Autocertificazioni mendaci e le conseguenze eccessive, secondo il TAR Puglia, sono irragionevoli e incostituzionali (TAR Puglia – Lecce, Sezione III, Ordinanza 17 settembre 2018, n. 1346).

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce

(Sezione Terza)

…, omissis …

Fatto e diritto

1. – Con l’atto introduttivo del presente giudizio, ritualmente notificato il 28 settembre 2017 e depositato il 17 ottobre 2017, il ricorrente – già titolare di patentino per la vendita di generi di monopolio, nell’esercizio bar ubicato all’interno di stazione di servizio automobilistica sita su S.S. 172 Km 52+175 in Martina Franca (TA) – ha impugnato, domandandone l’annullamento:

1) il provvedimento n. 216 del 27 luglio 2017, prot. n. 56640, notificatogli in data 9 agosto 2017, con cui l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli – Ufficio dei Monopoli per la Puglia, la Basilicata e il Molise – Sezione Operativa Territoriale di Taranto, in riscontro all’istanza presentata in data 12 maggio 2017 per il rinnovo biennale del citato patentino:

< Atteso che il Consiglio di Stato, decidendo in caso analogo, nella sentenza di rigetto di appello n. 2028/15 ha motivato:

“il rinnovo non è altro, in relazione alla durata biennale del titolo, che un rinnovato rilascio, onde devono logicamente ritenersi necessari a tal fini anche i presupposti normativi richiesti per quest’ultimo alla data in cui il rinnovo è richiesto; tale considerazione trova fondamento nella stessa lettera del D.M. n. 38/2013, laddove, evidentemente alla scopo della verifica della sussistenza di tali requisiti, l’articolo 9 richiede una dichiarazione sostitutiva che riporti i dati e le informazioni di cui all’art. 8, comma 3”;

Vista la dichiarazione sostitutiva di atto notorio nella quale l’interessato dichiarava al punto 7) la mancata sussistenza a suo carico di eventuali pendenze fiscali e/o morosità verso l’Erario o verso il Concessionario della riscossione definitivamente accertate o risultanti da sentenze non impugnabili;

Vista la verifica della veridicità di quanto dichiarato nel succitato punto con nota protocollo n. 36947 del 18/05/2017, inviata a mezzo pec al concessionario Equitalia Sud SpA;

Considerato che dal riscontro della suddetta nota pervenuta, stesso mezzo, con protocollo n. 41206 del 5/06/2017, è emersa la non corrispondenza di quanto dichiarato dalla parte>> (precisamente, l’esistenza, a carico del ricorrente, di una cartella di pagamento, emessa da Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A., per l’omesso pagamento di una sanzione amministrativa per violazione al Codice della Strada, dell’importo totale di euro 217,18, di cui euro 196,91 per “Totale tributi in debito”, oltre euro 5,88 per “Diritti di notifica”, euro 11,95 per “Aggio” ed euro 2,44 per “Interessi di mora”);

<<….verificato che la cartella esattoriale al momento della presentazione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio era ancora pendente ed è stata liquidata solo successivamente a quanto comunicato da questo ufficio all’interessato ai sensi dell’art. 76 del D.P.R. n. 445/2000;

Considerato che, così come previsto dal D.M. 38/13 comma 3) art. 7), ai fini dell’adozione del provvedimento gli Uffici competenti devono valutare – lettera g) – l’assenza di eventuali pendenze e/o di morosità verso l’erario o verso l’agente di riscossione definitivamente accertate indicate, così come previsto alla lettera f) comma 3) art. 8) del succitato decreto ministeriale, nell’atto notorio presentato a corredo dell’istanza;

Considerato quanto emerso dal controllo della veridicità presso l’agente della riscossione in merito a quanto dichiarato nell’atto notorio presentato ovvero la presenza di pendenze verso il concessionario “ancora non pagati o pagati parzialmente alla data del 5/06/2017”;

Considerato che nell’atto notorio la presenza di tali situazioni debitorie non erano state segnalate al punto f) dello stesso;

Considerato che per quanto sopra l’istante è incorso in quanto previsto dall’art. 76 del D.P.R., 445/2000 in merito ad una dichiarazione risultata non veritiera>>;
ha determinato “il rigetto dell’istanza di rinnovo dell’autorizzazione n. 503039/TA per i motivi sopra indicati e la decadenza dell’autorizzazione provvisoria alla vendita rilasciata nelle more dell’istruttoria”;

2) ove dovesse occorrere, tutti gli atti presupposti, consequenziali e con il citato provvedimento connessi.

Ha chiesto, altresì, “la immediata restituzione del patentino per la vendita di generi di monopolio”.

A sostegno dell’impugnazione interposta ha dedotto:

1) violazione e/o falsa applicazione di Regolamento, e, in particolare, degli artt. 7, 8 e 9 Decreto Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 38/2013, falsa presupposizione, eccesso di potere per illogicità ed ingiustizia;

2) violazione e/o falsa applicazione del D.M. 38/2013 in particolare, degli artt. 7, 8 e 9, eccesso di potere per sviamento e contraddittorietà;

3) violazione e/o falsa applicazione di principi generali di imparzialità e correttezza della P.A., come rinvenienti dall’art. 97 Costituzione, violazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa;

4) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 75 e 76 del DPR 445/2000.

Si è costituita in giudizio, per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale Erariale, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli – Ufficio dei Monopoli di Taranto, contestando in toto le avverse pretese e chiedendo la reiezione del gravame.

