REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
…, omissis …
SENTENZA
In fatto e in diritto
che il primo motivo del ricorso principale, denunciando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, dell’art. 3 CCNL di comparto ( art. 360 c.p.c. , n. 3), censura la sentenza per avere dato una lettura erronea dell’art. 52 cit., sostanzialmente assimilato, quanto all’esercizio dello ius variandi datoriale, all’art. 2103 c.c. , mentre nell’ambito del pubblico impiego tutte le mansioni riconducibili alla categoria di inquadramento sono equivalenti, essendo stato adottato un concetto di equivalenza formale, ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi e non sindacabile da parte del giudice; con l’intervenuta soppressione dell’Unità Operativa Segreteria, al rag. P. era stata assegnata la direzione, in tempi diversi, dell’U.O. Servizi Tecnici, dell’U.O. Servizi alla Persona e dell’U.O. Marketing, tutte professionalmente equivalenti;
che con il secondo motivo si denuncia omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c. , n. 5) per avere la Corte di appello trascurato di esaminare le deduzioni difensive svolte dal Comune e tese ad evidenziare, da un lato, il contenuto professionale degli incarichi conferiti e, dall’altro, che era stato il P. a non assumersi completamente il carico delle proprie responsabilità e tanto era dimostrato anche dagli elementi di prova acquisiti agli atti;
che il terzo motivo contesta ( art. 360 c.p.c. , n. 5) il riconoscimento del nesso causale tra stato clinico riscontrato dal C.t.u. e vicende lavorative, posto che lo stesso Consulente d’ufficio aveva, in più parti della relazione peritale, prospettato dubbi su tale connessione causale ed aveva evidenziato che all’anamnesi della vicenda lavorativa erano emersi tratti di interpretazione personale del P., piuttosto che di un suo vissuto di emarginazione;
che i tre motivi del ricorso incidentale denunciano omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio ( art. 360 c.p.c. , n. 5) per avere la Corte territoriale:
a) negato la personalizzazione del danno biologico;
b) riconosciuto gli interessi legali a partire dalla data dell’accertamento peritale anzichè dall’aprile 2001, epoca del manifestarsi della patologia che aveva determinato il danno biologico;
c) negato il riconoscimento del danno patrimoniale, contravvenendo alla regola di giudizio secondo cui tale prova può essere fornita anche in via presuntiva; la Corte di appello aveva trascurato di considerare che la gravissima dequalificazione subita dal ricorrente si era protratta per un periodo di oltre otto anni e che il rag. P., fino a quando era stato adibito alla Segreteria, aveva ricoperto una posizione di responsabilità adeguata alla sua qualifica di funzionario e al suo livello di inquadramento (quello massimo per il personale di comparto); egli provvedeva al coordinamento di undici dipendenti, alla redazione di delibere da sottoporre all’approvazione della Giunta e del Consiglio comunale e di Det. Dirig., all’assistenza alle sedute consiliari, alla richiesta di finanziamenti agli istituti di credito, all’organizzazione dei servizi di portineria e centralino, dei servizi di notificazione, del servizio di ricezione dati dagli uffici elettorali di sezione durante le consultazioni elettorali, nonchè all’organizzazione di cerimonie pubbliche del Comune in occasione di ricorrenze e festività;
che, alla stregua dei principi affermati da questa Corte in materia, il primo motivo del ricorso principale merita accoglimento, restando in esso assorbito l’esame delle restanti censure svolte con il ricorso principale, come pure i motivi del ricorso incidentale;
che la riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell’autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale.
In questa ottica, il D.Lgs. n. 165 del 2001 ha disciplinato interamente la materia delle mansioni all’art. 52, e, al comma 1, ha sancito il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 62, comma 1).
La lettera del citato art. 52, comma 1, specifica un concetto di equivalenza “formale”, ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice.
Ne segue che condizione necessaria e sufficiente affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A.;
che, a partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/08, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzzato, non si applica l’art. 2103 c.c. , essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione tempons al caso in esame) – che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396/11; Cass. n. 18283/10; Cass. sez.un. n. 8740/08; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016).
Dunque, non è ravvisabile alcuna violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni.
Restano insindacabili tanto l’operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l’operazione di verifica dell’equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria;
che tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili; il principio è ribadito anche dal CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali, che, all’art. 3, comma 2, prevede che, “ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998 , tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili, l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro”;
che resta comunque salva l’ipotesi che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa. Trattasi di questione che, tuttavia – giova rimarcare – esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi nella diversa ipotesi della sottrazione pressochè integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonchè Cass. n. 687 del 2014);
che la Corte di appello non si è attenuta a tali principi, poichè dalla sentenza non emerge che le mansioni attribuite dal Comune di Pescia dopo l’aprile 2001, non fossero riconducibili nell’alveo dell’Area e della posizione organizzativa D4 rivestita dal P. o che, seppure equivalenti nel senso anzidetto, fossero in realtà prive di contenuto oppure fossero nei fatti state sostanzialmente sottratte al P.; la sentenza sembra, piuttosto, avere mutuato il concetto di equivalenza dall’art. 2013 c.c. , che invece non trova applicazione nel pubblico impiego contrattualizzato;
che, in ipotesi di lavoro negli enti locali, è configurabile il diritto al risarcimento dei danni in caso di revoca di una posizione organizzativa nei confronti di un dipendente comunale accompagnata dallo svuotamento dell’attività dello stesso di ogni contenuto tipizzante il profilo professionale, con privazione dei compiti decisionali e delle relative responsabilità, con contestuale attribuzione di funzioni meramente esecutive e con piena subordinazione al nuovo responsabile, costituendo tale ipotesi una illegittima privazione di direzione di unità operativa (v. Cass. n. 10030 del 2015);
che giova pure evidenziare che, sempre in tema di lavoro pubblico negli enti locali, il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l’inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l’attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico.
