(Corte di Cassazione penale, Sez. III, sentenza 24 agosto 2016, n. 35428)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ANDREAZZA Gastone – Presidente –
Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –
Dott. MENGONI Enrico – rel. Consigliere –
Dott. RENOLDI Carlo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
Sentenza
sul ricorso proposto da:
P.G., nato a (OMISSIS) il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 25/3/2015 della Corte di appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MENGONI Enrico;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, che ha concluso chiedendo dichiarare inammissibile il ricorso;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. CONTUCCI Lorenzo in sostituzione dell’Avv. ADAMI Giovanni, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 25/3/2015, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia emessa il 12/6/2012 dal Tribunale di Lecco, con la quale P.G. era stato giudicato colpevole del delitto di cui alla L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 6-bis, e condannato alla pena di otto mesi di reclusione; allo stesso era contestato di aver lanciato bottiglie in vetro in direzione di auto in transito e sulla sede stradale, al termine di una partita di calcio di prima divisione.
2. Propone ricorso per cassazione il P., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– questione di legittimità costituzionale dell’art. 6-bis in oggetto, in punto di pena, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost.. La norma in esame sarebbe caratterizzata da una cornice edittale eccessivamente elevata, se confrontata con fattispecie che offendono il medesimo bene-interesse, quali la resistenza a pubblico ufficiale o la rissa; quel che violerebbe il principio di eguaglianza e ragionevolezza di cui ai precetti citati;
– questione di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis c.p.p. , per violazione dell’art. 3 Cost.. Il P., giudicato in primo grado con sentenza emessa il 12/6/2012, non ha potuto beneficiare dell’istituto della messa alla prova introdotto con la L. n. 67 del 2014 ; la quale non prevede un regime transitorio per coloro che versano nella condizione del ricorrente, sì da evidenziarsi la lesione del citato precetto costituzionale;
– manifesta illogicità della sentenza ed erronea applicazione degli artt. 42 e 43 c.p.. La sentenza avrebbe confermato la condanna del ricorrente, senza considerare adeguatamente l’assenza dell’elemento soggettivo del reato, avendo il P. agito per mero scherzo; difetterebbe, pertanto, ogni intenzione di creare pericolo per l’incolumità altrui, al pari di quanto avviene d’estate con il lancio dei cd. gavettoni;
– omessa completa valutazione delle risultanze probatorie. La sentenza, con riferimento al capo che precede, non avrebbe valutato adeguatamente le numerose testimonianze assunte (riportate in modo analitico), tutte univoche nel senso di negare ogni pericolosità alla condotta del P.;
– manifesta illogicità della motivazione. La Corte di merito non avrebbe preso in considerazione plurimi elementi fattuali (riportati alle pagg. 13, 14 e 15 del ricorso), ancora a negare la pericolosità della condotta;
– contraddittorietà ed illogicità della sentenza in punto di qualificazione giuridica. La Corte avrebbe ricondotto la vicenda nell’alveo dell’art. 6-bis in esame sol perchè verificatasi in occasione di un evento sportivo; quel che risulterebbe del tutto irrazionale, in assenza di chiari elementi che evidenzino il collegamento tra l’una e l’altro;
– applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis c.p.. L’istituto in oggetto, introdotto nel codice penale successivamente alla sentenza di appello, ben potrebbe trovare applicazione nel caso di specie, ricorrendone i presupposti.
Motivi della decisione
3. Con riguardo alla prima questione di legittimità costituzionale, osserva il Collegio che la stessa risulta manifestamente infondata.
La L. n. 401 del 1989, art. 6-bis, stabilisce – al comma 1 – che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, nei luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive ovvero in quelli interessati alla sosta, al transito, o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime o, comunque, nelle immediate adiacenze di essi, nelle ventiquattro ore precedenti o successive allo svolgimento della manifestazione sportiva, e a condizione che i fatti avvengano in relazione alla manifestazione sportiva stessa, lancia o utilizza, in modo da creare un concreto pericolo per le persone, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile, ovvero bastoni, mazze, materiale imbrattante o inquinante, oggetti contundenti, o, comunque, atti ad offendere, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata se dal fatto deriva un ritardo rilevante dell’inizio, la sospensione, l’interruzione o la cancellazione della manifestazione sportiva. La pena è aumentata fino alla metà se dal fatto deriva un danno alle persone”.
Orbene, ritiene il Collegio che tale disciplina – anche in punto di trattamento sanzionatorio – non violi affatto il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. , come invece opina il ricorrente in relazione ai delitti di resistenza a pubblico ufficiale o di rissa, puniti con pene complessivamente più miti.
