La Corte Costituzionale
ha pronunciato la seguente
Sentenza
Nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 122, 191 e 196, comma terzo, c.p.m.p. promossi con ordinanze emesse il 22 luglio, 6 ottobre, 4 novembre e 1° (gradi) dicembre 1982 dal Tribunale militare di Padova, il 27 maggio e 21 ottobre 1983 dal Tribunale militare di Verona e il 9 febbraio 1984 dal Tribunale militare di Bari, iscritte ai nn. 752 e 868 del Registro Ordinanze 1982, ai nn. 221, 222, 660 e 1043 del Registro Ordinanze 1983 e al n. 385 del Registro Ordinanze 1984 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 88, 149, 246 e 253 del 1983 e nn. 18, 195 e 259 del 1984.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 febbraio 1985 il Giudice relatore Francesco Saja;
udito l’Avvocato dello Stato Benedetto Baccari per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Le sette ordinanze in epigrafe sollevano tre questioni di legittimità costituzionale che risultano connesse o simili; pertanto, i relativi giudizi possono riunirsi per essere decisi con unica sentenza.
2. – La prima di esse viene proposta dai Tribunali militari di Padova, Verona e Bari (ordd. nn. 752 e 868 del l982, 660 del 1983 e 385 del 1984) e si ricollega alle sentenze di questa Corte n. 26 del 1979 e n. 103 del 1982, le quali hanno dichiarato l’illegittimità, in quanto contrastante con l’art. 3 della Costituzione, del sistema sanzionatorio disposto negli artt. 186 e 189 c.p.m.p. ( R.D. 20 febbraio 1941 n. 303) per alcune figure del reato di insubordinazione, ferma restando l’illiceità penale delle fattispecie in dette norme previste: alle quali, pertanto, si rendono generalmente applicabili le corrispondenti pene comminate dal codice penale comune – stante il carattere complementare dell’ordinamento militare (v. ultimamente sent. n. 213 del 1984) – di norma notevolmente meno gravi di quelle stabilite nel detto ordinamento.
I provvedimenti di rimessione ora ricordati fanno perno appunto su tale conseguenza, relativamente, in particolare, al reato di insubordinazione con minaccia o ingiuria in presenza del superiore ( art. 189 c.p.m.p.), osservando che non possono più razionalmente sussistere le sanzioni previste nell’art. 191 dello stesso codice per i medesimi fatti commessi contro il superiore assente.
La relativa condotta, invero, proprio per l’assenza del superiore, è considerata meno grave dal suddetto c.p.m.p., il quale perciò ha comminato nel citato art. 191 sanzioni inferiori rispetto a quelle previste nel testo originario del ricordato art. 189; per contro, in seguito alla suddetta pronuncia di questa Corte n. 103 del 1982, la situazione risulterebbe attualmente capovolta e il reato meno grave verrebbe punito con sanzioni più rigorose, con la conseguente violazione dell’art. 3 Cost.
3. – La questione è fondata.
Come questa Corte ha costantemente affermato, la valutazione della congruenza fra reati e pene rientra nel potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato sotto il profilo della legittimità costituzionale soltanto se non sia stato rispettato il limite di ragionevolezza, sicché la sanzione comminata risulti irrazionale e arbitraria.
Ora, è evidente come tale vizio ricorra nella situazione denunciata, in quanto, per effetto dei suindicati interventi di questa Corte, il reato considerato originariamente più lieve (art. 191) è punito più rigorosamente di quello di maggiore gravità (art. 189), il che dà luogo ad una palese irrazionalità che deve essere eliminata con una pronuncia di illegittimità costituzionale analoga a quella delle sentenze suddette (alle quali deve aggiungersi la sentenza n. 173 del 1984), in modo che le varie figure del reato di insubordinazione soggiacciano ad un coerente criterio normativo.
Peraltro sin dalla prima pronuncia – e l’ammonimento è stato ripetuto in quelle successive – la Corte ha avvertito che, essendo venuto meno il punto cardine del sistema sanzionatorio stabilito dal codice militare in subiecta materia, si era creata una situazione sbilanciata che esigeva un intervento legislativo diretto a riordinare interamente su un piano di indispensabile razionalità detto sistema.
La sollecitazione non è rimasta inascoltata, giacché in data 19 gennaio 1984 è stato presentato dal Governo un disegno di legge (Atti Camera dei Deputati, n. 1152) con cui viene regolata la materia sulla base delle ricordate pronunce di questa Corte.
Ma esso, che all’art. 5 prevede la modificazione del citato articolo 191 nel senso auspicato dai giudici a quibus, non è stato ancora approvato dal Parlamento, sicché permane la ricordata situazione di grave irrazionalità, che deve essere conseguentemente eliminata.
La pronuncia di illegittimità costituzionale fa perdere consistenza a quanto dedotto dal Tribunale di Bari relativamente alla distinzione posta dal codice militare a seconda che il superiore sia ufficiale o no, dato che la pronuncia travolge anche tale distinzione, che non è più riscontrabile nella disciplina da applicare in luogo di quella annullata (la distinzione viene peraltro soppressa nel suindicato disegno di legge, accogliendosi così l’auspicio formulato da questa Corte con la sentenza n. 72 del 1980).
4. – Analoga a quella sopra esaminata è la censura contenuta nell’ordinanza del Tribunale militare di Verona n. 1043 del 1983, che concerne l’art. 196 c.p.m.p, nella parte in cui assoggetta alla reclusione militare fino a tre anni la minaccia ad un inferiore, se essa è grave o è commessa in uno dei modi indicati nell’art. 339 c.p.
