Attività di Polizia Giudiziaria: fonte confidenziale. Il Giudice non può obbligare gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria a rivelare i nomi delle persone che hanno ad essi fornito notizie (Corte Costituzionale, Sentenza 28 novembre 1968, n. 114).

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. ALDO SANDULLI, Presidente

– Prof. GIUSEPPE BRANCA

– Prof. MICHELE FRAGALI

– Prof. COSTANTINO MORTATI

– Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

– Dott. GIUSEPPE VERZÌ

– Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

– Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

– Dott. LUIGI OGGIONI

– Dott. ANGELO DE MARCO

– Avv. ERCOLE ROCCHETTI

– Prof. ENZO CAPALOZZA

– Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI

– Prof. VEZIO CRISAFULLI

– Dott. NICOLA REALE,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 349, ultimo comma, prima parte, del Codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 16 marzo 1966 dal giudice istruttore del Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Tresello Ferruccio e Porchietto Francesco, iscritta al n. 75 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 118 del 14 maggio 1966.

Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell’udienza pubblica del 9 attobre 1968 la relazione del Giudice Vezio Crisafulli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Chiarotti per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto:

Nel corso di un procedimento penale a carico di Trosello Ferruccio e Porchietto Francesco, il giudice istruttore del Tribunale di Torino ha sollevato, con ordinanza emessa il 16 marzo 1966, questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’ultimo comma dell’art. 349 del Codice di procedura penale, nella parte in cui esso stabilisce: “il giudice non può obbligare gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria a rivelare i nomi delle persone che hanno ad essi fornito notizie”, per contrasto con gli artt. 109 e 3 della Costituzione.

Premesso che i carabinieri del nucleo di polizia giudiziaria di Moncalieri, a seguito di segnalazione “da fonte confidenziale degna di fede” avevano richiesto al pretore di Moncalieri autorizzazione ad eseguire una perquisizione nell’abitazione di Trosello Ferruccio e nel corso della perquisizione avevano reperito oggetti di provenienza furtiva; che, trasmessi poi gli atti per competenza al giudice istruttore presso il Tribunale di Torino, le risultanze istruttorie ponevano in luce che a carico del Trosello sussistevano indizi di colpevolezza unicamente in ordine al reato di ricettazione, mentre a carico di Porchietto Francesco emergevano prove di colpevolezza per il reato di furto; che il maresciallo Bovino Antonio della polizia giudiziaria di Moncalieri, il quale aveva espletato le prime indagini, assunto come teste ed interrogato circa la persona dalla quale aveva ricevuto la segnalazione, dichiarava di volersi avvalere della facoltà concessagli dall’art. 349, ultimo comma, del Cod. proc. pen. e pertanto non rivelava il nome di questa persona, il giudice istruttore riteneva la questione di legittimità costituzionale, nei termini innanzi indicati, rilevante e non manifestamente infondata.

Circa la rilevanza il giudice a quo osserva che dalla soluzione del problema attinente alla legittimità o meno della norma dipende il risultato stesso della istruzione penale, nel senso che dalla possibilità di pervenire alla identificazione della persona che ha fornito alla polizia giudiziaria notizie e che dovrebbe pertanto assumere la qualità di teste dipende l’acquisizione di prove ulteriori che possono comportare la estensione delle imputazioni ad altri soggetti, ovvero il rafforzarsi o l’elidersi degli indizi di colpevolezza esistenti a carico degli attuali imputati.

