(Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 23 novembre 2015, n. 23836)
Svolgimento del processo
Il 2 aprile 2009 veniva aperto procedimento disciplinare a carico dell’avvocata ricorrente, iscritta al registro praticanti abilitati del COA di Viterbo.
Le veniva contestato di aver acquistato in più occasioni sostanze stupefacenti destinate alla cessione a terzi e di aver ceduto sostanza, verosimilmente cocaina, a più persone tra settembre e ottobre 2006 (ricorso pag. 1).
Il procedimento penale veniva chiuso con sentenza di patteggiamento del 9 dicembre 2009 e, in esito al procedimento disciplinare intrapreso dal COA di Viterbo, che lo aveva sospeso nelle more dell’accertamento penale, veniva irrogata la sanzione della cancellazione dall’albo degli avvocati.
L’appello dell’avvocata veniva respinto dal CNF con sentenza depositata il 19.12.2014 e, stando al ricorso, notificata il 5 febbraio 2015.
L’incolpata propone ricorso per cassazione, notificato anche al Procuratore Generale, con atto consegnato all’ufficiale giudiziario entro i trenta giorni successivi (art. 155 c.p.c.), lunedì 9 marzo 2015.
Il COA di Viterbo è rimasto intimato.
Anche il CNF non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
2) Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 56 rdl n. 1578/33 “per carenza inidoneità e illogicità della motivazione”.
Sostiene che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti non esplica alcuna efficacia in ordine alla valutazione sulla rilevanza del fatto e sulla personalità’ del suo autore sotto il profilo deontologico, essendo tale apprezzamento riservato al giudice disciplinare, in coerenza con quanto disposto dall’art. 5 del Codice deontologico forense.
Afferma che il CNF non ha proceduto ad un’autonoma valutazione del fatto e della personalità del soggetto.
Denuncia la conseguente “radicale mancanza” di motivazione.
Lamenta anche che non sia stata ammessa la prova testimoniale dedotta, relativa ad informazioni sul percorso psicoterapeutico seguito dall’avvocatessa.
La censura non ha fondamento.
Essa presenta un profilo di inammissibilità ed è comunque infondata.
È inammissibile nella parte in cui lamenta una doglianza che non trova riscontro in un motivo di appello e quindi in una questione che appare nuova.
Dalla sentenza di appello (pag. 5) risulta infatti che le doglianze furono due: la prima concerneva la mancata ammissione di prova testimoniale, la seconda concerneva “la eccessiva gravità” della pena.
La prova testimoniale, a quanto consta (pag. 4 sentenza), era stata invocata perché la condanna era stata deliberata solamente sulla base della sentenze di patteggiamento con cui si era chiuso il procedimento penale, sentenza che, non essendo equiparabile a sentenza di condanna non si traduce in una ammissione di colpevolezza.
IL CNF ha respinto la censura, osservando che la sentenza penale irrevocabile di patteggiamento produce effetto vincolante in sede disciplinare con riguardo all’accertamento dei fatti, all’affermazione che l’incolpata li ha commessi ed alla responsabilità dell’autore.
In relazione a questa rilevanza del patteggiamento, ha considerato irrilevante la prova testimoniale con riguardo ad ogni profilo in cui era articolata la doglianza.
Ha inoltre specificamente chiarito che la sentenza di patteggiamento era vincolante solo per gli aspetti sopraricordati e non anche quanto al disvalore della condotta dal punto di vista deontologico, su cui ha richiamato il potere-dovere degli organi di giustizia disciplinare di valutare la rilevanza disciplinare del fatto.
Il Cnf non si è trincerato, come prospetta il ricorso, dietro il rilievo, pur esatto (cfr Cass. SU 21591/13), che la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza ed esonera il giudice disciplinare dall’onere della prova.
IL CNF ha infatti chiarito, nel momento in cui ha confermato la pronuncia di condanna, la necessità di “un’autonoma valutazione del fatto e della personalità del soggetto”, valutazione che era stata evidentemente compiuta nella decisione del COA che veniva confermata, ditalchè non si comprende come possa rimproverarsi alla sentenza impugnata l’omissione della valutazione de qua.
Né, si ripete, contro la prima sentenza si era levata la specifica lamentela di non aver formulato una valutazione deontologica, questione ora posta. Sul punto il ricorso, in narrativa, non deduce infatti di aver esposto tale censura, che risulta ora inammissibile (cfr in proposito Cass. 23675/13).
