Nel concorso nella Polizia di Stato, il candidato veniva escluso per un tatuaggio. Risarcito (TAR Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione Prima, Sentenza 19 aprile 2018, n. 461).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

(Sezione Prima)

con l’intervento degli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Domenico Giordano, Presidente

Dott.ssa Silvana Bini, Consigliere, Estensore

Dott.ssa Roberta Ravasio, Consigliere

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale 848 del 2015, proposto da:

Pierpaolo Piro, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Cortese, Antonino Galletti, domiciliato ex art. 25 cpa presso la Segreteria del T.A.R. Piemonte in Torino, via Confienza, 10;

contro

Ministero dell’Interno, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliato presso i suoi uffici, in Torino, via Arsenale, 21;

per l’accertamento del pregiudizio, patrimoniale e non, subito dal ricorrente a seguito dell’illegittima esclusione dal concorso pubblico per il reclutamento di n. 907 agenti della Polizia di Stato, indetto con D.M. 21.11.2008, annullata in autotutela con decreto ministeriale del 15.12.2011 emesso a seguito dell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato n. 1599/2010;

nonché ove occorra, della nota del Ministero dell’Interno con la quale è stato dato negativo riscontro alla diffida proposta dal ricorrente volta ad ottenere la ricostruzione di carriera ed il risarcimento patrimoniale e non, e per la conseguente condanna dell’Amministrazione resistente alla ricostruzione di carriera nonché al risarcimento dei danni patiti dal ricorrente derivanti dall’avvenuta esecuzione dei provvedimenti illegittimi e dalla restitutio in integrum ai fini giuridici ed economici a far data dal 14.10.2009, in cui è stato illegittimamente estromesso dal Corpo della Polizia di Stato.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2018 la dott.ssa Silvana Bini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

 

I) Il ricorrente ha partecipato al concorso pubblico per il reclutamento di n. 907 agenti della Polizia di Stato, indetto con D.M. 21.11.2008. Dopo aver superato le prove scritte e la prova fisica, veniva dichiarato non idoneo, con provvedimento del 14.10.2009, a causa della presenza di un tatuaggio in zona non coperta dalla divisa, già parzialmente rimosso. Il provvedimento veniva impugnato con ricorso presentato al Tar Lazio (rg. 10892/2009): l’ordinanza n. 241/2010 di rigetto dell’istanza cautelare, veniva riformata in sede d’appello (ordinanza n. 1599 del 9.4.2010 del Consiglio di Stato).

L’Amministrazione dapprima riconvocava il ricorrente, al fine di concludere le prove fisiche; quindi lo dichiarava idoneo con riserva, in attesa della pronuncia di merito.

A fronte del superamento della prova attitudinale, con atto del 2.10.2010 veniva approvata la rettifica della graduatoria, collocando il ricorrente al 157° posto. Il ricorrente veniva quindi chiamato a frequentare il corso di formazione per allievi e agenti della Polizia di Stato, a decorrere dal 28.12.2010.

In data 15.11.2010 l’Amministrazione annullava in autotutela il provvedimento di esclusione dal concorso, dichiarando il ricorrente definitivamente vincitore del concorso e inserendolo nella graduatoria. In ragione dell’atto di autotutela, con sentenza n. 9936/2011 il Tar Lazio dichiarava, sul ricorso proposto dal Sig. Piro, la cessazione della materia del contendere.

Con il presente ricorso, notificato in data 10.7.2015 e depositato il 29.7.2015, viene chiesta la condanna del Ministero dell’Interno alla ricostruzione della carriera, alla restitutio in integrum, nonché al risarcimento dei danni conseguenti all’illegittimo ritardo nell’assunzione avvenuta il 28.12.2010, in luogo del 14.10.2009.

Queste le voci di danno:

– danno emergente per la ritardata progressione in carriera e lesione della capacità competitiva all’interno della PA;

– lucro cessante: retribuzioni mensili, indennità accessorie, contributi e tfr.

