Avvocato che insegna nella scuola primaria non può essere iscritto all’albo.

(Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 28 ottobre 2015, n. 21949)

Ritenuto in fatto

1. – La Dott.ssa B.M., dipendente del Ministero dell’istruzione quale insegnante di scuola primaria a tempo indeterminato part-time per 16 ore settimanali, in data 9 gennaio 2013 ha presentato richiesta di iscrizione all’albo degli avvocati di Milano, a seguito del prescritto periodo biennale di pratica professionale e del superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense.

Con decisione in data 25 luglio 2013, il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano ha rigettato l’istanza di iscrizione, ritenendo ad essa preclusivo l’art. 19, comma 1, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), ai cui sensi l’esercizio della professione, in deroga a quanto stabilito nell’art. 18, è compatibile esclusivamente con l’insegnamento e l’attività di ricerca in materie giuridiche.

2. – Il Consiglio nazionale forense, con sentenza depositata il 12 marzo 2015, ha respinto il gravame della B..

Il CNF ha affermato che, in base alla disciplina dettata dagli artt. 18 e 19 della legge n. 247 del 2012, la professione di avvocato è incompatibile con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato, e che l’attività di insegnante, seppur part-time, in una scuola primaria statale resta al di fuori delle esenzioni di legge. Secondo il CNF, con il nuovo ordinamento è stata superata la precedente, più generica disciplina di cui all’art. 3, quarto comma, lettera a), del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36: oggi infatti l’eccezione alla norma sulla incompatibilità riguarda espressamente (quale previsione eccezionale) soltanto gli insegnanti di materie giuridiche.

Né – ha proseguito il Consiglio nazionale forense – rileva la circostanza che la B. ha presentato l’istanza di iscrizione in data 9 gennaio 2013, e dunque prima dell’entrata in vigore, il 2 febbraio 2013, della nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, dettata dalla legge n. 247 del 2012 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica il 18 gennaio 2013). Infatti, il principio tempus regit actum impone all’organo chiamato a provvedere in via amministrativa (nella specie, il COA di Milano), di dare applicazione alle disposizioni normative che intervengono nel corso del procedimento amministrativo, malgrado l’atto di impulso di parte sia stato posto in essere in data anteriore al nuovo quadro normativo.

3. – Per la cassazione della sentenza del CNF la B. ha proposto ricorso, con atto notificato l’8 maggio 2015, sulla base di un motivo.

L’intimato Consiglio dell’ordine non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Considerato in diritto

1. – Con l’unico motivo, la ricorrente prospetta violazione di legge od errata applicazione dell’art. 19 della legge n. 247 del 2012, ed omessa applicazione dell’art. 3, quarto comma, lettera a), del regio decreto-legge n. 1578 del 1933.

Deduce la ricorrente che, secondo il previgente ordinamento, nell’interpretazione ad esso data dalle Sezioni Unite con la sentenza 12 ottobre 2010, n. 22623, l’insegnamento in una scuola elementare non impediva l’iscrizione all’albo.

Se il principio considerato da tutelare è quello della libertà di insegnamento, allora la specificazione “insegnamento o […] ricerca in materie giuridiche”, introdotta dalla nuova normativa, verrebbe a confliggere con tale principio.

Di qui, ad avviso della ricorrente, l’errata applicazione dell’art. 19 della nuova legge professionale: la Dott.ssa B. , pur essendo maestra elementare e pur non insegnando certamente materie giuridiche, “ha comunque diritto a poter liberamente insegnare ed anche a esercitare la professione forense come avvocato”.

Nella specie, in ogni caso, avrebbe dovuto trovare applicazione la previgente normativa, sia perché costituzionalmente orientata, sia perché la domanda di iscrizione era stata presentata prima della entrata in vigore della legge n. 247 del 2012.

Poiché il procedimento finalizzato alla iscrizione all’albo era iniziato nella vigenza della precedente normativa, esso avrebbe dovuto concludersi facendo applicazione di quella normativa, senza possibilità di applicazione della nuova.

“La disciplina che dovrebbe trovare applicazione – sostiene la ricorrente – sarebbe quella in vigore all’inizio della fase istruttoria; in questo momento, infatti, viene definita la decisione finale rispetto alla quale il provvedimento conclusivo costituirà solo un mero epilogo.

Qualsiasi modifica normativa, che dovesse intervenire sullo svolgimento dell’istruttoria, rappresenterebbe un inquinamento delle conclusioni dell’intero procedimento ed un potenziale pregiudizio per le situazioni giuridiche dei soggetti interessati”.

2. – Il motivo è infondato.

2.1. – Nel vigore della precedente disciplina dell’ordinamento della professione di avvocato, l’art. 3 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, nel prevedere in via generale l’incompatibilità tra lo svolgimento della professione di avvocato e la sussistenza di un impiego pubblico, stabiliva anche un’eccezione (quarto comma, lettera a) per “i professori e gli assistenti delle Università e degli altri Istituti superiori ed i professori degli Istituti secondari”.

