(Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 24 gennaio 2018, n. 3350)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROTUNDO Vincenzo – Presidente –
Dott. AGLIASTRO Mirella – rel. Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Anna – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. D’ARCANGELO Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.A., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/11/2015 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MIRELLA AGLIASTRO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. PICARDI ANTONIETTA, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con ricorso presentato in data 5/07/2016 i difensori di fiducia di P.A. censuravano la pronuncia della Corte d’Appello di Reggio Calabria in data 10/11/15 che aveva – in riforma della sentenza del 30 giugno 2010 del Tribunale di Palmi in composizione monocratica, accogliendo i ricorsi del Pubblico Ministero e del Procuratore Generale – dichiarato P.A. colpevole dei reati ascrittigli e, valutandone la recidiva, lo aveva condannato alla pena di mesi sette di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
L’imputato era stato tratto a giudizio per il reato di cui all’art. 336 c.p. e, come detto, in data 30/06/2010 era stato assolto dal giudice del Tribunale di Palmi per il reato in contestazione.
La vicenda storica si può compendiare nei seguenti termini: l’imputato era sottoposto all’obbligo di presentazione giornaliera alle ore 15.30 presso la Polizia Giudiziaria, come da ordinanza emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palmi in data 26/09/2008. In data 28/06/2009 il ricorrente si era presentato presso gli uffici della Tenenza di Rosarno con un anticipo di circa 15/20 minuti, prima di apporre la firma sul registro di controllo, aveva mostrato premura per gli adempimenti relativi all’obbligo della firma ma – dietro l’invito del militare di attendere per l’adempimento le ore 15.30 – agitandosi e gesticolando, aveva rivolto all’indirizzo del militare predetto la frase: “appuntato prima o poi iu ci scippu la testa” e, apposta la firma sul registro alle ore 15.28, lasciando la caserma e rientrando nella sua autovettura, aveva continuato a gesticolare vistosamente, a suonare il clacson e ad inveire contro il militare .
2. I difensori del ricorrente propongono ricorso per i seguenti motivi:
– violazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in ordine alla sussistenza di ipotesi di reato prevista dall’art. 336 c.p., difettando gli elementi costitutivi per la fattispecie criminosa e soprattutto per l’assenza del requisito della minaccia rilevata;
– motivazione assente, rilevata ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in ordine alla giustificazione del trattamento sanzionatorio e dell’esclusione delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p., nonché dell’applicazione della recidiva prevista dall’art. 99 c.p., in violazione dell’art. 133 c.p..;
– infine, non sarebbe giustificato il trattamento sanzionatorio applicato all’imputato.
3. In data 27.10.2017 sono stati presentati motivi nuovi ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4, con i quali si denuncia vizio di motivazione in ordine alla rivalutazione operata in sede di appello dell’unica prova dichiarativa a carico dell’imputato – omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale violazione dell’art. 6, par. 3, lett. D, Cedu (norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.), art. 533 c.p.p., comma 1 e art. 603 c.p.p., rilevata ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e): la riforma della sentenza assolutoria di primo grado è avvenuta sulla scorta della mera “rivalutazione cartolare” dei contenuti dell’unica prova dichiarativa assunta direttamente dal giudice monocratico, senza la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale con la escussione del teste.
Motivi della decisione
1. L’impugnazione è inammissibile per manifesta infondatezza, con riferimento a tutti i motivi proposti che vanno pertanto disattesi.
2. Quanto al primo motivo, sotto le sembianze della violazione di legge, in realtà si muove una censura di fatto, in quanto l’impugnazione appare finalizzata a neutralizzare la condotta penale posta in essere dall’imputato, che ha offerto una versione alternativa non aderente allo svolgimento dei fatti.
Nell’ottica difensiva del ricorrente, il militare avrebbe dovuto consentire un’anticipazione temporale dell’apposizione della firma, in contrasto con le disposizioni contenute nel provvedimento impositivo della misura, quanto all’orario da rispettare. Di fronte al diniego del carabiniere, il ricorrente ha reagito rivolgendo un’espressione minacciosa nei confronti del predetto, al fine di fargli compiere un atto contrario ai propri doveri di ufficio.
Ritiene il ricorrente che la frase rivolta al militare vada “valutata nella sua concreta oggettività”. L’effetto della frase minacciosa proferita, per la difesa, non avrebbe cagionato effetti intimidatori sul soggetto passivo, perché non ingenerante timore per la persona offesa, al contrario di quando sia diretta a fare compiere al pubblico ufficiale un atto contrario ai doveri di ufficio mediante l’uso di violenza o minaccia, situazione nella quale si appalesa penalmente rilevante, perché diretta a far compiere un atto illegittimo.