Circa la non manifesta infondatezza, relativamente all’art. 109 della Costituzione, l’ordinanza di rinvio si riporta anzitutto ad alcune affermazioni contenute nella sentenza 18 giugno 1963, n. 94, della Corte costituzionale, secondo cui la disposizione costituzionale di cui trattasi pone la polizia giudiziaria di fronte all’autorità giudiziaria in un rapporto di subordinazione “funzionale”, che “trova la sua piena giustificazione nelle superiori esigenze della funzione di giustizia e nella necessità di garantire alla magistratura la più sicura ed autonoma disponibilità dei mezzi di indagine”. Da questa interpretazione e dalla considerazione che l’art. 109 della Costituzione non prevede alcuna deroga, né alcuna riserva di legge attraverso la quale possano introdursi deroghe, al principio della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria, deriverebbe, secondo il giudice a quo, l’incostituzionalità della limitazione disposta dalla norma impugnata, posto che, se è vero che l’art. 109 non attribuisce al giudice una discrezionalità assoluta nell’impartire direttive od ordini alla polizia giudiziaria, dovrebbe comunque ritenersi che le uniche limitazioni consentite a tale discrezionalità non possano essere ricercate se non in relazione allo spirito ed alla ratio della disposizione costituzionale, fra le quali non sarebbe possibile far rientrare quella che permette all’agente o ufficiale di polizia giudiziaria di sottrarsi al proprio dovere verso l’autorità giudiziaria, tacendo il nome di chi certamente assume la qualità di teste nel processo penale, quando addirittura non possa rivestire la qualità di imputato. In quest’ultimo caso, anzi, il non rivelare il nome del confidente equivarrebbe a garantire l’impunità a chi ha commesso un reato, ossia a pagare il prezzo della “confidenza” con una rinuncia all’azione penale, e con la conseguente implicita violazione del principio sancito all’art. 112 della Costituzione.

D’altra parte – aggiunge l’ordinanza – la discrezionalità della polizia giudiziaria nel rivelare o meno il nome di una persona informata sui fatti per cui si procede non rimarrebbe neutralizzata dalla seconda parte dell’ultimo comma dell’articolo 349 del Codice procedura penale, in base alla quale il giudice non può ricevere, a pena di nullità, dagli ufficiali ed agenti predetti notizie avute da persone i cui nomi essi non ritengono di dover manifestare.

E ciò, in quanto questa seconda parte della norma verrebbe a ribadire la limitazione dei poteri del giudice, precludendogli del tutto la ricerca della verità ed impedendogli un ambito di indagini in presenza di un commesso reato, in conseguenza di uno jus tacendi attribuito alla polizia giudiziaria: operando, così, un ingiustificato rovesciamento fra le reciproche posizioni dell’autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria, quali stabilite dall’art. 109 della Costituzione e sottraendo quest’ultima al controllo e alla dipendenza del giudice.

Circa la non manifesta infondatezza relativamente all’art. 3 della Costituzione, il giudice istruttore rileva che la disposizione impugnata creerebbe una diseguaglianza fra i cittadini in una duplice direzione.

In un primo senso, infatti, essa esonerebbe una categoria di cittadini – quella appunto degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria – dal generale obbligo di testimoniare nei procedimenti penali, degradando quest’obbligo a facoltà quando si tratti di indicare i nomi di persone informate circa talune circostanze per la realizzazione di un fine di giustizia.

L’ordinanza fa presente che il Codice di procedura penale pone altre deroghe a quest’obbligo, ma le ritiene giustificate da un interesse di carattere generale, quale il libero esercizio di determinate professioni, che attengono alla libertà religiosa, al diritto di difesa, alla tutela della salute e fa comunque notare che sono oggetto di controllo da parte del giudice, il quale può sindacare con opportuni accertamenti la fondatezza dell’invocato motivo di astensione; ulteriori deroghe sarebbero, infine, parimenti giustificate alla luce di un interesse costituzionalmente protetto, in quanto attengono a rapporti familiari. Nel caso dell’art. 349, invece, la discrezionalità degli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria si presenterebbe assoluta, senza possibilità di accertamento da parte del giudice, e soprattutto inerente ad una funzione che si svolge nell’ambito del dovere di collaborazione e di subordinazione all’autorità giudiziaria.

In un secondo senso, la disposizione impugnata introdurrebbe una arbitraria differenziazione fra i soggetti tenuti all’obbligo del rapporto all’autorità giudiziaria previsto in via generale dall’art. 2 del Codice di procedura penale, che deve contenere anche l’indicazione dei testimoni o quant’altro valga alla loro identificazione, costituendo la eventuale omissione di queste indicazioni un ipotesi delittuosa punita dal Codice penale.