Con la sentenza 8 novembre 2010, n. 22623, le Sezioni Unite hanno interpretato la disposizione derogatoria contenuta nel citato art. 3, quarto comma, lettera a), nel senso che, sussistendone i requisiti, l’incompatibilità è esclusa anche per i docenti delle scuole elementari.

A tale conclusione questa Corte è giunta sul rilievo che anche i docenti della scuola elementare godono della medesima libertà di insegnamento stabilita per gli altri docenti e devono essere in possesso della laurea, sicché la loro esclusione dall’eccezione prevista dall’ordinamento professionale si risolverebbe in una discriminazione in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza.

Si è trattato, in quel contesto, non di stabilire una nuova eccezione alla regola, bensì di esplicitare quanto era “già individuabile nel contenuto della norma in coerenza con l’identità di ratio di quanto espressamente previsto”.

2.2. – L’art. 19 del nuovo ordinamento della professione forense, di cui alla legge n. 247 del 2012, avente ad oggetto la disciplina delle eccezioni alla norma sulla incompatibilità, ha un contenuto diverso, che non consente di ribadire l’interpretazione estensiva operata dalle Sezioni Unite con riferimento al quadro normativo precedente.

Infatti – ferma l’incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato “con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato” (art. 18, comma 1, lettera d) – l’art. 19, al comma 1, fa salva un’eccezione con riguardo all’”insegnamento o [al]la ricerca in materie giuridiche nell’università, nelle scuole secondarie pubbliche o private parificate e nelle istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici”.

Ai fini dell’operatività dell’eccezione alla regola generale dell’incompatibilità con qualunque attività di lavoro subordinato, anche part-time, la nuova legge da quindi rilievo non solo al luogo nel quale l’insegnamento o la ricerca si svolge (nelle università, nelle scuole secondarie e nelle istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione), ma – e ciò costituisce una novità rispetto al testo precedente – anche all’ambito disciplinare dell’insegnamento o della ricerca, il quale, per espressa previsione, è esclusivamente quello delle “materie giuridiche”.

L’univoco tenore letterale dell’art. 19 non ne consente una lettura e-stensiva tale da ricomprendere nell’ambito dell’eccezione, in nome dell’unitarietà della funzione docente, anche i docenti della scuola primaria, che insegnanti in materie giuridiche non sono.

Una diversa interpretazione non solo non si muoverebbe nel rispetto delle potenzialità obiettive del dato testuale, ma anche non terrebbe conto della ratio della riforma, che è quella di ammettere un’eccezione, alla regola che sancisce l’incompatibilità con qualsiasi rapporto implicante subordinazione e che vale anche per i docenti e i ricercatori, soltanto là dove l’insegnamento e la ricerca (costituenti la prestazione lavorativa) si esplichino in un settore disciplinare (“materie giuridiche”) comune a quello che tipicamente caratterizza la professione di avvocato.

2.3. – Sfugge, d’altra parte, alla censura della ricorrente la statuizione del CNF di ritenere applicabile al rapporto controverso la più restrittiva disciplina dettata dalla legge n. 247 del 2012.

Sebbene, infatti, la domanda di iscrizione all’albo della Dott.ssa B. tragga origine da un’istanza depositata in data 9 gennaio 2013, quando era ancora in vigore l’art. 3 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, il relativo procedimento amministrativo è stato definito dal Consiglio dell’ordine territoriale il 25 luglio 2013, successivamente, quindi, all’entrata in vigore, il 2 febbraio 2013, dell’art. 19 della legge n. 247 del 2012.

La circostanza che l’istanza di iscrizione all’albo sia stata avanzata prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina delle incompatibilità della professione forense, non cristallizza a tale data il quadro normativo applicabile.

Il principio tempus regit actum impone infatti al Consiglio dell’ordine territoriale, chiamato a provvedere sull’istanza, di dare applicazione alle disposizioni che intervengono nel corso del procedimento amministrativo, malgrado l’atto di impulso di parte sia stato posto in essere in data anteriore al nuovo quadro normativo.

Questa soluzione è coerente sia con la natura costitutiva dell’iscrizione all’albo degli avvocati (cfr. Sez. lav., 28 novembre 1978, n. 5575; Sez. lav., 20 aprile 2006, n. 9232; Sez. I, 23 settembre 2009, n. 20436; Sez. II, 24 ottobre 2013, n. 24124); sia con il rilievo che la scadenza del termine fissato dalla legge per la deliberazione del Consiglio dell’ordine sulla domanda di iscrizione (v. art. 24 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, e, successivamente, art. 17 della legge n. 247 del 2012) si colloca nella specie dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense; sia, infine, con la considerazione che – per espressa disposizione contenuta nella disposizione transitoria di cui all’art. 65 della legge n. 247 del 2012 – il citato art. 19 “non si applica agli avvocati già iscritti agli albi alla data di entrata in vigore della presente legge, per i quali restano ferme le disposizioni” precedenti, laddove la Dott.ssa B. , alla data di entrata in vigore della legge, non era ancora iscritta all’albo né era scaduto il termine per provvedere, da parte del Consiglio dell’ordine, sulla relativa richiesta.

3. – Il ricorso è rigettato.

Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

4. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.