Cassazione, Roma non è in mano a “Mafia Capitale” (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 12 giugno 2020, n. 18125).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIDELBO Giorgio – Presidente –

Dott. SILVESTRI Pietro – Rel. Consigliere –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Rel. Consigliere –

Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere –

Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

1) Buzzi Salvatore, nato a Roma il 15/11/1955;

2) Bolla Claudio, nato in Argentina il 15/05/1962;

3) Brugia Riccardo, nato a Roma il 06/11/196;

4) Bugitti Emanuela, nata a Udine il 22/11/1953;

5) Caldarelli Claudio, nato a Roma il 22/01/1951;

6) Calvio Matteo, nato a Roma il 01/09/1967;

7) Carminati Massimo, nato a Milano il 31/05/1958;

8) Cola Mario, nato a Roma il 21/07/1955;

9) Coltellacci Sandro, nato a Monterotondo il 09/07/1964;

10) Coratti Mirko, nato a Roma il 20/06/1973;

11) De Carlo Giovanni, nato a Roma il 17/03/1975;

12) Di Ninno Paolo, nato a Roma il 06/09/1962;

13) Esposito Antonio, nato a Roma il 01/02/1965;

14) Figurelli Franco, nato a Roma il 07/01/1956;

15) Gaglianone Agostino, nato a Sacrofano il 29/07/1958;

16) Garrone Alessandra, nata a Roma il 22/07/1974;

17) Gramazio Luca, nato a Roma il 22/12/1980;

18) Guarany Carlo Maria, nato a Cutro il 19/09/1959;

19) Guarnera Cristiano, nato a Roma il 16/12/1973;

20) Lacopo Roberto, nato a Roma il 08/06/1965;

21) Magrini Guido, nato a Roma il 24/07/1950;

22) Nacamulli Michele. nato a Roma il 03/04/1980;

23) Panzironi Franco, nato a Roma il 11/07/1948;

24) Pedetti Pierpaolo, nato a Roma il 20/01/1973;

25) Placidi Marco, nato a Sant’Oreste il 05/01/1955;

26) Pucci Carlo, nato a Roma il 24/07/1961;

27) Schina Mario, nato a Roma il 30/06/1954;

28) Scozzafava Angelo, nato a Roma il 10/06/1967;

29) Tassone Andrea, nato a Roma il 10/10/1971;

30) Testa Fabrizio Franco, nato a Roma il 27/12/1965;

31) Tredicine Giordano, nato a Roma il 03/02/1982;

32) Turella Claudio, nato a Roma il 28/11/1951;

avverso la sentenza del 11/09/2018 emessa dalla Corte d’appello di Roma;

visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;

udite le relazioni dei consiglieri Pierluigi Di Stefano e Pietro Silvestri;

udito il Pubblico Ministero, in persona dei Sostituti Procuratori generali Luigi Orsi, Luigi Birritteri e Mariella de Masellis, che hanno concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza limitatamente alla ritenuta partecipazione di Roberto Lacopo nell’associazione mafiosa contestata al capo 1) e l’inammissibilità del suo ricorso nel resto, la riqualificazione del fatto contestato a Franco Panzironi nel reato di partecipazione all’associazione mafiosa di cui al capo 1) e il rigetto del suo ricorso nel resto, l’inammissibilità dei ricorsi proposti da Antonio Esposito, Claudio Turella e Giovanni De Carlo e il rigetto dei ricorsi proposti dagli altri imputati;

uditi i difensori delle parti civili, in particolare, l’avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri per il Ministero dell’Interno e le società 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio di Cooperative Sociali a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale, tutte in amministrazione giudiziaria;

l’avvocato Enrico Maggiore per Roma Capitale; l’avvocato Maria Alicia Mejia Fritsch per A.M.A. s.p.a.;

l’avvocato Rodolfo Murra per la Regione Lazio;

l’avvocato Giulio Vasaturo, sostituto processuale dell’avvocato Vincenza Rando per Associazione Nazionale, Libera. Associazioni, Nomi e Numeri contro le Mafie;

l’avvocato Alfredo Galasso, sostituto processuale degli avvocati Felicia D’Amico e Giuseppe Gandolfo, per Associazione Nazionale per la lotta contro le illegalità e le mafie “Antonino Caponnetto” e per Associazione Antimafia e Antiracket – La Verità Vive! Onlus;

l’avvocato Monica Nassisi per Associazione Nazionale Vittime di Usura Estorsione e Racket;

l’avvocato Gianluca Luongo per Partito Democratico Unione Regionale Lazio e, quale sostituto processuale dell’avvocato Stefano Maccioni, per Cittadinanzattiva Onlus;

l’avvocato Francesco Tarsitano per Legacoopsociali Associazione Nazionale delle Cooperative Sociali e, quale sostituto processuale dell’avvocato Fausto Maria Amato, per S.O.S Impresa;

l’avvocato Dora Vencia per Ambulatorio Antiusura Onlus e, quale sostituto processuale dell’avvocato Deborah Maidecchi, per Centro di Iniziativa per la legalità democratica;

l’avvocato Francesco Scacchi per E.U.R. s.p.a.;

l’avvocato Pierluigi Pernisco per Consorzio Caste! Porziano 98 e per i singoli consorziati Frisoni, Gastaldi, Contu, Franzolin e Colazingari, che hanno chiesto il rigetto dei ricorsi degli imputati e la conferma della sentenza della Corte di appello con riferimento alle statuizioni civili;

uditi i difensori degli imputati, in particolare, gli avvocati Fabrizio Merluzzi e Giuseppe Cincioni per Mario Cola e l’avvocato Cincioni anche per Matteo Calvio;

gli avvocati Gianluca Tognozzi e Fabio Lattanzi per Giovanni De Carlo;

l’avvocato Tommaso Pietrocarlo per Guido Magrini;

l’avvocato Maurizio Giannone, sostituto processuale dell’avvocato Alfredo Gaito, per Pierpaolo Pedretti;

gli avvocati Domenico Intrieri Cataldo e Francesca Aricò, quest’ultima quale sostituto processuale di Giovanni Aricò, per Carlo Maria Guarany;

l’avvocato Francesca Aricò per Marco Placidi;

l’avvocato Alessandro Diddi per Emanuela Bugitti, Paolo Di Ninno e Alessandra Garrone;

gli avvocati Alessandro Diddi e Pier Gerardo Santoro per Salvatore Buzzi;

l’avvocato Antonio Stellato per Franco Figurelli;

l’avvocato Gaetano Antonio Scalise per Angelo Scozzafava;

l’avvocato Pietro Pomanti per Antonio Esposito;

l’avvocato Giorgio Martellino per Cristiano Guarnera;

l’avvocato Manlio Ingarrica per Sandro Coltellacci;

l’avvocato Valerio Spigarelli per Luca Gramazio e Agostino Gaglianone;

gli avvocati Franco Coppi e Gianluca Tognozzi per Giordano Tredicine;

l’avvocato Claudio Giangiacomo per Claudio Bolla;

gli avvocati Francesco Tagliaferri e Cesare Placanica per Massimo Carminati;

l’avvocato Cesare Placanica per Claudio Caldarelli;

gli avvocati Giosuè Naso e Ippolita Naso per Fabrizio Franco Testa;

gli avvocati Giuseppe Antonio Gianzi e Giosuè Naso per Riccardo Brugia;

gli avvocati Pasquale Bartolo e Mercurio Pantaleone, quest’ultimo quale sostituto processuale dell’avvocato Grazia Volo, per Franco Panzironi;

gli avvocati Lorenzo Contrada e Viviana Minghelli per Roberto Lacopo;

gli avvocati Filippo Dinacci e Fabio Viglione per Mirko Coratti;

l’avvocato Filippo Dinacci per Andrea Tassone;

l’avvocato Gianluca Tognozzi per Carlo Pucci;

l’avvocato Lorenzo La Marca per Mario Schina;

gli avvocati Carlo Schiuma e Pietro Odoardo Vincentini per Michele Nacamulli, i quali hanno concluso tutti per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con due distinti decreti di giudizio immediato sono stati contestati agli imputati il reato di associazione mafiosa (capo 1 del primo decreto e capo 22 del secondo decreto), nonché numerosi reati di estorsione e una serie di delitti contro la pubblica amministrazione.

L’ipotesi accusatoria della Procura proponeva l’esistenza di una unica associazione mafiosa, con a capo Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, dedita ad estorsioni finalizzate al recupero di crediti di natura usuraria e, soprattutto, a corrompere funzionari pubblici per ottenere l’aggiudicazione di appalti per le cooperative che facevano capo a Buzzi e per ottenere rapidamente il pagamento di crediti maturati per lavori eseguiti per conto delle pubbliche amministrazioni.

Da qui la contestazione del reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen. ai capi 1) del I decreto e 22) del II decreto, nonché la contestazione nei confronti degli odierni ricorrenti di numerosi reati di corruzione, turbativa d’asta, estorsioni, intestazioni fittizie.

Il Tribunale di Roma non ha riconosciuto l’unicità dell’associazione ipotizzata dall’accusa, ma ha affermato l’esistenza di due associazioni: una dedita ai reati di usura ed estorsione, l’altra ai reati contro la pubblica amministrazione, tra cui corruzioni e turbative d’asta.

Nella sentenza di primo grado, infatti, viene escluso ogni contatto tra le due associazioni, il cui unico elemento in comune è dato dalla partecipazione, ad entrambe, di Carminati e Brugia; allo stesso tempo si esclude l’ipotesi di una progressiva composizione unitaria, rilevando che l’associazione dedita ai reati contro la pubblica amministrazione risale al 2011, mentre quella rivolta ai reati di usura ed estorsioni è successiva. Inoltre, non vi sarebbero prove di partecipazione di altri soggetti, oltre Carminati e Brugia, ad entrambe le organizzazioni malavitose.

Soprattutto, il Tribunale nega il carattere mafioso dell’associazione.

La “mafiosità” viene esclusa per l’associazione usura-estorsioni in quanto si tratta di una compagine ristretta (formata da Carminati, Brugia, Calvio e (Lacopo), che ha operato in un contesto limitato e che è intervenuta solo in poche occasioni per recuperare alcuni crediti; si esclude ogni derivazione dalla banda della Magliana ovvero dai nuclei armati rivoluzionari (NAR) e, in ogni caso, si afferma che il gruppo non ha prodotto in concreto quella capacità di intimidazione nel contesto territoriale ristretto su cui ha operato.

Il carattere mafioso viene escluso anche per l’altra associazione, composta da Carminati, Buzzi, Brugia, Caldarelli, Cerrito, Di Ninno, Garrone, Guarany, Gramazio, Panzironi, Pucci, Testa, in quanto il gruppo era finalizzato a realizzare corruzioni secondo un sistema che aveva coinvolto anche le sfere politiche e imprenditoriali, senza ricorrere sistematicamente alla forza di intimidazione: si è trattato, invece, di un ricorso sistematico alla corruzione.

Sempre il Tribunale ha individuato i ruoli dei vari componenti nell’associazione di Buzzi: quest’ultimo era al vertice, con i suoi più vicini collaboratori, tra cui Di Ninno, commercialista, che teneva la contabilità, la Garrone, avvocato e sua compagna, nonché vice presidente del consiglio di amministrazione della Cooperativa 29 giugno, che condivideva le strategie delle varie società, Caldarelli, presidente della cooperativa Formula sociale, che manteneva i rapporti con i funzionari pubblici; Guarany, anch’egli vice presidente della 29 Giugno e socio della Cosma, che collaborava con Buzzi partecipando alle riunioni; la Cerrito — non ricorrente in quanto assolta — che era la cassiera dell’associazione e teneva il c.d. libro nero. Gli altri componenti dell’associazione facevano parte del nucleo esterno che assicurava i rapporti politico- amministrativi (Gramazio, Panzironi, Pucci, Testa); sono stati ritenuti componenti dell’associazione semplice anche gli imprenditori Guarnera e Gaglianone.

1.1. Il primo giudice non ha ritenuto possibile attribuire il carattere della mafiosità, difettando i requisiti della forza di intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà: la c.d. riserva di violenza, intesa come fama criminale che l’associazione sfrutta senza porre in essere ulteriori atti di violenza, può riferirsi solo alle mafie derivate da quelle tradizionali, come la mafia o la ‘ndrangheta; alle due associazioni in questione il Tribunale non ha riconosciuto la mafiosità derivata, tipica delle mafie delocalizzate; inoltre, i giudici hanno escluso che la presenza di Carminati potesse attribuire la qualità mafiosa all’associazione, ritenendo che i collegamenti di quest’ultimo con associazioni mafiose, come la Banda della Magliana, non fossero più attuali e lo stesso Carminati non è stato ritenuto avere più relazione con gruppi eversivi collegati ai NAR; infine, i rapporti e le relazioni di Carminati con appartenenti ad altri gruppi mafiosi, come quelli di Michele Senese, Diotallevi, Fasciani, Denaro si sono rivelati occasionali e comunque non collegati ai fatti del processo.

Anche alcune forme di intimidazione finalizzate all’acquisizione di appalti gestiti dalle cooperative di Buzzi non sarebbero in grado di attribuire tale qualifica alle associazioni. In particolare, la sentenza di primo grado ha preso in esame alcuni episodi:

a) quello in cui Lucarelli, capo della segreteria del sindaco Alemanno, per paura di Carminati scende ad incontrare Buzzi sotto il Campidoglio;

b) l’episodio dell’intervento di Carminati sulla dirigente comunale Santarelli;

c) le minacce di Carminati a Mancini, dirigente dell’E.U.R. S.p.A. da cui Buzzi intendeva ottenere il pagamento dei crediti.

Ebbene, secondo i giudici si tratta di episodi da cui non può dedursi il carattere di mafiosità dell’associazione, anzi proprio da questi stessi episodi i giudici sembrano trarre argomenti per escludere che il gruppo di Buzzi abbia utilizzato metodi mafiosi nei rapporti con le istituzioni.

Insomma, secondo il Tribunale si sarebbe trattato di un sistema di corruzione, mediante infiltrazioni stabili nelle istituzioni della Capitale, con forti complicità politiche, con il risultato di creare una rete di accordi illeciti che hanno favorito una sorta di regime di monopolio delle cooperative facenti riferimento a Buzzi.

Negando l’associazione mafiosa, il Tribunale di Roma ha fatto cadere anche l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. (già art. 7 legge n. 203/1991) contestata a vari imputati, riconoscendo l’esistenza, come si è detto, di due associazioni semplici.

Per quanto riguarda i reati di corruzione, di turbativa d’asta, nonché quelli relativi alle estorsioni è stata ritenuto la responsabilità della maggior parte degli imputati, condannati anche per questi reati.

2. Contro questa decisione, in particolare contro l’esclusione della mafiosità dell’associazione e dell’aggravante di cui all’art. 7 cit., hanno presentato appello sia il pubblico ministero presso il Tribunale, sia il Procuratore generale presso la Corte di appello. Hanno, inoltre, appellato anche gli imputati.

2.1. La Corte di appello di Roma, decidendo sugli appelli degli imputati e dei pubblici ministeri, ha confermato la responsabilità per la maggior parte degli imputati con riferimento ai reati fine loro contestati (corruzioni, reati di turbativa d’asta, intestazioni fittizie, reati fiscali, estorsioni ecc. ecc.), ma ha ritenuto l’esistenza di un’unica associazione e, soprattutto, ha riconosciuto ad essa il carattere mafioso, di conseguenza ripristinando l’aggravante dell’art. 7 cit. per una serie di reati.

La sentenza di secondo grado ha richiamato alcune decisioni di questa Corte, soprattutto le due sentenze di questa sezione che si sono pronunciate nella fase cautelare, e sulla base del contenuto delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, dei servizi di osservazione e dei documenti acquisiti, ha ritenuto che dal settembre 2011 al dicembre 2014 Carminati e Buzzi, con i loro associati, hanno agito con l’intimidazione del loro vincolo associativo suscitando condizioni di assoggettamento e di omertà, sia nel settore del recupero crediti, sia nel settore amministrativo per l’acquisizione di appalti attraverso corruzioni e turbative d’asta.

Secondo la sentenza di appello l’associazione (l’unica associazione) sarebbe il risultato dei progetti espansionistici di Carminati e di Buzzi.

Il primo che, utilizzando la forza criminale del gruppo di Corso Francia e la sua capacità di intimidazione, ambiva ad inserirsi nel settore amministrativo e imprenditoriale in cui operava Buzzi, passando dai reati di strada a quello che lo stesso definiva come il “mondo di sopra”;

il secondo che, invece, voleva utilizzare la fama criminale di Carminati e i suoi rapporti di amicizia con alcuni personaggi della destra politica, con i quali in passato quest’ultimo aveva militato, per rafforzare e incrementare la sua posizione nel settore degli appalti pubblici, in una fase in cui il Comune di Roma era amministrato appunto dalla destra (sindaco Alemanno).

In sostanza, secondo quanto si legge nella sentenza di secondo grado, nell’associazione Carminati conferì i contatti con gli ambienti della destra che derivavano dal suo passato (Mancini, Gramazio, Pucci e Testa) nonché la sua fama criminale e quella del suo gruppo; Buzzi conferì l’organizzazione delle sue cooperative e il suo collaudato sistema di corruzione, realizzato con i suoi principali collaboratori (Garrone, Caldarelli, Guarany, Di Ninno). Questa struttura dell’associazione avrebbe trovato terreno favorevole nei comportamenti di numerosi politici e funzionari compiacenti o corrotti.

2.2. La Corte di appello ha considerato erronea la valutazione con cui il primo giudice ha escluso il carattere mafioso dell’associazione in relazione al numero modesto delle vittime e al limitato contesto relazionale e territoriale in cui avrebbe operato, assumendo invece che il carattere mafioso dell’associazione non presuppone un generale controllo del territorio, né una generalizzata condizione di assoggettamento e di omertà della collettività, potendo queste caratteristiche riferirsi anche a settori di territorio e a particolari categorie di vittime (ad esempio gli imprenditori).

I giudici di secondo grado hanno analizzato l’incontro tra Buzzi e Carminati, tramite Mancini e Pucci, al Bar Palombini dell’EUR e hanno descritto i progetti e gli obiettivi dell’associazione, riportando quello che è stato definito come il “manifesto programmatico” di Carminati in cui questi parla del “mondo di mezzo, del mondo di sopra e del mondo dei morti”.

Il vantaggio che avrebbe ottenuto Carminati da questa unione, secondo la sentenza, è quello di partecipare agli utili delle cooperative, ottenendo denaro non riconducibile a lui; il vantaggio di Buzzi sarebbe stato quello di giovarsi della forza di intimidazione di Carminati e dei favori da parte degli amici di quest’ultimo per i suoi affari legati alle cooperative.

La Corte territoriale ha evidenziato come, dopo la nascita dell’associazione, il fatturato delle cooperative sia aumentato notevolmente. Il modello corruttivo ideato da Buzzi attraverso il sistema delle tangenti, anche attraverso l’erogazione dei contributi elettorali, viene mantenuto dall’associazione; Carminati interviene quando l’attività corruttrice di Buzzi non appare sufficiente, ma occorre il valore aggiunto di Carminati, con la sua forza intimidatrice che deriva, secondo la sentenza, dal gruppo di Corso Francia.

I giudici hanno selezionato i casi in cui vi sarebbe stato l’uso manifesto della forza di intimidazione da parte dell’associazione, soprattutto tramite Carminati, individuando i seguenti episodi:

– la pratica relativa ai pagamenti dovuti alla cooperativa per la realizzazione dei campi nomadi, in cui Carminati sarebbe intervenuto sulla Santarelli;

– la gestione della gara 30/13 c.d. multilaterale in cui Carminati propone a Buzzi di intervenire;

– la richiesta eccessiva di Turella in relazione ad una tangente;

– la gara per l’emergenza abitativa;

– la gestione dell’affare relativo alla cooperativa Deposito Locomotive;

– l’apertura di un centro di accoglienza nel Comune di Castelnuovo di Porto, episodio in cui Buzzi si sarebbe avvalso di Carminati per convincere il sindaco Stefoni, minacciando il suo emissario Cimbella, a rilasciare l’autorizzazione;

– la gara CUP;

– le reazioni all’arresto di Mancini.

Come ulteriori esempi della forza di intimidazione dell’associazione, la sentenza cita la vicenda di Mario Monge, al quale Buzzi impose di ritirarsi da una gara di appalto per la manutenzione del verde delle ville storiche a Roma: in questo caso la Corte di appello ha censurato la tesi del Tribunale secondo cui Monge si ritirò dalla gara nella consapevolezza di aver violato un accordo spartitorio avente ad oggetto quelle gare, sottolineando invece che il ritiro fu il risultato della intimidazione, cioè del timore di aver toccato un settore che doveva rimanere appannaggio di Buzzi.

Sempre la sentenza ha sostenuto che l’intimidazione dell’associazione si sia rivolta soprattutto contro gli imprenditori, rendendo loro difficile la partecipazione alle gare.

Stessa condotta ai danni degli amministratori pubblici (si citano le minacce a Mancini; le pressioni su Lucarelli).

La Corte di appello ha individuato anche condotte in cui Carminati avrebbe offerto protezione, riportando le vicende di Lorenzo Alibrandi, di Marco Iannilli, di Cristiano Guarnera e di Luca Gramazio.

Il carattere mafioso dell’associazione, secondo la sentenza, trova conferma anche in relazione al requisito dell’omertà, dal momento che nessuna vittima di estorsioni ha mai presentato denuncia e d’altra parte, nessuno dei funzionari pubblici ha mai denunciato le prassi distorte che seguivano le gare che interessavano le cooperative di Buzzi.

In conclusione, la sentenza riconosce Buzzi e Carminati come il vertice dell’associazione mafiosa; della stessa associazione, con diversi ruoli, farebbero parte Garrone, Di Ninno, Brugia, Caldarelli, Calvio, Gaglianone, Grannazio, Guarany, Guarnera, Lacopo, Pucci, Testa; Panzironi è stato riconosciuto quale concorrente esterno dell’associazione.

Gli stessi appartenenti al sodalizio sono stati condannati anche per una serie di reati fine, così come pure gli altri ricorrenti in questo processo: reati di corruzione, alcuni funzionari per asservimento della funzione, estorsioni, reati di intestazione fittizia, turbata libertà degli incanti, reati tributari.

3. La Corte di appello di Roma con sentenza dell’il settembre 2018 ha, quindi, ribadito l’originaria impostazione accusatoria e ha complessivamente definito le singole posizioni confermando in massima parte la responsabilità degli imputati in relazione ai singoli reati, in molti casi riducendo le pene inflitte dal Tribunale, nonostante il riconoscimento dell’esistenza di un’associazione di stampo mafioso.

Contro questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati indicati in epigrafe.

4. Buzzi Salvatore, Bugitti Emanuela, Di Ninno Paolo, Garrone Alessandra. Buzzi, condannato per il reato associativo e per una serie di delitti contro la pubblica amministrazione alla pena di 18 anni e 4 mesi di reclusione (in primo grado la pena era stata di 19 anni), era il fondatore ed il gestore del gruppo imprenditoriale delle cooperative (la principale era la “29 Giugno”) e, in tale veste, il principale autore delle condotte mirate all’espansione nel settore degli appalti del Comune di Roma ed altri enti pubblici, nonché il vertice della associazione del capo 1.

Bugitti, ritenuta responsabile dei reati di cui ai capi 16 e 25 del primo decreto (artt. 110, 353, 319, 321 cod. pen. e 7 legge 203 de11991) e condannata alla pena di 3 anni e 8 mesi di reclusione (in primo grado la condanna era stata di 6 anni), coadiuvava Buzzi nella direzione operativa della cooperativa 29 giugno. Garrone, condannata alla pena di 6 anni e 6 mesi di reclusione (in primo grado la pena era stata di 13 anni e 6 mesi) per il reato associativo nonché per alcuni episodi di turbativa d’asta e corruzioni, era vicepresidente del consiglio di amministrazione della cooperativa 29 Giugno, stretta collaboratrice di Buzzi, con il quale aveva anche una relazione sentimentale, si occupava della gestione amministrativa.

Di Ninno, condannato alla pena 6 anni e 3 mesi di reclusione (in primo grado la pena era stata di 12 anni), è stato ritenuto responsabile del reato associativo e di reati contro la pubblica amministrazione: era il commercialista di fiducia di Buzzi, teneva la contabilità della cooperativa 29 Giugno, curando anche la contabilità occulta collegata all’attività di corruzione e gestendo i flussi finanziari irregolari riscontrati nel corso delle indagini.

Nell’interesse di Buzzi, Bugitti, Di Ninno e Garrone è stato presentato un unico ricorso.

4.1. Con il primo motivo, dedotto dal solo Buzzi, si eccepisce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. in relazione alla sua partecipazione a distanza al dibattimento.

Questo motivo ribadisce le questioni già poste durante il processo.

In particolare si assume che il provvedimento che disponeva il procedimento distanza è stato adottato in via irrituale dal presidente della Corte di appello, che non aveva tale potere, ed è irrilevante che il suo provvedimento sia stato comunque confermato dal collegio alla prima udienza utile in quanto il ricorrente non vi aveva partecipato proprio per eccepire la nullità in questione. In ogni caso, quindi, quantomeno l’udienza del 6 marzo 2018 sarebbe stata tenuta invalidamente.

Peraltro, la motivazione della ordinanza che disponeva la partecipazione a distanza è nulla perché è solo apparente quanto alla complessità del procedimento – che tale non era – ed alla sussistenza di ragioni di sicurezza.

4.2. Con il secondo motivo (punto 1.2 del ricorso) si denuncia la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. d) cod. proc. pen. in riferimento al diniego della rinnovazione della istruttoria dibattimentale, sotto due profili: – la Corte di appello ha rigettato la richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale ritenendo che la stessa fosse stata proposta esclusivamente sotto il profilo del diritto alla nuova audizione delle prove orali in riferimento al loro diverso apprezzamento per la riforma della sentenza di primo grado in base agli appelli del PM e del PG.

Non vi è stata, invece, alcuna decisione rispetto alla richiesta di riapertura del dibattimento proposta con l’appello incidentale; in conseguenza, vi è stata una violazione del diritto alla prova. – il rigetto della riapertura del dibattimento era comunque illegittimo perché ricorreva una situazione in cui la sentenza di primo grado era pervenuta ad una “sostanziale assoluzione” per il reato di associazione mafiosa, decisione poi ribaltata in base ad una lettura alternativa delle testimonianze.

4.3. Con il successivo motivo, di cui al punto 1.3 del ricorso, Buzzi, Di Ninno e Garrone deducono la nullità del decreto di giudizio immediato per violazione dell’art. 453, comma 2, cod. proc. pen., poiché il giudizio per il reato di associazione mafiosa è stato disposto anche in riferimento alla contestazione del loro ruolo di emissari del clan Mancuso.