Il collegio di secondo grado, viceversa, ha congruamente vagliato il contegno tenuto dal P., che, lungi dal perdere la connotazione di intimidazione, non può essere valutato alla stregua di un improvviso scoppio d’ira sfociato in volgarità ingiuriosa, bensì nell’ottica della potenzialità costrittiva, espressa con giudizio ex ante, del male ingiusto prospettato, contenuto nella frase: “appuntato prima o poi iu ci scippu la testa”; inoltre, costituendo il fatto storico un reato di mera condotta, esso non richiede per il suo perfezionarsi nè che il destinatario sia stato in concreto intimidito, né il verificarsi del risultato perseguito dall’agente, il quale, peraltro, secondo le emergenze probatorie risultanti dagli atti, anche dopo aver firmato alle ore 15.28 ed essere uscito dalla caserma, ha continuato ad inveire e gesticolare, nonché rivolgere frasi all’indirizzo del militare , anche suonando il clacson ripetutamente.
3. Quanto al secondo motivo di impugnazione, esso appare del pari inammissibile per manifesta infondatezza.
Precisato che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione di congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/9/2013, Rv. 259142) – ipotesi che nel caso di specie non ricorre – va rilevato che, a fronte del minimo edittale applicato per il reato addebitato e del minimo aumento di un mese per la recidiva contestata (tenuto conto della pericolosità sociale e della capacità a delinquere manifestate, desunte anche dai plurimi pregiudizi penali annoverati, che hanno anche indotto al diniego delle circostanze attenuanti innominate), l’impugnazione ha genericamente censurato il trattamento sanzionatorio, senza argomentare specificamente perché, nella prospettiva del ricorrente, dovessero essere riconosciute le circostanze attenuanti generiche e non applicata la recidiva, non offrendo elementi o circostanze che possano contraddire il giudizio espresso dalla Corte d’appello.
4. Con riferimento al terzo motivo di doglianza – riguardante l’omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in violazione dell’art. 6, par. 3 lett. D, Cedu (norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.), art. 533 c.p.p., comma 1 e art. 603 c.p.p., rilevata ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e) sostiene la difesa che il ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado è avvenuto sulla scorta della mera “rivalutazione cartolare” del verbale di trascrizione dell’unica prova dichiarativa assunta direttamente dal giudice monocratico, senza la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, dedicata alla escussione del teste.
Vale osservare, al riguardo, che la censura è stata avanzata in questa sede soltanto con i motivi aggiunti ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4; non aveva formato oggetto di doglianza disattesa in appello, ai sensi dell’art. 603 c.p.p.; non è stato mai messo in discussione che il ricorrente abbia pronunciato l’espressione riportata testualmente in entrambe le sentenze di primo e secondo grado, in nessuno degli atti di impugnazione proposti, discutendosi piuttosto della ricorrenza o meno degli elementi costitutivi della fattispecie in contestazione.
Vale riflettere che la formale nuova audizione del carabiniere nulla potrebbe aggiungere sul piano degli apporti cognitivi rispetto a quanto risultante dalla precedente audizione e dalla annotazione di servizio in cui venne trasfusa e compendiata la vicenda.
Il cuore della disamina giuridica, allora, non attiene alla categoria né della prova “negata” né della prova che “se espunta possa incidere sull’esito del giudizio”.
Non è in discussione “l’attendibilità” della fonte testimoniale di prova, o il “valore” della prova dichiarativa assunta in primo grado, che deve trovare una “legittimazione” in appello, in vista del ribaltamento decisorio attraverso una nuova istruzione orale, attinente alla “storicità” dell’episodio.
Infatti, non è contestato che l’imputato abbia pronunciato l’espressione minacciosa addebitatagli, tale da rendere necessario saggiare l’affidabilità del dichiarante: la prospettiva – ed in questa ottica si è concentrato, con i primi due motivi, il ricorso per cassazione – non è quella di dubitare dell’attendibilità della persona offesa, bensì di connotare la condotta dell’autore alla stregua degli elementi strutturali della fattispecie ascritta, con riferimento alla “interpretazione” della frase espressa dall’imputato, sul piano della idoneità o meno a cagionare effetti intimidatori sul soggetto passivo, per fargli compiere un atto illegittimo e dell’assenza o meno del requisito della minaccia.
La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha incensurabilmente valutato trattarsi di una “promessa inquietante” rivolta dal ricorrente al militare, ancorché lo stesso non ne sia rimasto intimidito, ha stimato il coefficiente di gravità del male prospettato e, tenuto conto del bene giuridico protetto dalla norma, ha soppesato la minaccia come dotata di forza intimidatorie tale da ritenere consumato il reato addebitato.
4.1. Ne consegue che anche il terzo motivo deve ritenersi inammissibile perché tende ad introdurre indirettamente un nuovo apprezzamento del materiale probatorio cristallizzato agli atti, rimesso alla esclusiva competenza del giudice di merito, che ha fornito una congrua e adeguata motivazione, esente da vizi logici, perchè basata su corretti criteri di inferenza, espressi in un ragionamento fondato su condivisibili massime di esperienza.
5. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, equitativamente determinata in Euro duemila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2018