Il ricorrente ha così quantificato le voci patrimoniali:

– retribuzioni mensili: reddito lordo € 25.859;

– tredicesima € 1457,15; indennità di sicurezza € 3.484,15, che comprende indennità accessorie e indennità per servizi esterni;

– quota imponibile pensionistica: € 9.817,07;

– Tfr 381,68.

Complessivamente il danno patrimoniale è quantificato in € 40.999,08.

A questo danno patrimoniale va aggiunto il danno non patrimoniale, da liquidarsi in via equitativa.

Si è costituita in giudizio il Ministero, con mera memoria di stile, chiedendo il rigetto del ricorso.

All’udienza pubblica del 7 febbraio 2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

II) Il ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti.

2.1 Si deve richiamare l’orientamento prevalente e consolidato in base al quale la restitutio in integrum agli effetti economici, oltre che a quelli giuridici, spetta al pubblico dipendente solo nel caso di sentenza che riconosca l’illegittima interruzione di un rapporto di lavoro già in corso e non anche nel caso di giudicato che riconosca illegittimo il diniego di costituzione del rapporto stesso.

Pertanto nel caso in esame, si deve riconoscere il diritto alla ricostruzione della carriera, ora per allora, agli effetti giuridici, mentre va esclusa la restitutio in integrum agli effetti economici, stante la mancanza della prestazione lavorativa, mentre le differenze retributive non conseguite possono essere chieste solo a titolo di risarcimento del danno.

Infatti trattandosi di una ritardata costituzione di un rapporto di impiego conseguente all’illegittima esclusione dalla procedura di assunzione, spetta all’interessato, ai fini giuridici, il riconoscimento della medesima decorrenza attribuita a quanti siano stati nella medesima procedura nominati tempestivamente, ma ai fini economici non può riconoscersi il diritto alla corresponsione delle retribuzioni relative al periodo di ritardo nell’assunzione. Ciò in quanto detto diritto, in ragione della sua natura sinallagmatica, presuppone necessariamente l’avvenuto svolgimento dell’attività di servizio.

2.2 Come detto, può spettare comunque, relativamente a detto periodo, in presenza dei presupposti di legge di cui all’art. 2043 c.c., il risarcimento del danno ingiusto patito in conseguenza delle illegittimità risalenti agli atti o ai comportamenti dell’amministrazione.

S’impone dunque l’esame della fondatezza della pretesa al risarcimento del danno.

In via preliminare, deve richiamarsi la giurisprudenza costante secondo la quale, sul piano probatorio, in tema di risarcimento da atto illegittimo delle pubbliche amministrazioni va applicato il principio sancito dall’art. 2697 cod. civ. “in virtù del quale spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento danni non sia corredata dalla prova del danno da risarcire, la stessa deve essere respinta.” (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 22 gennaio 2015, n. 282).

In questo senso, il presunto danneggiato ha l’onere di allegare in modo rigoroso e circostanziato la prova di tutti gli elementi dell’illecito.

Nel caso in esame si è di fronte ad un danno ingiusto, diretta conseguenza della illegittimità dell’esercizio della funzione amministrativa, atteso che l’ordinanza cautelare ha riconosciuto l’illegittimità dell’esclusione e la stessa Amministrazione ha ritenuto di agire in autotutela, al fine di ripristinare la situazione di legalità.

Pertanto, a seguito della pronunzia interinale del giudice, il ricorrente risultava idoneo all’assunzione, per cui la mancata tempestiva nomina è derivata in maniera automatica dal provvedimento impugnato.

Quanto all’elemento soggettivo, perché si configuri la colpa dell’amministrazione, occorre avere riguardo al carattere ed al contenuto della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, in caso di sua violazione, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico.