Poiché tale ultima circostanza non era compresa nei fatti per i quali era stata disposta la custodia cautelare, non era consentito il giudizio immediato “cautelare” e si doveva procedere con rito ordinario.

4.4. Con il motivo di cui al punto 1.4 del ricorso, si deduce la violazione degli artt. 456 e 429 cod. proc. pen. e, quindi, conseguente nullità del decreto di giudizio immediato per indeterminatezza dei capi di imputazione.

Nel motivo la difesa riporta per ciascun reato le deduzioni immediatamente formulate nel giudizio di primo grado in ordine alla genericità della descrizione della condotta, poi ribadite con l’atto di appello.

La Corte di appello, rilevano i ricorrenti, non ha considerato tali motivi, limitandosi a trattare solo la questione della data di inizio della commissione del reato associativo e non il tema, più rilevante, della mancata indicazione chiara degli elementi essenziali dei reati fine, con evidenti ricadute sull’esercizio del diritto di difesa.

4.5. Il motivo di cui al punto 1.5 del ricorso attiene alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza in relazione al capo 25 del primo decreto.

Il capo 25 riguardava la corruzione negli anni 2012 e 2013 di Turella Claudio, vicenda di cui ha riferito lo stesso Buzzi.

La partecipazione al reato di Garrone, Di Ninno e Bugitti è stata affermata sulla scorta della loro partecipazione ad un incontro negli uffici di via Pomona del 28 marzo 2014.

Sussisterebbe la violazione denunciata in quanto vi è totale difformità dei tempi del commesso reato rispetto a quello cui è riferita la contestazione.

4.6. Con il motivo di cui al punto 1.6 del ricorso si deduce la violazione di legge in riferimento alla inutilizzabilità, già dedotta in fase di merito, delle intercettazioni telefoniche per violazioni varie, in particolare difetto di motivazione dei decreti autorizzativi e dei decreti di proroga.

Le specifiche eccezioni sono:

– la nullità ex articolo 268 e 142 cod. proc. pen. per violazione dell’obbligo di redazione del verbale;

– i verbali di intercettazione risultano consistere in file di testo editabile privi di sottoscrizione o qualsivoglia carattere di ufficialità.

Non corrisponde al vero quanto riportato nella sentenza impugnata, ovvero che tale violazione riguardi un unico verbale cui non corrisponde alcuna registrazione. – la nullità per violazione dell’art. 267 cod. proc. pen.: con riferimento alle intercettazioni richieste in via di urgenza, poi disposte, sulla scorta delle informative del 3 ottobre 2012, andava applicata la regola ordinaria che richiede la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e la assoluta indispensabilità per la prosecuzione delle indagini.

A quella data non era stata ancora iscritta l’ipotesi di associazione mafiosa (iscrizione del 10 febbraio 2013) e Buzzi non era stato ancora iscritto nel registro degli indagati. Inoltre, si è fatto un uso determinante delle informazioni confidenziali.

4.7. Con il motivo di cui al punto 2.1 del ricorso sono contestate violazioni di legge e vizi di motivazione relativi alla sussistenza della associazione mafiosa con riferimento ai temi relativi all’esistenza di una o due associazioni, come ritenuto dal Tribunale, all’utilizzazione della forza di intimidazione del vincolo associativo ed all’essersi l’associazione avvalsa della condizione di assoggettamento e di omertà.

In dettaglio si rilevano:

– omissioni della motivazione, nel senso che non sono state considerate le prove contrarie all’accusa, non vi è stato confronto con le risultanze della sentenza di primo grado e vi è stato un indebito rinvio alla decisione della Corte di cassazione in fase cautelare;

– gli elementi utilizzati per delineare il gruppo criminale sono generici, non essendo individuata alcuna relazione tra i vari soggetti asseritamente inseriti dei due gruppi, se non limitatamente a Carminati e Brugia.

Dalla motivazione risulta che la strategia individuata quale propria della associazione era invece condivisa soltanto tra Buzzi e Carminati;

– la sentenza rappresenta il progetto di utilizzare la fama criminale Carminati ed il presunto ruolo degli imprenditori Gaglianone e Garnera che frequentavano la “base” di Corso Francia; un tale progetto, però, non ha alcuna corrispondenza in atti;

– è erronea l’argomentazione della Corte di appello secondo cui l’aumento di fatturato del 2013 delle cooperative di Buzzi sarebbe da imputare all’intervento di Carminati e non, come dimostrato, dall’acquisto dei rami di azienda della “CRD” (raccolta differenziata del Comune di Roma) ad un’operazione economica del tutto legittima;

– non vi sono elementi concreti per ritenere una qualche partecipazione effettiva di Brugia alle attività delle cooperative, essendosi limitato ad accompagnare Carminati senza assumere mai alcun ruolo. Brugia non ha avuto alcun rapporto con le cooperative e non ha avuto alcun vantaggio economico;

– la Corte di appello non ha valutato i fondamentali dati, riportati dal Tribunale, da cui risultava che il ruolo egemone nel settore era svolto non dalla cooperativa di Buzzi bensì da altre due cooperative che fruivano di affidamenti complessivi molto maggiori sia per numero che per valore;

– tutte le corruzioni risultano originate da iniziative autonome di soggetti posti in condizioni di piena parità nei rapporti con Buzzi; le turbative accertate riguardano solo quattro gare minori mentre per quella principale del processo, la gara C.u.p., è escluso che sia stato Buzzi l’ispiratore della turbativa.

Su tale tema, peraltro, la difesa aveva chiesto l’integrazione dell’istruttoria, non accolta;

– quanto al ruolo di Carminati, i rapporti di affari tra lui Buzzi risultano dalla contabilità in nero tenuta dal commercialista Di Ninno e nulla dimostra che abbia avuto alcun ruolo di amministratore né vi è alcun supporto probatorio all’affermazione di avere egli contribuito al fatturato delle cooperative.

Il fatturato delle cooperative è costantemente cresciuto tra gli anni 2000 e 2011, quindi ben prima dei presunti accordi con Carminati. Già in primo grado era stato adeguatamente prospettata la presenza di Carminati in un numero limitato delle riunioni di gestione della cooperativa e, soprattutto, che questi non partecipava alle più rilevanti riunioni di presidenza nonché a quelle di direzione cui partecipavano anche i quadri delle cooperative del gruppo;

– le conversazioni riportate a pagina 386 a sostegno del ruolo di amministratore di fatto non hanno alcuna capacità di dimostrarlo; un tale ruolo, del resto, non era sostenuto neanche dagli uffici di Procura appellanti;

– è smentito il ruolo del Carminati di mediatore con la destra politica, salita al potere nel 2011 nel Comune di Roma, che è stato affermato apoditticamente, senza alcun elemento a sostegno.

Non risulta alcun contatto tra Panzironi e Carminati che confermi la tesi di essere stato quest’ultimo il mediatore della riconciliazione tra Buzzi e Panzironi ed alcun elemento a sostegno di quanto affermato dalla Corte di appello.

Nessun dato fattuale dimostra un ruolo del Carminati nel recupero dei crediti verso Eur S.p.A. e Ama S.p.A.;

– l’affermazione che l’affidamento per la realizzazione del campo nomadi di Castel Romano, voluto dalla giunta Alemanno, avvenne grazie all’interessamento di Carminati, non ha alcun sostegno probatorio;

– nessun elemento concreto sostiene l’affermazione che Carminati conferì, oltre ai contatti con gli ambienti di destra, la “sua forza di intimidazione”;

– nessun elemento concreto sostiene le affermazioni delle minacce da parte di Carminati e, del resto, tutti i testimoni appartenenti alla pubblica amministrazione hanno risposto negativamente alla domanda se nel loro contesto fosse noto il nome di Carminati o si sentissero intimiditi;

– il comandante dei Carabinieri del R.o.s. nella sua testimonianza si è espresso negativamente quanto all’accertamento di un metodo mafioso;

– nelle conversazioni intercettate nel corso delle riunioni della cooperativa 29 Giugno, non è mai stato ipotizzato l’uso di metodi violenti;

– il Presidente dell’Autorità Nazionale anticorruzione, nelle attività di verifica degli appalti degli enti in questione, non ha rilevato alcun episodio riconducibile ad attività mafiosa;

– vi sono numerose circostanze, analiticamente enumerate nel ricorso, indicative del fatto che mai Carminati esercitò attività intimidatorie; queste ultime sono state confuse con l’utilizzazione da parte sua di alcune espressioni che, valutate correttamente nel contesto complessivo dei dialoghi, risultano semplicemente espressione di un linguaggio gergale e denso di metafore;

– non risulta alcuna condotta di intimidazione definibile mafiosa che possa essere attribuita al Buzzi.

La Corte di appello fa riferimento ad una presunta pressione su Monge per ritirarsi da un appalto, ma il Tribunale aveva escluso, ascoltando la conversazione, che avesse un tono intimidatorio, essendo in questione l’adeguamento a logiche spartitorie tra imprenditori, non dovute ad iniziativa di Buzzi.

Rileva la genericità di altri riferimenti fatti dalla Corte di appello;

– non si è individuato una condotta di omertà rilevante ex art. 416-bis cod. pen., considerato che il gruppo di Buzzi in sé non ha neanche operato nell’area di Corso Francia, ove sarebbero state tenute le condotte violente e/o minacciose;

– erroneamente si è valorizzata la mancata denuncia dei reati commessi nell’ambito delle procedure di gara attribuendosi al ricorrente la situazione di diffusa irregolarità nella gestione degli appalti del Comune di Roma;

– in nessun episodio di corruzione è mai risultata una condizione di intimidazione dei pubblici amministratori; questi, invece, si sono sempre fatti avanti con le loro richieste.

4.8. Con il motivo di cui al punto 2.2 del ricorso si denuncia l’omessa motivazione e violazione di legge in ordine alla contestazione di partecipazione alla associazione di Garrone e Di Ninno, in quanto non è stato indicato alcun elemento che possa dimostrare la adesione dei due ricorrenti al programma dell’associazione, né risulta alcun rapporto dei due ricorrenti con le persone facenti parte del nucleo di Corso Francia.

4.9. Con il motivo di cui al punto 3.1 del ricorso, riferito alla posizione di Buzzi in relazione all’episodio della corruzione di Salvatore e Romani (capo 10 del primo decreto), si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione.

Si sostiene che sarebbe stata utilizzata a fini di prova, a carico del ricorrente, la sentenza resa in giudizio abbreviato nei confronti di Salvatori e, comunque, non vi è stata adeguata risposta ai motivi di appello.

La corruzione, comunque, non è configurabile in assenza di collegamento tra i presunti atti a favore compiuti nel 2012 e le assunzioni disposte, quale presunto prezzo del reato, nel 2014.

4.10. Con i motivi di cui ai punti 3.1.5 e 3.1.6 del ricorso, sempre relativi alla posizione di Buzzi, si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in riferimento alla corruzione di Franco Panzironi e alla turbativa della gara 18/2011 di A.M.A. s.p.a. (capi 11 e 12 del primo decreto).

La sentenza risulta viziata da motivazione apparente non avendo dato alcuna risposta ai motivi di appello e non avendo valutato le risultanze istruttorie, che avrebbero dovuto portare alla ricostruzione delle vicende in termini di concussione di Panzironi in danno del ricorrente.

In particolare, il ricorrente, con riferimento al contenuto della sua agenda personale e di una sua lettera, materiale in sequestro, dimostrava che, a seguito di un incontro del 25 agosto 2009, Panzironi pretendeva C 100.000 per far vincere al raggruppamento temporaneo di imprese del Buzzi la gara sui cimiteri e, in rappresaglia per il rifiuto opposto, il 28 agosto 2009 revocava il subappalto alla cooperativa di Buzzi.

4.11. Con il motivo di cui al punto 3.2 del ricorso, proposto nell’interesse di Buzzi, si deduce il vizio di motivazione in riferimento alla condanna per il reato di turbativa della ara di raccolta delle foglie (capo 13 del primo decreto).

Si assume che la condanna sarebbe basata su di una intercettazione equivocata là dove si ritiene che Buzzi avesse inteso lamentarsi della estensione ad altre imprese dell’invito per partecipare a quella gara.

4.12. Con il motivo di cui al punto 3.3 del ricorso, nell’interesse di Buzzi, si deduce il vizio di motivazione in riferimento alla condanna per la corruzione di Fiscon (capi 14 del primo decreto e 3 del secondo decreto).

La sentenza non si sarebbe confrontata con i motivi di appello e la memoria depositata in primo grado, non terrebbe conto della richiesta di rinnovazione istruttoria tramite l’ascolto della conversazione tra Buzzi e Fiscon, finalizzata ad accertare chi abbia concordato la pulizia del box di Fiscon (presunto prezzo della corruzione) e, quanto alla ricostruzione dei fatti, non avrebbe tenuto conto della confessione giudiziale di Buzzi, che ha riferito di come gli accordi fossero intervenuti con il Cancelli e non con il Fiscon e dell’argomentazione difensiva basata sulle intercettazioni.

4.13. Con il motivo di cui al punto 3.4 del ricorso, sempre con riferimento alla posizione di Buzzi, si deduce il vizio di motivazione in riferimento alla condanna per il reato di turbativa della gara per il trasporto dei rifiuti all’estero (capo 15 del primo decreto).

E’ stato ritenuto, in assenza di un qualsiasi supporto probatorio, che la turbativa sarebbe stata realizzata in base al rapporto privilegiato che egli aveva con l’Amministrazione, venendogli data da Fiscon la possibilità di partecipare e presentare la propria offerta.

Si rileva che la notizia della gara era conosciuta essendo comparsi due articoli su un quotidiano, prodotti nel corso del giudizio di primo grado, quindi la condotta di Fiscon era priva di alcuna efficacia a tali fini.

Inoltre, si smentisce in diritto la affermazione della Corte di appello che ritiene irrilevante, ai fini della responsabilità per il reato di turbativa ex art. 353 cod. pen., che l’esito della partecipazione del Buzzi alla gara sia stato negativo.

4.14. Riferendosi sempre alla posizione di Buzzi, con il motivo di cui al punto 3.5 del ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna per l’episodio relativo alla corruzione di Pucci (capo 17 del primo decreto).

Si sostiene che sul punto la motivazione è apparente e, comunque, illogica non essendo stato individuato alcun atto o intervento posto in essere da Pucci per favorire le cooperative di Buzzi; inoltre, non si è tenuto conto della prova offerta dalla difesa della diversa ragione dei versamenti, dal momento che Carminati, legato personalmente al Pucci, gli forniva un aiuto economico conoscendo le sue difficoltà familiari, quindi per ragioni non riconducibili alle attività delle cooperative.

4.15. Con il motivo di cui al punto 3.6 del ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna di Buzzi per il reato di cui al capo 7 del primo decreto, relativo alla corruzione di Altamura.

Non è stato indicato in alcun modo la relazione sinallagmatica tra il presunto favore nei confronti di Altamura, consistente nella assunzione delle nipoti, e le condotte di favore nei confronti di Buzzi e delle sue cooperative.

La motivazione è limitata al riferimento ad alcune generiche espressioni dello stesso Buzzi nel corso delle intercettazioni, quali «prende soldi» e «mi sono comprato Altamura», prive di qualsivoglia riscontro.

4.16. Con il motivo di cui al punto 3.7 del ricorso si deduce la totale assenza di motivazione in ordine alla condanna di Buzzi per la corruzione di Figurelli (capi 1 e 2 del secondo decreto).

La Corte di appello non ha preso in considerazione i motivi di appello avendo erroneamente ritenuto che Buzzi non avesse proposto impugnazione per tale imputazione.

4.17. Con il motivo di cui al punto 3.8 del ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna per la corruzione di Tredicine (capo 6 del secondo decreto).

La Corte non ha valutato i motivi di appello e non ha indicato alcun esercizio della funzione in favore di Buzzi; inoltre, le uniche elargizioni in favore di Tredicine sono state fatte “in chiaro” ed hanno riguardato contributi per la campagna elettorale.

4.18. Con il motivo di cui al punto 3.9 del ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna di Buzzi per il reato di cui al capo 12 del secondo decreto, in relazione all’episodio della corruzione di Cola.

Si assume che la sentenza non avrebbe risposto ai motivi di appello limitandosi ad una motivazione meramente adesiva a quella del giudice di primo grado; non avrebbe quindi considerato che tra la presunta utilità che sarebbe stata data al Cola, ovvero l’aver preso in locazione un’appartamento di proprietà del coniuge con contratto sottoscritto nel luglio 2012, e la vicenda del 2014 relativa alla occupazione dell’immobile di via del Frantoio, non vi è alcun collegamento.

Ed è illogico considerare che il Cola abbia agito quale funzionario del Comune per un immobile rispetto al quale non aveva alcuna competenza.

Quanto all’ulteriore fatto valutato dalla Corte di appello, che ritiene che la corruzione troverebbe comunque fondamento dell’interessamento dimostrato da Cola per l’immobile di via Pomona, alla data del sopralluogo fatto da Cola insieme all’architetto De Angelis nel 2013 il Cola non aveva alcun ruolo nella Amministrazione.

4.19. Con il motivo di cui al punto 3.10 del ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna di Buzzi per il reato di cui al capo 13 del secondo decreto, corruzione di Ozzimo.

Si rileva, innanzitutto, la violazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen. per essere stata valutata quale prova a carico del ricorrente esclusivamente la sentenza emessa nei confronti di Ozzimo in sede di giudizio abbreviato, in violazione delle regole di cui all’articolo 192, comma 3, cod. proc. pen. e, comunque, l’omessa valutazione dei motivi di appello.

4.20. Con il motivo di cui al punto 4.1 del ricorso, con riferimento alla posizione di Di Ninno, si deduce il vizio di motivazione in ordine alla condanna per il reato di cui al capo 24 del primo decreto, relativa alla intestazione fittizia dei beni nell’ambito di operazioni finalizzate ad occultare movimenti finanziari in favore di Carminati.

Il ricorrente rileva di non avere avuto alcun ruolo nell’operazione, avendo avuto contezza del credito della Cosma, corrispondente alla somma di euro 141.000, solo successivamente; quindi né avrebbe partecipato alla intestazione né sarebbe stato consapevole. Non vi è stata motivazione sulla sua responsabilità.

4.21. Con il motivo di cui al punto 4.3 del ricorso, con riferimento alla posizione di Garrone e Bugitti, si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna per la turbativa della gara A.m.a. S.p.A. 30/2013 (capo 16 del primo decreto).

La turbativa sarebbe frutto degli accordi del 18 gennaio 2014, a seguito di una riunione cui Garrone e Bugitti non parteciparono.

Non vi è alcuna motivazione sull’effettivo contributo materiale o almeno psicologico da loro fornito; si sviluppa una motivazione solo apparente in quanto fondata sul dato, in sé irrilevante, della semplice partecipazione a riunioni in cui si discusse della gara in questione.

Non aveva alcun rilievo il proposito manifestato dalla Garrone il 5 maggio 2014 quanto alla sostituzione delle buste delle offerte, poichè a quella data era ormai già stato redatto il verbale della commissione aggiudicatrice. Non emergerebbe alcuna forma di concorso morale.

In definitiva, si assume che i presupposti di fatto non siano logicamente correlati rispetto alla vicenda come ritenuta in sentenza.

4.22. Con il motivo di cui al punto 4.4 del ricorso, con riferimento alla posizione di Bugitti, Di Ninno e Garrone, si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna per il reato di cui al capo 25 del primo decreto, riguardante la corruzione di Turella.

Sul presupposto che i fatti si siano svolti nel 2012 nel 2013, si rileva la illogicità di attribuire loro il concorso nel reato solo perché erano stati presenti ad un monologo di Buzzi che riferiva di tale vicenda.

La Corte utilizza un elenco di eventi per giustificare la loro responsabilità senza attribuire alcun significato agli stessi.

4.23. Con il motivo di cui al punto 4.5 del ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna di Garrone la per turbativa della gara C.u.p. (reato di cui al capo 16 del secondo decreto).

Si rileva che non sono state indicate quali siano state le sue condotte significative ai fini della commissione del reato di turbativa, dandosi conto solo della sua intenzione di realizzare un’A.T.I. per partecipare alla gara, condotta in sé pienamente lecita.

4.24. Con il motivo di cui al punto 4.6 del ricorso, relativo alle posizioni di Di Ninno e Garrone, si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna per il reato di corruzione di Coratti (capo 2 del secondo decreto).

I due ricorrenti rilevano, innanzitutto, la assenza di risposte ai motivi di appello e, comunque, la assenza di prove di un loro concorso materiale o morale nella corruzione commessa dal solo Buzzi.

Dal dibattimento è risultato solo che essi erano a conoscenza di tale corruzione e, per sostenere la loro concreta partecipazione alla condotta criminosa, sono stati utilizzati elementi irrilevanti. Alessandra Garrone difatti si era limitata a predisporre le fatture per i servizi in questione e Di Ninno aveva semplicemente svolto la propria attività di gestione della contabilità.

4.25. Con il motivo di cui al punto 4.7 del ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna di Garrone per il reato di cui al capo 18 del primo decreto della gara per la raccolta differenziata del Comune di S. Oreste.

Si assume che la sentenza fonderebbe la sua responsabilità su un dialogo intercettato in cui si fa riferimento al proposito della ricorrente e di Buzzi di sostituire l’offerta già presentata; si rileva che, però, è stato accertato che l’«offerta economica non è mai stata modificata».

La motivazione sarebbe quindi illogica nell’attribuire la responsabilità per il reato di cui all’art. 353 cod. pen. in assenza di specifiche condotte della ricorrente.

4.26. Con il motivo di cui al punto 4.8 del ricorso, in ordine alle posizioni di Di Ninno e Garrone, si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla condanna per il reato di corruzione di Magrini, Pedetti ed Ozzimo (capo 9 del secondo decreto).

Si osserva che la corruzione si era consumata con la sottoscrizione del contratto preliminare di vendita in data 29 novembre 2013 e che rispetto a tale attività non risulta, come già dedotto con i motivi di appello, alcuna condotta dei due ricorrenti che fosse significativa ai fini del concorso.

La loro responsabilità è stata ritenuta sulla scorta di alcune considerazioni tratte da intercettazioni ambientali prive, però, di concreto significato.

4.27. Con il motivo di cui al punto 5.1 del ricorso si deduce il vizio di motivazione per il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 416- bisl, comma 3, cod. pen. in favore di Buzzi, Di Ninno e Garrone.

4.28. Con il motivo di cui al punto 5.2 del ricorso si denuncia il vizio di motivazione per il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 323-bis cod. pen. in favore di Buzzi.

4.29. Con il motivo di cui al punto 5.3 del ricorso si lamenta il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114, cod. pen. in favore di Bugitti, Di Ninno e Garrone.

4.30. Con il motivo di cui al punto 5.4 del ricorso si deduce il vizio di motivazione per l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.

4.31. Con il motivo di cui al punto 5.5 del ricorso viene dedotto il vizio di motivazione nella determinazione delle pene per i ricorrenti.

4.32. Con motivi aggiunti la difesa dei ricorrenti deduce, quale elemento di conferma del vizio, più volte ravvisato nel ricorso principale, l’avere la Corte di appello tenuto essenzialmente conto dei risultati delle indagini, riportate nelle ordinanze di custodia e che nella sentenza risultano utilizzate le trascrizioni di cui ai brogliacci della polizia giudiziaria e non quelle della perizia disposta ritualmente.

Si deduce, inoltre, il frequente travisamento della prova rappresentata dalle intercettazioni in quanto la sentenza riporta conversazioni che non hanno riscontro nelle trascrizioni ufficiali.

Con i motivi aggiunti è stata depositata la documentazione necessaria ed un prospetto di comparazione della diversità di trascrizione delle conversazioni utilizzate nella sentenza impugnata.

5. Bolla Claudio, collaboratore di Buzzi, è stato condannato in primo grado alla pena di 6 anni di reclusione per una serie di episodi di corruzione nei confronti di funzionari pubblici; la Corte di appello ha confermato la sua responsabilità per tali reati, con l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., e riconoscendogli le attenuanti generiche gli ha ridotto la pena ad anni 4 e mesi 5 di reclusione, riducendo altresì la pena accessoria di cui agli artt. 32-ter e 32- quater cod. pen. ad anni 3.

Si è trattato di accordi corruttivi intercorsi con Mirko Coratti, presidente del consiglio comunale di Roma, e del suo collaboratore Franco Figurelli (capo 2 del secondo decreto); con Guido Magrini, direttore del dipartimento politiche sociali della Regione Lazio; con Daniele Ozzimo, assessore alla casa per il comune di Roma; con Pedetti Pierpaolo, consigliere dell’assemblea capitolina e presidente della VII commissione del Comune di Roma (capo 9 del secondo decreto, cui sono connessi i capi di imputazione sub 10 e 11 del secondo decreto, relativi, come meglio si dirà in prosieguo, alla turbativa di due procedure negoziate indette da Roma Capitale).

In particolare, quanto al capo 9, Buzzi, Garrone, Caldarelli, Di Ninno, Nacamulli, Carminati, Coltellacci e Bolla avrebbero ottenuto dai pubblici ufficiali Guido Magrini, Pierpaolo Pedetti e Daniele Ozzimo (per il quale si è proceduto separatamente) il rinnovo dei servizi di assistenza di emergenza alloggiativa in favore della Eriches a valori sovradimensionati; in cambio del rinnovo, Buzzi, in concorso con i suoi collaboratori, avrebbero dovuto acquistare 14 appartamenti di proprietà della Coop Deposito Locomotive San Lorenzo, per consentirne il salvataggio finanziario.

Sono stati articolati cinque motivi di ricorso.

5.1. Con il primo si lamenta l’omessa motivazione della sentenza in relazione alle doglianze contenute nell’appello incidentale con cui si chiedeva che fosse dichiarata l’inammissibilità delle impugnazioni dei Pubblici Ministeri in ordine al carattere mafioso della riconosciuta associazione per delinquere ed alla circostanza aggravante prevista dall’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, quanto alla finalità agevolatoria mafiosa della condotta dell’imputato.

5.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione e violazione di legge quanto alla circostanza aggravante indicata.

5.3. Con il terzo motivo si lamenta il vizio di motivazione e la violazione di legge quanto al giudizio di responsabilità penale per il capo di imputazione sub 9): gli elementi valorizzati dalla Corte di appello- tutti analizzati dal ricorrente- non sarebbero dimostrativi della colpevolezza. Bolla, si assume, avrebbe ricevuto un solo messaggio da Buzzi in tutta la vicenda – quello del 9 gennaio, al quale non sarebbe seguita nessuna risposta -, la sua presenza alle riunioni con circa venti persone in cui si sarebbe fatto riferimento ai fatti di causa sarebbe stata meramente passiva, il colloquio con Magrini sarebbe stato neutro; la Corte di appello avrebbe violato l’art. 597 cod. proc. pen. per aver valorizzato elementi non menzionati nella sentenza di primo grado e nemmeno nell’atto di appello.

