della Avvocatura dello Stato, e si invita la Sezione a pronunciarsi “anche ufficiosamente”.

3.- Il ricorso è stato trattenuto in decisione all’udienza del 13 gennaio 2006.

DIRITTO

1.- Il giudizio verte sulla legittimità della deliberazione del Consiglio di Istituto della scuola media statale “Vittorino da Feltre” di Abano Terme, con la quale è stata respinta la richiesta della ricorrente di rimuovere il crocefisso dalle aule scolastiche. Il TAR Veneto, con la sentenza appellata, ha respinto il ricorso, dichiarandolo infondato, dopo avere estromesso dal giudizio le due associazioni (A.GE. e Forum) che erano intervenute ad opponendum.

2.- Il Collegio deve darsi carico delle questioni preliminari che sono state sollevate dalle parti o sono rilevabili di ufficio.

In primo luogo, va verificato se sia ammissibile l’impugnativa proposta dalla sola ricorrente, quale esercente la potestà sui minori D. e S. A., senza la partecipazione dell’altro genitore.

In proposito, il Collegio rileva che il ricorso risulta proposto da uno solo dei due genitori, esercenti la potestà sui minori, a tutela di scelte educative che ciascun genitore può assumere, senza la necessità di un intervento dell’altro genitore.

Proprio per la diretta inerenza del ricorso a scelte educative, non si configurano, infatti, gli estremi della straordinaria amministrazione, rispetto alla quale l’art.320 c.c. richiede l’azione congiunta di entrambi i genitori (cfr. Tar Calabria, sez. Reggio Calabria, 13 dicembre 1984, n. 287; Tar Abruzzo, sez. Pescara, 10 maggio 1984, n. 157).

In secondo luogo, deve essere affermata la giurisdizione del giudice amministrativo rispetto alla controversia in esame.

La giurisdizione del giudice amministrativo è stata posta in discussione, nel corso del giudizio, dalla Amministrazione appellata e da una delle Associazioni intervenute (ed estromesse dal giudice di primo grado), le quali hanno sostenuto che la controversia avrebbe per oggetto la tutela di un diritto di libertà, diritto soggettivo perfetto, di competenza del giudice ordinario.

Anche l’appellante ha richiamato questa qualificazione per la sua posizione soggettiva, pur concludendo a favore della giurisdizione amministrativa, perché il ricorso era stato proposto prima della sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale (che ha ridimensionato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi), e, in base all’art. 5 c.p.c., la sentenza della Corte non priverebbe di giurisdizione il giudice adito ritualmente alla stregua delle leggi in vigore al momento della proposizione del ricorso.

Il Collegio rileva che rispetto a situazioni di interesse che sono in relazione con diritti fondamentali della persona, come per esempio il diritto alla salute (che è stato oggetto di maggiore elaborazione giurisprudenziale), non si può e non si deve escludere a priori la sussistenza della giurisdizione amministrativa.

Quando la vertenza ha come oggetto la contestazione della legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, ossia quando l’atto amministrativo sia assunto nel giudizio non come fatto materiale o come semplice espressione di una condotta illecita, ma sia considerato nel ricorso quale attuazione illegittima di un potere amministrativo, di cui si chiede l’annullamento, la posizione del cittadino si concreta come posizione di interesse legittimo.

Queste considerazioni sono state fatte proprie da tempo sia dalla giurisprudenza amministrativa che dalla Corte regolatrice della giurisdizione.

Si veda, per esempio, Cass. sez. un. civ. 15 ottobre 1998, n. 10186, che, nel giudizio proposto a tutela del diritto alla salute in relazione a immissioni sonore prodotte da un’attività autorizzata dall’amministrazione, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario “poiché l’azione … non investe nessun provvedimento amministrativo”.

Le Sezioni unite ribadiscono che la circostanza che il cittadino agisca lamentando la violazione della legge da parte dell’amministrazione – e nel caso in esame l’azione era proposta a tutela di un diritto fondamentale – non è discriminante ai fini della giurisdizione, risultando invece decisiva la circostanza che l’azione sia diretta (o meno) contro un provvedimento amministrativo.

Questa conclusione è coerente con la giurisprudenza costante dei giudici amministrativi che riconoscono la giurisdizione amministrativa per vertenze, come quelle in tema di impianti per lo smaltimento dei rifiuti, o di altre opere rilevanti per la salubrità dell’ambiente, rispetto ai quali venga contestata la legittimità dei provvedimenti autorizzatori.

