Assegno di mantenimento: il figlio (33enne) viene licenziato e torna a stare con la madre. Il padre non deve dare il mantenimento al figlio. Respinta la richiesta della donna di avere un contributo da parte dell’ex marito.

(Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 16 maggio 2017, n. 12063)

…, omissis …

Fatti di causa

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza del 22 luglio 2014, ha rigettato il gravame di T.R. avverso l’impugnata sentenza che, dichiarando la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con C.D. nel 1980, aveva rigettato le sue domande di attribuzione di un assegno divorzile, di una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’ex marito, nonché di un contributo di mantenimento per il figlio maggiorenne G. .

La Corte ha ritenuto che, rispetto all’epoca della separazione (anno 2002), quando le era stato attribuito un assegno di mantenimento di Euro 150,00 mensili, le condizioni economiche dell’attrice fossero migliorate, e quelle del C. fossero rimaste invariate: la T. beneficiava di una pensione (di circa Euro 650,00 mensili) e non v’era prova del pregresso tenore di vita matrimoniale (interrottasi nel 1987).

Al mancato riconoscimento dell’assegno divorzile conseguiva il rigetto della domanda concernente l’assegnazione di una quota del tfr dell’ex coniuge; il figlio (33 anni) era economicamente indipendente, come dimostrato dal fatto che, nel 2009, era stato assunto a tempo indeterminato.

Avverso questa sentenza la T. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui si è opposto il C. con controricorso e memoria.

Ragioni della decisione

Il primo motivo di ricorso denuncia omesso esame di fatti ritenuti decisivi, quali la disparità reddituale tra le parti e lo stato di disoccupazione del figlio, nel frattempo licenziato dal datore di lavoro, ai fini della domanda di assegno divorzile e del contributo di mantenimento del figlio maggiorenne.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto in ordine alle medesime circostanze sopra esposte.

Entrambi i motivi sono, in parte, inammissibili, laddove si risolvono nella critica della sufficienza del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., apportata dall’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge n. 134/2012 (v. Cass., sez. un., n. 8053/2014).

Inoltre, la ricorrente – pur denunciando la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. – non ha svolto specifiche argomentazioni intese a dimostrare come e perché determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, siano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie (v., tra le tante, Cass. n. n. 635/2015).

I motivi sono infondati nella parte concernente il contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne, già indipendente, e poi, in tesi, tornato ad essere dipendente economicamente per avere perduto l’occupazione lavorativa.

E ciò alla luce del principio secondo cui il diritto del coniuge separato (o, in questo caso, dell’ex coniuge) di ottenere dall’altro coniuge (o ex coniuge) un assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando quest’ultimo, ancorché allo stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato iniziato ad espletare un’attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di una adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento (se previsto) ad opera del genitore.

Né assume rilievo il sopravvenire di circostanze ulteriori (come, nella specie, il fatto del licenziamento, peraltro controverso e non accertato dal giudice di merito), le quali non possono far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti siano già venuti meno (Cass. n. 26259/2005).

Il ricorso è rigettato. Sussistono giusti motivi per compensare le spese, a norma dell’art. 92, secondo comma, c.p.c. (nella versione, applicabile ratione temporis, successiva alla prima modifica, operata dall’art. 2, comma 1, lett., a, della legge n. 263 del 2005), in considerazione della dimensione sostanziale della controversia.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.

Doppio contributo a carico della ricorrente, come per legge.