5.4. Con il quarto motivo si deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto ai capi 10) e 11); si ricostruiscono in modo articolato le risultanze processuali, evidenziando le omissioni motivazionali e le illogicità del ragionamento probatorio compiuto dalla Corte di appello.

5.5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità per il reato contestato al capo 2).

A fronte di motivi specifici di appello con cui, da una parte, si rivisitavano gli elementi valorizzati in chiave accusatoria dal Tribunale (conversazione n. 1563 del 15.1.2014, l’assunto secondo cui Bolla sarebbe stato interessato al mercimonio con Coratti e sarebbe stato a conoscenza di tutta la situazione) e, dall’altra, venivano evidenziati una serie di elementi favorevoli all’imputato volti a dimostrare che questi non avesse posto in essere alcun comportamento materiale per la realizzazione del reato contestato, la Corte avrebbe fornito risposte scollegate rispetto alle questioni devolute ovvero avrebbe omesso di motivare.

6. Brugia Riccardo è stato condannato in primo grado alla pena di 11 anni di reclusione ed euro 8.500 di multa per i reati di cui ai capi 1 (per entrambe le associazioni) e per alcuni episodi estorsivi (capi 2, 5, 6 e 7 del primo decreto); la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., ritenuta l’ipotesi tentata con riferimento al reato di cui al capo 5 del primo decreto, esclusa la recidiva, ha aumentato la pena ad anni 11, mesi 4 di reclusione ed C 8.600 di multa, disponendo altresì la libertà vigilata.

Brugia, anche lui già inserito nel mondo criminale per la partecipazione ad attività di gruppi eversivi di estrema destra, frequentava assiduamente con il suo amico Carminati, l’impianto Eni di Lacopo in Corso Francia, ove peraltro lavorava la sua compagna.

Quanto ai reati di estorsione, si tratta, in particolare, di un episodio commesso, in concorso con Roberto Lacopo, in danno di Massimo Perazza, costretto con violenza a pagare somme di denaro in favore dello stesso Lacopo e di Alessia Marini (capo 2), di due episodi, commessi a titolo monosoggettivo in danno rispettivamente di Andrea Infantino, costretto con minaccia a cedere un negozio di gioielleria (capo 5), e di Luigi Seccaroni, costretto con minaccia a pagare la somma di 1.000 euro (capo 7), nonché di un ulteriore estorsione tentata, commessa in concorso con Massimo Carminati, in danno di Luigi Seccaroni (capo 6).

6.1.Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al diniego di rinnovazione della istruttoria dibattimentale, necessaria per la modifica in peius della decisione in accoglimento degli appelli delle Procure; sono sviluppati argomenti sovrapponibili a quelli sviluppati sullo stesso tema da Buzzi e Carminati.

6.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla qualificazione del fatto di cui al capo 1 in termini di associazione di stampo mafioso.

Premessa la carenza della motivazione, il ricorrente rileva che:

– non sarebbero stati individuati gli elementi significativi della associazione mafiosa, e la Corte avrebbe omesso ogni valutazione degli elementi di prova a discarico, costituiti, in particolare, dalle dichiarazioni testimoniali del Maggiore del R.o.s. dei Carabinieri e del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione;

– vi sarebbero numerosi punti di contraddizione nella ricostruzione dei fatti, elencati dettagliatamente, in relazione ai quali si segnala la “forzatura” della motivazione nel ritenere sussistenti presunte condotte di omertà; per quanto riguarda la specifica responsabilità del ricorrente, vi sarebbe stata una mera descrizione di presunti elementi a carico, non accompagnata dalla loro necessaria valutazione;

– dovrebbe essere esclusa la portata probatoria di specifiche intercettazioni, valutate erroneamente, invece, per sostenere la tesi della mafiosità della associazione (la cd teoria del “mondo di mezzo”);

– sarebbero stati valorizzati riferimenti generici – contenuti nelle intercettazioni – a fatti di minaccia meramente evocati ma smentiti in dibattimento;

– la presunta violenza prospettata non andrebbe al di là di quella insita in qualsiasi reato a base violenta, quali le estorsioni;

– per quanto riguarda la presunta partecipazione alle attività nelle cooperative, anche dalla contabilità occulta non risulterebbe alcun interesse dell’imputato, né esisterebbero elementi utili per dimostrare una sua concreta cointeressenza.

6.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dei delitti di cui ai capi 2 e 5 del primo decreto di giudizio immediato.

Per entrambe le imputazioni era stata rilevata l’assenza di prova ella responsabilità, non essendo state assunte le testimonianze delle presunte persone offese, nonché il difetto di correlazione tra accusa e sentenza.

In particolare, quanto alla violazione del principio di correlazione, rileva l’imputato che, per la vicenda di Infantino, egli si sarebbe dovuto formalmente difendere dalla condotta di avere costretto la persona offesa alla cessione formale del negozio a ridosso dell’estate 2013, mentre, invece, sarebbe stato condannato per una condotta di percosse del 9 aprile 2013.

La sentenza, inoltre, farebbe riferimento ad una breve videoripresa e ad argomenti contraddittori riguardanti i rapporti tra il ricorrente ed Infantino, comunque, in contrasto con la contestazione formale.

6.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alle imputazioni di cui ai capi 6 e 7. La Corte di appello non avrebbe considerato il contenuto di un motivo di appello con cui erano state segnalate contraddizioni, inesattezze e falsità della versione dei fatti fornite dal Seccaroni; ciò avrebbe imposto un previo adeguato giudizio di attendibilità e credibilità.

Quanto al capo 7, la presunta minaccia implicita contestata nel capo di imputazione sarebbe smentita dal contenuto integrale della conversazione riportato nell’atto di appello, rispetto al quale, tuttavia, la Corte non avrebbe fornito risposta.

6.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione per il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, per gli aumenti operati per la continuazione e per la quantificazione della pena base. La motivazione sul punto è contraddittoria ovvero mancante.

6.6. Il 30 settembre 2019 sono stati depositati motivi aggiunti riferiti alla contestazione del reato di associazione mafiosa; si svolgono argomenti analitici, rilevando, in particolare, che il Giudice di primo grado aveva escluso il carattere mafioso dell’associazione sulla scorta della analisi dei singoli episodi criminali; rispetto alla sentenza di primo grado, si assume, la Corte di appello avrebbe sviluppato una motivazione del tutto apodittica.

7. Caldarelli Claudio è stato condannato in primo grado alla pena di 10 anni di reclusione per i reati di cui ai capi 1, 10, 11, 25 del primo decreto ed ai capi 9, 12, 16 del secondo decreto; la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., ha ridotto la pena ad anni 9 e mesi 4 di reclusione.

Caldarelli era consigliere e poi presidente della cooperativa Formula Sociale, collegata all’area della destra politica.

Quanto al reato associativo, Caldarelli sarebbe stato un “punto di collegamento” tra l’organizzazione e le istituzioni politiche e avrebbe contribuito alla commissione dei fatti corruttivi ed alla alterazione delle gare.

All’imputato sono contestati anche alcuni episodi corruttivi riguardanti la corruzione dei funzionari di Roma Capitale, Emanuela Salvatori e Alfredo Romani, (capo 10), di Panzironi Franco e Giovanni Alemanno, quest’ultimo Sindaco di Roma (capo 11), di Turella Claudio, funzionario del Comune di Roma, (capo 25), dei pubblici ufficiali indicati al capo 9 del secondo decreto (i fatti sono quelli già descritti in relazione alla posizione di Bolla), di Cola Mario, dipendente del dipartimento patrimonio del Comune di Roma (capo 12).

A Caldarelli si contesta inoltre la turbativa della gara C.u.p. (capo 16).

Sono stati articolati quindici motivi.

7.1.Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione per il rigetto della eccezione di nullità del primo decreto di giudizio immediato in riferimento al capo 10, non ascrittogli in fase cautelare e per il quale non vi sarebbe stato un previo interrogatorio. La risposta della Corte sarebbe viziata, avendo fatto riferimento ad una presunta contestazione in fatto di tale reato in sede di interrogatorio per la prima e per la seconda ordinanza cautelare.

7.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione di legge per la mancata applicazione della regola probatoria di cui all’articolo 192, comma 3, cod. proc.pen. nella valutazione delle intercettazioni, anche in ragione della inattendibilità soggettiva di Buzzi, millantatore ed inaffidabile.

7.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione per la mancata rinnovazione della istruttoria dibattimentale in riferimento alle prove dichiarative diversamente valutate dalla Corte al fine di accogliere gli appelli dei Pubblici Ministeri; si sviluppano al riguardo argomenti sovrapponibili a quelli degli analoghi motivi proposti nell’interesse di Buzzi e Carminati, proponendo anche una questione di costituzionalità dell’art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen.

7.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla contestazione del reato di associazione mafiosa. Il motivo è di contenuto corrispondente al terzo motivo del ricorso dell’avv. Placanica nell’interesse di Carminati.

7.5. Con il quinto ed il sesto motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità per il reato di associazione mafiosa; la sentenza sarebbe viziata quanto alla prova della materialità della condotta partecipativa e dell’elemento psicologico del reato.

Premessa la carenza della motivazione rispetto alle deduzioni difensive, ritiene Caldarelli che:

– le prove utilizzate dalla Corte di appello riguarderebbero solo i rapporti personali e non sarebbero affatto dimostrative dell’appartenenza all’associazione criminale;

– sarebbe mancante la indicazione dei fatti a sostegno della contestazione mossa nei suoi confronti di «aver creato flussi finanziari illeciti»;

– sarebbe stata valorizzata la «condotta di essere stato punto di collegamento tra l’organizzazione e le istituzioni politiche» senza tuttavia superare i rilievi difensivi «circa il fatto che l’imputato svolgesse semplicemente il proprio lavoro nell’essere a conoscenza delle procedure e dei tempi dell’amministrazione»;

– egli, come già si era dedotto in sede di appello, avrebbe curato per conto della cooperativa solo attività nel cui ambito non risultano essere stati commessi reati;

– con riferimento alla gara C.u.p., sarebbe stata valorizzata la conversazione del 13/5/2014 (intercettazione ambientale), ma il dialogo completo, segnalato dalla difesa ma non considerato dalla Corte, avrebbe dimostrato come egli neanche conoscesse Testa e Gramazio;

– la sua partecipazione nel disegnare la strategia corruttiva, non sarebbe di per sé significativa della prova della partecipazione al reato associativo;

– si sarebbero valorizzati in chiave accusatoria elementi equivoci, quali l’uso dei dispositivi anti intercettazione; 25 [A – sarebbe emerso come nelle situazioni di contrasto, Caldarelli utilizzasse semplicemente i normali strumenti della giustizia civile, non ricorrendo ad atti di intimidazione.

7.6. Con il settimo e l’undicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento al capo 10 del primo decreto di giudizio immediato, corruzione di Emanuela Salvatori e Alfredo Romani.

Il capo di imputazione, che indicava “tra gli altri” solo due comportamenti concreti commessi dai pp.uu. sarebbe generico; detti comportamenti, peraltro, sarebbero stati espressione non della violazione di regole specifiche, quanto, piuttosto, del principio generale di imparzialità della Pubblica Amministrazione.

La condotta, tuttalpiù, avrebbe dovuto essere ricondotta al reato di cui all’art.318 cod. pen. Comunque, si aggiunge, non vi sarebbe stato alcun collegamento temporale tra atti incriminati dei pp.uu. e presunte utilità corrisposte (le assunzioni di favore).

7.7. Con l’ottavo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riguardo al capo 11 del primo decreto – corruzione di Panzironi.

Assume l’imputato che il suo ruolo nella vicenda sarebbe stato erroneamente valorizzato in ragione della sua posizione direttiva nell’ambito della cooperativa Formula Sociale; ciò nonostante egli avesse dimostrato che si sarebbe trattato di una carica solo formale, per essere la cooperativa sostanzialmente gestita da Buzzi.

Sulle argomentazioni della difesa non vi sarebbe stata risposta.

7.8. Con il nono motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riguardo al capo 25) del primo decreto, corruzione di Turella.

Si rileva che anche in questo caso la Corte di appello non avrebbe individuato condotte rilevanti a lui attribuibili ed avrebbe fatto solo riferimento ad essere stato egli presente ad un discorso tenuto da Buzzi; il fatto, come descritto, potrebbe tutt’al più rivelare una forma di connivenza, non punibile.

7.9. Con il decimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al delitto di cui al capo 9 del secondo decreto, corruzione di Ozzimo, Pedetti e Magrini.

Rileva l’imputato che il fatto non sarebbe inquadrabile nell’ambito dell’art. 319 cod. pen. e, comunque, che sarebbe stata violata la disciplina del concorso nel reato.

Non vi sarebbero comportamenti materiali attribuibili al Caldarelli; in ogni caso, non sarebbe stata fornita risposta alle deduzioni difensive: la Corte avrebbe segnalato solo delle riunioni cui avrebbe partecipato il ricorrente, senza tuttavia indicare quali sarebbero le attività in concreto svolte.

7.10. Con il dodicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento al capo 16 del secondo decreto, turbativa della gara C.u.p.

La sentenza sarebbe viziata nella parte in cui ha ritenuto raggiunta la prova dell’elemento materiale del reato contestato, non essendosi tenuto conto che la consulenza della difesa di Scozzafava avrebbe dimostrato che non vi era possibilità di alterare la gara. Comunque, non sarebbe stata provata alcuna sua condotta di partecipazione.

7.11. Con il tredicesimo motivo deduce la violazione di legge per l’applicazione della aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen.

7.12. Con il quattordicesimo motivo deduce il vizio di motivazione per il diniego delle attenuanti generiche.

7.13. Con il quindicesimo motivo deduce la violazione di legge ed vizio di motivazione nel ritenere la presunzione di pericolosità ai fini di applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata.

8. Calvio Matteo Matteo Calvio è stato condannato in primo grado alla pena di anni 9 di reclusione ed C 8.400 di multa per i reati di cui ai capi 1, 3 e 4 del primo decreto; la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., esclusa la recidiva, ha aumentato la pena ad anni 10, mesi 4 di reclusione ed C 8.400 di multa, disponendo altresì la libertà vigilata.

A Calvio, altro soggetto in rapporti costanti con Carminati, Brugia e Lacopo che frequentava presso il distributore di Corso Francia, oltre al reato associativo, sono state contestate due estorsioni, commesse, la prima, in concorso con Roberto Lacopo, ai danni di Fausto Refrigeri, costretto a saldare un debito assunto con lo stesso Lacopo (capo 3) e, la seconda, in concorso con Roberto e Giovanni Lacopo, ai danni di Riccardo Manattini, costretto a restituire parte di una debito ammontante a 180.000 euro allo stesso Lacopo (capo 4).

Quanto al reato associativo, l’imputato si sarebbe occupato dell’attività estorsiva e del recupero crediti per conto del sodalizio.

Sono stati articolati quattro motivi.

8.1. Con il primo motivo si deduce la violazione di legge e vizio di motivazione per la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in presenza di una riforma peggiorativa; si fa riferimento al reato di associazione mafiosa ed alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 I. 203/1991. Gli argomenti sono sovrapponibili a quelli dedotti nei ricorsi di Buzzi e Carminati.

8.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta esistenza di una associazione mafiosa e della partecipazione del ricorrente alla stessa.

Rileva l’imputato come, nel caso di specie, vi fosse un obbligo, rimasto inadempiuto, di motivazione rafforzata per essere stata adottata una decisione deteriore nei confronti dell’imputato.

Si critica la sentenza anche quanto alla ritenuta esistenza del contributo partecipativo del ricorrente alla presunta associazione poiché non sarebbero stati individuati elementi significativi della consapevole e stabile finalizzazione dell’agire dell’imputato in favore de sodalizio, atteso che la sentenza di primo grado aveva ritenuto che Calvio avesse un ruolo di mera manovalanza nelle attività violente di recupero crediti, in condizioni di piena subordinazione a Carminati e Brugia ed in totale assenza di relazioni con il mondo del Buzzi.

La comparazione del contenuto delle due sentenze dimostrerebbe come in sede di appello si sia deciso sulla scorta di materiale probatorio sostanzialmente identico, valutato, tuttavia, in termini opposti e senza la indicazione di profili di irragionevolezza della interpretazione offerta dal Tribunale.

La Corte di appello avrebbe inoltre affermato la consapevolezza del Calvio del fare parte della associazione sulla scorta di elementi ambigui e del tutto inconsistenti, quali quelli di avere accompagnato in un’occasione Carminati a via Pomona e di avergli chiesto di agevolare una pratica presso il Comune di Roma per una attività commerciale di un suo amico.

8.3. Con il terzo motivo si deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento ai reati di estorsione di cui ai capi 3 e 4 del primo decreto di giudizio immediato.

Quanto al capo 3, la sentenza di appello non avrebbe tenuto conto della argomentazione difensiva secondo la quale non sarebbe stato sussistente il reato sia perché la persona offesa ed il coniuge non avevano percepito le sue minacce, sia perché lo stesso imputato non avrebbe conseguito personalmente alcun profitto. Quanto al capo 4, non vi sarebbe alcuna certezza sul suo ruolo causale.

8.4. Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione e la violazione legge per l’applicazione delle aggravanti di cui all’art. 628 comma terzo e 416 bis1 cod. pen.

9. Carminati Massimo è stato condannato in primo grado alla pena di anni 20 di reclusione ed C 14.000 di multa per i reati di cui ai capi 1 (per entrambe le associazioni), 6, 9, 11, 16, 17, 22 (escluso il reato con riferimento alla fattura n. 184/13), 23 (in relazione alla sola fattura n. 3/14), 24, 25 del primo decreto ed ai capi 2, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 16, 21 e 23 del secondo decreto; la Corte di Appello lo ha assolto dai reati di cui ai capi 16 del primo decreto, 8 e 13 del secondo decreto e dal reato di cui all’art. 326 cod. pen. del capo 16 del secondo decreto; quindi, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., esclusa la recidiva, ha ridotto la pena ad anni 14, mesi 6 di reclusione, disponendo altresì la libertà vigilata.

Oltre al reato associativo ed all’estorsione commessa in concorso con Brugia di cui al capo 6 (di cui si già detto), gli sono contestati numerosi episodi di corruzione.

Si sarebbe trattato di accordi corruttivi, commessi in concorso, intercorsi con Panzironi e Alemanno (capo 11 primo decreto), con Pucci Carlo, dirigente e procuratore speciale di E.U.R. s.p.a. (capo 17 primo decreto), con Turella Claudio, funzionario del Comune di Roma (capo 25 primo decreto), con Mirko Coratti, Presidente dell’assemblea del Consiglio Comunale di Roma, e con il di lui collaboratore, Figurelli Franco (capo 2 secondo decreto), con Gaetano Altamura, dirigente del X Dipartimento del Comune di Roma (capo 7 secondo decreto), con Tassone Andrea, Presidente del X Municipio (capo 8 secondo decreto), con Magrini, Ozzimo e Pedetti (capo 9 secondo decreto, di cui si è già detto), con Gramazio Luca, consigliere comunale del Comune di Roma e, successivamente, consigliere regionale (capo 23 secondo decreto).

Carminati è stato inoltre condannato per il reato previsto dall’art. 12- quinquies I. 7 agosto 1992, n. 36, per avere fittiziamente attribuito ad Alessia Marini – sua compagna – una villa al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale (capo 9 primo decreto); per avere attribuito, allo stesso scopo, fittiziamente al Consorzio Eriches 29 liquidità finanziaria non inferiore ad un milione di euro ed alla cooperativa Scarl la somma di 141.000 euro (capo 24 primo decreto), nonché le quote e la carica sociale di amministratore unico della Cooperativa COSMA (capo 21 secondo decreto).

L’imputato è stato condannato anche per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti da parte della cooperativa sociale Onlus a responsabilità limitata – COSMA- in favore della 29 giugno Cooperative sociali (capo 22 primo decreto) e da parte della Imeg s.r.l. in favore della Eriches 29 (Capo 23 primo decreto, reato commesso in concorso con Gaglianone Agostino), nonché per il reato di turbata libertà degli incanti in relazione alle procedure negoziate indette da Roma Capitale per l’accoglienza abitativa (capi 10-11- secondo decreto) ed alla procedura aperta finalizzata all’acquisizione del servizio CUP (capo 16 del secondo decreto).

Carminati, già inserito nel mondo criminale per la partecipazione ad attività di gruppi eversivi di estrema destra e per reati comuni, era inizialmente sottoposto ad intercettazioni per indagini su soggetti dediti a rapine di banche.

Lo sviluppo delle attività consentiva di individuare sia le attività di estorsione, recupero crediti ed altro, che le attività illecite del gruppo delle cooperative di Buzzi con il quale l’imputato in un dato momento sarebbe entrato in contatto.

Nel suo interesse sono stati presentati due ricorsi.

9.1. Ricorso avv. Tagliaferri

9.1.1. Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ed vizio di motivazione dall’ordinanza dibattimentale dell’8.3.2018 e della sentenza impugnata in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione delle prove dichiarative ritenute decisive ai fini del giudizio sull’appello dei Pubblici Ministeri.

Si rileva che l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale quanto alle prove dichiarative ex art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen. sussisterebbe anche nel caso di riforma peggiorativa derivante dalla riqualificazione del fatto in una diversa fattispecie, cioè, nel caso di specie, da associazione per delinquere semplice ad associazione di stampo mafioso.

9.1.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla riqualificazione ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. del fatto di cui ai capi 1 del primo decreto e 22 del secondo decreto.

Rileva l’imputato come la ricostruzione del Tribunale escludesse che l’associazione avesse le effettive caratteristiche della associazione mafiosa, secondo il modello normativo, mancando la prova di una reale sua capacità di condizionamento e di sopraffazione nonché le condizioni di omertà.

Si svolgono argomenti in diritto, evidenziando l’errore che la Corte di appello avrebbe compiuto, da una parte, nel fare rinvio alle decisioni assunte in fase cautelare e, dall’altra, nel non valutare l’effettivo contenuto della sentenza di primo grado su tali questioni.

La ricostruzione degli elementi strutturali del reato di associazione mafiosa sarebbe stata compiuta in funzione della ricerca di un appiglio per riconoscerne la configurabilità; la Corte di appello avrebbe delegato il proprio obbligo di motivazione al provvedimento incidentale emesso nella fase cautelare.

Con argomentazioni analitiche, quindi, si rileva come sia adottata una motivazione del tutto carente ed anche illogica su quelli che erano i presunti indici della “mafiosità”: – la forza di intimidazione sarebbe stata fatta derivare dalla presunta fama criminale di Carminati conseguente alle attività svolte presso il distributore di benzina di Corso Francia. Ma tale fama criminale, si assume, non sarebbe stata dimostrata se non sulla base di asserzioni apodittiche e senza tenere conto che Carminati sarebbe stato ritenuto responsabile di una sola delle estorsioni commesse in quel contesto.

Pur se esistesse una fama criminale di Carminati, sarebbe comunque erroneo ricostruire sulla sola posizione del singolo una forza di intimidazione propria del gruppo. –

Quanto alla «esteriorizzazione della forza di intimidazione e assoggettamento», sarebbero illogici e variamente contraddittori gli argomenti in base ai quali, da un lato, si sarebbe ritenuta impedita agli imprenditori concorrenti la partecipazione alle gare di appalto, ovvero imposto loro di recedere per l’assoggettamento al potere della associazione per delinquere, ma, dall’altro, si sarebbe affermato che tali imprenditori lo facessero per la convenienza personale, per poter cioè partecipare alle successive procedure di appalto nell’ambito degli accordi di spartizione.

La stessa Corte di appello avrebbe dato atto della esistenza di tali accordi tra partiti di maggioranza e di minoranza, con proporzioni variabili a seconda del colore della giunta, senza però trarne le conseguenze rispetto al caso di specie.

Si svolgono inoltre argomenti analitici per rilevare come siano solo congetturali i casi di presunto esercizio di minaccia e violenza da parte dell’associazione (si fa riferimento ai rapporti Mancin); anche i rapporti con gli amministratori pubblici sarebbero stati basati esclusivamente sulla corruzione.

9.1.3. Con il terzo motivo deduce il vizio di motivazione in ordine al reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. (capo 9 del primo decreto).

In ordine all’accusa di fittizia intestazione alla convivente Marini della villa acquistata in Sacrofano, si assume che la motivazione sarebbe carente e, comunque, illogica nella parte in cui, pur essendo pacifico che Marini avesse finanziato personalmente per due terzi l’acquisto dell’immobile con somme proprie o della madre, o comunque mutui bancari da loro garantiti, avrebbe valorizzato il dato che il Carminati abbia corrisposto solo un terzo della somma.

Non si sarebbe trattato dunque di una intestazione fittizia, quanto, piuttosto, di un prestito o comunque di un acquisto fatto in comune.

9.2. Ricorso avv. Placanica

9.2.1. Con il primo motivo del ricorso si deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge quanto all’ordinanza del 24 novembre 2015 con cui non sarebbe stata accolta la richiesta di rimessione in termini per l’esercizio del diritto di difesa previo rilascio, su supporto informatico, delle intercettazioni disposte nel corso delle indagini e non depositate in fase cautelare.

9.2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in grado di appello quanto alle prove dichiarative valutate diversamente rispetto al Tribunale al fine di accoglimento degli appelli dei PP.MM .

Si deduce anche la specifica nullità dell’ordinanza dell’ 8 marzo 2018 con la quale è stata rigettata la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale avanzata dalle difese.

Gli argomenti in diritto sono analoghi a quelli del ricorso dell’altro difensore. Si propone in subordine la questione di costituzionalità in relazione all’interpretazione della disposizione di cui all’art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen.

9.2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto all’art. 416-bis cod. pen., anche per la a mancata risposta alle doglianze difensive presentate con memoria di replica agli appelli della Pubblica Accusa in data 19 febbraio 2018.

Premesse varie argomentazioni sulla necessità, ai fini dell’affermazione dell’esistenza di una associazione mafiosa, della esistenza di una condizione di intimidazione radicata sul territorio per consentire il controllo da parte della associazione e sul come di “riserva di violenza” possa parlarsi solo quando sia già stato acquisito il controllo attraverso una costante e diffusa intimidazione e tra i consociati si sia diffuso il timore del sodalizio, il ricorrente indica in modo analitico gli errori della decisione.

