Studente condannato per molestia e diffamazione. Molestava la professoressa di matematica. 10.000 euro di risarcimento alla professoressa.

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 9 maggio 2017, n. 11211)

…, omissis …

Fatti di causa

La vicenda in oggetto trae origine da un giudizio penale promosso da Gi. Ne. e dal marito Sa. Br. con querela contro ignoti per asserite telefonate moleste e offensive.

A seguito di intercettazioni telefoniche si accertava che alcune telefonate provenivano da una linea intestata a Da. Mi. e che erano riconducibili al figlio di questi Ma. Mi., alunno della scuola di ragioneria dove la Ne. insegnava matematica.

Nel giudizio penale il Pretore di Forlì dichiarò non doversi procedere per il reato di molestie per intervenuta prescrizione e dichiarò il Mi. colpevole di ingiuria e diffamazione, condannandolo ad una multa e al risarcimento del danno nella misura di Lire 20.000.000, oltre interessi.

Il Mi. propose appello e la Corte d’Appello di Bologna lo assolse dal reato di ingiuria, dichiarando non doversi procedere per la diffamazione per intervenuta prescrizione; confermò la sentenza di primo grado quanto alle statuizioni civili di natura risarcitoria.

La Corte di Cassazione, sul ricorso del Mi., annullò la sentenza d’appello limitatamente alle statuizioni civili e rinviò la causa al giudice competente per valore in grado di appello per nuovo esame.

Il giudizio di rinvio si concluse con la sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 03/02/2014 con la quale, premesso che non poteva più essere messa in discussione la colpevolezza del Mi. per i reati di molestie e diffamazione commessi in danno della Ne..

Il Giudice, chiamato a determinare e quantificare i danni sulla base di criteri diversi da quelli in precedenza seguiti e dunque in autonomia rispetto al danno di ingiurie, valutava che decine di telefonate al giorno, anche in ore notturne e protrattesi per oltre un anno avevano sicuramente arrecato un grave turbamento alla tranquillità, al riposo e alla pace domestica della Ne. con conseguente logorio e sofferenza psico-fisica della stessa.

Ad avviso del Giudice d’Appello il tenore delle telefonate era tale da ledere la reputazione della Ne., a screditarla presso i familiari e a generare patimenti psicologici.

Sulla base di questi assunti il Giudice riteneva equo liquidare alla Ne. la somma di Euro 10.000 oltre interessi legali e rivalutazione dal marzo 1994 e alle spese del grado.

Avverso la sentenza il Mi. propone ricorso per cassazione basato su un unico motivo, illustrato da memoria. Resiste la Ne. con controricorso.

Ragioni della decisione

Con unico motivo il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione, da parte del giudice di rinvio, del principio di diritto fissato dalla Suprema Corte: motivo di ricorso ex art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 627 c.p.p. e 384 c.p.c.; falsa applicazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. (individuazione dell’effettiva indicazione della Suprema Corte), 1363 c.c. (interpretazione complessiva delle premesse logico-giuridiche e delle statuizioni di diritto da interpretare le une per mezzo delle altre attribuendo un senso complessivo alla decisione), 1371 c.c. (in caso di dubbio sull’ambito del principio di diritto esso va inteso nel senso più favorevole all’allora imputato ricorrente vittorioso in cassazione).

La Corte d’Appello non si sarebbe attenuta a quanto statuito da questa Corte secondo cui “è sicuramente erronea l’affermazione del giudice d’appello secondo cui la dichiarazione di prescrizione in primo grado non precludeva la condanna per la responsabilità civile.

Ed infatti l’art. 538 c.p.p. subordina la decisione sulla domanda risarcitoria alla pronuncia di condanna, restando esclusa una siffatta determinazione in caso di proscioglimento per intervenuta prescrizione.

Dunque certamente in parte qua, ossia nel riferimento ai profili risarcitori connessi al reato di molestie, dichiarato prescritto in primo grado, la statuizione avrebbe dovuto essere riformata.

E’ conseguentemente erroneo anche l’assunto di adeguatezza dell’importo risarcitorio determinato in misura, peraltro, apoditticamente determinata, sull’assunto della sovrapponibilità delle condotte di ingiuria con quelle riconducibili al reato di molestie certamente ricorrente anche se dichiarato non punibile per prescrizione”.

In sostanza la Corte territoriale non avrebbe dovuto statuire su profili risarcitori connessi al reato di molestie; l’adeguatezza dell’importo risarcitorio liquidato dalla Corte d’Appello sarebbe erroneo; la motivazione della sentenza d’appello apodittica: il giudice d’appello avrebbe dovuto discostarsi in modo significativo dalla quantificazione operata in sede penale, assumendo propri criteri di valutazione.

Il motivo è inammissibile in quanto per potersi configurare la violazione degli artt. 1362 c.c., 1363 c.c. e 1371 c.c. non è sufficiente limitarsi ad indicare le norme asseritamente violate né una critica del risultato raggiunto dal giudice mediante la contrapposizione di una diversa interpretazione: è d’obbligo per il ricorrente richiamare e specificare per quale ragione giuridica la decisione impugnata sia in contrasto con la legge, precisando in qual modo e con quali considerazioni il giudice se ne sia discostato.

Il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, n. 3, c.p.c. deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c, non solo con l’indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass., 2, 2/7/2004 n. 12127; Cass., 1, 8/3/2007 n. 5353; Cass., 3, 7/5/2007 n. 10295).

Il motivo è anche infondato in quanto alla Corte d’Appello di Bologna era stato demandato esclusivamente di procedere -quale giudice del rinvio – ad una nuova determinazione dell’importo risarcitorio nel solco tracciato dalla Suprema Corte in ordine alla sussistenza dei fatti-reato, alla loro illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato li ha commessi.

E a tale incombenza la Corte d’Appello ha correttamente proceduto limitandosi ad un accertamento e ad una valutazione del danno conseguenti ai reati di molestia e diffamazione, dichiarati estinti per prescrizione.

La Corte d’Appello ha altresì correttamente colto ed individuato, in piena conformità ai criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362-1363-1371 c.c., il principio di diritto espressamente enunciato dalla Suprema Corte, riconoscendo il diritto della Ne. al risarcimento del pregiudizio subito in conseguenza dei reati di molestie e diffamazione perpetrati da Mi..

Il rinvio disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.c. produce gli stessi effetti del rinvio nel giudizio civile, sicché la fase successiva non presenta autonomia rispetto alla vicenda penale ma ne rappresenta – sia pure ai fini della sola statuizione sugli effetti civili -la prosecuzione avanti alla giurisdizione civile successivamente all’intervenuta cassazione in sede penale.

Da ciò deriva che il giudizio di rinvio è, a tutti gli effetti, un secondo grado di merito, avente ad oggetto la pronuncia sulle statuizioni civili, nell’ambito del quale le parti conservano la stessa posizione processuale del precedente procedimento.

Conclusivamente il ricorso è rigettato, le spese seguono la soccombenza e sussistono presupposti per porre il contributo unificato a carico del ricorrente ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.500 (di cui Euro 200 per esborsi), oltre accessori di legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del D.P.R. n.115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del soccombente di un ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per l’ impugnazione.