2.1) In ogni caso, la censura è infondata, poiché nell’esaminare la seconda doglianza, quella relativa alla pena, il CIMF ha avuto modo di valutare anche esplicitamente la rilevanza disciplinare della condotta.
Ha infatti ritenuto che il Consiglio territoriale aveva puntualmente applicato il criterio di adeguatezza in relazione al “clamore che i gravi fatti di droga” avevano determinato nell’opinione pubblica; al risalto dato dalla stampa locale; alla “dinamica comportamentale dell’incolpata”; all’offesa della dignità e del decoro della classe professionale, derivata “dalle reiterate e gravi condotte dell’incolpata”.
Ha ribadito di dover valutare la condotta sotto il profilo del disvalore dal punto di vista dell’ordinamento professionale.
Ne consegue che la condotta è stata valutata disciplinarmente, ditalchè non si può in alcun modo configurare né una violazione di legge, né l’omesso esame di un fatto decisivo, unico sindacato possibile ratione temporis sulla motivazione (SU 8053/14), in riferimento al quale potrebbe forse essere inquadrata la doglianza di mancata ammissione della prova orale ritenuta irrilevante.
3) Il secondo motivo di ricorso denuncia “violazione di legge – prescrizione – artt. 51 e 56 rdl n. 1578/33”.
Parte ricorrente deduce che secondo SU 10071/11 la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta. Afferma che il passaggio in giudicato della sentenza è avvenuto il 24 dicembre 2009; che la prescrizione è di cinque anni (art. 51) e che l’addebito disciplinare “allo stato” sarebbe estinto per intervenuta prescrizione.
La censura è palesemente infondata: risulta dalla sentenza impugnata che la sentenza di patteggiamento è stata resa il 9 dicembre 2009, sicché è esatto, ai sensi dell’art. 585 c.p.p., il calcolo della data di passaggio in giudicato (24.12.2009), a partire dalla quale il diritto di punire può essere esercitato, come riconosce il ricorso.
La sentenza disciplinare del COA è però giunta in esito alla discussione, avvenuta, secondo il ricorso (pag. 2 rigo 4, la sentenza non è stata prodotta dalla ricorrente), all’udienza del 25/9/2010.
Poiché detta sentenza ha effetto interruttivo, il termine quinquennale ricomincia a decorrere dopo la sua pubblicazione ed era ancora in corso alla data del ricorso per cassazione e dell’odierna decisione (22/9/2015).
Inoltre effetto interruttivo ha, se ve ne fosse bisogno, anche la sentenza del CNF, giunta il 19 dicembre 2014, addirittura entro il termine di cinque anni dal momento in cui l’azione disciplinare poteva essere esercitata, sicché non sussiste la prescrizione come denunciata nel motivo di ricorso.
Va aggiunto anche, per completezza, che, secondo parte della giurisprudenza, nella fase giurisdizionale davanti al Consiglio Nazionale Forense opera il principio dell’effetto interruttivo permanente di cui al combinato disposto degli artt. 2945, secondo comma e 2943 cod. civ., effetto che si protrae durante tutto il corso del giudizio e nelle eventuali fasi successive dell’impugnazione innanzi alle Sezioni Unite e del giudizio di rinvio fino al passaggio in giudicato della sentenza (SU Cass. 187/01; 3613/07; 1905/04; 18838/03; 6295/03; 5072/03;3891/04; 24094/06).
3.1) Il nuovo, astrattamente più favorevole, regime della prescrizione stabilito dall’art. 56 della L. 247/12, di riforma dell’ordinamento forense, che prevede un limite di sette anni e mezzo anche in caso di interruzione per effetto delle sentenze del COA e del CNF, non è stato invocato in ricorso e comunque non avrebbe potuto essere applicato a fatti anteriori, come ritenuto da queste Sezioni Unite (da ultimo SU 14905/15).
4) La accertata infondatezza del ricorso rende superfluo disporre la verifica o la reiterazione della notificazione al COA, essendo mancata la produzione dell’avviso di ricevimento del ricorso, dando seguito al principio volto ad evitare il dispendio di attività processuali affermato a partire da Cass. 2723/10 (cfr SU 6826/10; Cass. 21141/11).
Resta parimenti superfluo pronunciare sulla mancata produzione della relata di notifica della sentenza impugnata.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso.
Nulla per le spese di lite, in mancanza di resistenti costituiti.
Il ricorso è stato notificato dopo il 31 gennaio 2013: essendo rigettato, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 introdotto dall’art. 1 comma 17 della legge n. 228 del 20121.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.