In particolare:

– la Corte di appello avrebbe fatto riferimento alle valutazioni della Corte di cassazione in sede di decisione sulle misure cautelari non considerando, però, come il quadro cautelare non abbia avuto alcun riscontro probatorio in dibattimento. La motivazione del giudice di secondo grado in tal modo risulterebbe del tutto assertiva e di mera adesione alla tesi del pubblico ministero;

– sarebbe risultato escluso il controllo del territorio – nel caso di specie inteso quale controllo di un “settore_sociale” e non più in senso geografico – perché il gruppo di cooperative riferibile a Buzzi avrebbe gestito solo una minima parte degli affidamenti di lavori gestiti dal Comune di Roma. La presunta condizione di monopolio nel settore degli appalti pubblici sarebbe stata del tutto smentita nel dibattimento;

– la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto che le circostanze da cui desumere la forza di intimidazione avrebbero riguardato soltanto le condotte violente esercitate dal gruppo del “benzinaio”, mentre non vi sarebbe alcun elemento fattuale dimostrativo di interventi di Carminati nei rapporti con il mondo imprenditoriale/amministrativo nei momenti in cui l’attività di corruzione di Buzzi non era sufficiente a raggiungere i risultati. La Corte di appello, al riguardo, non sarebbe andata al di là di mere affermazioni prive di riscontro probatorio, senza tenere conto che nessun pubblico amministratore avrebbe affermato nel corso del processo di aver subito minacce, pressioni, intimidazione o, comunque, di avere avuto contezza della presenza di Carminati, anche solo quale semplice socio delle cooperative;

– la difesa avrebbe riportato stralci delle dichiarazioni rilevanti dei testimoni Cantone (Autorità anticorruzione) e De Lellis (R.o.s. dei Carabinieri), con cui si dava atto di non aver rilevato condotte riferibili alla associazione mafiosa;

– quanto alle intercettazioni utilizzate nella motivazione dalla Corte di appello, considerate quali prove delle intimidazioni nei confronti degli amministratori, si rileva con argomenti dettagliati come sarebbe palese il travisamento del loro contenuto.

In definitiva, nessuna apprezzabile “esteriorizzazione” del metodo mafioso risulterebbe dal processo.

La Corte di appello si sarebbe limitata a considerare l’effetto presunto di coartazione della volontà, fatto discendere dalla condotta di accondiscendenza dei concorrenti nei confronti di Buzzi ma, in realtà, non si sarebbe preoccupata di individuare la causa di tale presunta accondiscendenza; sarebbe stato invece necessario dimostrare, per ricavarne la prova del reato di associazione mafiosa, che detta accondiscendenza fosse derivante proprio dalla manifestazione del metodo mafioso: nessuno dei concorrenti di Buzzi avrebbe mai affermato di aver rinunciato a concorrere a qualche gara per il timore del sodalizio capeggiato da Carnninati.

Anzi, in modo illogico, la Corte avrebbe riletto in termini diversi dal Tribunale il contenuto di alcune conversazioni, caratterizzate da un tono amicale, e che farebbero riferimento ad accordi di spartizione in cui Buzzi avrebbe perseguito l’interesse delle proprie cooperative, senza alcun riferimento al Carminati.

In definitiva, mentre in fase cautelare sarebbero state efficacemente prospettate le situazioni di complessivo clima di omertà dovuto all’assoggettamento per il metodo mafioso, nulla invece sarebbe stato dimostrato in dibattimento.

9.2.4. Con il quarto motivo si deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge per erronea applicazione al ricorrente del ruolo di promotore del sodalizio mafioso.

9.2.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto all’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui al capo 11 del primo decreto di giudizio immediato, corruzione di Panzironi.

Si assume che non sarebbe emerso alcun interesse e coinvolgimento di Carminati nella vicenda dei crediti A.m.a. e che le intercettazioni utilizzate dimostrerebbero al più la sua connivenza.

9.2.6. Con il sesto motivo deduce il vizio di motivazione in riferimento alla condanna per il capo 17 del primo decreto, corruzione di Pucci.

Non sarebbero state valutate le argomentazioni dell’atto di appello quanto alla sussistenza in capo a Pucci della qualifica di pubblico ufficiale ed alla causale delle dazioni di denaro, giustificate, in un contesto di rapporti amicali, dal sostegno per i problemi personali di Pucci.

Si rileva inoltre la mancata valutazione di talune conversazioni intercettate, pur segnalate con l’impugnazione, da cui emergerebbe la plausibile ricostruzione alternativa proposta dalla difesa.

9.2.7. Con il settimo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento al delitto di cui al capo 25 del primo decreto di giudizio immediato, corruzione di Turella.

Si sostiene che a Carminati non sarebbero attribuibili atti concreti, essendosi questi limitato ad ascoltare le affermazioni del Buzzi sulla vicenda in questione, come risulterebbe dalle intercettazioni.

9.2.8. Con l’ottavo motivo si deduce la violazione dell’art. 110 cod. pen. in relazione alla condanna per il reato di cui al capo 2 del secondo decreto di immediato, corruzione di Coratti.

Secondo l’imputato, la sentenza non avrebbe individuato nessun apporto causale di Carnninati alla corruzione di Coratti; la Corte si sarebbe limitata ad utilizzare una intercettazione che, in quanto dimostrativa soltanto del fatto che Buzzi esponeva ai collaboratori di avere ricevuto richieste di denaro dal Coratti, confermerebbe la connivenza non punibile dell’imputato.

9.2.9. Con il nono motivo si deduce la violazione dell’art. 110 cod. pen. in relazione alla condanna per il reato di cui al capo 7 del secondo decreto di giudizio immediato, corruzione di Altamura.

In sentenza non sarebbe stata individuata alcuna condotta dell’imputato casualmente orientata al reato in questione del quale, peraltro, Carminati avrebbe avuto conoscenza solo dopo la sua presunta commissione.

9.2.10. Con il decimo motivo si deduce la violazione di legge per erronea applicazione al caso di specie dell’art. 319 cod. pen. e per omessa motivazione con riferimento alla partecipazione dell’imputato, in relazione al delitto di cui al capo 9) del secondo decreto di giudizio immediato- corruzione di Magrini, Ozzimo e Pedetti-; in via subordinata si lamenta la violazione dell’art. 110 cod. pen. quanto alla propria partecipazione.

Nella vicenda, con esclusione della determinazione regionale n. G05811 (che non potrebbe qualificarsi atto del pubblico ufficiale), non sarebbero individuabili atti contrari ai doveri di ufficio. In particolare, non sarebbero riferibili ad Ozzinno e Pedetti atti illegittimi tra quelli oggetto della contestazione.

Dunque, non sarebbe possibile qualificare il reato ai sensi dell’art. 319 cod. pen. In ogni caso, non sarebbe stata provata alcuna condotta di concorso da parte di Carminati nel fatto ricostruito in sentenza.

9.2.11. Con l’undicesimo motivo si deduce il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il reato di cui al capo 23 del secondo decreto, corruzione di Gramazio.

Rileva il ricorrente che, in sede di appello, in ragione del fatto che il giudice di primo grado avesse confermato il compimento di tutti i singoli atti contrari ai doveri d’ufficio indicati nell’imputazione, era stata formulata un’analitica contestazione per le singole vicende.

La Corte di appello si sarebbe limitata alla generica conferma dei presunti elementi a carico senza considerare in alcun modo i motivi di impugnazione.

9.2.12. Con il dodicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento ai capi 10 ed 11 del secondo decreto, turbative delle gare per la soluzione dell’emergenza abitativa.

Secondo il ricorrente vi sarebbe stata un’omessa risposta alle deduzioni difensive, in quanto con l’atto di appello si era concretamente dedotto che non fosse stato dimostrato l’assunto accusatorio secondo cui Buzzi ed i suoi collaboratori avessero “evitato” la partecipazione di altri quindici soggetti invitati; si era sostenuto che tali soggetti non fossero in grado di assicurare il servizio come richiesto e che per questa ragione, e non per le indebite pressioni di Buzzi, non avessero risposto all’invito. Il ruolo del ricorrente sarebbe stato, quindi, del tutto irrilevante.

La Corte di appello non avrebbe considerato tali difese ed avrebbe affermato la responsabilità di Carminati senza individuare una condotta positiva.

9.2.13. Con il tredicesimo motivo del ricorso si lamenta violazione di legge ed vizio di motivazione con riferimento al capo 16 del secondo decreto, turbativa della gara C.u.p..

Si assume che non si sarebbe tenuto conto della consulenza, a firma del prof. Tedeschini, prodotta dalla difesa di Scozzafava, che dimostrava come il sistema di computo del punteggio di gara non consentisse di turbarla.

9.2.14. Con il quattordicesimo motivo del ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento al reato di cui al capo 9 del primo decreto- fittizia intestazione della villa in Sacrofano.

Il denaro per l’acquisto sarebbe stato di provenienza della intestataria ed utilizzatrice dell’immobile, Marini e non vi sarebbero state ragioni per le quali il ricorrente dovesse temere una misura di prevenzione.

9.2.15. Con il quindicesimo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione, in relazione al capo 24 del primo decreto di giudizio immediato, art. 512 bis cod. pen.

Si rappresenta la effettività dei lavori effettuati e l’assenza di ragioni per l’intento fraudolento ritenuto in sentenza.

Le fatture indicate nella imputazione sarebbero state corrispondenti ai lavori effettivamente compiuti, non sarebbero servite ad occultare movimenti finanziari e, comunque, non vi sarebbe prova di un dolo specifico di elusione delle misure di prevenzione.

9.2.16. Con il sedicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in riferimento al capo 21 del secondo decreto, intestazione della quota (€ 100) e della amministrazione di Cosma ad Esposito.

Si rileva l’omessa motivazione sulle questioni poste in punto di integrazione dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato di intestazione fittizia e comunque la sua insussistenza.

9.2.17. Con il diciassettesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in riferimento ai capi 22 e 23 del primo decreto, relativi a frodi fiscali ex art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000.

La Corte avrebbe omesso di motivare sulle argomentazioni presenti nell’atto di appello volte a dimostrare la effettività delle operazioni portate dalle fatture e, comunque, la non configurabilità del reato in ragione, appunto, della effettività delle operazioni e dell’assenza del fine di evasione fiscale.

9.2.18 Con il diciottesimo ed il diciannovesimo motivo deduce il ricorrente la violazione di legge ed il vizio di motivazione, con riferimento al reato di cui al capo 6 del primo decreto- estorsione in danno di Seccaroni.

Rileva l’erronea lettura delle intercettazioni e la mancata valutazione delle deduzioni della difesa. In ogni caso, sarebbe stata erroneamente ravvisata la configurabilità delle aggravanti “mafiose”.

9.2.19. Con il ventesimo motivo deduce il vizio di motivazione per il diniego delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62 bis cod. pen.

9.2.20. Con il ventunesimo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione agli artt. 417 e 416 bis cod. pen. nella misura in cui si sarebbe stata ritenuta una presunzione assoluta di pericolosità sociale.

10. Cola Mario è stato condannato in primo grado alla pena di 5 anni di reclusione per il reato di cui al capo 12 del secondo decreto; la Corte di Appello, riconosciute le attenuanti generiche, ha ridotto la pena ad anni 3 di reclusione.

A Cola, dipendente del dipartimento patrimonio del comune di Roma, è contestato, in concorso con Buzzi, Carnninati, Caldarelli e Garrone, di avere dapprima segnalato a Buzzi e Caldarelli un immobile di proprietà del comune in via Frantoio al fine di occuparlo, e, successivamente all’occupazione, di aver posto in essere condotte intese alla legittimazione “ex post” della occupazione compiuta; sarebbe stato stipulato un contratto di locazione con la Eriches sfruttando le condizioni che il Comune riconosceva (essenzialmente un canone ridotto sino all’80%) alle cooperative che operavano per conto dell’ente pubblico; dunque, un canone di affitto per un immobile di circa 1000 mq. a prezzi irrisori, di 6-700 euro al mese; in cambio, Cola avrebbe ricevuto da Buzzi utilità a contenuto economico, consistenti nella stipula il 14.6.2012 di un contratto di locazione per un immobile di proprietà della di lui moglie ad un valore superiore a quello di mercato.

Sono stati presentati due ricorsi.

10.1. Con il primo ricorso sono stati articolati quattro motivi.

10.1.1. Con il primo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione per violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza.

A fronte di un’accusa basata sull’attività compiuta per l’immobile posto in via Frantoio, la sentenza di primo grado avrebbe fatto invece riferimento ad una diversa attività posta in essere dall’imputato, ovvero quella relativa ad un immobile sito in Via Pomona a Roma, il cui riferimento, tuttavia, sarebbe stato omesso nella imputazione.

Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello, il fatto accertato sarebbe diverso e vi sarebbe stata violazione del diritto di difesa.

10.1.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale in capo al ricorrente.

Non sarebbe stata considerata la dichiarazione della teste Palladini che aveva chiarito come la segreteria dell’assessore, presso cui Cola prestava servizio, svolgesse un ruolo di mero indirizzo politico e non esercitasse affatto un’attività volta a formare e manifestare la volontà della Amministrazione.

10.1.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità penale.

La sentenza non avrebbe tenuto conto che il contratto di locazione in questione non fosse affatto vantaggioso per (la moglie di) Cola e che l’imputato non avrebbe compiuto nessun atto contrario ai doveri d’ufficio; si aggiunge che non potrebbe definirsi atto contrario la mera segnalazione da parte di Cola della esistenza dell’immobile di via del Frantoio, né sarebbe tale l’attività posta in essere per l’immobile di via Ponnona, poiché anche in questo caso la condotta attribuibile al ricorrente sarebbe stata circoscritta ad una mera segnalazione al funzionario competente della stima dell’immobile, senza peraltro che da ciò conseguì alcunchè, atteso che il contratto venne stato stipulato solo durante la consiliatura successiva.

10.1.4. Con il quarto motivo si rileva l’erronea qualificazione giuridica dei fatti, se del caso integranti l’ipotesi dell’art. 346 bis cod. pen. o dell’art. 318 bis cod. pen.

10.2. Con il secondo ricorso proposto nell’interesse di Cola si articola un unico motivo con cui si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio.

11. Coltellacci Sandro è stato condannato in primo grado alla pena di 7 anni di reclusione per i reati di cui ai capi 29 del primo decreto e 9 del secondo decreto; la Corte di Appello, esclusa la recidiva, ha ridotto la pena ad anni 4 e mesi 6 di reclusione.

All’imputato, nella qualità di esponente dei soggetti economici interessati alle vicende amministrative della Eriches, è contestato di avere corrotto dal 2011 al 2014, in concorso con Buzzi, Luca Odevaine, per la vendita della funzione e per il compimento di atti contrari a doveri di ufficio, e Mario Schina, quale intermediario con lo stesso Odevaine (capo 29 del primo decreto).

Quanto al capo 9 del secondo decreto la vicenda è quella di cui si è già detto in relazione alla posizione di Bolla (corruzione, Magrini, Ozzimo, Pedetti).

Sono stati articolati due motivi di ricorso.

11.1. Con il primo si lamenta vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità in ordine al capo 29. La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che: a) Luca Odevaine avesse la possibilità di favorire il gruppo Buzzi anche prima del 2012, atteso che, invece, lo stesso Odevaine, all’epoca, non avrebbe rivestito nessuna carica nel Gruppo di Supporto Operativo- istituito dal Capo del Dipartimento della Protezione civile il 22.4.2011- essendo stato nominato componente del Tavolo di coordinamento nazionale solo nel febbraio del 2012.

La prima riunione del Tavolo di coordinamento a cui Odevaine avrebbe preso parte sarebbe stata quella del 5.9.2012 e dunque ne deriverebbe che i pagamenti compiuti da Coltellacci a Schina- iniziati nell’estate del 2011 – non sarebbero stati finalizzati “ad una presunta attività di favoreggiamento di Odevaine al gruppo Buzzi” (così testualmente il ricorso); b) il rapporto tra Coltellacci e Schina avesse natura corruttiva ed, in particolare, che Schina fungesse quale intermediario tra il gruppo Buzzi ed Odevaine; la sentenza non avrebbe invece considerato che i pagamenti compiuti da Coltellacci in favore di Schina avevano come ragione giustificativa le prestazioni professionali di questi, consistite nel reperimento nel 2011 di tre immobili da adibire a strutture recettive e, per il periodo successivo, nell’attività svolta quale coordinatore per conto della cooperativa “Il Percorso”.

La Corte si sarebbe limitata a recepire la motivazione della sentenza di primo grado – che aveva ritenuto inesistente la indicata causale lecita, in ragione del fatto che non vi fossero intercettazioni che la sostenessero e della inattendibilità di alcune testimonianze (Munoz Guerra, Elton Meta) senza, tuttavia, confrontarsi con i motivi di appello, con cui si era evidenziato che le strutture fossero state individuate solo nel 2011, quando, cioè, nessuno dei soggetti in questione era intercettato (in tal senso si richiamano documenti ed alcuni atti di indagine); non si sarebbe peraltro tenuto conto di una conversazione intercettata (la n. 1481 del 27.3.2014), intercorsa tra due collaboratori di Odevaine (Addeo e Montisci), in cui i dialoganti avrebbero affermato che Schina perseguiva interessi personali in danno di quelli di Odevaine.

La stessa documentazione valorizzata dai giudici di appello attesterebbe, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, pagamenti complessivi per 35.000 euro per 33 mesi (da giugno 2011 al febbraio del 2014) e, dunque, per una somma diversa rispetto a quella di 1500 al mese.

Ne discenderebbe che l’affermazione, secondo cui proprio la costanza della somma pagata mensilmente sarebbe incompatibile con la tesi del pagamento per prestazioni occasionali, sarebbe non confermata dai documenti; Schina avrebbe ricevuto in una prima fase 1500 euro al mese fino al raggiungimento della somma pattuita per il reperimento delle strutture, e poi, in una seconda fase, avrebbe ricevuto somme variabili.

Dunque, Schina avrebbe agito per un proprio interesse e le somme ricevute non avrebbero costituito il prezzo di una corruzione; c) i pagamenti effettuati da Coltellaccci fossero “collegati” a quelli di Buzzi.

La Corte avrebbe in tal senso valorizzato un’intercettazione in cui Buzzi affermava che Odevaine avrebbe “preso” 5000 euro al mese e Schina 2000 “da tre anni” (n. 3295 del 28.3.2014), senza tuttavia considerare:

1) la diversa durata temporale dei pagamenti compiuti (giugno 2011-febbraio/marzo 2014 per Schina; inizio 2012/novembre 2014 per Odevaine;

2) che la somma corrisposta a Schina, secondo la ricostruzione accusatoria, sarebbe stata di millecinquecento euro e non di duemila euro;

3) che gli stessi Buzzi ed Odevaine avrebbero ammesso in dibattimento che i pagamenti sarebbero iniziati ” a fine 2011 inizio del 2012″.

Odevaine, si aggiunge, non avrebbe fornito a Buzzi informazioni riservate prima del febbraio – marzo 2014, cioè proprio quando Coltellacci avrebbe interrotto i pagamenti a Schina, né sarebbero state considerate alcune conversazioni del gennaio e del luglio 2014 in cui Buzzi avrebbe chiaramente riferito di “tenere fuori” Coltellacci dalle attività “non corrette”. (così il ricorso).

11.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione, quanto al giudizio di penale responsabilità formulato per il capo 9).

La sentenza sarebbe viziata per non aver considerato adeguatamente una serie di elementi di prova da cui emergerebbe che l’imputato, in un primo momento, non sapesse nulla del rapporto corruttivo tra Buzzi e Magrini e che solo successivamente sarebbe stato messo al corrente “dell’operazione”.

Coltellacci non avrebbe condiviso nemmeno “il progetto” e manifestò a Buzzi i propri dubbi in ordine alla sua partecipazione; decise alla fine di partecipare ma limitando il suo impegno all’acquisto di due degli immobili, prezzo della corruzione.

In definitiva, il ricorrente non avrebbe partecipato all’accordo con animo corruttivo ma solo per evitare di essere estromesso dal servizio in ambito consortile.

12. Coratti Mirko è stato condannato in primo grado alla pena di 6 anni di reclusione per il reato di cui al capo 2 del secondo decreto; la Corte di Appello ha ridotto la pena ad anni 4 e mesi 6 di reclusione.

All’imputato è contestato il reato di corruzione propria. Buzzi con Carminati, Garrone, Di Ninno e Bolla avrebbero corrotto Coratti, presidente del Consiglio comunale di Roma, e Figurelli Franco, della segreteria di questi.

Coratti avrebbe ricevuto in cambio la somma di 10.000 euro, versati all’associazione Rigenera, l’assunzione nella Coop 29 Giugno di una persona da lui indicata e la promessa di 150.000 euro; a Figurelli sarebbe stata corrisposta la somma di 1.000 euro al mese.

Le condotte contestate a Coratti al capo 2) sono:

– di aver facilitato l’aggiudicazione alle cooperative di Buzzi di gare indette da Ama, tra cui quella 30/13 per la raccolta del multimateriale;

– di aver concorso alla riconferma del Direttore Generale di Ama Fiscon;

– di aver dirottato i fondi regionali al X Municipio (Ostia) in funzione della loro utilizzazione per gare a cui erano interessate cooperative del gruppo Buzzi;

– di aver contribuito allo sblocco di fondi destinati ad attività sociale di interesse delle cooperative di Buzzi (crediti per la gestione di campi nomadi);

– di aver pilotato la sostituzione di Gabriella Acerbi, direttore del V Dipartimento, Politiche sociali, non gradita per avere ridotto le tariffe per i minori stranieri non accompagnati (Fu nominato la Cozza, gradita perché legata ai 2 corrotti);

– di aver contribuito al riconoscimento dei debiti fuori bilancio (tra cui quello relativo alle spese effettuate per l’assistenza dei Minori Stranieri Non Accompagnati -Misna-, a cui avevano provveduto cooperative del gruppo Buzzi) approvato con delibera assembleare del 30.10.2014.

Sono stati articolati tredici motivi.

12.1. I primi due motivi sono testualmente sovrapponibili a quelli descritti nel secondo e nel terzo motivo del ricorso presentato nell’interesse di Tassone Andrea, alla posizione del quale si rinvia.

12.2. Con il terzo motivo si lamenta violazione di plurime disposizioni di legge processuale e vizio di motivazione per avere la Corte di appello omesso di pronunciarsi sul motivo con cui era stata dedotta la nullità del capo di imputazione, viziato per la genericità o per la carenza delle enunciazioni fattuali.

12.3. Con il quarto motivo si lamenta violazione da parte della Corte di appello dell’art. 604 cod. proc. pen. con riguardo agli artt. 521 – 522 cod. proc. pen.

La Corte di appello avrebbe erroneamente non dichiarato la nullità della sentenza di primo grado per violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza. Il giudizio di colpevolezza sarebbe stato formulato dal Tribunale valorizzando tre segmenti fattuali (la nomina dell’ing. Perrin in una determinata posizione aziendale per favorire Buzzi; l’attività di sblocco di un credito di Buzzi presso l’EUR; la richiesta di 100.000 euro per l’approvazione della delibera Misna) che, tuttavia, non sarebbero stati mai formalmente contestati dalla Procura della Repubblica e che invece, secondo la sentenza di primo grado, sarebbero stati parte dell’accordo corruttivo.

La Corte di appello avrebbe operato un tendenziale aggiustamento della motivazione dei primi giudici, ma si sarebbe sottratta ad un obbligo di legge, quale quello di dichiarare la nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza.

12.4. Con il quinto motivo si lamenta violazione del principio di correlazione con riguardo alla sentenza impugnata.

A fronte di una imputazione fondata sui fatto che Coratti avesse facilitato, sul piano politico- istituzionale, la aggiudicazione di gare indette da Ama a soggetti riconducibili a Buzzi, e, dunque, di una imputazione limitata alle attività finalizzate ai bandi di gara, la Corte avrebbe invece censurato un diversa condotta — quella, cioè, di “asserite richieste di finanziamenti Ama e di una non meglio specificata protezione” da parte di Coratti in favore di Buzzi “su futuri finanziamenti” — costruita su segmenti fattuali avulsi dalla aggiudicazione delle gare.

Le stesse considerazioni sono compiute quanto al contributo elettorale di 5.000 euro, pure valorizzato in chiave accusatoria dalla Corte, del quale non vi sarebbe tuttavia menzione nella imputazione.

12.5. Con il sesto, articolatissimo, motivo si lamenta violazione di norma processuale e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità – travisamento della prova ed omessa motivazione in ordine alle deduzioni contenute nei motivi di appello; l’assunto costitutivo che viene sviluppato in relazione a numerose tematiche è che la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa, attraverso una serie di contributi probatori, non sarebbe stata mai vagliata dalla Corte, che si sarebbe “limitata” ad una ricostruzione parziale e viziata delle singole vicende prese in considerazione.

L’assunto difensivo è riferito:

a) all’analisi ed alla valutazione delle conversazioni del coimputato Buzzi riguardanti i rapporti tra questi e Figurelli ed alla circostanza che nessuna conversazione avrebbe avuto come autore diretto Coratti;

b) alle smentite individualizzanti:

1) che le affermazioni captate da Buzzi avrebbero ricevuto proprio con riguardo a Coratti;

2) dell’assunto secondo cui Figurelli operasse “per conto” di Coratti;

c) ai rilievi difensivi riguardanti la prova degli elementi strutturali del reato contestato;

d) alle condotte in concreto contestate.

12.6. Con il settimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla qualificazione del fatto ed alla sua mancata riconduzione al reato di traffico di influenze illecite.

Pur volendo ritenere provate le condotte attribuitegli, Coratti non sarebbe stato munito di competenza o di attribuzione per nessuno degli ipotizzati atti contrari ai doveri di ufficio; dunque, al più all’imputato potrebbe essere imputata una condotta di intermediazione presso i competenti organi.

La Corte, sul punto, avrebbe costruito una motivazione monca, perché, da una parte, solo genericamente esposta nella parte generale della sentenza, comune a molti ricorrenti, e, dall’altra, fatta discendere per derivazione da quella costruita per Figurelli, in relazione al quale si é ritenuto di fare riferimento ai poteri istituzionali che questi esercitava di fatto, ricollegabili all’ufficio del Presidente del Consiglio Comunale (art. 42 TUEL); il richiamo alla norma indicata sarebbe peraltro errato, atteso che i poteri del Presidente del consiglio comunale di Roma sarebbero previsti e disciplinati dall’art. 18 dello Statuto capitolino mentre invece l’art 42 TUEL riguarderebbe le attribuzioni del Consiglio Comunale.

12.7. Con l’ottavo ed il nono motivo si lamenta violazione di legge anche processuale e vizio di motivazione nella parte in cui la Corte avrebbe omesso di ricondurre i fatti alla fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen.

L’assunto secondo cui il reato di cui all’art. 318 cod. pen. sarebbe assorbito in quello di cui all’art. 319 cod. pen. presupporrebbe, secondo il ricorrente, la necessaria compresenza di atti conformi e contrari ai doveri di ufficio; questi ultimi, tuttavia, nel caso di Coratti, non sussisterebbero, tenuto conto che la stessa Corte, in relazione alla posizione di un altro consigliere comunale – Tredícíne, anch’egli imputato per i fatti relativi alla proposta di deliberazione di approvazione di debiti fuori bilancio del 30.10.2014 – avrebbe ricondotto la condotta di questi al reato di cui all’art. 318 cod. pen.; la natura discrezionale dell’atto non sarebbe di per sé sufficiente per ritenere sussistente la fattispecie di corruzione propria, né l’atto attribuibile all’ufficio di Coratti, cioè la delibera, sarebbe stato illegittimo.