A quest’ultimo obbligo ed alla relativa sanzione non sarebbero tenuti gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, in virtù appunto dell’art. 349, ultimo comma, del Codice di procedura penale che contrasterebbe pertanto con il principio di eguaglianza con il consentire a questi soggetti, per i quali è più forte il vincolo di collaborazione e di subordinazione all’autorità giudiziaria, di sottrarsi ad un dovere indistintamente imposto agli altri soggetti che, rivestiti di una determinata qualità, hanno l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria.

L’ordinanza è stata regolarmente notificata e comunicata, nonché pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 14 maggio 1966.

È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura di Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Nelle sue deduzioni l’Avvocatura fa presente che l’ultimo comma dell’art. 349 del Codice di procedura penale aggiunge nella sua seconda parte che il giudice non può ricevere, a pena di nullità, dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria notizie avute da persone i cui nomi essi non ritengono di dover manifestare: in tal modo, se da un lato protegge un segreto d’ufficio che ubbidisce a determinate esigenze, dall’altro tutela la sincerità della prova, nel senso che non si ammette la introduzione in giudizio di una prova la cui sorgente è ignota al giudice e sottratta al suo sindacato.

Cosicché, la rilevanza della conoscenza della fonte in virtù della quale l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria si è orientato in un senso piuttosto che in un altro si rivelerebbe priva di consistenza ai fini dell’esito del processo penale, il quale può essere definito solo sulla base di prove che trovino una legittima introduzione in esso. In altre parole, non conta che un certo orientamento di ricerca sia stato agevolato da una piuttosto che da altra fonte, ma solo il contenuto delle prove che, sia pure in relazione a quell’orientamento, gli ufficiali o gli agenti predetti hanno correttamente acquisito e di cui siano legittimamente in grado ed in dovere di dar conto.

Ciò premesso, per quanto si riferisce in particolare al sollevato profilo di incostituzionalità nei confronti dell’art. 109 della Costituzione l’Avvocatura osserva che la dipendenza della polizia giudiziaria della magistratura, anche sul piano della subordinazione funzionale, non dovrebbe essere intesa come esclusiva ed assoluta, in quanto la citata norma costituzionale, quando statuisce che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, mirerebbe semplicemente a consentire al giudice, senza doversi rivolgere al potere esecutivo, di attuare concretamente le attività materiali condizionanti in modo immediato l’esercizio della sua funzione, e garantirebbe altresì il cittadino, attraverso l’accennata sottoposizione funzionale, contro eventuali abusi delle forze di polizia ed ingerenze ed interferenze di altri organi.

La disposizione impugnata, lungi dall’incidere sui rapporti fra il giudice e la polizia giudiziaria nei sensi di cui all’art. 109 della Costituzione, troverebbe la sua giustificazione in un interesse di carattere generale, in quanto diretta a rendere più efficiente l’attività degli organi di polizia in ordine all’accertamento dei reati, né potrebbe mai consentire reticenze a favore non già dell’informatore, ma dell’autore del reato.

Per quanto attiene, poi, all’asserita violazione del principio di eguaglianza sotto entrambi i profili dedotti nell’ordinanza di rimessione, l’Avvocatura fa rilevare che nella specie si verificherebbero le condizioni che permettono al legislatore di disciplinare diversamente situazioni che egli considera differenziate: la norma impugnata concernerebbe, infatti, una particolare situazione obiettiva, in relazione ad una intera Categoria di funzionari ed in base a valide ragioni fondate sull’interesse della collettività. Concludeva, pertanto, l’Avvocatura chiedendo la dichiarazione di infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale proposte.

Nell’udienza pubblica del 9 ottobre 1968, l’Avvocatura insisteva nelle conclusioni già formulate.

Considerato in diritto:

1. – Formalmente è denunciata la sola proposizione dell’ultimo comma dell’art. 349 del Codice di procedura penale, che dispone: “il giudice non può obbligare gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria a rivelare i nomi delle persone che hanno ad essi fornito notizie”; ma in realtà tale proposizione forma sintatticamente e logicamente tutt’uno con quella che immediatamente la segue, integrandone il precetto: “e non può ricevere, a pena di nullità, dagli ufficiali od agenti predetti notizie avute da persone i cui nomi essi non ritengono di dovere manifestare”.