La circostanza che in questi casi i ricorrenti facciano valere la possibilità di un pregiudizio alla salute non toglie nulla alla configurabilità di una posizione di interesse legittimo, e, conseguentemente, della giurisdizione amministrativa.

Va osservato, inoltre, che la concezione dei diritti “perfetti” o “non degradabili” è stata elaborata per riconoscere ulteriori possibilità di tutela per il cittadino, non certo per escludere forme di tutela preesistenti.

Di conseguenza da tale concezione non si può desumere alcuna riduzione della legittimazione a ricorrere avanti al giudice amministrativo.

Deve essere tenuto presente, ancora, che in discussione sono atti riconducibili all’espressione di una potestà regolamentare dell’Amministrazione, potestà quindi tipicamente discrezionale. Rispetto a potestà del genere, la Corte regolatrice della giurisdizione, di recente, ha confermato che la tutela è devoluta al giudice amministrativo, anche se la controversia inerisca al diritto alla salute (Cass. Sez. un. 28.10.2005, n. 20994).

Risulta, pertanto, assorbita ogni questione relativa alla interpretazione dell’art. 5 c.p.c., di cui l’appellante propone una lettura difforme dagli orientamenti maggioritari della giurisprudenza sia civile che amministrativa.

In terzo luogo, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso (già disattesa dal primo giudice) per essere stata omessa la notifica ad almeno uno dei controinteressati.

L’eccezione risulta infondata, perché dal tenore dell’atto impugnato non sono identificabili controinteressati in senso proprio.

In quarto luogo, diversamente da quanto statuito dal giudice di primo grado, devono ritenersi ammissibili gli interventi in giudizio proposti dalle due associazioni, Forum ed A. GE.

Non è dubbio che le due Associazioni, con il loro intervento, hanno manifestato un interesse simmetrico a quello della ricorrente, e, pertanto, ugualmente meritevole di essere fatto valere in giudizio. Un tale interesse è titolo sufficiente per intervenire in giudizio, senza la necessità di ulteriori specificazioni.

L’utilità che può derivare alle due associazioni intervenute dalla conservazione dell’atto impugnato non è certamente di ordine patrimoniale, ma è parimenti di assoluto rilievo giuridico, perché è riconducibile al medesimo ordine di interessi, anche se di segno contrario, fatti valere dalla ricorrente.

Da ultimo, non può essere condivisa l’eccezione di inammissibilità formulata dalla difesa della Amministrazione, per il fatto che non sarebbe stato impugnato ritualmente l’art. 118 r.d. n. 965/1924, dal quale deriverebbe l’obbligo di esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche.

È sufficiente osservare che dal tenore del ricorso si coglie immediatamente come la contestazione sia proposta anche nei confronti della citata norma regolamentare, la cui impugnazione non richiedeva, d’altronde, formule sacramentali.

3.- Passando al merito, il ricorso è infondato.

L’appellante in via prioritaria reitera il rilievo, disatteso dal TAR, della abrogazione implicita della norma dell’art. 118 r. d. 1924 n. 965 (ritiene di non doversi parlare dell’art. 119 del r. d. n. 1297/1928 in quanto si riferisce alla scuola elementare, mentre i figli minori frequentano la scuola media), non essendo essa stata “riprodotta” dal t. u. del 1994, disciplinante l’intera materia, ed essendo altresì venuto meno il principio di confessionalità, sancito dall’art. 1 dello Statuto Albertino, che ne rappresentava il fondamento, in quanto tale norma statutaria non è stata ripresa dalla legge n. 121/1985 di attuazione dell’accordo di Villa Madama, diversamente da quanto avvenne con la legge 810 del 1929 di attuazione del Trattato del Laterano.

Circa la prima considerazione dell’appellante, vale quanto statuito dalla Corte Costituzionale sul carattere regolamentare della norma di cui all’art. 118 r. d. 1924 n. 965, che, come tale, non può ritenersi assorbita dal t. u. 1994 (giacché se tale fosse stata, la Corte non avrebbe potuto esimersi dal giudicare della sua legittimità), e neppure abrogata (e la stessa Corte nella sua ordinanza non ne ha mai messo in discussione la vigenza).

Quanto alla seconda considerazione, non pare corretto porre il principio di confessionalità dello Stato a fondamento della norma regolamentare in questione (sicché venuto meno quello sarebbe venuta meno la ragion d’essere di questa).

È ben vero infatti che nel 1924, allorché la norma fu emanata vigeva in Italia lo Statuto Albertino, il cui art. 1 proclamava la religione cattolica, apostolica e romana come “la sola religione dello Stato” (gli altri culti essendo tollerati conformemente alle leggi).