Si censura inoltre la tecnica motivazionale adottata dalla Corte che avrebbe, attraverso il richiamo al capitolo generale della sentenza dedicato ai reati fine, adottato, al fine di distinguere le fattispecie previste dagli artt. 318 – 319 cod. pen., una motivazione generalizzata ed aspecifica.

12.8. Con il decimo e l’undicesimo motivo del ricorso si sono dedotti violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed alla dosimetria della pena; in tal senso si è proceduto ad una valutazione comparativa della posizione del ricorrente con quella di numerosi altri imputati.

Sotto altro profilo, si lamenta vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen.; a fronte di un motivo specifico, la sentenza sarebbe sostanzialmente silente.

12.9. Con il dodicesimo motivo si deduce violazione di legge anche processuale e vizio di motivazione quanto alla mancata esclusione di numerose parti civili, tutte specificatamente indicate; il motivo è sovrapponibile al primo motivo del ricorso presentato nell’interesse di Tassone Andrea, al quale si rinvia.

Quanto alla Regione Lazio, soggetto non indicato nel ricorso per Tassone, la Corte di appello non avrebbe considerato che:

a) sarebbe stato escluso che Corattí si adoperò per la rimozione di Físcon dalla sua posizione ovvero per far destinare fondi regionali al X Muncipio di Ostia;

b) l’originario difetto di legittimazione della costituzione di parte civile da parte della Regione Lazio – derivante dall’essere stata rilasciata la procura speciale da un soggetto non legittimato- non avrebbe potuto essere sanato per effetto della successiva e tardiva determina della Giunta regionale.

12.10. Con il tredicesimo motivo si lamenta violazione di legge processuale e vizio di motivazione quanto alla statuizione relativa alla condanna al pagamento di una provvisionale nei confronti dì Roma Capitale e del Ministero dell’interno.

12.11. L’8/10/2019 è stata depositata una memoria nell’interesse di Coratti con cui si riprendono e si sviluppano ulteriormente gli argomenti trattati con il ricorso principale.

13. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Giovanni De Carlo, condannato in primo grado alla pena di 2 anni e 6 mesi di reclusione per il reato di favoreggiamento personale contestato al capo 28 del primo decreto; la Corte di Appello, applicata l’aggravante di cui all’art. 378, secondo comma, cod. pen., ha ridotto la pena ad anni 2 di reclusione.

De Carlo avrebbe contribuito all’accertamento della presenza di una microspia collocata dagli inquirenti presso lo studio degli avv. Pierpaolo Dell’Anno, Domenico Leto e Michelangelo Curti; in tal modo avrebbe confermato i sospetti dei titolari dello studio, che all’epoca sarebbero stati indagati per il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (posizioni poi archiviate); De Cario avrebbe individuato la miscrospia, tuttavia lasciata nel posto in cui era stata collocata.

Sono stati articolati nove motivi.

13.1.Con i primi tre motivi si lamenta violazione di legge processuale prevista a pena di nullità e vizio di motivazione. Il decreto di giudizio immediato sarebbe stato viziato per non aver contenuto l’avviso della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento per chiedere la messa alla prova ed i giudici di merito avrebbero illegittimamente impedito al ricorrente, che pure ne aveva fatto tempestiva richiesta, di accedere al rito in questione, pur sussistendone le condizioni.

Si pone la questione della legittimità costituzionale dell’art. 456, comma 2, cod. proc. pen., per violazione degli artt. 3-24 Cost., nella parte in cui non prevede che il decreto di giudizio immediato debba contenere l’avviso indicato. 13.2.Con il quarto motivo si lamenta violazione dì legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità.

Al momento in cui la condotta fu commessa (11/06/2013), l’unico indagato per il reato di cui ali artt. 110- 416 bis cod. pen. sarebbe stato l’avv. Dell’Anno – che non ebbe in quei giorni contatti con l’imputato- e non anche gli altri due professionisti, che assistevano De Carlo e che solo successivamente furono indagati; sarebbe illogica dunque la motivazione della sentenza nella parte in cui si è ritenuto che De Carlo avesse avuto consapevolezza di aiutare soggetti sottoposti alle investigazioni dell’autorità giudiziaria.

Sotto altro profilo, la Corte avrebbe errato nel ritenere sussistente l’elemento oggettivo del reato in ragione del tempo in cui l’imputato rimase nella stanza dell’avv. Leto, in cui fu trovata la microspia; assume il difensore che, in realtà, De Carlo sarebbe rimasto in quella stanza non per cinque minuti, come ritenuto dalla Corte, ma solo per 15 secondi; in tal senso sarebbe stato travisato il contenuto di una intercettazione ambientale (prog. n. 2091), il cui significato il ricorrente ha ricostruito alla luce della deposizione del teste di polizia giudiziaria Colaci.

Si tratterebbe di un elemento che inficerebbe la tenuta logica dell’intero ragionamento probatorio della Corte.

Si deduce inoltre l’omessa valutazione di un’altra conversazione, intercettata il giorno precedente, da cui emergerebbe che i legali fossero a conoscenza della esistenza della microspia all’interno dello studio già prima dell’arrivo di De Carlo (prog. 2020 del 10/06/2013); De Carlo avrebbe appreso dalla presenza della microspia dal proprio legale, all’epoca non indagato, e non avrebbe fatto alcunchè di rilevante.

Dunque l’art. 378 cod. pen. sarebbe stato erroneamente configurato.

13.3. Con il quinto motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto all’art. 384 cod. pen.; De Carlo, all’epoca del fatto, era sottoposto ad indagine per concorso esterno in associazione mafiosa e per altri reati, ed avrebbe frequentato lo studio legale per preparare la sua difesa: secondo la Corte, la scelta di chiamare l’imputato non sarebbe stata casuale e De Carlo sarebbe stato consapevole che la installazione della microspia non fosse collegata a fatti riguardanti il suo procedimento: dunque l’esimente di cui all’art. 384 cod. pen. non sarebbe configurabile.

Si tratterebbe, secondo il ricorrente, di un passaggio motivazionale viziato, smentito dalla conversazione dell’11.4.2013, in cui De Carlo si sarebbe mostrato preoccupato per le possibili indagini nei suoi confronti.

13.4. Con il sesto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione; violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.

La Corte, pur escludendo che la condotta fosse finalizzata a favorire Carminati, ha nondimeno ritenuto sussistente la circostanza aggravante prevista dal comma 2 dell’art. 378 cod. pen. sul presupposto che i tre avvocati fossero indagati per il delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen.

Secondo la Corte, l’aggravante avrebbe natura oggettiva e, nella specie, sussisterebbe in fatto, a prescindere cioè dal richiamo formale, contenuto nella imputazione, al solo comma 1 dell’art. 378 cod. pen.

De Carlo, assume invece il difensore, avrebbe avuto rapporti solo con gli avv. Leto e Curti che in quel momento non erano indagati. Né sarebbe provato che De Carlo sapesse o ignorasse per colpa che gli avvocati fossero indagati.

13.5. Con il settimo motivo si denuncia violazione di legge quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, alla dosimetria della pena ed al riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’art. 114 cod. pen.

13.6. Con l’ottavo motivo si lamenta violazione di legge in relazione all’art.131 bis cod. pen.; la causa di non punibilità sarebbe nella specie configurabile e potrebbe essere riconosciuta anche dalla Corte di cassazione.

13.7. Con il nono motivo si deduce violazione di norma processuale e vizio di motivazione quanto alla utilizzabilità probatoria delle conversazioni intercettate.

14. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Antonio Esposito.

L’imputato è stato condannato in primo grado alla pena di 5 anni di reclusione per i reati di frode fiscale, di cui al capo 20 (escluso il reato con riferimento alla fattura n.184/13), e di trasferimento fraudolento di valori (art. 512 bis cod. pen.) contestato al capo 21 del secondo decreto).

Quanto al capo 20), Esposito, nella qualità di amministratore unico e socio della cooperativa sociale onlus a responsabilità limitata Cosma, in concorso con Carminati, anche al fine di consentire alla cooperativa 29 giugno di evadere le imposte dirette ed indirette, avrebbe emesso una serie di fatture per operazioni inesistenti (le fatture sono indicate nella imputazione).

Quanto al capo 21), Carminati, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, avrebbe attribuito fittiziamente a soggetti di sua fiducia ed a cooperative a lui riconducibili “la titolarità delle quote e della carica sociale di amministratore unico della Cooperativa Servizi (Cosma)”; in tale contesto ad Esposito sarebbe stata fittiziamente intestata una quota di capitale di 100 euro , dopo avergli attribuito il ruolo di amministratore unico, il 30 giugno 2012″ (così testualmente l’imputazione).

Sono stati articolati quattro motivi.

14.1. Con il primo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità per il capo 21).

La Corte di appello avrebbe riconosciuto la responsabilità dell’imputato, quanto alla intestazione fittizia della quota del capitale di 100 euro, senza tuttavia affermare il carattere fittizio anche della assunzione della carica di amministratore da parte del ricorrente, avvenuta il 30.6.2012.

In particolare, nonostante la formulazione di specifici motivi di appello, la motivazione sarebbe carente:

a) quanto alla prova della fittizietà della intestazione della quota di soli 100 euro, acquistata, secondo l’accusa, il 25.3.2013 – cioè molti mesi dopo l’assunzione della carica di amministratore- per eludere l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale;

b) quanto all’assunto secondo cui Esposito consentì a Carminati dì nascondere i suoi interessi economici nella cooperativa, considerata uno strumento “per far pervenire liquidità a Carminati”;

c) quanto alla sovrapposizione, giuridicamente errata, del profilo della concreta operatività della cooperativa con quello della fittizietà della intestazione della quota.

A fronte della nomina ad amministratore sociale del 2012 e della sottoscrizione della quota di 100 euro il 25.2.2013, la misura di prevenzione sarebbe stata emessa dopo sei anni e sarebbe conseguente al presente giudizio; si afferma, dunque, che l’imputato non potesse prevedere sei anni prima l’applicazione della misura patrimoniale.

La sentenza sarebbe viziata anche per quel che concerne la prova del dolo specifico, che non potrebbe essere desunto dal fatto che Esposito assistesse legalmente la compagna di Carminati, che fosse “legato” personalmente a quest’ultimo e che lo avesse assistito nella operazione dell’acquisto di un immobile.

14.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità per il reato di cui al capo 20).

Nonostante la difesa avesse indicato con l’atto dì appello una serie di elementi probatori volti a far emergere la effettività delle prestazioni sottostanti alla emissione delle fatture poste a fondamento dell’accusa (intercettazioni, consulenza Laconi, documenti prodotti, dichiarazioni dello stesso imputato), la Corte non avrebbe fornito adeguate risposte, essendosi limitata ad affermare che la cooperativa Cosma non avesse struttura organizzativa, né un responsabile operativo e che i compensi ai collaboratori fossero corrisposti a seconda delle prestazioni da svolgere di volta in volta.

La inesistenza delle operazioni sottostanti ad alcune fatture sarebbe stata fatta discendere dalla dichiarazioni di un coimputato, senza tuttavia valutarne l’attendibilità; sarebbe stata inoltre compiuta una valutazione solo parziale della documentazione e la fittizietà delle operazioni sottostanti sarebbe stata affermata in ragione della incongruità dell’importo delle fatture rispetto all’entità dei lavori; le fatture sarebbero state, a dire della Corte, solo in parte emesse per operazioni inesistenti ma, secondo l’imputato, non sarebbe stata accertata la effettività dell’attività svolta dai dipendenti.

Anche il profilo del dolo specifico di evasione sarebbe stato ritenuto sussistente pur in assenza di prova.

14.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto:

a) al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, negate in ragione dell’assenza di elementi positivi e della qualifica di avvocato del ricorrente;

b) alla commisurazione della pena, compiuta con un mero calcolo matematico, senza una concreta valorizzazione dello stato di incensuratezza;

c) al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen.

14.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge – quanto all’art. 539 cod. proc. pen. – e vizio di motivazione in ordine alla condanna generica al risarcimento dei danni; a fronte di uno specifico motivo di appello, la Corte si sarebbe limitata ad affermare che le questioni fossero state risolte con l’ordinanza emessa il 17.11.2015; non vi sarebbe nessuna motivazione quanto alla esistenza del rapporto causale tra il danno e le contestazioni mosse all’imputato; il vizio di motivazione si estenderebbe anche alle pene accessorie.

15. Ha proposto ricorso il difensore di Francesco Figurelli.

L’imputato è stato condannato in primo grado alla pena di 5 anni di reclusione per i reati di cui ai capi 1 e 2 del secondo decreto; la Corte di Appello ha ritenuto assorbito il reato di cui al capo 1 del secondo decreto (art. 318 cod. pen.) in quello contestato al capo 2 del secondo decreto (art. 319 cod. pen.) ed ha ridotto la pena ad anni 4 di reclusione; I fatti oggetto della imputazione sono quelli già descritti in relazione alla posizione di Coratti Mirko. Sono stati articolati quattro motivi.

15.1. Con il primo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per avere il Pubblico ministero ed il Giudice per le indagini preliminari “intentato” (così il ricorso) il giudizio immediato in assenza delle condizioni previste dalla legge, in tal modo sottoponendo l’imputato ad un giudizio celebrato davanti ad un giudice diverso da quello precostituito per legge.

Per il reato previsto dal capo 1) (art. 318 cod. pen.), Figurelli non sarebbe mai stato attinto da un titolo custodiale e, dunque, non avrebbe potuto essere disposto il giudizio immediato; l’imputato, quindi, avrebbe dovuto essere giudicato con il rito ordinario anche per il delitto contestato al capo 2).

Il decreto di giudizio immediato dovrebbe quindi essere dichiarato nullo con conseguente stralcio della posizione dell’imputato e trasmissione degli atti al pubblico ministero per la celebrazione del giudizio ordinario.

15.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza per avere la Corte condannato il ricorrente per il reato di (/\ cui all’art. 319 cod. pen. attribuendogli la qualifica di pubblico ufficiale; la Corte di appello avrebbe modificato la veste soggettiva dell’imputato rispetto a quella indicata nelle imputazioni, in cui, invece, Figurelli era stato considerato come incaricato di pubblico servizio e concorrente extraneus per i comportamenti tenuti da Coratti (quest’ultimo considerato pubblico ufficiale); si deduce anche violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta qualifica in fatto di pubblico ufficiale.

Secondo l’impostazione originaria, si sostiene, avrebbe dovuto essere provato il contribuito concorsuale atipico del ricorrente, tenuto conto, peraltro, che gli atti in concreto contestati a Corattí sarebbero stati tutti di competenza di altro ufficio ad eccezione dell’approvazione della delibera relativa al pagamento dei debiti fuori bilancio.

Nel caso di specie, non avrebbe dovuto dunque essere provato il patto corruttivo Buzzi/ Figurelli, ma quello Buzzi/Coratti e poi il contribuito concorsuale di Figureili ed, ancora, il rapporto Coratti/Amministrazione.

La Corte di appello avrebbe invece “costruito” un nuovo capo di imputazione assegnando al Figurelli una qualifica non propria, quella di pubblico ufficiale, che questi avrebbe ricoperto in via di fatto; ciò avrebbe creato una immutazione strutturale della imputazione e l’impossibilità di articolare una difesa volta a dimostrare la non configurabilità della qualifica soggettiva.

La motivazione della Corte sarebbe viziata anche nel merito, cioè nella parte in cui ha ritenuto sussistente la qualifica di pubblico ufficiale di fatto in capo al ricorrente.

Figurelli, oltre ad essere un bibliotecario, avrebbe solo formalmente ricevuto il 29/07/2013 un ulteriore compito, quello, cioè, di seguire i lavori dell’assemblea capitolina, di collaborare con gli organi competenti in materia di sport ed ambiente e, in particolare, di curare i rapporti con le associazioni e con la cittadinanza; l’imputato sarebbe stato componente solo della segreteria politica di Coratti; Figurelli, in quanto non consigliere comunale, non avrebbe potuto fare parte dell’ufficio della Presidenza del Consiglio Comunale ed assumere la qualifica di Segretario dell’ufficio di presidenza; né assumerebbe al riguardo decisivo rilievo la circostanza che presso l’ufficio di Figurelli furono trovati due promemoria su carta intestata Eriches attinenti al presunto suo interessamento in ordine al c.d “sblocco dei fondi per il sociale”.

15.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge in ordine alla qualificazione dei fatti attribuiti all’imputato che, si assume, dovrebbero essere ricondotti all’art. 346 bis cod. pen. e non al contestato reato corruttivo.

Si assume che:

1) quanto alla vicenda Ama ed alla “rimozione” di Fiscon, il Tribunale aveva ritenuto che non vi fossero elementi sufficienti per ritenere che Coratti avesse facilitato in concreto l’aggiudicazione di gare in favore di Buzzi o che fosse intervenuto per difendere Físcon: di Figurelli non vi sarebbe traccia;

2) a conclusioni non diverse si sarebbe dovuti giungere quanto alla vicenda della destinazione dei Fondi regionali al X Municipio, di cui al punto c) della imputazione;

3) quanto al fatto relativo allo sblocco dei fondi per il sociale, il tema sarebbe quello del rinvenimento dei due promemoria di cui si è detto; secondo il ricorrente, pur volendo ritenere che quei promemoria “significhino qualcosa” (così il ricorso), nondimeno avrebbe dovuto essere fornita la prova, al fine di costruire un segmento dell’attività corruttiva, che il soggetto titolare del potere di assegnare i fondi (tale Bigarí del V dipartimento) avesse recepito la pressione: Buzzi avrebbe incontrato Bigari il 13 marzo, nove mesi prima del ritrovamento dei due promemoria, e l’esito dell’incontro sarebbe stato del tutto neutro (si richiama una conversazione): Figurelli, dunque, non avrebbe compiuto alcun intervento e lo stesso Buzzi avrebbe detto di “essere in mano ad altri soggetti”;

4) non diversamente, quanto alla sostituzione di Acerbi con la dott.ssa Cozza; si ripercorrono i fatti al cui esito emergerebbe la estraneità di Figurelli quanto alla nomina di Cozza ed anche l’assunto secondo cui l’imputato avrebbe passato informazioni a Buzzi sarebbe smentito dalle risultanze probatorie);

5) quanto ai debiti fuori bilancio, la delibera sarebbe stata votata da Coratti, il quale aveva il potere, congiuntamente ai capi gruppo, di determinare l’ordine del giorno dei lavori assembleari, ma non vi sarebbe la prova dì un effettivo intervento dell’imputato in nessuno dei passaggi dell’articolato iter procedimentale.

15.4. Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione in ordine all’accertamento ed alla quantificazione delle somme erogate a Figurelli, compiuto attraverso un procedimento indiziarlo viziato.

16. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Agostino Gaglianone, imprenditore edile, in rapporti con Carminati. L’imputato è stato condannato in primo grado alla pena di anni 6 e mesi 6 di reclusione per i reati di cui ai capi 1, 9 e 23 (in relazione alla sola fattura n. 3/14) del primo decreto; la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., riconosciute le attenuanti generiche, ha ridotto la pena ad anni 4 e mesi 10 di reclusione.

Oltre al reato associativo, in relazione al quale si attribuisce all’imputato la qualifica di imprenditore colluso, a Gaglianone si contesta il reato previsto dall’art. 512-bis cod pen., per avere, in concorso con Carminati ed allo scopo di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, attribuito fittiziamente ad Alessia Marini la titolarità di una villa (Capo 9), nonché quello di frode fiscale, per avere emesso alcune fatture per operazioni inesistenti per consentire alla Eriches di evadere le imposte indirette (capo 23).

Sono stati articolati sette motivi.

16.1. Con il primo motivo si deduce la nullità del giudizio immediato e l’ illegittimità costituzionale delle relative norme sotto vari profili. In particolare contesta il ricorrente la possibilità che il provvedimento di giudizio immediato “custodiale” possa essere emesso dallo stesso giudice che abbia “visto” la misura cautelare.

Si deducono profili di incostituzionalità della disposizione sul giudizio immediato che, di fatto, precluderebbe la possibilità di presentare tempestivamente la ricusazione del gip che svolge il doppio ruolo in questione.

16.2. Con il secondo motivo si deduce la nullità delle sentenze di primo e secondo grado per violazione del diritto di difesa, non essendo stata consentita al ricorrente l’estrazione di copia delle registrazioni deì suoi colloqui.

Sarebbe erroneo, si sostiene, affermare che non spettassero le copie delle intercettazioni diverse da quelle utilizzate per la applicazione della misura cautelare, atteso che, se così fosse, non sarebbe consentito il corretto esercizio della difesa; nella specie, sarebbe comunque applicabile la regola di cui all’art. 433, comma 2, cod. proc. pen. che prevede la facoltà del difensore di prendere visione ed estrarre copia di tutti gli atti depositati.

16.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione di legge per non essere stata disposta la rinnovazione dell’istruttoria ai fini della decisione di accoglimento degli appelli dei pubblici ministeri; in tal senso si svolgono argomenti sovrapponibili a quelli sviluppati nei ricorsi di Buzzi e Carminati.

16.4. Con il quarto motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al reato di associazione mafiosa. Contesta il ricorrente l’adesione acritica da parte della Corte di appello alla decisione della Corte di cassazione intervenuta in fase cautelare con riferimento ai fatti accertati in fase di indagine, così smentendo la portata del dibattimento.

Si rileva che la sentenza impugnata dì fatto limiterebbe le condizioni indicative della mafiosità alla presenza del Carminati e alla sua presunta forza criminale ma, in realtà, sarebbe illogica e contraddittoria nell’affermare l’affidamento di Buzzi sulla forza di intimidazione di Carmìnati; si nega inoltre la portata dimostrativa dei singoli elementi citati dalla decisione di appello.

Sotto altro profilo, si evidenzia la manifesta illogicità e contraddittorietà intrinseca della parte della motivazione dedicata alla presunta esteriorizzazione della forza di intimidazione di Carminati nei confronti degli imprenditori concorrenti.

Rileva l’imputato come si sovrappongano in modo confuso il presunto impiego della intimidazione per escludere i concorrenti con le accertate logiche spartitorie finalizzate alla elusione del meccanismo della concorrenza.

Si svolgono inoltre ulteriori argomenti, sostanzialmente corrispondenti a quelli sviluppati sullo stesso tema dai ricorsi dei coimputati nello stesso reato.

16.5. Con il quinto motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione del ricorrente alla associazione mafiosa ed all’applicazione dell’ aggravante di cui all’art. 416 bis cod. pen. In primo grado, si afferma, Gaglianone era stato condannato per la partecipazione alla associazione diretta al conseguimento di appalti pubblici ed era stato escluso ogni rapporto del ricorrente con il “gruppo criminale” di Corso Francia.

La Corte di appello avrebbe deciso diversamente senza indicare elementi di supporto, modificando la contestazione e senza alcuna motivazione rafforzata: – secondo la Corte di appello il ricorrente avrebbe avuto conoscenza della forza di intimidazione spesa all’esterno e dei metodi violenti del sodalizio sulla scorta di un palese travisamento delle prove.

La intercettazione in cui il ricorrente farebbe riferimento alla conoscenza della fama criminale di Carminati in realtà riporterebbe notizie di fonte giornalistica;

– il controesame dei testimoni che avevano svolto compiti di polizia giudiziaria durante le indagini avrebbe dimostrato che gli stessi operanti ritenevano che gli improperi utilizzati dal Carminati in riferimento alla de Cataldo, venditrice della villa di Sacrofano, ed ai suoi parenti fossero meri sfoghi. La stessa De Cataldo avrebbe escluso ogni minaccia da parte del Carminati di cui non avrebbe mai saputo l’identità;

– la conversazione del 16 dicembre 2013, che dimostrerebbe la consapevolezza del ricorrente di metodi violenti utilizzati da Carminati e dal sodalizio, sarebbe smentita dalla semplice lettura integrale della conversazione;

– la Corte di appello avrebbe fatto derivare da una offerta formulata da Gaglianone nei confronti del Guarnera, relativa all’affare immobiliare di Monteverde, il rapporto tra il ricorrente ed il gruppo di corso Francia. L’assunto sarebbe del tutto apodittico ed in contrasto con la ricostruzione del giudice di primo grado; la vicenda peraltro riguarderebbe lavori di tipo privato non collegati ad attività della associazione e che Gaglianone avrebbe comunque rifiutato, perché superiori alle sue potenzialità imprenditoriali;

– la motivazione sarebbe illogica e contraddittoria e traviserebbe la prova anche quanto alla valorizzazione dei lavori di ampliamento del campo nomadi di Castel Romano;

– sarebbe inconsistente anche la vicenda dell’ospitalità offerta a Carminati; nella stessa intercettazione utilizzata si ascolterebbe la chiara affermazione del ricorrente che escludeva l’offerta di ospitalità per l’eventuale caso della latitanza;

– la sentenza sarebbe erronea anche in ordine alla questione del denaro di Carminati utilizzato per l’acquisto della casa di Sacrofano. Dallo stesso materiale probatorio utilizzato nella sentenza risulterebbe che i soldi utilizzati per l’acquisto dell’immobile provenissero dai precedenti reati commessi dal Carminati e non dai proventi della associazione per delinquere;

– sarebbero stati esclusi rapporti con altri partecipi nel settore dedicato all’ottenimento di appalti pubblici. Gaglianone non avrebbe avuto rapporti neanche per la gestione delle attività associative, né avrebbe utilizzato utenze dedicate per i colloqui con gli affiliati.

Non si sarebbe mai fatto riferimento nelle conversazioni ad alcuna sua attività illecita e l’imputato non aveva ottenuto alcun lavoro in forma anomala.

16.6. Con il sesto motivo si deduce il vizio di motivazione quanto all’affermazione di responsabilità per il reato dì cui al capo 23 del primo decreto, emissione di fatture per operazioni inesistenti.

Si assume che nella specie difetterebbe il dolo specifico e la ricostruzione corretta dei fatti deporrebbe in senso opposto.

16.7. Con il settimo motivo si lamenta il vizio di motivazione in ordine al suo concorso nel reato di cui al capo 9 del decreto, fittizia intestazione della casa di Sacrofano; il ricorrente avrebbe saputo che Carminati intendesse occultare le proprie disponibilità per sfuggire alle richieste, in sede civile, di restituzione del denaro da lui dovuto e non da eventuali misure di prevenzione.

17. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Luca Gramazio.