Ed invero, l’esigenza di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica particolarmente avvertita dal legislatore con riferimento a contesti (le manifestazioni sportive) nei quali non infrequenti risultano condotte violente o pericolose, sovente con grave danno alle persone ed alle cose – giustifica appieno un trattamento sanzionatorio come quello di cui alla norma; il quale, infatti, per un verso risulta legato a condotte – tipicamente commissive suscettibili di cagionare un effettivo e concreto pericolo per il bene interessato (quali il lancio od utilizzo degli oggetti indicati, magari in contesti molto affollati, sia dentro lo stadio che all’esterno) e, per altro verso, appare comunque contenuto in termini edittali non certo irragionevoli, in sè ed anche in rapporto a fattispecie che sanzionano violazioni assimilabili.
In particolare, con riguardo all’art. 337 c.p. , richiamato nel ricorso, osserva la Corte che lo stesso è qualificato sì da un minimo sanzionatorio più lieve (sei mesi di reclusione in luogo di un anno), riferibile agli episodi di minore gravità, ma anche da un massimo più elevato (cinque anni di reclusione in luogo di quattro); il che impedisce in radice di ravvisare la dedotta violazione dell’art. 3 Cost..
E con l’ulteriore precisazione, peraltro, che il bene tutelato dalle due norme non è affatto coincidente, sì da rendere il prospettato riscontro comunque non ammissibile: ed invero, se – come già affermato – la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica presiede alla fattispecie di cui all’art. 6-bis in esame, parimenti la (diversa) tutela della pubblica amministrazione costituisce la ratio dell’art. 337 c.p..
Non appare lecito, peraltro, pervenire a conclusioni difformi con riguardo al delitto di rissa (questo sì, reato contro la vita e l’incolumità individuale), parimenti invocato dal ricorrente; la condotta sanzionata dall’art. 588 c.p. , infatti, non presuppone quella “vicinanza” alle manifestazioni sportive – in termini fisici o di mera occasionalità – propria della L. n. 401 del 1989, art. 6-bis, potendosi esaurire in un fatto grave ma isolato, privo di alcun pericolo per l’incolumità di soggetti estranei ai corrissanti.
Quel che costituisce un rilevante elemento di differenza rispetto all’art. 6-bis contestato al P., che infatti sanziona condotte sovente rivolte indiscriminatamente verso terzi (come nel caso di specie), sì da creare un concreto ed effettivo pericolo per l’incolumità di numerose persone; quel che, ancora, giustifica un trattamento sanzionatorio più severo rispetto al delitto di rissa (peraltro solo nel minimo, con riguardo al caso in cui dalla rissa taluno riporti la morte o lesioni).
4. Manifestamente infondata, di seguito, risulta anche la seconda questione di costituzionalità, come peraltro già affermato dalla Corte costituzionale investita della medesima materia – con la sentenza n. 240 del 26/11/2015.
Occorre premettere che il capo 2 della L. 28 aprile 2014, n. 67 ha introdotto l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova anche per gli imputati maggiorenni. L’art. 3 della legge disciplina le modifiche al codice penale, con l’inserimento dei nuovi artt. 168-bis e 168-ter c.p. , indicando i presupposti oggettivi e soggettivi per l’applicazione del nuovo istituto e prevedendo che l’esito positivo della prova estingua il reato per cui si procede.
L’art. 4 modifica invece il codice di rito, disciplinando: tempi e modi della richiesta nella fase del giudizio ( art. 464-bis c.p.p. ) e in quella delle indagini preliminari ( art. 464-ter c.p.p. e art. 141-bis disp. att. c.p.p. ); contenuto del provvedimento del giudice e suoi effetti (464-quater c.p.p.); contenuti, modalità e possibili vicende afferenti l’esecuzione della messa alla prova (artt. 464-quinquies, 464-sexies, 464-octies, 464-novies, 141-ter disp. att. c.p.p.); esiti della messa alla prova ( art. 464-septies c.p.p. , in particolare con l’alternativa della sentenza che dichiara l’estinzione del reato e dell’ordinanza che dispone la ripresa del corso del processo).
Per quanto poi riguarda la fase del giudizio, che qui rileva, la nuova disciplina costruisce l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova quale alternativa alla celebrazione di alcun giudizio, caratterizzata da peculiari e ripetuti apprezzamenti di merito del giudice che sarebbe competente al giudizio di primo grado.
Ciò si evince sia dalla previsione di termini rigorosi ( art. 464-bis c.p.p. , comma 2; art. 464-quater c.p.p. , comma 9), comunque tutti precedenti la dichiarazione di apertura del dibattimento (o la formulazione delle conclusioni ex artt. 421 e 422 c.p.p. ); sia dalla peculiarità delle valutazioni in fatto che il giudice deve compiere (acquisizione di ulteriori informazioni, art. 464-bis c.p.p. , comma 5; modifiche o integrazioni d’ufficio del programma, e decisione alla stregua dei parametri ex art. 133 c.p. dopo specifico contraddittorio, art. 464-quater c.p.p.; modifiche delle prescrizioni originarie, art. 464-quinquies c.p.p., comma 3; revoca dell’ordinanza di sospensione con messa alla prova, art. 464-octies c.p.p. ; deliberazione sull’esito, art. 464-septies c.p.p.).