È dall’intero contesto dell’ultimo comma dell’art. 349, che risulta, nel suo compiuto significato, la norma in contestazione: puntualmente corrispondente, nella sostanza, a quella espressa, con più semplice dizione e più lato riferimento soggettivo, dall’art. 246, ultimo comma, del Codice del 1913: “i pubblici ufficiali non debbono esporre notizie raccolte da persone i cui nomi non credano di manifestare al giudice” (si vedano pure le analoghe formule degli artt. 445 e 472, rispettivamente del Progetto del 1905 e del Progetto del 1911).

Così disponendo, come chiaramente si evince dai lavori preparatori del tempo, volle il precedente Codice dirimere le dispute dottrinali e le contrastanti interpretazioni giurisprudenziali che si erano manifestate sotto il vigore del Codice del 1865, allorché, nella mancanza di norma apposita, il segreto di polizia veniva tuttavia affermato, riconducendolo al segreto d’ufficio e al segreto professionale di cui all’art. 288.

Ma volle sopratutto il legislatore evitare il pericolo di abusi, in precedenza lamentati o ipotizzati, espressamente statuendo l’ovvio principio non essere ammissibile deporre sulla fede di un confidente del quale non si faccia il nome e che di conseguenza non potrebbe a sua volta essere chiamato a testimoniare personalmente in giudizio.

In tal modo la riforma del 1913 tendeva a conciliare, in materia di tanta delicatezza per la natura e per il peso dei diversi interessi che in essa interferiscono, “la necessità sociale del segreto della polizia con l’esercizio del diritto di difesa” (Rel. Sottocommissione Pessina, par. XCII).

Identico è il significato e identica la ratio dell’attuale ultimo comma dell’art. 349 del Cod. proc. penale, che si apparenta perciò, sotto questo aspetto, alle disposizioni dello stesso Codice che prescrivono l’uso processuale degli scritti anonimi (artt. 8 e 141) e fanno divieto ai testimoni di “deporre sulle voci correnti nel pubblico” intorno ai fatti della causa (art. 349, comma quarto).

2. – Ciò premesso, e passando ad esaminare partitamente le singole censure contenute nell’ordinanza, non si ravvisa contrasto tra la norma impugnata e l’art. 109 della Costituzione, dovendo quest’ultimo, per il suo spirito informatore e per il suo contenuto normativo, ritenersi estraneo alla materia delle prove, in genere, e delle prove testimoniali, in specie.

L’art. 109, a prescindere dalle sue possibili implicazioni di carattere organizzativo, delle quali molto si è discusso e tuttora si discute, ma che qui non rilevano, ha comunque e per intanto il preciso e univoco significato (sul quale questa Corte si è soffermata nella sentenza del 6 giugno 1963, n. 94) di istituire un rapporto di dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dalla autorità giudiziaria, escludendo interferenze di altri poteri nella condotta delle indagini, in modo che la direzione ne risulti effettivamente riservata alla autonoma iniziativa dell’autorità giudiziaria medesima.

In questo ordine di idee, l’art. 220 del Cod. proc. pen. nel testo modificato dalla Novella del 1955, impone agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria l’obbligo di “eseguire gli ordine del giudice istruttore e del pretore”, con riguardo, evidentemente, a singoli atti o adempimenti di volta in volta richiesti, stabilendo altresì, in linea più generale, che essi esercitano le loro attribuzioni “alla dipendenza e sotto la direzione del procuratore generale presso la Corte di appello e del procuratore della Repubblica”; mentre poi il secondo comma del medesimo articolo ed il successivo art. 223 provvedono in qualche misura a rendere operanti detti vincoli di subordinazione configurando le relative responsabilità e le connesse sanzioni disciplinari.