Gramazio è stato condannato in primo grado alla pena di anni 11 di reclusione per i reati di cui ai capi 16, 22 e 23 del secondo decreto; la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., ha ridotto la pena ad anni 8 e mesi 8 di reclusione.

Gramazio, nel periodo di interesse, è stato prima Consigliere comunale del Comune di Roma e, successivamente, Consigliere regionale della Regione Lazio.

Quanto al reato associativo, Gramazio avrebbe posto al servizio dell’organizzazione le sue qualità istituzionali ed avrebbe svolto una funzione di collegamento tra il gruppo mafioso, la politica e le istituzioni; l’imputato avrebbe inoltre concorso, nella qualità di consigliere regionale, alla rivelazione di segreti di ufficio ed alla turbativa della procedura finalizzata all’acquisizione del servizio CUP (capo 16) ed al fatto corruttivo di cui al capo 23, in relazione al quale il ricorrente, a fronte di molteplici utilità, avrebbe, quale consigliere comunale: creato il consenso per l’approvazione dì emendamenti finalizzati allo stanziamento di 1.000.000 euro per le piste ciclabili; espresso voto favorevole alla mozione Ozzimo per la proroga dei lavori sul verde pubblico alle cooperative sociali; contribuito a riconoscere il debito fuori bilancio relativo all’emergenza dei Misna; espresso voto favorevole per l’assestamento di bilancio di previsione 2012 e pluriennale 2012-2014; nella qualità di consigliere regionale, avrebbe inoltre favorito la destinazione di risorse regionali destinate al Comune di Roma poi orientate verso il X e altri Municipi».

Sono stati articolati dodici motivi.

17.1. I primi tre motivi corrispondono rispettivamente al primo, al terzo ed al quarto motivo del ricorso proposto nell’interesse di Gaglianone.

17.2. Con il quarto motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla contestazione del reato di associazione mafiosa. Il ricorrente deduce in dettaglio:

– la mancanza di «una motivazione autonoma e logicamente argomentata sugli specifici profili di fatto e di diritto» dedotti con l’appello; – l’utilizzo delle intercettazioni senza alcuna verifica della credibilità di quanto in esse contenuto, nonostante le concrete deduzioni della difesa che aveva indicato le evidenti menzogne riferite dai soggetti intercettati; si richiamano gli argomenti utilizzati per dimostrare che si era in presenza di millanterie di Testa e che Gramazio in realtà non avesse avuto i ruoli contestati in riferimento alle “piste ciclabili”, al “campo nomadi di Castel romano” ed alla “gara C.u.p.”;

– che, a fronte di una contestazione assai generica sul ruolo svolto dall’imputato nella presunta banda criminale, non sarebbe stato poi indicato alcun elemento dimostrativo della sua condivisione delle presunte strategie criminali, dell’inserimento nell’associazione o anche solo della sua consapevolezza della stessa esistenza della stessa. Gramazio sarebbe l’unico politico ritenuto inserito nella associazione mafiosa senza alcun elemento specializzante, rispetto agli altri esponenti politici;

– che le presunte condotte tenute nell’ambito dei reati fine sarebbero state solo apoditticamente indicate quali significative della partecipazione al reato associativo;

– la inconsistenza del mero dato del rapporto con Buzzi, Testa e Carminati, essendo giustificati, quelli con gli ultimi due, da legami personali e familiari, e con Buzzi dalle relazioni istituzionali. Quindi, i pur non frequentissimi contatti con tali soggetti non avrebbero avuto alcun significato univoco per dimostrare il suo inserimento nel gruppo;

– la genericità del riferimento al suo presunto intervento per favorire la nomina di funzionari graditi all’associazione.

Quanto al suo ruolo nella nomina di Berti, non vi sarebbe stata alcuna verifica in concreto delle modalità con cui detta nomina fu compiuta, risultate del tutto normali; quanto alla nomina di Quarzo, la Corte di appello non avrebbe valutato il contesto politico e la testimonianza del vicesindaco, ma solo alcune intercettazioni equivoche; quanto alla nomina di Fiscon, l’appoggio da parte dell’imputato sarebbe stato automaticamente trasformato in prova della affiliazione, senza avere tuttavia verificato le ragioni di detta scelta; quanto all’appoggio per la candidatura di Luzzi a sindaco del comune di Sacrofano, la Corte avrebbe omesso di considerare quanto fossero forti e personali i rapporti che avevano giustificato tale scelta; quanto alla nomina di Limiti a dirigente Ama, si sarebbe trattato di un atto dovuto per l’ente e non risulterebbe neanche esservi stato un interesse della associazione;

– l’inconsistenza della vicenda relativa alla protezione offerta contro le aggressioni del consigliere Bianconi; non vi sarebbe stata nessuna iniziativa del ricorrente che, in realtà, dopo essere stato aggredito, aveva solo ritualmente attivato l’Amministrazione comunale e del suo partito; né vi sarebbe stato un diretto riferimento alla generica offerta di protezione formulata da Testa, che Gramazio comunque aveva rifiutato;

– che non sarebbe mai stato riscontrato alcun appoggio da parte della presunta associazione in suo favore in occasione delle competizioni elettorali;

– l’omessa valutazione della sussistenza dell’elemento psicologico a sostegno della partecipazione.

17.3. Con il quinto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla genericità ed all’indeterminatezza della imputazione di cui al capo 16 del secondo decreto ed alla mancata risposta ai motivi di appello.

Nel capo di imputazione non sarebbe stata descritta la condotta rilevante attribuibile all’imputato, dandosi solo atto di un generico accordo per la lottizzazione della gara. Né la lacuna avrebbe potuto essere colmata dal rinvio al materiale investigativo che, per la sua enorme quantità, non poteva comunque consentire di comprendere la contestazione effettiva.

17.4. Con il sesto motivo si deduce il vizio di motivazione con riferimento alla condanna per il reato di cui al capo 16, inflitta in violazione della regola dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”. Le procedure di gara sarebbero state ritenute dagli stessi giudici di merito corrette, non essendo emerse irregolarità nella stesura del bando e nell’assegnazione di punteggi; dunque, si assume, l’affermazione della Corte di appello, secondo cui Gramazio avrebbe ottenuto un accordo politico per riservare alla “destra” uno dei lotti, resterebbe una mera congettura.

Né vi sarebbe ragione per affermare che l’intervento del ricorrente per la nomina di Scozzafava fu strumentale a favorire Buzzi e non, invece, a garantire nella commissione una presenza di un soggetto capace di verificare il corretto e trasparente svolgimento della gara.

Né si sarebbe adeguatamente considerato il fatto che Scozzafava fu nominato commissario solo successivamente, in ragione della incompatibilità del primo soggetto nominato e che la decisione di Buzzi di concorrere nel terzo lotto non fu conseguente ad una indicazione di Gramazio ma all’accordo di Buzzi con un altro concorrente.

La Corte, inoltre, non avrebbe fornito nessuna risposta alla censura difensiva con cui si contestava il giudizio di inattendibilità da parte del Tribunale di tutte le testimonianze (Longo, Venafro Caputo, Zingaretti) che avevano smentito la tesi di accusa.

17.5. Con il settimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla contestazione, nell’ambto cel capo 16, del reato di cui all’art. 326 cod. pen.

Non sarebbe configurabile un concorso effettivo nel reato e la sentenza si limiterebbe a fare riferimento ad una generica condotta, non oggetto di contestazione formale, di induzione nei confronti di Scozzafava, connessa all’inserimento di questi nella commissione di gara.

17.6. Con l’ottavo motivo si lamenta la violazione di legge per l’erronea qualificazione giuridica del fatto. Il ricorrente sarebbe stato condannato per l’asservimento della funzione senza tuttavia l’individuazione dì specifici atti contrari ai doveri di ufficio; la condotta, quindi, doveva essere ricondotta al reato previsto dall’ art. 318 cod. pen.

17.7. Con il nono motivo deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge quanto al reato del capo 23 del secondo decreto, ovvero la sua corruzione.

Si afferma che non sarebbero stati valutati gli argomenti sviluppati nell’atto di appello e, in particolare, le prove testimoniali a discarico, attribuendo invece sempre e comunque valenza decisiva al contenuto delle intercettazioni.

Ne sarebbe risultata una ricostruzione illogica e congetturale; in particolare: – quanto alle piste ciclabili, sarebbe la stessa sentenza ad affermare che non vi fu alcun ruolo del ricorrente al riguardo, avendo escluso il soggetto che propose l’emendamento, l’assessore Lamanda, di aver ricevuto pressioni.

Vi sarebbe stato un corretto contegno istituzionale del ricorrente, di mero appoggio politico della iniziativa, erroneamente ritenuta indicativa di corruzione sulla scorta di una intercettazione generica e lontana nel tempo; – per la vicenda del verde pubblico “mozione Ozzímo”, sarebbe stata incriminata una attività politica, senza compiere un’adeguata valutazione delle argomentazioni della difesa.

Sarebbe provato che Buzzi mandò messaggi sms a più politici tra cui l’imputato, invitandoli a sostenere la mozione: se Gramazio fosse stato davvero “a libro paga”, per lui non sarebbe stato necessario fare ciò; – la vicenda del debito fuori bilancio per i minori stranieri non accompagnati sarebbe basata sul travisamento di una intercettazione, in realtà riferibile ad altro, nonché su altri elementi del tutto generici; – quanto alla vicenda del campo nomadi, in cui si sostiene l’intervento illecito di Gramazio, la decisione impugnata avrebbe meramente recepito gli argomenti del primo giudice, senza tuttavia considerare le difese svolte in sede di appello.

Non sarebbe stata individuata la condotta illecita del ricorrente, nè dimostrato un intervento di Gramazio per lo stanziamento di fondi. Neppure sarebbero state considerate le dichiarazioni dei testi che avrebbero escluso dì avere ricevuto pressioni; quanto alla adozione delle determine dirigenziali, la teste Santarelli avrebbe negato ogni interlocuzione con Gramazio; – quanto alla vicenda dei fondi regionali per il decimo municipio, Ostia, si sarebbero valorizzate intercettazioni in realtà indicative di millanterie da parte di Testa.

La Corte di appello non avrebbe tenuto conto delle prove testimoniali a discarico e le argomentazioni della difesa.

17.8. Con il decimo motivo si deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento al tema delle utilità percepite per la corruzione: – quanto alla ricezione della somma di euro 50.000, si assume che detta somma sarebbe stata consegnata tramite il Testa; in realtà lo stesso Buzzi avrebbe dichiarato di sospettare che fosse stata solo una millanteria di Testa per appropriarsi dei soldi; – quanto alla ricezione della somma di euro 20.000, la circostanza sarebbe stata desunta da una intercettazione cui si sono collegati sul piano fattuale tre bonifici di cui, però, solo uno antecedente la conversazione e comunque diretti ad un amico di Testa.

Non vi sarebbe stata alcuna risposta sulle deduzioni difensive sul punto; – anche per la somma di euro 28.000, l’incasso sarebbe riferibile a Testa; – quanto al pagamento promesso del debito del ricorrente con il tipografo, lo stesso Buzzi avrebbe riferito di aver creduto che la richiesta non provenisse da Gramazio, bensì da Testa; né risulterebbe peraltro provato il debito e la esistenza del tipografo; – quanto agli euro 15.000 destinati al comitato promotore per l’attività politica del ricorrente, non sarebbe stata data alcuna risposta alla deduzione che si trattava di un pagamento trasparente e privo di collegamento con una corruzione;- le assunzioni non sarebbero state ottenute quale prezzo della corruzione; Buzzi avrebbe volutamente modificato i preventivi di spesa della cooperativa per poter rifiutare di assumere le persone indicate.

17.9. Con l’undicesimo motivo si deduce la violazione di legge quanto all’applicazione della aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen.

16.10. Con il dodicesimo motivo di ricorso si lamenta il vizio di motivazione e la violazione di legge quanto al diniego delle attenuanti generiche ed ai criteri di aumento delle pene.

18. Carlo Maria Guarany è stato condannato in primo grado alla pena di anni 5 di reclusione per i reati dì cui ai capì 1 e 16 del primo decreto e 16 del secondo decreto; la Corte di Appello lo ha assolto dal reato di cui all’art. 326 cod. pen. di cui al capo 16 del secondo decreto e, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante dì cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., ha ridotto la pena ad anni 4 e mesi 10 di reclusione. Guarany era vice presidente del CdA e consigliere della cooperativa sociale 29 Giugno.

Quanto al reato associativo, Guarany avrebbe contribuito alle operazioni corruttive e di alterazione delle gare pubbliche; l’imputato avrebbe inoltre concorso a turbare la gara di appalto indetta da AMA s.p.a. per la raccolta indifferenziata del multimateriale (capo 16 primo decreto) e la procedura aperta finalizzata all’acquisizione del servizio CUP per le Aziende sanitarie della Regione Lazio (capo 16 secondo decreto). Sono stati articolati sette motivi.

18.1. Con il primo si chiede l’assegnazione del processo alle Sezioni Unite e, comunque, l’annullamento della sentenza per essere stata data una interpretazione estensiva ed imprevedibile dell’art. 416-bis cod. pen. e per non essere stata applicata la disposizione di cui all’articolo 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., pur versandosi in una situazione di riforma in peius della sentenza di primo grado, attraverso una rivalutazione di prove dichiarative.

18.2. Con il secondo ed il terzo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla contestazione di associazione mafiosa (capo 1), con riferimento alla sussistenza dell’associazione ed al dolo di partecipazione.

Con ampie argomentazioni, il ricorrente sostiene la manifesta erroneità della sentenza, atteso che: – non vi sarebbe stato nella specie “metodo mafioso”, né, in particolare, la manifestazione esterna di una forza intimidatrice proveniente dal vincolo associativo;- sarebbe indubbio che Carminati continuò ad operare autonomamente in Corso Francia e che non vi fu nessun contatto significativo tra le due aree criminali; – l’evocazione dei presunti “manifesti programmatici” della nuova associazione sarebbe stata limitata ai contatti fra Brugia e Carminati, nonchè tra Brugia, Carminati e Guarnera; – la fama criminale di un singolo associato non sarebbe rilevante per ritenere esistente e percepita la capacità di intimidazione proveniente dall’associazione mafiosa; – risulterebbe dalla stessa prospettazione di accusa che Buzzi si sarebbe sempre avvalso solo del metodo corruttivo e della lottizzazione politica per turbare gare al fine di ottenere appalti; – si sarebbe erroneamente affermato che Guarany fosse a conoscenza della fusione tra i due gruppi, quello di Corso Francia e quello “delle cooperative”; a nessuno dei presunti affiliati sarebbe stato in realtà comunicato il presunto manifesto programmatico della nuova associazione, né di esso sarebbe stato possibile venirne a conoscenza in ragione della consapevolezza dei metodi corruttíví dello stesso Buzzí; – la stessa sentenza avrebbe attestato che il ricorrente non fosse a conoscenza del “libro nero” della contabilità (dichiarazioni di Cerrito e Di Ninno) e che non accedeva alla cassaforte dei contanti.

Dalle intercettazioni risulterebbe, anzi, la disistima di Buzzi nei confronti dell’imputato e come costui non si sarebbe mai avvalso della ipotizzata forza intimidatrice del gruppo criminale.

18.3. Con il quarto motivo si lamenta la violazione di legge ed vizio di motivazione quanto all’applicazione della aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.

18.4. Con il quinto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alle condanne per le turbative di gara di cui ai capi 16 del primo decreto e 16 del secondo decreto.

Quanto alla prima gara, n. 30/2013 di Ama S.p.A. per la raccolta differenziata multimateriale, si rileva la assenza di risposte da parte della Corte di appello alle deduzioni difensive, con particolare riguardo alla prova del dolo; la tesi difensiva è che all’imputato non fossero note altre offerte oltre quella della cooperativa di Buzzi.

Quanto alla gara C.u.p., la sentenza avrebbe erroneamente valorizzato l’affermazione del ricorrente, manifestata nel corso di una riunione in cui si discuteva della partecipazione alla gara in questione, di «seguire la strada dell’opposizione»; si tratterebbe di un’affermazione irrilevante se valutata nel contesto del discorso complessivo.

Sotto altro profilo, la Corte di Appello non avrebbe indicato quale sarebbe stata la condotta in concreto attribuibile all’imputato considerato che questi non conosceva Gramazio e non avrebbe aveva svolto alcun ruolo funzionale alla gara. In definiva, dalla stessa sentenza, emergerebbe solo che il ricorrente avesse predisposto tecnicamente la gara in modo corretto ed espresso semplici opinioni relative ad appoggi politici.

18.5. Con il sesto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorío.

18.6. Con il settimo motivo si rileva la incompatibilità del contestuale ruolo da parte delle cooperative di parti civili e di civilmente obbligati per il pagamento della pena pecuniaria.

19. Cristiano Guarnera, imprenditore edile in rapporti con Buzzi, è stato condannato in primo grado alla pena di anni 4 di reclusione per il reato di cui al capo 1 del primo decreto; la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e riconosciute le attenuanti generiche, ha aumentato la pena ad anni 4 e mesi 8 di reclusione. Guarnera sarebbe stato un imprenditore colluso che avrebbe posto a disposizione dell’associazione le proprie imprese e le proprie attività economiche.

Sono stati articolati due motivi.

19.1. Con il primo motivo deduce il vizio di motivazione quanto alla partecipazione al reato associativo.

La Corte di appello, si assume, avrebbe utilizzato apoditticamente elementi probatori non significativi e, comunque, travisati: – quanto alla concessione in locazione degli appartamenti di cui il ricorrente aveva la disponibilità alla cooperativa Impegno sociale per la gestione della emergenza abitativa, non vi sarebbe stata alcuna “collusione” da parte dell’imputato, che non esitò ad adire il giudice civile a seguito dell’inadempimento della controparte e comunque si tratterebbe dell’unica e lecita iniziativa imprenditoriale posta in essere dal ricorrente nel contesto delle iniziative del Buzzi; – non sarebbe stata valutata la consulenza di parte, che dimostrava la liceità dell’operazione di locazione degli immobili e le ragioni della difficoltà a venderli; – Carminati non si sarebbe affatto intromesso nei rapporti sorti da tali contratti.

19.2. Con il secondo motivo deduce il vizio di motivazione per violazione dell’art. 192 cod. proc. pen.

Non sarebbe stato individuato alcun contributo del ricorrente ai fatti per cui è processo, essendo in realtà emerso, dalle testimonianze della p.g. e dalle intercettazioni, che l’assunzione da parte dell’imputato di Calvio come autista e guardia del corpo fu dovuta a ragioni personali, costituite dal timore di aggressioni per le vicende dei debiti per droga del padre, tossicodipendente; un’assunzione, quindi, scissa dall’attività dell’associazione.

Si evidenzia inoltre come dalla testimonianza dei cap. Mazzoli del R.o.s. risulterebbe escluso che il permesso di costruire per gli immobili di Monteverde fosse stato ottenuto per effetto dell’interessamento di Carminati, al quale non sarebbe comunque derivato nessun vantaggio economico per la vicenda; né si sarebbe tenuto conto del contenuto di alcune testimonianze che avrebbero ribadito la regolarità di tali attività edilizie, smentendone, di conseguenza, ogni valenza probatoria ai fini dell’affiliazione.

Sotto altro profilo, quanto alla vicenda dell’orologio da recuperare da Infantino, valutata ai fini della prova della estorsione nei confronti di quest’ultimo, si sostiene che Infantino diede indebitamente in pegno l’oggetto ad un istituto di credito, dal quale il ricorrente lo recuperò a proprie spese; dunque, sarebbe smentita la valenza accusatoria anche di questo episodio fattuale.

20. Roberto Lacopo è stato condannato in primo grado alla pena di anni 8 di reclusione ed C 5.600 di multa per i reati di cui ai capi 1, 2, 3 e 4 del primo decreto; la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., riconosciute le attenuanti generiche, ha aumentato la pena pecuniaria ad C 6.600 di multa, ferma restante la pena detentiva.

Lacopo, gestore del distributore di carburante sito in Corso Francia “base logistica del sodalizio”, era in rapporti personali con Carminati, Brugia e Calvio.

Quanto al reato associativo, Lacopo si sarebbe occupato dell’attività estorsiva del recupero dei crediti per conto dell’associazione ed avrebbe svolto il ruolo di tramite delle comunicazioni per il sodalizio.

All’imputato sono contestati inoltre tre fatti estorsivi, commessi, il primo, in concorso con Brugia, ai danni di Massimo Perrazza, costretto con violenza a pagare somme di denaro in favore dello stesso Lacopo e di Alessia Marini (capo 2), il secondo, in concorso con Calvio, ai danni di Fausto Refrigeri, costretto a saldare un debito assunto nei confronti dello stesso imputato (capo 3), ed il terzo, in concorso con lo stesso Calvio e con Giovanni Lacopo, ai danni di Riccardo Manattini, costretto a restituire parte di una debito ammontante a 180.000 euro allo stesso Lacopo (capo 4).

20.1. Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla condanna per il capo 1, reato associativo.

La Corte di appello, a fronte di una sentenza di primo grado che aveva ricostruito fatti sulla scorta di un dibattimento particolarmente ampio, avrebbe invece fatto riferimento, in modo peraltro acritico, alle valutazioni compiute dalla Corte di cassazione, in sede di impugnazione delle misure cautelari, su una base fattuale ben diversa da quella poi emersa all’esito del dibattimento.

Nel caso di specie, non trattandosi di derivazioni di mafie tradizionali, sarebbe stata necessaria la prova di atti di violenza ovvero di minaccia che andassero al di là della fisiologica strumentalità per la commissione dei singoli reati, pur realizzati in forma associata.

La riserva di violenza, si assume, potrebbe al più avere rilievo in presenza di un lungo percorso criminale di un sodalizio noto ma non potrebbe essere presunta.

Il gruppo di Corso Francia, si sostiene, sarebbe stato composto solo ed esclusivamente da quattro soggetti dediti alla riscossione di crediti di natura personale di loro stessi e comunque non della associazione; i crediti vantati dai ricorrente, peraltro, sarebbero stati preesistenti alla nascita della ipotizzata associazione mafiosa e nei confronti di conoscenti di vecchia data.

Non vi sarebbe nessuna prova del collegamento tra le attività dei due gruppi e la Corte di appello avrebbe costruito detta relazione solo per la presenza in entrambi di Carminati, elemento, questo, tuttavia insufficiente per trarne le conseguenze cui è giunta la Corte.

Nessun testimone avrebbe fatto riferimento a condizioni di intimidazione, emergendo soltanto una fama locale di Carminati, Calvio e Brugia.

Nell’ambito dello stesso motivo, poi, la difesa contesta anche la mancata rinnovazione della istruttoria dibattimentale quanto alla prova dichiarativa diversamente valutata al fine della riforma in senso peggiorativo della prima decisione.

Gli argomenti sono sostanzialmente quelli posti a fondamento delle difese di Buzzi e Carminati.

20.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione in relazione al capo 4 del primo decreto.

La Corte sarebbe incorsa in un palese travisamento delle prove in quanto la vicenda estorsiva sarebbe in realtà relativa ad un credito vantato dal padre del ricorrente e questi avrebbe svolto solo un ruolo da “paciere” nello stretto interesse della persona offesa rispetto alle condotte di terzi interessati al recupero del credito con modalità estorsive.

20.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione per la applicazione della aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen.

Secondo il ricorrente, i crediti posti in riscossione sarebbero stati di natura personale e, quindi, non finalizzati alla agevolazione di una associazione mafiosa, né sarebbe stato impiego di “metodo mafioso”.

20.4. Con il quarto motivo si lamenta violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla revoca dell’ordinanza di ammissione del teste Perazza ed alla mancata rinnovazione della istruttoria dibattimentale con la sua audizione; la Corte avrebbe errato nel ritenere provato il essere stato ritenuto il fatto senza assumere tale fondamentale testimonianza.

20.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al capo 3.

La sentenza sarebbe viziata nella parte in cui si è ritenuta raggiunta la prova del concorso dell’imputato nell’attività di Calvio; il fatto, consistente nel recupero di un proprio legittimo credito, sarebbe qualificabile giuridicamente come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

21. Guido Magrini, direttore del dipartimento politiche sociali della Regione Lazio, è stato condannato in primo grado alla pena di anni 5 di reclusione per il reato di cui al capo 9 del secondo decreto; la Corte di Appello, riconosciute le attenuanti generiche, ha ridotto la pena ad anni 3 di reclusione.

I fatti contestati all’imputato sono quelli descritti per la posizione dell’imputato Bolla. Sono stati articolati cinque motivi.

21.1. Con il primo si lamenta la nullità della sentenza di primo grado e di quella d’appello in relazione alla ordinanza emessa il 24/11/2015 con cui era stata rigettata la richiesta di rimessione in termini per l’esercizio del diritto di difendersi, previo rilascio di un supporto informatico contenente le conversazioni intercettate e non depositate in fase cautelare.

Si assume che l’imputato, destinatario del decreto di giudizio immediato custodiale, per esercitare le proprie facoltà difensive aveva diritto di ascoltare, esaminare ed estrarre copia di tutti gli atti del fascicolo del P.M. (artt. 458 cod. proc. pen. – 139 disp att. cod. proc. pen.).

Nel caso di specie, al momento in cui fu eseguita la notifica del decreto del giudizio immediato, non era stata effettuata nessuna perizia avente ad oggetto le trascrizioni delle conversazioni intercettate e nel corso del processo sarebbe stato garantito il solo diritto di ascolto – non anche quello di estrarre copia – ai soli difensori e non anche agli imputati.

La Corte di appello, si aggiunge, avrebbe erroneamente ritenuto sanata l’eventuale nullità sul presupposto che il contenuto di gran parte alle 63 conversazioni fosse stato trasfuso già nel titolo cautelare applicato all’imputato e che, comunque, quelle utilizzate fossero state selezionate in dibattimento, nel contraddittorio delle parti.

Secondo il ricorrente, nella specie si dovrebbe invece fare riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 336 del 2018, secondo cui il diritto all’acceso ai files implicherebbe necessariamente quello alla copia e tale diritto si conformerebbe alla fase del procedimento in cui è esercitato, nel senso che, in fase cautelare, il diritto sarebbe commisurato alle intercettazioni poste a fondamento del titolo, mentre, in quella del giudizio, sarebbe esteso a tutti gli atti di indagine; si aggiunge che il diniego del diritto al rilascio delle copie realizzerebbe una nullità a regime intermedio.

21.2. Con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza di primo grado e di quella impugnata per violazione del principio di correlazione tra accusa e difesa.

A Magrini, si sostiene, sarebbe stato contestato di avere agito di concerto con Daniele Ozzimo e con Buzzi ed il contributo concorsuale sarebbe consistito nella adozione della determinazione dirigenziale n. G05811, con cui fu destinata a Roma Capitale la somma di euro 7,1 milioni per la realizzazione di interventi di contrasto al disagio abitativo.