Al contrario, se il canone della condotta amministrativa è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’autorità pubblica un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà sussistere solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle menzionate regole di imparzialità, correttezza e buona fede, proporzionalità e ragionevolezza, con la conseguenza che ogni altra violazione del diritto oggettivo resta assorbita nel perimetro dell’errore scusabile, ai sensi dell’art. 5 c.p. (Cons. Stato, sez. VI, 5 marzo 2015 n. 1099; Idem, Sez. V, 7 giugno 2013 n. 3133; Idem, Sez. VI, 6 maggio 2013 n. 2419; Idem, Sez. IV, 7 marzo 2013 n. 1406; Cass. civ., SS.UU., 500/1999 citata).

È necessario dunque tenere conto del comportamento complessivo degli organi intervenuti nel procedimento (Consiglio di Stato, sez. III, 14 maggio 2015, n. 2464) anche al fine di accertare che “la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato” (Consiglio di Stato, sez. III, 11 marzo 2015 n. 1272).

Nel caso in esame si osserva che il Consiglio di Stato ha ritenuto che non sussistesse la causa di inidoneità fisica di cui alla Tabella allegata al D.M. 193/2003, “non versandosi a fronte di condizioni della cute che –per percezione visiva e messaggio simbolico – possano ricondursi, a seguito dell’intervento di rimozione, nella nozione di tatuaggio”.

La decisione dell’Amministrazione di escludere il ricorrente per la presenza di un disegno sulla pelle, che già aveva perso le caratteristiche per essere qualificato come “tatuaggio”, è stata assunta in un periodo in cui la giurisprudenza era costante nel ritenere che per determinare l’effetto escludente, i tatuaggi dovevano presentare una visibilità di una certa evidenza, mentre la sola presenza di un tatuaggio era di per sé circostanza neutra, che acquistava una specifica valenza solo allorquando le dimensioni o i contenuti dell’incisione sulla pelle apparivano rivelatori di una personalità abnorme, ovvero la stessa deturpasse oggettivamente la figura o risultasse comunque incompatibile con il possesso della divisa (C. Stato, IV, 14 ottobre 2005, n. 5746; VI, 29 marzo 2007, n. 1457; VI, 4 aprile 2007, n. 1520; IV, 7 novembre 2012, n. 5668).

Pertanto, accertati i presupposti per affermare la responsabilità dell’Amministrazione, si deve procedere alla quantificazione del danno.

Essendo esclusa la possibilità di identificare il danno nella mancata erogazione della retribuzione e della contribuzione, elementi che comporterebbero una vera e propria restitutio in integrum, (v., tra le tante, T.A.R. Sicilia, Sez. III, 19 gennaio 2015, n. 127), il danno risarcibile può essere quantificato equitativamente, in applicazione del combinato disposto degli artt. 2056, commi 1 e 2, e 1226 cod. civ., in una somma pari al 50 % delle retribuzioni che sarebbero state corrisposte al ricorrente nel periodo intercorrente tra la data del diniego (poi annullato) e quella dell’immissione in servizio, con esclusione della (eventuale) parte variabile della retribuzione relativa alle funzioni; al riconoscimento delle spettanze retributive si ricollega l’obbligo dell’Amministrazione di regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale, naturalmente nei limiti delle spettanze economiche riconosciute.

Le somme così determinate andranno incrementate per rivalutazione monetaria e interessi compensativi al tasso legale, questi ultimi nella misura eccedente il danno da svalutazione, da calcolarsi a partire dalla data di pubblicazione della sentenza e fino all’effettivo soddisfo (v., sul punto, Cons. St. n. 4020/2013 cit.; Consiglio di Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4342).

III) Il ricorso va accolto, nei limiti sopra esposti, con l’obbligo di riconoscere l’effetto giuridico dal 14.10.2009, nonché con la condanna dell’Amministrazione al pagamento delle somme a titolo di risarcimento, secondo i criteri sopra indicati.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione.

Condanna il Ministero dell’Interno al pagamento delle spese di giudizio, quantificate in € 1.000,00 (mille,00), oltre oneri di legge, a favore del ricorrente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 7 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2018.