È chiaro allora che le limitazioni alla prova testimoniale di cui all’ultimo comma dell’art. 349 del Cod. proc. pen. non incidono sui descritti vincoli di subordinazione funzionale (né la situazione muterebbe ove pure, in ipotesi, si trattasse invece di subordinazione gerarchica), poiché ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, non diversamente da ogni altro pubblico ufficiale, si configurano, quando assumano nel processo la qualità di testimoni, esclusivamente come tali, senza che gli obblighi e i diritti ad essi imposti o riconosciuti in questa veste possano comunque riuscire alterati nell’uno o nell’altro senso dai particolari rapporti di dipendenza in cui, sotto altri profili e ad altri effetti, essi possono trovarsi nei confronti della stessa autorità giudiziaria precedente.

3. – Secondo l’ordinanza, il jus tacendi riconosciuto agli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria, in connessione con la sancita inammissibilità di deposizioni basate unicamente su informazioni dei loro confidenti, violerebbe l’art. 109 anche perché precluderebbe al giudice l’accertamento della verità, operandosi così “un ingiustificato rovesciamento fra le posizioni reciproche della polizia giudiziaria e dell’autorità giudiziaria”.

Ma quanto osservato al punto precedente vale a mostrare come un siffatto “rovesciamento” non sussiste, poiché, da un lato, i divieti dell’ultimo comma dell’art. 349 concernono il testimone, e perciò l’ufficiale od agente di polizia giudiziaria in quanto testimone, e non già in quanto organo ausiliario dell’ufficio giudiziario, posto alle dipendenze di questo per lo svolgimento delle indagini; mentre, d’altro lato, l’art. 109 della Costituzione nulla dice, neppure per implicito, in ordine all’estensione dei poteri di cognizione spettanti al giudice nel processo penale.

È da aggiungere che il caso limite, cui espressamente si riferisce il giudice istruttore di Torino, del funzionario di polizia giudiziaria che, avvalendosi della facoltà derivante dall’ultimo comma dell’art. 349 del Cod. proc. pen. illecitamente favorisca l’impunità di chi dovrebbe, a qualsiasi titolo, assumere la veste di imputato, esula dall’ipotesi prevista dalla norma impugnata, la quale non potrebbe certamente essere invocata per giustificare l’omessa denuncia degli indiziati di un reato, ogni qual volta ne ricorrano le condizioni di legge.

Questa Corte è chiamata a giudicare della legittimità costituzionale della disposizione del Codice, nella sua astratta generalità, e non può portare il suo esame sugli abusi che, traendone pretesto, fossero eventualmente posti in essere da funzionari poco scrupolosi, e nei confronti dei quali la legislazione contempla, del resto, appropriati mezzi repressivi.

4. – È anche infondata la censura di violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione.

Sotto il profilo della diversità di trattamento nei confronti di ogni altro testimone, è sufficiente rilevare che tale diversità non concreta una discriminazione in favore di determinati soggetti, essendo invece determinata da obiettive ragioni inerenti alla pubblica funzione da essi svolta in circostanza sempre difficili, e rese talora anche più malagevoli dal persistere di mentalità e fatti di costume che, lungi dall’incoraggiare i cittadini a collaborare lealmente con la giustizia, possono a volte scoraggiare persino gli onesti dal fornire gli indizi in loro possesso atti alla individuazione dei colpevoli di reati.

Queste stesse considerazioni valgono a giustificare la diversa disciplina del segreto di polizia nei confronti con altri segreti nonché la posizione differenziata che ne risulta per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria rispetto ad altre categorie di pubblici ufficiali: diversità che non sono pertanto né arbitrarie né irragionevoli e non contrastano con alcun principio costituzionale, mentre anzi trovano il loro ultimo fondamento nell’interesse alla realizzazione della giustizia, che – come questa Corte ebbe ad affermare in altra occasione (sentenza 3 marzo 1966, n. 18) – “fra l’altro, vale ad assicurare l’esercizio di tutte le libertà” ed “è anch’esso garantito, in via primaria, dalla Costituzione”.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 349, ultimo comma, prima parte, del Codice di procedura penale, sollevata con ordinanza del 16 marzo 1966 dal giudice istruttore del Tribunale di Torino, in riferimento agli artt. 109 e 3 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 1968.

Depositata in Cancelleria il 28 novembre 1968.