Conferma della natura di “rito/procedura” radicalmente alternativa al giudizio, poi, si ricava dal fatto che le ordinanze che decidono sulla richiesta originaria o sulla revoca sono immediatamente ricorribili per cassazione: art. 464-quater c.p.p. , comma 7 e art. 464-octies c.p.p. , comma 3.
Orbene, alla luce della richiamata disciplina, deve quindi ribadirsi l’orientamento secondo cui l’istituto della messa alla prova previa sospensione del procedimento è stato costruito dal legislatore come opportunità possibile esclusivamente in radicale alternativa alla celebrazione di ogni tipologia di giudizio di merito, già dal primo grado; si tratta, quindi, di procedura e opportunità assolutamente incompatibile con alcun giudizio di impugnazione (Sez. F., n. 35717 del 31/7/2014, Ceccaroni, Rv. 259935).
Come poi confermato dalla Corte costituzionale con la sentenza citata, a mente della quale “il termine entro il quale l’imputato può richiedere la sospensione del processo con messa alla prova è collegato alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo.
Consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel corso del dibattimento, anche dopo che il giudizio si è protratto nel tempo, eventualmente con la partecipazione della parte civile (che avrebbe maturato una legittima aspettativa alla decisione), significherebbe alterare in modo rilevante il procedimento, e il non averlo fatto non giustifica alcuna censura riferibile all’art. 3 Cost.”.
Sì da concludere, quindi, che la deliberata mancata adozione di disposizioni transitorie per l’applicazione di tale nuovo istituto, valutata unitamente alla previsione di scansione temporali per la proposizione dell’istanza che non sono suscettibili di trasposizione del giudizio di secondo grado, ed alla ratio deflattiva dell’istituto, destinato a tradursi in una declaratoria di estinzione del reato da dichiarare in caso di esito positivo della prova, impongono quale unica soluzione interpretativa quella dello stretto rigore interpretativo delle disposizioni, come applicabili soltanto all’esito delle indagini preliminari e nell’ambito del giudizio di primo grado.
Quel che priva di ogni fondatezza la questione sollevata.
5. Negli stessi termini, poi, si conclude quanto ai motivi in punto di responsabilità (da 1 a 4), da trattare congiuntamente attesane l’identità di ratio.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione delle vicende (tra le varie, Sez. 3, n. 46526 del 28/10/2015, Cargnello, Rv. 265402; Sez. 3, n. 26505 del 20/5/2015, Bruzzaniti ed altri, Rv. 264396).
Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p. , comma 1, lett. e), è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti nè all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv, 251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il giudizio della Suprema Corte, le censure che il ricorrente muove al provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la parvenza di una violazione di legge o di un difetto motivazionale, lo stesso di fatto invoca una nuova ed alternativa lettura delle medesime risultanze istruttorie esaminate dai Giudici di merito (in particolare, le deposizioni, lungamente riportate), sollecitandone una valutazione alternativa. Il che, come riportato, non è consentito in questa sede.
La censura, inoltre, oblitera del tutto la motivazione stesa dalla Corte di appello, che ha confermato la colpevolezza del P. in forza di un rigoroso percorso argomentativo, privo di alcuna illogicità o contraddittorietà di sorta.
In particolare, la sentenza – anche richiamando la pronuncia del primo Giudice – ha sottolineato una circostanza tanto decisiva quanto pacifica, ovvero che il ricorrente – in un parcheggio pubblico, al termine dell’incontro di calcio tra la squadra locale e quella di Verona, della quale il P. stesso è tifoso – era stato visto lanciare bottiglie di vetro verso la sede stradale, sulla quale transitavano vetture e persone a piedi, così causandone la rottura e la dispersione di vetri; una condotta in sè pericolosa, concretamente idonea a produrre danni alle cose e lesioni ai soggetti presenti.
Una pericolosità palese, pacifica ed indiscutibile come correttamente affermato dalla sentenza di merito – che prescinde del tutto dall’eventuale intento scherzoso che il ricorrente ha sempre rivendicato, privandolo all’evidenza di ogni rilievo; una pericolosità, peraltro, che impedisce ex se di accedere alla causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p. , pur invocata nel ricorso, non potendosi certo ravvisare – giusta argomento della Corte di merito – una offesa di particolare tenuità.
Una motivazione del tutto logica e congrua, dunque, fondata su oggettive risultanze istruttorie; una motivazione, ancora, che non può esser certo contestata con un nuovo esame delle numerose testimonianze escusse, che il ricorso riporta in lunghi passi.
6. Il gravame medesimo, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p. , l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata in Euro 1.500,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 16 giugno 2016.
Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2016.