Ne consegue che la revoca di tale posizione non costituisce demansionamento e non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2103 c.c. e del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52 trovando applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico (Cass. n. 6367 del 2015);
che occorre rimettere al giudice di rinvio il riesame della vicenda alla luce di tali principi, occorrendo pure precisare che, in merito al sistema di classificazione previsto dal c.c.n.l. Comparto Regioni-Enti locali del 31 marzo 1999 e alla ivi prevista distinzione tra posizioni economiche nell’ambito della categoria D, la più recente giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che le posizioni più elevate siano espressione di un diverso livello di professionalità e non incidano solo sul trattamento economico (v. Cass. 6295 del 18 marzo 2011; nello stesso senso si è espressa Cass. n. 20070 del 2015; da ultimo, Cass. n.7 del 2 gennaio 2017);
che la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri e assorbito l’incidentale;
cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 maggio 2017.
Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2017.
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[*] art. 2103 del cod. civ:
1. Il lavoratore deve essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a quelle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
E’ stato, dunque, eliminato il riferimento (contenuto nella precedente formulazione della norma) alle mansioni c.d. equivalenti.
Con tale eliminazione, si riconosce al datore di lavoro il diritto ad uno ius variandi (unilaterale) più ampio e più flessibile in quanto si supera la precedente tematica, di elaborazione giurisprudenziale, relativa alle “mansioni equivalenti”.
Nella vigenza della precedente norma, infatti, in caso di contestazione da parte del lavoratore, il Giudice, per accertare la legittimità della modifica unilaterale (da parte del datore di lavoro), non si limitava a verificare l’eguaglianza retributiva e la riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello di inquadramento contrattuale, quanto piuttosto l’equivalenza professionale.
Oggi, dato il tenore della nuova norma, il datore di lavoro potrà assegnare unilateralmente il dipendente a qualsiasi mansione purchè riconducibile allo stesso livello e categoria di inquadramento di quelle ultime effettivamente svolte, avuto (solo) riguardo alle declaratorie ed ai profili professionali del contratto collettivo.
2. In caso di “modifica degli assetti organizzativi che incidono sulla posizione del lavoratore”, il datore di lavoro può assegnare a quest’ultimo mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore purchè rientranti nella medesima categoria legale.
Il datore di lavoro può, quindi, decidere di modificare la propria attività produttiva e/o la propria organizzazione del lavoro e, conseguentemente, attribuire al lavoratore mansioni appartenenti ad un livello contrattuale più basso purchè rientranti nella medesima categoria di inquadramento legale.
Le contrattazione collettiva potrà disciplinare ulteriori ipotesi nella quali il datore di lavoro sarà legittimato a demansionare, con i limiti di cui sopra (un livello di inquadramento inferiore ma ferma la iniziale categoria legale) il lavoratore.
3. Nelle ipotesi di cui sopra, il mutamento di mansioni: (i) è accompagnato, “ove necessario” dall’assolvimento dell’obbligo formativo (la cui violazione, tuttavia, non determina la nullità della assegnazione); (ii) deve essere comunicato per iscritto “a pena di nullità”; (iii) non determina un abbassamento del livello di inquadramento; (iv) non può comportare una riduzione del trattamento retributivo.
4. Ai sensi del (nuovo) sesto comma dell’art. 2103 cod. civ. è possibile sottoscrivere, nelle c.d. sedi assistite, accordi che comportino una modifica in peius delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione.
4.1. Ciò quando tali modifiche rispondano alla necessità:
(a) di conservare il posto di lavoro del dipendente;
(b) di acquisire una diversa professionalità;
(c) di migliorare le condizioni di vita personali.
In altri termini, è ammessa la modifica consensuale delle mansioni, del livello di inquadramento, della categoria legale nonchè della retribuzione in senso peggiorativo.
5. Il lavoratore, in caso di svolgimento di mansioni superiori, ha diritto al trattamento normativo ed economico corrispondente all’attività svolta; inoltre, l’assegnazione diviene definitiva ove essa non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi anche aziendali o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. In precedenza, l’art. 2103 cod. civ. prevedeva un periodo di tre mesi continuativi.
Inoltre, l’assegnazione diviene definitiva salva una diversa volontà del lavoratore: il dipendente ha il diritto di rinunciare a vedersi attribuito l’inquadramento superiore corrispondente alle ultime mansioni svolte.
6. La disciplina sul trasferimento rimane immutata rispetto al passato: il lavoratore può essere trasferito a fronte di comprovate ragioni tecniche, produttive ed organizzative.
7. Da ultimo, l’art. 2103 cod. civ. conferma la previsione della nullità di ogni patto contrario, salve le esclusioni sopra esaminate.