Ma è altrettanto vero che tale norma non impedì minimamente al legislatore, nel corso di vari decenni, di adottare in molteplici settori della vita dello Stato una normativa contraria agli interessi della confessione cattolica, ed in dottrina ad alcuni autori, anche assai qualificati, di ascrivere la Chiesa cattolica fra le associazioni illecite.

Il problema della vigenza dell’art. 118 r. d. 1924 n. 965 non può pertanto essere adeguatamente risolto attraverso la mancata menzione nell’accordo di Villa Madama di un principio (quello della confessionalità dello Stato), richiamato nel trattato del Laterano nel 1929 (vale a dire cinque anni dopo l’emanazione della norma stessa), ma va affrontato attraverso la verifica della compatibilità di quanto da esso disposto con i principi oggi ispiranti l’ordinamento costituzionale dello Stato, ed in particolare con il principio di laicità, invocato dalla stessa appellante.

Al riguardo, più volte la Corte costituzionale ha riconosciuto nella laicità un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale, idoneo a risolvere talune questioni di legittimità costituzionale (ad esempio, tra le tante pronunce, quelle riguardanti norme sull’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola, o sulla competenza giurisdizionale per le cause concernenti la validità del vincolo matrimoniale contratto canonicamente e trascritto nei registri dello stato civile).

Trattasi di un principio non proclamato expressis verbis dalla nostra Carta fondamentale; un principio che, ricco di assonanze ideologiche e di una storia controversa, assume però rilevanza giuridica potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento. In realtà la Corte lo trae specificamente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.

Il principio utilizza un simbolo linguistico (“laicità”) che indica in forma abbreviata profili significativi di quanto disposto dalle anzidette norme, i cui contenuti individuano le condizioni di uso secondo le quali esso va inteso ed opera. D’altra parte, senza l’individuazione di tali specifiche condizioni d’uso, il principio di “laicità” resterebbe confinato nelle dispute ideologiche e sarebbe difficilmente utilizzabile in sede giuridica.

In questa sede, le condizioni di uso vanno certo determinate con riferimento alla tradizione culturale, ai costumi di vita, di ciascun popolo, in quanto però tale tradizione e tali costumi si siano riversati nei loro ordinamenti giuridici. E questi mutano da nazione a nazione.

Così non v’è dubbio che in un modo vada inteso ed opera quel principio nell’ordinamento inglese, laico, benché strettamente avvinto alla chiesa anglicana, nel quale è consentito al legislatore secolare dettare norme in materie interne alla chiesa stessa (esempio relativamente recente è dato dalla legge sul sacerdozio femminile); in altro modo nell’ordinamento francese, per il quale la laicità, costituzionalmente sancita (art. 2 Cost. del 1958), rappresenta una finalità che lo Stato potrà perseguire, e di fatto ha perseguito, anche con mortificazione dell’autonomia organizzativa delle confessioni (lois Combes) e della libera espressione individuale della fede religiosa (legge sull’ostensione dei simboli religiosi).

In altro modo ancora nell’ordinamento federale degli Stati Uniti d’America, nel quale la pur rigorosa separazione fra lo Stato e le confessioni religiose, imposta dal I emendamento alla Costituzione federale, non impedisce un diffuso pietismo nella società civile, ispirato alla tradizione religiosa dei Padri pellegrini, che si esplica in molteplici forme anche istituzionali (da un’esplicita attestazione di fede religiosa contenuta nella carta moneta – in God we trust -, al largo sostegno tributario assicurato agli aiuti economici elargiti alle strutture confessionali ed alle loro attività assistenziali, sociali, educative, nell’orizzonte liberal privatistico tipico della società americana).

In altro modo, infine, nell’ordinamento italiano, in cui quel simbolo linguistico serve ad indicare reciproca autonomia fra ordine temporale e ordine spirituale e conseguente interdizione per lo Stato di entrare nelle faccende interne delle confessioni religiose (artt. 7 e 8 Cost.);

tutela dei diritti fondamentali della persona (art. 2), indipendentemente da quanto disposto dalla religione di appartenenza;

uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini, irrilevante essendo a tal fine la loro diversa fede religiosa (art. 3);

rispetto della libertà delle confessioni di organizzarsi autonomamente secondo i propri statuti purché non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano (art. 8, 2° co.), e per tutti, e non solo per i cittadini, tutela della libertà in materia religiosa, e cioè di credere, non credere, di manifestare in pubblico o in privato la loro fede, di esercitarne il culto (art. 19);

divieto, infine, di discriminare gli enti confessionali a motivo della loro ecclesiasticità e del fine di religione o di culto perseguito (art. 20).