L’attività difensiva, nel corso del giudizio di primo grado, sarebbe stata dunque svolta in riferimento a detta contestazione e non invece alla deliberazione di giunta regionale del 17.11.2013, non richiamata nella imputazione ed invece valorizzata in senso accusatorio. L’imputato, in definitiva, sarebbe stato condannato non per la propria determina dirigenziale ma per concorso morale negli atti emanati da Ozzimo.

La Corte di appello avrebbe in qualche modo recepito l’assunto difensivo ma, piuttosto che dichiarare la nullità della sentenza, avrebbe proceduto a riscrivere la motivazione, facendo riferimento a condotte non indicate nella imputazione (ad esempio, “spingere” su Venafro per l’approvazione della delibera dì giunta, determinare l’inserimento nel bilancio 2013 di Roma capitale dei fondi destinati a tale ente e che poi avrebbero consentito a Buzzi di utilizzare quelle somme per il rinnovo delle convenzioni nel 2014 alle stesse condizioni).

21.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità.

La sentenza avrebbe utilizzato solo le conversazioni intercettate, senza tenere conto delle testimonianze rese in dibattimento dall’assessore regionale Rita Visini, dai dirigenti Paola Falconi e Marco Marafini, dal dirigente Aldo Barletta e dei documenti prodotti dalla difesa: i fondi regionali, si evidenzia, non sarebbero stati immediatamente accessibili da parte di Buzzi, in quanto i Comuni avrebbero dovuto prima adottare un piano di intervento per il sostegno abitaivo ed il finanziamento non poteva essere erogato prima della approvazione da parte della Regione di detto piano; il finanziamento fu erogato solo nel febbraio del 2015, dopo gli arresti degli imputati, per l’istituzione del c.d. servizio SAAT.

Dunque, la Corte avrebbe errato nel ritenere che Magrini si sarebbe adoperato per fare emanare l’atto entro il 20.12.2013 e nell’affermare che il finanziamento fosse destinato sin dall’origine a Buzzí.

Ciò era peraltro noto anche a Nacamulli il quale, nel corso di una conversazione intercettata il 3.3.2014, informò Buzzi. In tale contesto, anche l’incontro in cui sarebbe stato siglato l’accordo corruttivo non assumerebbe decisiva valenza perché privo di riscontro e perché ignoto nel contenuto.

21.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge quanto alla qualificazione dei fatti; le condotte ascritte a Magrinì non sarebbero funzionalmente legate al compimento di un atto di ufficio ma a comportamenti materiali, quali quello di “spingere” su Venafro ed interessarsi per una sollecita approvazione della delibera regionale; la stessa Corte di appello avrebbe affermato che né la determina dirigenziale, né la delibera della Giunta Regionale sarebbero state di per sé illecite: dunque, í fatti dovrebbero essere ricondotti alla fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen.

21.5. Con il quinto motivo si lamenta la nullità della sentenza quanto alla condanna al risarcimento del danno nei riguardi della parti civili (indicate nel ricorso) per violazione dell’art. 74 cod. proc. pen.; si assume che in nessuna delle costituzioni di parte civile dei soggetti in questione vi sarebbe la prospettazione di un danno di diretta conseguenza della condotta di Magrini e “diverso” rispetto a quello per il quale hanno agito in giudizio Roma Capitale e la Regione Lazio, ottenendo la condanna dell’imputato.

A Magrini, si aggiunge, non sono contestati né il reato associativo, né la circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, né i reati di estorsione e di usura o di turbativa d’asta e dunque le costituzioni di parte civile di associazioni antimafia, antíusura e antíracket, che pure hanno spiegato domanda risarcitoria anche per il capo sub 9), non sarebbero ammissibili.

Si sostiene:

– quanto all’associazione Antimafia Antiracket Paolo Borsellino, che la domanda risarcitoria sarebbe del tutto avulsa dal reato di corruzione contestato all’imputato;

– quanto alla parte civile Amministratori giudiziari delle cooperative riconducibili a Buzzi, che dette amministrazioni avrebbero assunto nel processo la qualifica di civilmente obbligati per la pena pecuniaria e dunque non avrebbero potuto costituirsi parte civile, tenuto conto, peraltro, che a Magrini è contestato il solo capo 9), in relazione al quale sarebbe coinvolta unicamente la Eriches 29; né sarebbe enunciato nell’atto di costituzione il pregiudizio diretto ed immediato “che avrebbe conseguito tale Consorzio”;

– quanto all’Associazione Nazionale Vittime dell’Usura, estorsione e racket, che non vi sarebbe aderenza dei fini statutari dell’associazione in questione rispetto ai fatti contestati all’imputato;

– quanto al Centro di iniziativa per la legalità democratica, che l’atto di costituzione sarebbe generico;

– quanto alla costituzione di Cittadinanza attiva – ente che opera per la promozione e la tutela dei diritti dei cittadini e dei consumatori in Italia – che, per quel che concerne la prima categoria di diritti, detta costituzione sarebbe assorbita da quella degli enti territoriali, e, quanto ai consumatori, che non vi sarebbe nessun attinenza con i fatti di cui al capo 9).

22. Michele Nacamulli è stato condannato in primo grado alla pena di anni 5 di reclusione per i reati di cui capi 9, 10 e 11 del secondo decreto; la Corte di Appello, riconosciute le attenuanti generiche, ha ridotto la pena ad anni 3 e mesi 11 di reclusione.

Quanto al capo 9), si è già detto in relazione alle posizioni di Magrini e di Bolla. Con il capo 10), all’imputato è contestato di avere, in concorso con altri, mediante collusioni, consistite in accordi preventivi volti ad eliminare ogni forma di competizione, turbato il regolare svolgimento della procedura negoziata indetta da Roma Capitale – dipartimento politiche abitative – per l’accoglienza di 580 persone dal 1.9.2014 al 31.12.2014, dell’importo di base d’asta di 1,6 circa milioni di euro.

Con il capo 11), è contestato di avere, in concorso con altri, mediante collusioni, consistite in accordi preventivi volti ad eliminare ogni forma di competizione, turbato il regolare svolgimento della procedura negoziata indetta da Roma Capitale- dipartimento politiche abitative- aggiudicata alla Eriches per l’importo di circa 1,5 milioni di euro riguardante l’assegnazione dei servizi presso i residence di Valcannuta e Montecarotto.

I reati sarebbero stati aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1 cod. pen.

Sono stati articolati sette motivi.

22.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla mancata rinnovazione, ai sensi dell’art. 603, comma 3 bis, cod. proc. pen., delle prove dichiarative decisive, che, si assume, sarebbe stata doverosa a seguito dell’appello del Pubblico ministero e della riqualificazione del reato associativo riconosciuto dal Tribunale in quello previsto dall’art. 416 bis cod. pen. nonché della ritenuta esistenza della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991.

22.2. Con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione di legge derivante dall’ erronea applicazione dell’art. 319 cod. pen. derivante dalla errata qualificazione giuridica dei fatti contestati al capo 9).

L’atto contrario ai doveri di ufficio sarebbe costituito nella specie dai provvedimenti di proroga e di non interruzione dei servizi forniti dalla Eriches alle condizioni precedenti; detti provvedimenti, tuttavia, consisterebbero in determine dirigenziali non solo adottate da un diverso pubblico ufficiale, la cui correttezza non sarebbe mai stata messa in discussione dai giudici di merito, ma rispetto al quale gli imputati Magrini ed Ozzimo non avrebbero avuto alcun potere. Dunque, un atto non illegittimo e non di competenza dei pubblici ufficiali imputati.

22.3. Con il terzo ed il quinto motivo si lamenta la nullità della sentenza quanto alla ritenuta compartecipazione dell’imputato alla fattispecie corruttiva contestata; Nacamulli, assunto nella cooperativa Eriches nel gennaio del 2014, era incaricato di occuparsi delle direttive di Bolla Claudio, quanto al settore della emergenza abitativa. La condotta dell’imputato sarebbe stata compiuta, a voler ragionare con la sentenza, dopo la consumazione della ipotizzata corruzione, avvenuta nel dicembre del 2013, e pertanto non sarebbe configurabile una responsabilità concorsuale.

22.4. Con il quarto motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione di legge e vizio dì motivazione quanto alla ritenuta sussistenza del fatto corruttivo; la Corte non avrebbe fornito risposte ai motivi di appello relativi alla ricostruzione fattuale, sia in relazione alla vicenda amministrativa del finanziamento regionale, che al prosieguo della stessa sul fronte comunale.

22. 5. Con il sesto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione per il giudizio di penale responsabilità per i reati di cui ai capi 10) e 11). 22.6. Con il settimo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta esistenza della circostanza aggravante prevista dell’art. 7 d. I. n. 152 del 1991.

23. Franco Panzironi è stato condannato in primo grado alla pena di anni 10 di reclusione per i reati di cui ai capi 1, 11 e 12 del primo decreto; la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416-bis cod.pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., ritenuta la condotta di Panzironi integrare il concorso ex art. 110 cod. pen. nel reato di associazione mafiosa, ha ridotto la pena ad anni 8 e mesi 7 di reclusione.

Panzironi era stato amministratore delegato di A.m.a. S.p.A. dal 2008 al maggio 2011 e, successivamente, consulente politico del sindaco Alemanno nonché titolare di un incarico direttivo in una società partecipata da A.m.a. S.p.A.

Quanto al reato associativo, Panzironi, pubblico ufficiale “a libro paga”, avrebbe contribuito alla realizzazione delle finalità associative per l’aggiudicazione degli appalti pubblici, per lo sblocco di pagamenti in favore delle imprese riconducibili al sodalizio e sarebbe stato il garante dei rapporti del gruppo con l’amministrazione comunale per gli anni 2008/2013.

In tale contesto, Panzironi, in concorso con Buzzi, nella qualità di funzionario di fatto dell’AMA s.p.a., avrebbe turbato, in accordo con Giovanni Fiscon, presidente dell’AMA, due gare pubbliche (capi 12- 13).

I difensori dell’imputato hanno presentato due ricorsi nel suo interesse.

23.1. Ricorso dell’avvocato Grazia Volo.

23.1.1. Con primo motivo si deduce vizio di motivazione; la Corte di appello avrebbe violato l’obbligo di “motivazione rafforzata” nel riformare la sentenza di primo grado in punto di sussistenza del diverso reato di associazione mafiosa.

23.1.2. Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione circa la «valutazione meramente sommatoria degli indizi di reità»; la sentenza impugnata, pur a fronte della argomentata decisione di primo grado, si sarebbe limitata spesso alla mera elencazione di elementi indiziari.

23.1.3. Con il terzo motivo si deduce il vizio di motivazione quanto al valore attribuito al “giudicato cautelare”. Si assume che il giudice di appello si sarebbe acriticamente adeguato alla decisione della Corte di cassazione emessa in fase cautelare, limitandosi alla mera condivisione delle conclusioni, in tal modo condannando il ricorrente per concorso esterno nel reato di associazione mafiosa senza alcuna motivazione riferita alla sua posizione.

23.1.4. Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione e violazione di legge quanto alla affermazione di sussistenza del concorso esterno in associazione mafiosa.

Si afferma che:

– pur utilizzando i contenuti della decisione della Corte di cassazione in fase cautelare, la sentenza di appello avrebbe attribuito all’imputato un ruolo di concorrente esterno, pur in assenza di elementi indicativi del fatto che Panzironí frequentasse altri associati oltre Buzzi; vi sarebbe un grave vizio motivazionale, non essendovi nessuna dimostrazione probatoria né della consapevolezza da parte del ricorrente della esistenza della associazione favorita, né dei rapporti tra Buzzi e Carminati;

– la consapevolezza del metodo corruttivo di Buzzi non potrebbe essere ritenuta rivelatrice della consapevolezza del vincolo associativo mafioso, non potendo essere equiparato il rapporto con Buzzi con il rapporto con la intera associazione.

23.1.5. Con il quinto motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge quanto alla sussistenza dell’associazione mafiosa.

Non vi sarebbe corrispondenza tra il fatto accertato ed il paradigma della associazione mafiosa come definita dalla giurisprudenza di legittimità, atteso che il metodo mafioso non potrebbe essere dedotto presuntivamente dalla mera capacità intimidatoria di uno solo dei componenti.

La Corte di appello avrebbe fatto chiaro riferimento non al metodo mafioso derivante dal vincolo associativo, quanto, piuttosto, al “metodo personale” di Carminati.

Si aggiunge che non sarebbe sufficiente, ai fini della configurazione del reato di associazione di stampo mafioso, il perseguimento da parte del gruppo delle finalità indicate dall’art. 416 bis cod. pen., se poi dette finalità fossero perseguite senza il ricorso al metodo mafioso.

L’unico episodio di intimidazione di cui vi è prova riguarderebbe la vicenda Metroservice, per la quale avrebbe operato il solo Carminati in modo estemporaneo e personale.

Anche la ricostruzione temporale operata dalla Corte, relativa alla presunta fusione dei due gruppi, di Carminati e di Buzzi, per il tramite di Mancini, riportata al 2011, sarebbe errata. Se il ruolo di Carminati fosse stato, come sostenuto dalla Corte, di consentire il collegamento con gli ambienti politici di destra, divenuti vincenti nella gestione comunale, la ragione dell’incremento del fatturato delle cooperative in quel periodo avrebbe dovuto essere riportata a tali relazioni e non alla presunta forza di intimidazione apportata dallo stesso Carminati.

La sentenza di appello, nel fare riferimento alla manifestazione della capacità di intimidazione, non avrebbe considerato che la sistematica corruzione per i concorrenti interessi delle due parti non può ritenersi un esercizio di forza di intimidazione.

23.2. Ricorso dell’avvocato Pasquale Bartolo.

23.2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dì legge ed il vizio di motivazione, per essere stata erroneamente attribuita all’imputato la qualifica di pubblico ufficiale. I fatti relativi allo sblocco di crediti Ama sarebbero temporalmente successivi al dicembre 2011, dunque successivi anche alla data – agosto 2011 – in cui il ricorrente cessò di ricoprire la carica di amministratore delegato dell’AMA; non diversamente, la vicenda dei crediti Eur avrebbe avuto inizio nel gennaio del 2013 e la gara 18/11 fu indetta nel novembre 2011 ed aggiudicata nel dicembre 2012.

La giurisprudenza di legittimità, secondo il ricorrente, avrebbe ampliato la nozione di atto dell’ufficio ma non anche quella di pubblico ufficiale; rispetto ai fatti di causa avrebbe decisiva valenza la circostanza che Panzironi, dall’agosto 2011, non avesse più alcun titolo. In assenza della qualifica di pubblico ufficiale, i fatti avrebbero potuto essere ricondotti al più al reato di traffico di influenze illecite. Lo stesso amministratore delegato dal settembre 2012, Anelli, avrebbe chiarito di non aver mai avuto disposizioni da Panzironi.

23.2.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 2, 81, 318 e 319 cod. pen. nonché 192, 521 e 533 cod. proc. pen., 111 Cost, e 6 Convenzione E.D.U.

Dopo avere argomentato sulla erroneità della sentenza, si deduce:

– la violazione del principio di necessaria rinnovazione della prova orale, diversamente valutata in sede di riforma peggiorativa; – l’omessa applicazione della norma più favorevole, in relazione alle modifiche apportate dalla legge n. 190 del 2012, con riferimento ai fatti relativi allo sblocco di crediti Ama, essendo stati erroneamente qualificati tutti i reati come manifestazione di un’unica condotta; (qui obiettivamente non so cosa voglia dire Pierluigi; ho provato a modificare ma non sono certo di avere ben compreso; avrei bisogno del ricorso);

– che la Corte non avrebbe considerato come tutte le attività contestate all’imputato sarebbero state commesse dopo la cessazione di ogni suo ruolo in A.m.a.;

– che le determinanti dichiarazioni di Buzzi non sarebbero state valutate secondo i criteri previsti dall’articolo 192 cod. proc. pen.

23.2.3. Con il terzo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge per la vicenda dello sblocco dei crediti di Buzzi verso A.m.a. s.p.a. La sentenza di primo grado aveva ritenuto che l’interessamento per í crediti per il 2013 era stata condotta tenuta dal Panzironi nel ruolo di collaboratore del sindaco.

La sentenza di secondo grado ha, invece, ritenuto che in relazione a questo ruolo il ricorrente non avesse la qualità di pubblico ufficiale. Quindi, Panzironí andava assolto o, comunque, essendo stato affermato un suo diverso ruolo ai fini della responsabilità, vi è stata una riforma in peius in parte qua.

23.2.4. Con il quarto, il quinto ed il settimo motivo di ricorso si deducono ulteriori profili di violazione dì legge e vizio di motivazione in riferimento allo sblocco dei pagamenti verso Eur S.p.A. ed alla gara 18/2011 Ama.

23.2.5 Con il sesto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione per non avere la Corte ricondotto i fatti di cui al capo 11 al reato di traffico di influenze, attesa l’assenza della qualifica pubblica dell’imputato.

23.2.6. Con l’ottavo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per non essere stati dichiarati inammissibili gli appelli dei PPMM; la Corte di appello non avrebbe fornito adeguata risposta sul punto.

23.2.7. Con il nono motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione per essere stata fatta una applicazione analogica dell’art. 416 bis cod. pen. Sarebbe stata ipotizzata la sussistenza di una associazione mafiosa senza tuttavia considerare che anche una “nuova” associazione mafiosa necessiterebbe di acquisire un proprio prestigio criminale e di assumere i tratti tipici di quel tipo di organizzazione, non potendo essere fondata sulla sola forza criminale di uno dei suoi aderenti.

Nel caso di specie, la Corte avrebbe fatto riferimento al solo “peso criminale” di Carminati per affermare l’esistenza della “banda” mafiosa. Anche in riferimento alla vicenda del distributore di Corso Francia, le prove valorizzate sarebbero riferibili non alla caratteristica del gruppo criminale locale ma al timore manifestato nei confronti del solo Carminati. Rileva inoltre il ricorrente che nella specie sarebbero mancanti anche le altre condizioni fondanti il reato di associazione mafiosa.

23.2.8. Con il decimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione nella applicazione delle disposizioni in tema di concorso esterno ad associazione di tipo mafioso Richiamati i principi in tema di “concorso esterno”, si evidenzia innanzitutto come la sentenza sarebbe fondata su dati temporali sbagliati, atteso che al momento in cui Buzzi fu “introdotto” presso Panzironi, questi aveva già cessato l’attività presso l’A.m.a. S.p.A; lo stesso Carminatí non avrebbe avuto alcun ruolo nel recupero dei crediti A.m.a.

Né, si aggiunge, il ricorrente avrebbe percepito in relazione ad un’associazione – ritenuta dalla stessa Corte di appello come nuova, piccola ed operante in ambito limitato- il fatto che questa si avvalesse della forza intimidatrice derivante dal vincolo. Non vi sarebbe nessuna prova che Panzironi fosse a conoscenza delle modalità con cui operava la associazione.

Secondo il ricorrente, inoltre, la sentenza sarebbe fondata solo su congetture e farebbe riferimento anche a circostanze e fatti per cui (gara raccolta delle foglie, nomina di Fiscon) Panzironi sarebbe stato assolto in primo grado e sui quali non vi sarebbe stata impugnazione. Anche gli elementi utilizzati dalla Corte di cassazione in fase cautelare per dimostrare l’infiltrazione della organizzazione nella Amministrazione sarebbero derivanti da vicende per le quali Panzironi è stato ritenuto estraneo.

La condanna per concorso esterno anziché per affiliazione diretta, peraltro, avrebbe mutato strutturalmente la contestazione. Panzironi non avrebbe mai partecipato ad alcuno degli incontri nei luoghi indicati come topici per la associazione (Corso Francia, via Pomona etc.), né per lui ricorrerebbero altre circostanze ritenute significative, quali l’uso dei sistemi antintercettazione.

23.2.9. Con l’undicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in riferimento all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. La prova del reato associativo sarebbe stata fatta discendere dall prova dei reati fine, utilizzando indebitamente le dichiarazioni di Buzzi pur se prive di riscontri.

23.2.10 Con il dodicesimo motivo si deduce il vizio di motivazione ed il vizio di cui alla lett. d. art. 606 cod. proc. pen.; non sarebbero state acquisite prove decisive indicate dalla difesa di Panzironi in riferimento ai capi 11 e 12 del primo decreto.

23.2.11. Con il tredicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al diniego di rinnovazione della istruttoria dibattimentale, necessaria per la modifica in peius della decisione, in accoglimento degli appelli delle Procure; in tal senso si svolgono argomenti sovrapponibili a quelli sviluppati sullo stesso tema da Buzzi e Carminati.

23.2.12. Con il quattordicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla confisca per equivalente della somma di euro 298.500.

23.2.13. Con il quindicesimo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al diniego delle attenuanti generiche, all’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, alla continuazione, alle statuizioni civili, al diniego della attenuante di cui all’articolo 323 bis, comma secondo, cod. proc. pen. Quando alle statuizioni civili, in particolare, rileva il ricorrente che la condanna risarcitoria sarebbe stata erroneamente disposta anche nei confronti di un’associazione a tutela delle attività di estorsione ed usura, cioè in relazione a reati non contestati all’imputato.

23.2.14. Con il sedicesimo motivo si deduce la nullità della sentenza per mancata enunciazione in forma chiara e precisa del fatto contestato al capo 11 della imputazione; non sarebbe stata data risposta ai motivi specifici sul punto.

23.2.15. La difesa ha depositato motivi aggiunti con i quali rileva, in particolare, che:

– non sarebbe stato individuato un accordo sui fatti corruttivi tale da far ritenere condivisi gli interessi economici della associazione;

– anche i dialoghi in cui Buzzi e Carminati farebbero riferimento a Panzironi sarebbero limitati alla sola vicenda dei crediti Eur S.p.A.;

– che non vi sarebbero prove dimostrative del fatto che Panzironi avesse conosciuto Buzzi al di fuori del suo ruolo di capo delle cooperative sociali “di sinistra”;

– la Corte di cassazione in fase cautelare aveva ritenuto che il coinvolgimento di Panzironi “passasse” della sua militanza politica nella destra sociale ed eversiva; tale circostanza sarebbe stata smentita dall’istruttoria dibattimentale perché riferibile solo al Carminati, con il quale il ricorrente non aveva rapporti;

– sarebbe del tutto inconsistente l’affermazione secondo la quale il semplice dato temporale collegherebbe il rapporto tra Panzironi e Buzzi all’inizio del rapporto tra quest’ultimo e Carminati.

24. Pierpaolo Pedetti è stato condannato in primo grado alla pena di anni 7 di reclusione per i reati di cui capi 9, 10 e 15 del secondo decreto; la Corte di Appello, riconosciute le attenuanti generiche, ha ridotto la pena ad anni 3 e mesi 2 di reclusione. Quanto ai capi 9) – 10), i fatti sono quelli già descritti per i coimputati Magrini, Bolla, Nacamulli. Quanto al capo 15), è contestato un fatto di istigazione alla corruzione propria.

Pedetti avrebbe chiesto a Buzzi di acquistare un appartamento intestato ad una società a lui riconducibile, in cambio del compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio, consistenti nel promuovere in assemblea capitolina, anche medianti emendamenti, deliberazioni intese a garantire consistenti sconti e legittimazioni all’acquisto alle Onlus – tra cui rientravano le cooperative dello stresso Buzzi- in sede di dismissione del patrimonio immobiliare del comune di Roma.

Sono stati articolati tre motivi.

24.1. Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, quanto al giudizio di penale responsabilità quanto al capo 9. Ricostruito il quadro di riferimento che, da una parte, aveva portato Buzzi ad interessarsi della cooperativa Locomotive San Lorenzo e, dall’altra, la impossibilità per lo stesso Buzzi di accedere immediatamente ai finanziamenti regionali, sono sviluppati alcuni argomenti per escludere il concorso del ricorrente all’accordo corruttivo; la decisione di prorogare le convenzioni CAAT, auspicata da Buzzi, sarebbe stata adottata da Ozzimo, secondo l’accordo corruttivo già vigente, sul quale né Magrini, né Pedetti avrebbero avuto incidenza.

Pedetti, si aggiunge, aveva avuto notizia dell’accordo tra Buzzi e Santino Dei Giudici, rappresentante della cooperativa Deposito Locomotive, nonché dell’accordo tra Buzzi, Ozzimo e Magrini, ma la sentenza sarebbe viziata per non avere la Corte spiegato quale sarebbe stata l’attività contraria ai doveri di ufficio che Pedetti, consigliere comunale, avrebbe compiuto per garantire a Buzzi il mantenimento delle stesse condizioni economiche in precedenza riconosciute alle sue cooperative e quale il contributo concorsuale.

L’intervento del ricorrente sarebbe al più consistito in una sollecitazione rivolta ad Ozzimo che tuttavia, non aveva bisogno di tale sollecitazione in ragione dell’accertato e pregresso accordo con Buzzi; né, si aggiunge, Pedetti avrebbe ricevuto una utilità derivante dalla ipotizzata corruzione relativa al salvataggio della cooperativa Deposito Locomotiva da parte di Buzzi, se non quella derivante dal rapporto di appartenenza politica della Cooperativa San Lorenza al Partito Democratico, di cui l’imputato era un esponente locale.

24.2. Con il secondo motivo, si lamenta violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla turbativa d’asta contestata al capo 10). Sostiene l’imputato di essersi limitato a “mediare” tra Buzzi ed il proprietario del complesso immobiliare di via Fioranello, Fabrizio Amore – altro coimputato nei cui confronti si è proceduto separatamente – per assicurare a questi il patto relativo alla gara a cui lo stesso Amore era interessato che, tuttavia, riguardava i servizi relativi al residence di Fioranello; dunque, un’attività finalizzata non alla gara per l’assegnazione dei 580 posti oggetto della imputazione in esame, che ineriva a servizi da assicurare presso altri immobili (residence di Valcannuta e Montecarotto).

L’imputato sarebbe stato condannato per una condotta di turbativa riferibile ad una gara diversa da quella contestata. In ogni caso, si aggiunge, l’ipotizzata condotta del ricorrente si sarebbe esaurita prima del 29 luglio 2014, quando fu emanata la delibera di indizione della gara; dunque, il reato contestato non sarebbe giuridicamente configurabile.

La sentenza impugnata non sarebbe condivisibile nemmeno nella parte in cui ha escluso la riqualificazione della condotta in termini di astensione dagli incanti, di cui all’art. 354 cod. pen.

24.3. Con il terzo motivo, Pedetti lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità penale per il capo di imputazione contestato al capo 15) del secondo decreto.