Con “Note d’udienza” depositate agli atti del giudizio in data 26 giugno 2018, parte ricorrente ha prospettato dubbi di costituzionalità in ordine all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, chiedendo che l’adito Tribunale “Voglia sollevare questione di illegittimità costituzionale dell’art. 75 DPR 445/00 per contrasto con l’art. 3 Cost.” (essenzialmente, sotto il profilo della violazione dei canoni di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza), “nonché per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. con riferimento all’art. 49, terzo comma, della CDFUE” (<>).

Alla pubblica udienza del 3 luglio 2018, su richiesta di parte, la causa è stata introitata per la decisione.

2. – Rileva, innanzitutto, il Collegio che l’impugnato diniego risulta motivato dalla P.A. sulla scorta dell’omessa dichiarazione, da parte dell’istante, di taluni debiti verso l’Erario (e cioè, la preesistenza di una cartella di pagamento, emessa da Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A., per l’omesso pagamento di una sanzione amministrativa per violazione al Codice della Strada, dell’importo totale di euro 217,18), ai sensi, sostanzialmente (a ben vedere), dell’art. 75 del D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445.

E’ opportuno rammentare che l’articolo 75 (“Decadenza dai benefici”) del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”) dispone che:

“1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.

La granitica giurisprudenza formatasi in “subiecta materia” (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 9 aprile 2013, n. 1933) ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 < Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della disciplina dettata dalla L. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio”.

Pertanto, (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 27 aprile 2012, n. 2447): sicchè ogni eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013).

Ai sensi della normativa generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13 settembre 2016, n. 9699)”(T.A.R. Lazio, Roma, Sezione Terza ter, 24 maggio 2017, n. 6207), “senza che tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr. ad es. CdS 1172\2017)” (T.A.R. Liguria, Genova, Sezione Prima, 14 giugno 2017, n. 534).

In definitiva, per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da assurgere al rango di “diritto vivente”, sicchè neppure è possibile per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente conforme”):

– l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di discrezionalità alle PP.AA. che, in sede di controllo (d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della (oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;

– parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni non veritiere, impedisce (ovviamente e a fortiori, come nel caso di specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..

3. – Tuttavia, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico automatismo legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella sua assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza sanciti dall’art. 3 della Costituzione.

4. – Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza.

Del resto ,…, le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione” (Corte Costituzionale, 22 dicembre 1988, n. 1130).

In conclusione:

– per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di legge deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità, rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale, 1° giugno 1995, n. 220);

– per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti” – Corte costituzionale, cit., n. 1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità sillogistico – deduttiva e logico – formale, laddove (invece) la ragione (pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica), solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine, la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed effetti sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da una regola generale apparentemente ed astrattamente logica.

In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare, anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” … ed a criteri di coerenza logica, teleologica …. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012)>> (Corte Costituzionale, sentenza 10 giugno 2014, n. 162).

E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).

5. – Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione.

5.1 – Ed invero, le conseguenze decadenziali (definitive) dal beneficio (peraltro, latu sensu sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e, a fortiori, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3 della Costituzione.

E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato) impone tout court (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima rilevanza concreta (come, appunto, nel caso di cui al presente giudizio), con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.

5.2 – Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente (parimenti irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento soggettivo (dolo – la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero – ovvero colpa, grave o meno – nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente) della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale (e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio penale).

5.3 – Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano essere superati facendo leva sulla ratio sottesa alla disposizione di che trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 2447/2012), nel principio generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna l’affermazione dell’autoresponsabilità – “oggettiva” – del dichiarante).

E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.

Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di specie).

Sicchè, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali) si rivela, in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la norma di semplificazione de qua è, in definitiva, finalizzata.

E tanto vieppiù allorchè si consideri che l’art. 40 (“Certificati”) del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”), come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12 novembre 2011, n. 183, ha disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati.

Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”.

Sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicchè, in definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”, la semplificazione de qua si risolve, in ultima analisi, per un verso, nella (sicura) diminuzione degli adempimenti a carico dell’Amministrazione Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a campione”, ai sensi dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro verso, nell’eccessiva (considerate le conseguenze automatiche derivanti dall’eventuale dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n. 445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo.

6. – Pertanto, rispetto ad una disposizione – l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 -, nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del “diritto vivente”) e non manifestamente infondata.

7. – Inoltre, l’intervento del Giudice delle Leggi appare assolutamente necessario nella presente controversia, non potendosi prescindere dalla definizione (necessariamente e logicamente pregiudiziale) di tale questione ai fini della decisione del presente giudizio, in quanto, nell’ipotesi in cui il citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 dovesse essere dichiarato incostituzionale, verrebbe meno l’unico presupposto normativo posto, sostanzialmente (a ben vedere), a fondamento del gravato diniego, nel mentre, in caso contrario, il gravame sarebbe infondato alla stregua delle censure formulate dalla parte ricorrente.

8. – Il Collegio, in conclusione, ritiene che la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 75 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, sia rilevante (sussistendo, appunto, il nesso di assoluta pregiudizialità tra la soluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale e la decisione del presente giudizio) e non manifestamente infondata, e debba, conseguentemente, essere rimessa all’esame della Corte Costituzionale, mentre il giudizio in corso deve essere sospeso fino alla decisione della Consulta.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Terza, pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, sospende il giudizio e solleva questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nei sensi e termini di cui in motivazione, dell’art. 75 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.

Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, e comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.