Nella disposizione impugnata la pena ora detta è collegata col sistema sanzionatorio originariamente fissato per i reati contro la disciplina militare, sicché anch’essa risulta notevolmente sbilanciata e inficiata da profonda irrazionalità: infatti, in base alla norma suddetta, la minaccia aggravata ad inferiore è punita, come s’è detto, con la pena detentiva fino a tre anni, mentre quella contro il superiore, che presenta un maggior grado di gravità, è punita, a seguito della più volte ricordata sentenza n. 103 del 1982, secondo il codice penale comune, con la reclusione fino ad un anno.
Questo squilibrio, rilevato e corretto anche nel citato disegno di legge (art. 8), impone di dichiarare costituzionalmente illegittimo in parte qua anche l’art. 196, terzo comma, c.p.m.p.
5. – Non è invece fondata la terza e ultima questione, che è stata sollevata dal Tribunale di Padova con le ordinanze nn. 221 e 222 del 1983.
Con esse il giudice a quo impugna l’art. 122 c.p.m.p. il quale, punendo il reato di violata consegna da parte del militare preposto di guardia a cosa determinata, per il solo fatto della violata consegna, con la reclusione militare non inferiore a due anni, astrattamente consente che detta pena possa estendersi nel massimo sino a ventiquattro anni ( art. 26 c.p.m.p.).
In relazione a tale possibilità la norma denunciata sembra al giudice a quo in contrasto con l’art. 3 Cost. per irrazionale disparità di trattamento con le altre figure di reato di violata consegna, punite, come si afferma, con la reclusione militare sino a tre anni ( artt. 118 e 120 c.p.m.p.) nonché in contrasto con l’art. 27, primo e terzo comma, Cost.
Rispetto al primo profilo, va osservato che il raffronto tra le sanzioni previste dalle disposizioni suddette non risponde esattamente alla realtà normativa.
Invero, a parte la previsione dell’art. 120, la quale non è significativa perché si riferisce ad un’ipotesi chiaramente di minimo rilievo e ha carattere meramente sussidiario, il raffronto della pena per il reato del l’art. 118 non può essere limitato a quella stabilita nel primo comma, poiché vanno tenuti presenti i successivi capoversi, i quali comminano nel minimo una pena addirittura superiore a quella stabilita dall’art. 122 (e cioè la reclusione militare non inferiore a sette anni) e nel massimo prevedono la medesima sanzione fino a quindici anni.
Il richiamo, come tertium comparationis, delle norme suddette non conforta dunque il contenuto dell’ordinanza di rimessione, essendo evidente, invece, che trattasi di materia regolata dal legislatore secondo una valutazione di politica criminale, in base alla quale è stata fissata la maggiore o minore gravità delle singole fattispecie.
D’altro canto, l’individuazione concreta della pena spetta al giudice nell’ambito del potere regolato dall’art. 133 cod. pen. comune, in modo che essa risulti soggettivamente e oggettivamente proporzionata alle singole fattispecie concrete (per la concessione di circostanze attenuanti, la sanzione può anche andare al di sotto del minimo edittale), potere il cui esercizio è soggetto a controllo mediante i normali mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento processuale militare: pertanto l’eventualità prospettata dall’ordinanza di rimessione si presenta come mera ipotesi teorica.
Il che non impedisce di auspicare che nella riforma generale organica del codice penale militare di pace, la quale ha formato oggetto di vari disegni di legge di delega al Governo sin dalla VII legislatura, si provveda a ridurre il divario tra il minimo e il massimo della pena edittale, limitando ulteriormente così il potere discrezionale del giudice.
Per quanto concerne il secondo profilo, osserva la Corte che manca qualsiasi motivazione rispetto al primo comma dell’art. 27 Cost. (« la responsabilità penale è personale») e che risulta, comunque, di tutta evidenza come la disposizione denunciata preveda una responsabilità per fatto proprio e perciò non violi affatto il suddetto principio.
Mentre, relativamente al terzo comma dello stesso art. 27 («le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), indicato anch’esso genericamente nell’ordinanza di rimessione senza alcuna adeguata motivazione, va rilevato che il fine rieducativo della pena, a cui sembra volersi riferire il giudice a quo in relazione alla sanzione prevista dal cit. art. 122, non può propriamente formare oggetto di un accertamento nel giudizio di costituzionalità in quanto, da un lato, la determinazione della pena edittale è rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore, non censurabile se, come nella specie, non esorbiti dal limite di razionalità; e, dall’altro, l’individuazione di quella irrogabile in concreto rientra, come ora si è accennato, nei compiti del giudice secondo la disciplina dettata dal citato art. 133 cod. penale (si vedano sent. n. 22 del 1971, sent. n. 18 del 1973, sent. n. 143 del 1974 e sent. n. 119 del 1975); senza dire, come pure è stato rilevato nelle predette decisioni, che l’efficacia rieducativa in questione dipende soprattutto dal regime di esecuzione della pena, che la più recente legislazione ha preso seriamente in considerazione fornendo una più moderna ed evoluta disciplina.
P.Q.M.
La Corte Costituzionale
riuniti i giudizi,
1.a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 191 c.p.m.p., limitatamente alle parole «con la reclusione militare da sei mesi a tre anni, se il superiore è un ufficiale, e con la stessa pena fino a sei mesi, se il superiore non è un ufficiale»;
2.b) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 196, terzo comma, c.p.m.p. limitatamente alle parole «la reclusione militare fino a tre anni»;
3.c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.m.p., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. dal Tribunale militare di Padova con le ordinanze nn. 221 e 222/83 indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 1985.
Depositata in Cancelleria il 4 aprile 1985.