Dalle norme costituzionali italiane richiamate dalla Corte per delineare la laicità propria dello Stato si evince, inoltre, un atteggiamento di favore nei confronti del fenomeno religioso e delle confessioni che lo propugnano, avendo la Costituzione posto rilevanti limiti alla libera esplicazione della attività legislativa dello Stato in materia di rapporti con le confessioni religiose; attività che potrà praticarsi ordinariamente soltanto in forma concordata sia con la religione di maggioranza sia con le altre confessioni religiose (art. 7, 2° co., e art. 8, 3° co.).

Ne deriva che la laicità, benché presupponga e richieda ovunque la distinzione fra la dimensione temporale e la dimensione spirituale e fra gli ordini e le società cui tali dimensioni sono proprie, non si realizza in termini costanti nel tempo e uniformi nei diversi Paesi, ma, pur all’interno di una medesima “civiltà”, è relativa alla specifica organizzazione istituzionale di ciascuno Stato, e quindi essenzialmente storica, legata com’è al divenire di questa organizzazione (in modo diverso, ad esempio, dovendo essere intesa la laicità in Italia con riferimento allo Stato risorgimentale, ove, nonostante la confessionalità di principio dello stesso, proclamata dallo Statuto fondamentale del Regno, furono consentite discriminazioni restrittive in danno degli enti ecclesiastici, e con riferimento allo Stato odierno, sorto dalla Costituzione repubblicana, ed ormai non più confessionale, ove però quelle discriminazioni non potrebbero aversi).

Quale poi dei sistemi giuridici ora ricordati, o di altri ancora qui non considerati, sia meglio rispondente ad un’idea astratta di laicità, che alla fine coincide con quella che ciascuno trova più consona con i suoi postulati ideologici, è questione antica; una questione che però va lasciata alle dispute dottrinarie.

In questa sede giurisdizionale, per il problema innanzi ad essa sollevato della legittimità della esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, disposto dalle autorità competenti in esecuzione di norme regolamentari, si tratta in concreto e più semplicemente di verificare se tale imposizione sia lesiva dei contenuti delle norme fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, che danno forma e sostanza al principio di “laicità” che connota oggi lo Stato italiano, ed al quale ha fatto più volte riferimento il supremo giudice delle leggi.

È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto.

In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana.

In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile.

In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni.

Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana.

Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i “Principi fondamentali” e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano.

Il richiamo, attraverso il crocifisso, dell’origine religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia (non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica “laicità”, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato italiano.

Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere “laicamente” sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza alla religione che li ha ispirati e propugnati.

Come ad ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere imposti o attribuiti significati diversi e contrastanti, oppure ne può venire negato il valore simbolico per trasformarlo in suppellettile, che può al massimo presentare un valore artistico. Non si può però pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato.

Nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare un altro simbolo, in verità, che si presti, più di esso, a farlo; e l’appellante del resto auspica (e rivendica) una parete bianca, la sola che alla stessa appare particolarmente consona con il valore della laicità dello Stato.

La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano.

La pretesa che lo Stato si astenga dal presentare e propugnare in un luogo educativo, attraverso un simbolo (il crocifisso), reputato idoneo allo scopo, i valori certamente laici, quantunque di origine religiosa, di cui è pervasa la società italiana e che connotano la sua Carta fondamentale, può semmai essere sostenuta nelle sedi (politiche, culturali) giudicate più appropriate, ma non in quella giurisdizionale.

In questa sede non può, quindi, trovare accoglimento la richiesta dell’appellante che lo Stato e i suoi organi si astengano dal fare ricorso agli strumenti educativi considerati più efficaci per esprimere i valori su cui lo Stato stesso si fonda e che lo connotano, raccolti ed espressi dalla Carta costituzionale, quando il ricorso a tali strumenti non solo non lede alcuno dei principi custoditi dalla medesima Costituzione o altre norme del suo ordinamento giuridico, ma mira ad affermarli in un modo che sottolinea il loro alto significato.

In conclusione, va respinto l’appello principale, e vanno accolti gli appelli incidentali delle associazioni A. GE. e Forum nella parte in cui reclamano l’ammissibilità del loro intervento in giudizio .

Le spese e gli onorari di giudizio possono essere compensati.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, ammette l’intervento in giudizio delle Associazioni A. GE. e Forum, e respinge il ricorso in epigrafe. Compensa le spese.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2006

Depositata in Segreteria il 13 febbraio 2006.