La contestazione, si sostiene, sarebbe collegata a quella di cui al capo 14), avente ad oggetto la condotta agevolatrice prestata da Brigidina Paone, collaboratrice di Ozzimo e non di Pedetti, per consentire l’applicazione alle cooperative di Buzzi di una scontistica vantaggiosa sia per il canone di locazione, che per il prezzo di acquisto di immobili di proprietà del comune di Roma; la Paone, si assume, si sarebbe adoperata a fare “da tramite” tra Alessandra Garrone e Mirella di Giovine- capo del dipartimento patrimonio sviluppo e valorizzazione dell’assessorato di Luigi Nieri- per “scrivere gli emendamenti al meglio”. Secondo il ricorrente, la Corte avrebbe non adeguatamente considerato l’opera dell’assessore al patrimonio Luigi Nieri (si richiama una conversazione intercettata) e della stessa Di Giovine che sarebbero stati gli artefici degli emendamenti alla proposta di dismissione di parte del patrimonio immobiliare e per i quali era stata proposta una percentuale di sconto maggiore; il contributo offerto da Pedetti sarebbe stato irrilevante avendo l’organo collegiale (cioè la commissione VII presieduta dallo stesso Pedetti) adottato all’unanimità gli emendamenti proposti da Nieri.

Quanto alla utilità che Pedetti avrebbe chiesto di conseguire (l’acquisto di due immobili da parte di Buzzì dalla società “Segni di qualità”), il rapporto precontrattuale si sarebbe svolto direttamente tra Buzzi e Carlini, soggetto indagato la cui posizione é stata successivamente archiviata; Pedetti, al più, avrebbe solo anticipato l’offerta di acquisto dei due appartamenti a Buzzi ma poi sarebbe rimasto estraneo allo sviluppo della trattativa, portata avanti solo da Carlini, le cui insistenze avevano peraltro portato Buzzi a reagire ed a rivolersi al referente politico dello stesso Carlini e non certo a Pedetti.

Sotto ulteriore profilo, la sentenza avrebbe fatto cattiva applicazione del principio, rilevante anche in tema di istigazione alla corruzione, secondo cui il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio deve essere la causa della utilità; sul punto, la motivazione sarebbe del tutto lacunosa, né sarebbe stato chiarito quale sarebbe stata in concreto l’offerta di acquisto dei due appartamenti fatta da Carlini.

La Corte avrebbe in maniera illogica condannato Pedetti, pur dando atto che:

a) la trattativa fu condotta da Carlini;

b) l’approvazione degli emendamenti in commissione fu il risultato di un procedimento gestito da Nieri e Di Giovine;

c) nulla sarebbe emerso sul contenuto della offerta di acquisto dei due appartamenti e sulla percezione di una illecita utilità in favore del venditore.

25. Placidi Marco hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di Marco Placidi, condannato per il reato di corruzione propria contestato al capo 19) del primo decreto che dispone il giudizio.

L’imputato, nella qualità di responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune di S. Oreste e di responsabile del procedimento, avrebbe esercitato le proprie funzioni in violazione dei doveri di imparzialità, favorendo la cooperative riconducibili a Buzzi, turbando la gara per l’affidamento dell’appalto dei servizi di igiene urbana e fornitura di attrezzature e materiale d’uso per la raccolta indifferenziata: Placidi, in concorso con altri, fra i quali Sergio Menichelli, sindaco di Sant’Oreste, si sarebbe accordato con Buzzi prima dell’aggiudicazione, consentendogli di sostituire le offerte originariamente presentate con altre appositamente predisposte; in cambio della sua condotta avrebbe ricevuto la somma di almeno 10.000 euro.

Sono stati articolati due motivi.

25.1. Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazio ne, quanto al giudizio di penale responsabilità: – erroneamente sarebbero state valutate le dichiarazioni dì Buzzi, senza apprezzarne la credibilità e l’attendibilità intrinseca del dichiarato, e senza considerare le imprecisioni delle sue accuse; – non diversamente, sarebbero state erroneamente valutate le conversazioni intercettate; essendo Buzzi a conoscenza delle operazioni di ascolto, sarebbero stati necessari riscontri confermativi; – il libro contabile della Cerritto, da cui risultavano i versamenti da parte di Buzzi di denaro per corruzione, non avrebbe avuto riferimenti all’imputato.

Si assume che la ricostruzione fattuale compiuta da parte dei Giudici di merito sarebbe inattendibile e non avrebbe tenuto conto delle spiegazioni fornite dal ricorrente.

25.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche; la pena inflitta sarebbe molto severa considerato il coinvolgimento dell’imputato in un unico episodio di corruzione, peraltro non aggravato ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991.

26. Carlo Pucci è stato condannato in primo grado alla pena di anni 6 di reclusione per i reati di cui ai capi 1 e 17 del primo decreto; la Corte di Appello, con la riqualificazione del reato associativo ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen., ha aumentato la pena ad anni 7 e mesi 8 di reclusione. Pucci era direttore commerciale di Eur S.p.A. ed in pregressi e risalenti rapporti personali con Carminati.

Quanto al reato associativo, Pucci, pubblico ufficiale, avrebbe fornito una stabile contributo per l’aggiudicazione degli appalti pubblici, per lo sblocco di pagamenti in favore delle imprese riconducibili al sodalizio; in tale contesto avrebbe venduto la propria funzione a Buzzi e Carminati ricevendo denaro (capo 17, riqualificato in corruzione propria dalla Corte).

26.1. Con il primo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in riferimento ai provvedimenti di autorizzazione delle intercettazioni.

Si ribadisce la questione, già tempestivamente proposta in fase di merito, relativa alla utilizzazione di informazioni confidenziali per autorizzare le intercettazioni di cui al decreto del 7 ottobre 2011; deduce, quindi, il ricorrente la inutilizzabilità delle intercettazioni di cui al detto decreto e di quelle autorizzate con i decreti a quello conseguenti, per violazione dell’art. 203 cod. proc. pen.

Si contesta inoltre l’argomento recepito dai Giudici, secondo cui sarebbero stati gli esiti delle intercettazioni ad integrare gli elementi per proseguire la captazione; non sarebbe stato valutato inoltre il requisito della necessità del mezzo di ricerca della prova per la prosecuzione delle indagini.

26.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla mancata rinnovazione della istruttoria dibattimentale ai fini della decisione sugli appelli dei PP.MM .

Gli argomenti sono sostanzialmente corrispondenti a quelli sviluppati da Buzzi e Carminati.

26.3. Con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza per contraddittorietà tra motivazione e dispositivo. Nella parte generale dedicata ai reati fine, la Corte avrebbe riqualificato i fatti contestati ex ad 318 cod. pen. nella più grave ipotesi dell’art. 319 cod. pen.

Non avrebbe fatto tuttavia alcun riferimento al capo 17 del primo decreto, per il quale la contestazione formale sarebbe rimasta immutata. La Corte dunque sarebbe in errore quando, nel far riferimento alla condanna di Pucci per corruzione propria, rinvia ad un capo di imputazione mai modificato; un tale errore non sarebbe emendabile e sarebbe causa di nullità della sentenza. La riqualificazione operata violerebbe comunque il principio di correlazione tra contestazione e sentenza, non essendo descritti nel capo di imputazione gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 319 cod. pen.

26.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al reato di associazione mafiosa e all’aggravante della finalità mafiosa. Non è stata rispettato l’obbligo di “motivazione rafforzata”, essendosi la Corte di appello sostanzialmente limitata alla mera accettazione dei motivi di appello del pubblico ministero ed a trascrivere stralci della sentenza della Corte di cassazione emessa in fase cautelare.

26.5. Con il quinto motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta unicità delle associazioni qualificate quale associazione mafiosa. La Corte non avrebbe confutato gli argomenti sulla cui base la decisione di primo grado aveva ritenuto la esistenza di due diverse associazioni.

26.6. Con il sesto motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine all’applicazione dell’articolo 416 bis cod. pen. Sarebbe stata erroneamente ritenuta la sussistenza dell’ associazione mafiosa sulla scorta del rinvio alla decisione in fase cautelare, senza tuttavia valutare la diversa ricostruzione dei fatti compiuta dal Tribunale.

In tal senso si svolgono argomenti comuni ad altri ricorrenti sulla stessa questione, rilevando in particolare, per quanto riguarda le vicende direttamente riferibili all’imputato che:

– l’invito al silenzio rispetto alle indagini in corso, che avevano portato all’arresto di Mancini, fa chiaramente riferimento non alla associazione mafiosa ma al coinvolgimento del sindaco Alemanno;

– non avrebbero contenuto intimidatorio le frasi che Carminati riferiva a Pucci affinchè questi le iportasse al Mancini; in tal senso sono indicate le intercettazioni il cui contenuto sarebbe stato palesemente travisato.

26.7. Con il settimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla partecipazione all’associazione. La Corte avrebbe violato l’obbligo di motivazione rafforzata e, comunque, non avrebbe chiarito sulla base di quali elementi sia stata ritenuta raggiunta la prova della partecipazione all’associazione a fronte della presunta commissione di un unico reato fine.

26.8. Con l’ottavo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza per l’imputato della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale; Pucci non sarebbe stato titolare di nessun potere pubblicistico, né avrebbe svolto compiti tali da poterlo considerare incaricato di pubblico servizio.Né, ancora, poteva essergli attribuito il ruolo di funzionario di fatto, non avendo rivestito alcun potere in concreto nella gestione dei pagamenti in favore di Buzzi.

26.9. Con il nono motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla qualificazione giuridica del fatto. Secondo la stessa ricostruzione compiuta dalla Corte, Pucci non avrebbe fatto uso di pubbliche funzioni e sarebbe stato solo un intermediario nei rapporti con Mancini al fine di incidere sulla attività di pubblico ufficiale di questi; assume il ricorrente che, non essendo stato corrisposto a Mancini nessun corrispettivo, la condotta del ricorrente sarebbe riconducibile al reato di traffico di influenze illecite.

26.10. Con il decimo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’applicazione della aggravante di agevolazione del sodalizio mafioso ex art. 416 bis.1 cod. pen.; non vi sarebbe la prova della consapevolezza del contesto mafioso.

26.11. Con l’undicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione per il diniego delle attenuanti generiche.

26.12. Con il dodicesimo motivo di ricorso si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in riferimento alla statuizioni civili con particolare riguardo alla irregolarità della costituzione della società Eur S.p.A. ed alla assenza di prova del danno subito dalla medesima parte civile.

26.13. Con il tredicesimo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla entità della confisca disposta; ritiene che non vi sia riscontro alle intercettazioni in cui Buzzi indicava le cifre corrisposte al ricorrente.

27. Mario Schina è stato condannato in primo grado alla pena di anni 5 e mesi 6 di reclusione per il reato di cui al capo 29 del primo decreto; la Corte di Appello ha ridotto la pena ad anni 4 di reclusione.

I fatti sono quelli già descritti in relazione alla posizione di Coltelacci: Schina, nella qualità di intermediario e collaboratore di Luca Odevaine, quest’ultimo appartenente al tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, avrebbe accettato da Buzzi e Coltellacci una retribuzione di 1.500 euro al mese dal 2011 al 2014 al fine di agevolare le cooperative dello stesso Buzzi nella gestione degli immigrati.

Sono stati articolati nove motivi.

27.1. Con il primo si lamenta violazione dell’art. 429, comma 1, lett. c) cod. proc. pen.

L’imputazione non descriverebbe la condotta attribuita all’imputato, né conterrebbe i riferimenti spazio temporali in cui la stessa sarebbe stata compiuta. A Schina sarebbe stata imputata un’astratta condotta di intermediazione, senza riferimenti ad atti omissivi o commissivi. La contestazione, dunque, sarebbe generica e ciò avrebbe limitato il diritto di difesa; sul punto, la Corte di appello si sarebbe limitata ad affrontare la questione in modo contraddittorio.

27.2. Con il secondo motivo si deduce l’omessa motivazione quanto alla richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale in appello con riguardo alle testimonianze di Ignazio Marino, teste indicato nella liste difensiva e non ammesso, e Walter Veltroni, teste non indicato in lista ma “utilizzato in sede di motivazione” (così il ricorso); si tratta di deposizioni ritenute necessarie per la verifica della veridicità delle affermazioni di Salvatore Buzzi contenute nelle conversazioni intercettate e poste, si assume, da sole a fondamento della penale responsabilità del ricorrente, senza un’adeguata valutazione delle numerose testimonianze a discarico e dei documenti comprovanti: a) l’esistenza di un rapporto di lavoro tra Schina e la Acea e tra Schina e le cooperative; b) la regolarità e la legittimità dei pagamenti ricevuti dall’imputato nel tempo e, dunque, la insussistenza dell’ipotizzato rapporto corruttivo, anche in ragione del ruolo ed della funzione assolta da Odevaine. La Corte non avrebbe motivato sulle deduzioni e sulla violazione del diritto di difesa conseguente alla mancata rinnovazione.

27.3. Con il terzo motivo si lamenta il vizio della sentenza relativo alla qualificazione giuridica dei fatti. Si tratta di un motivo che lo stesso ricorrente afferma non essere stato dedotto in appello ma che sarebbe divenuto rilevante a seguito della motivazione adottata dalla Corte per rigettare i motivi di impugnazione proposti da altri imputati, che avevano sollevato la questione della qualificazione giuridica dei fatti e della loro riconducibilità all’art. 346 bis cod. pen.; secondo il ricorrente, proprio la motivazione adottata per gli altri imputati, avrebbe dovuto condurre la Corte a qualificare diversamente i fatti addebitati a Schina, in ragione del fatto che questi non avrebbe assunto la qualifica di pubblico ufficiale e avrebbe posto in essere una attività di mera intermediazione.

27.4. Con il quarto motivo si lamenta la erronea qualificazione giuridica del fatto- reato contestato a Schina.

Sarebbe stato ampiamente provato che Schina avrebbe iniziato a lavorare, ricevendo una retribuzione, per le cooperative “Promozione” ed “Un sorriso” ad agosto del 2011 e che tale rapporto di lavoro- a carattere occasionale- sarebbe durato fino a marzo 2014; sul punto la sentenza sarebbe silente nonostante la specificità del motivo di appello e la documentazione prodotta.

Schina, pur non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, sarebbe stato condannato per il reato di corruzione propria avendo solo compiuto- al più – una ipotizzata condotta di intermediazione tra Odevaine e Buzzi, che, in realtà, avevano, si assume, un loro consolidato e risalente rapporto personale; alla base del giudizio di colpevolezza vi sarebbero solo le conversazioni intercettate, in cui Buzzi, parlando con terzi, avrebbe fatto riferimento a Schina, peraltro con riguardo ad una cooperativa – “la Cascina”- con la quale Schina non avrebbe avuto nessun rapporto.

Né la sentenza avrebbe indicato quale sarebbe stato l’atto contrario ai doveri di ufficio rispetto al quale Schina avrebbe compiuto una non identificata attività di intermediazione: non sarebbe chiaro, cioè, in cosa sarebbe consistito il contributo concorsuale dell’imputato.

27.5. Con il quinto motivo si lamenta la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. quanto al valutazione del materiale probatorio ed al giudizio di responsabilità penale. La prova della responsabilità penale sarebbe stata fatta discendere dalle conversazioni intercettate che, tuttavia, rispetto a Schina, non conterrebbero elementi indiziari in grado di condurre, ai sensi dell’art. 192 cod. proc. pen., ad un giudizio di responsabilità penale, tenuto conto che le stesse riguarderebbero un soggetto poco attendibile come Buzzi, che, ad esempio, avrebbe genericamente riferito di aver corrisposto denaro ai sindaci Marino e Weltroni, senza tuttavia aggiungere alcunchè sul piano fattuale.

Sul punto, vi è un’articolata ed ampia argomentazione in tema di struttura, valenza e ragionamento probatorio indiziario, che i giudici, nella specie, avrebbero compiuto, secondo il ricorrente, in modo scorretto, non tenendo conto dei numerosi elementi di prova a discarico, che avrebbero dovuto condurre a non attribuire valenza, in termini di gravità e precisione, agli indizi emergenti dalle conversazioni intercettate.

Buzzi, peraltro, avrebbe, da una parte, dichiarato di non aver mai corrisposto denaro a Schina, il cui nome non comparirebbe nel c.d. libro nero delle annotazioni dei pagamenti, e, dall’altra, aggiunto che Schina non sarebbe stato “necessario” rispetto al rapporto corruttivo con Odevaine. Né, nei confronti di Schina, vi sarebbe una prova di per sé decisiva.

27.6. Con il sesto motivo si lamenta la nullità del procedimento e della sentenza per la mancata ammissione dell’imputato al patrocinio a spese dello Stato.

La tesi difensiva è che, a fronte di molteplici istanze di ammissione al gratuito patrocinio, la prima delle quali presentata il 12/06/2016 – a cui era stata allegata tutta la documentazione prevista dalla legge – il Tribunale avrebbe rigettato le richieste sul presupposto che si dovesse procedere a plurime integrazioni di documentazione; in data 18/05/2017, dopo la discussione, il difensore avrebbe eccepito la nullità del procedimento ed il Tribunale in data 12/06/2017, successivamente alla chiusura del giudizio di primo grado, avrebbe ammesso il ricorrente al beneficio invocato, rigettando contestualmente l’eccezione di nullità proprio in ragione della intervenuta ammissione.

Anche il “ricorso” avverso il rigetto della istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato sarebbe stato rigettato dai Tribunale sulla base della successiva avvenuta ammissione al patrocinio.

Si assume che il rigetto delle istanze avrebbe di fatto impedito la piena esplicazione del diritto di difesa e da tale presupposto si fa discendere la violazione dell’art. 6 CEDU e la nullità del procedimento; sul punto la motivazione della sentenza impugnata sarebbe viziata.

27.7. Con il settimo motivo si deduce l’erroneità della sentenza per il mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’art. 114 cod. pen., che, invece, avrebbe dovuto essere configurata in ragione del minimo contributo apportato dall’imputato, della mancanza della qualifica soggettiva, della minore efficacia causale della condotta.

27.8. Con l’ottavo motivo si lamenta “il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche” (così il ricorso) e l’entità della pena inflitta.

27.9. Con il nono motivo si deduce il vizio della sentenza, quanto alla disposta confisca della somma di 54.000 euro, attesa l’assenza di elementi probatori ai fini della determinazione della cifra in questione.

28. Scozzafava Angelo è stato condannato in primo grado alla pena di anni 5 di reclusione ed euro 1200 di multa per il reato di cui al capo 16 del secondo decreto; la Corte di Appello ha ridotto la pena ad anni 2 e mesi 3 di reclusione ed euro 800 di multa.

La contestazione, relativa ai reati di rivelazione di segreto d’ufficio e turbativa d’asta, è di avere Buzzi ed i suoi collaboratori, con l’aiuto di Luca Gramazio, nella qualità di consigliere regionale PDL, ed Angelo Scozzafava, nella qualità di componente la commissione aggiudicatrice della gara per il servizio C.U.P., turbato la gara comunitaria centralizzata a procedura aperta finalizzata all’acquisizione del servizio CUP occorrente alle Aziende Sanitarie della Regione Lazio, mediante intese, collusioni e accordi fraudolenti tra i partecipanti alla gara; Scozzafava avrebbe violato il segreto d’ufficio e comunicato a Buzzi e a Testa lo sviluppo delle decisioni della commissione medesima, le offerte degli altri concorrenti e ogni altra notizia utile al raggiungimento dello scopo.

Sono stati articolati quattro motivi di ricorso.

28.1. Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ed vizio di motivazione quanto al reato di cui all’art. 326 cod. pen. La Corte avrebbe attribuito decisiva valenza, ma senza una adeguata valutazione, al contenuto di alcune conversazioni intercorse tra terzi soggetti, sfavorevoli sul piano probatorio a Scozzafava, non considerando tuttavia la progressione cronologica dei lavori e delle decisioni della commissione di cui il ricorrente faceva parte.

Si fa riferimento ad una conversazione (la n. 12411 del 17.9.2014), valorizzata in chiave accusatoria, intercorsa tra Buzzi ed il suo collaboratore Gammuto, in cui il primo avrebbe riferito che, nel corso di una cena, Scozzafava aveva rivelato che altra impresa concorrente, la Manutencoop, benchè riammessa, non avrebbe vinto la gara; non sarebbe stato considerato tuttavia che da altra conversazione (la n. 7493 del 9 settembre) emergerebbe che già prima della cena in questione Buzzi fosse a conoscenza di detta informazione. Ciò avrebbe dovuto essere valutato, tenuto conto che: a) alcune delle riunioni della commissione erano pubbliche e, dunque, la rivelazione ai partecipanti alla gara di notizie inerenti alla fase pubblica non avrebbe avuto rilievo penale; b) la rivelazione di informazioni riservate, relative alle sedute private, sarebbe stata comunque irrilevante rispetto allo svolgimento della gara, in quanto la discrezionalità dei commissari sarebbe stata minima in ragione dell’algoritmo che determinava il punteggio assegnato; dunque, la divulgazione di eventuali notizie sull’andamento dei lavori non avrebbe potuto influire sotto il profilo sostanziale sul normale svolgimento della gara.

Nel caso di specie, dal verbale delle sedute pubbliche di commissione emergerebbe che la Manutencoop era stata ammessa con riserva e che successivamente, verificata la documentazione prodotta, l’impresa era stata definitivamente ammessa. Dunque non sarebbe stata rivelata nessuna notizia segreta.

28.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento del concorso apparente di norme: la gara sarebbe stata formalmente regolare e l’unica condotta attribuita all’imputato, estraneo alle altre vicende con cui si sarebbe turbata la gara, sarebbe quella di avere rivelato a terzi notizie riservate. Quindi, il reato di cui all’art. 353 cod. pen. dovrebbe considerarsi assorbito in quello di rivelazione di segreti d’ufficio.

28.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed alla dosimetria della pena.

28.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge quanto alla ritenuta sussistenza della pena accessoria della incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione.

29. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Andrea Tassone, condannato a cinque anni di reclusione per il reato di corruzione propria contestato al capo 8) del secondo decreto di giudizio immediato.

Nell’ambito delle due gare per i servizi di potatura degli alberi e per la pulizia degli arenili del X Municipio, Buzzi e Testa sono stati ritenuti responsabili di avere erogato somme non inferiori a 30.000 euro al presidente del X Municipio Tassone, per tramite del suo intermediario Solvi (condannato in via definitiva ).

Le condotte contestate a Tassone nel capo di imputazione sono quelle: – di aver rivendicato la competenza del X Municipio in materia di lavori per la pulizia delle spiagge, consentendo così lo stanziamento e la distribuzione dei relativi fondi regionali; – di aver comunicato al gruppo di Buzzi notizie e informazioni sulla procedura di selezione delle imprese cui affidare i lavori relativi agli interventi di potatura delle alberature stradali e di pulizia delle spiagge assegnati alla cooperativa 29 giugno.

Tassone, con riferimento ad entrambe le gare, avrebbe fornito informazioni utili e, con riferimento a quella per la pulizia degli arenili, recepì la lista delle imprese da invitare predisposta dallo stesso Buzzi.

Sono stati articolati dieci motivi di ricorso.

29.1. Con il primo si lamentano plurime violazioni di norme di legge – anche processuali – e vizio di motivazione quanto al rigetto della richiesta di esclusione delle parti civili (Amministrazione giudiziaria di Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio di cooperative sociali Società cooperativa sociale s.r.I., 29 giugno servizi società di produzione e lavoro, Formula Sociale Società cooperativa soiale Onlus e A.B.C., Società cooperativa sociale società cooperative; Partito democratico Unione regionale Lazio; Cittadinanza Onlus; Centro di iniziativa per la legalità democratica onlus; Associazione nazionale vittime dell’usura, Estorsione e racket; Associazione antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino” Onlus; Consorzio Castelporziano 98, consorziati e rispettive società).

Si assume, con riferimento alle società cooperative in amminispazione giudiziaria, che la sentenza sarebbe viziata nella parte in cui ha rit nuto, in relazione alla dedotta questione della incompatibilità per detto soggetto di assumere contestualmente la veste di parte civile e di civilmente obbligato per la pena pecuniaria, che detta questione sarebbe stata superata per non avere il Tribunale in concreto condannato il civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

Sostiene il ricorrente invece che i Giudici, piuttosto che prendere atto della svista del Tribunale, che non avrebbe applicato l’art. 547 cod. proc. pen., avrebbero utilizzato detta svista – cioè il fatto che il Tribunale non avesse condannato il civilmente obbligato per la pena pecuniaria – per rigettare la doglianza difensiva relativa alla dedotta incompatibilità dell’Amministrazione giudiziaria a costituirsi parte civile.

Sotto altro profilo, si deduce che l’Amministrazione in questione non avrebbe avuto la volontà di costituirsi parte civile nei confronti dell’imputato: ciò sarebbe confermato dal contenuto della richiesta di autorizzazione al giudice delegato per la costituzione di parte civile, che non faceva riferimento all’imputato, ma solo ai soggetti legati da un rapporto lavorativo, professionale o di collaborazione con Buzzi.

La sentenza sarebbe viziata nella parte in cui si è ritenuto che la domanda risarcitoria, contenuta nell’atto di costituzione, dovesse intendersi riferita anche nei riguardi di Tassone, ancorchè non indicato, in quanto concorrente nel reato; – quanto al Partito Democratico, che la procura speciale sarebbe stata rilasciata dal tesoriere del partito- considerato legale rappresentante “giusta previsione statutaria ed atto di nomina del 29.11.2007”, laddove, invece, la rappresentanza legale del partito sarebbe stata per statuto attribuita al segretario del partito; – quanto a Cittadinanza onlus, che sarebbe errato l’assunto della Corte con cui, rispetto alla questione relativa alla rappresentanza processuale dell’avv. Felicia D’Amico, si è ritenuto che questa fosse stata nominata difensore di fiducia con lo stesso conferimento della procura speciale. In relazione al Centro di iniziativa per la legalità democratica onlus, viene dedotta la stessa questione.

Per quanto riguarda l’Associazione nazionale vittime di usura, estorsione e racket, si sostiene che nell’atto di costituzione sarebbe assente la “causa petendi” e la pretesa risarcitoria sarebbe sganciata dal rimprovero mosso all’imputato, chiamato a rispondere solo per il reato di corruzione.

Con riferimento all’Associazione antiracket “Paolo Borsellino”, si assume che sarebbe errata la motivazione della sentenza nella parte in cui la Corte ha ritenuto che la legittimazione dell’Associazione a costituirsi parte civile sussisterebbe anche per i reati-scopo dell’associazione, anche se commessi da concorrenti non associati; l’assunto difensivo è che invece la connessi ne tra i due reati consentirebbe la costituzione di parte civile sono nei riguardi degli associati autori anche dei reati scopo.

Infine, quanto al Consorzio Castel Porziano ’98, si assume che la sentenza sarebbe viziata per aver fatto derivare la legittimazione alla costituzione di parte civile dal diritto di prelazione che il consorzio avrebbe avuto per l’affidamento del servizio di pulizia dell’arenile di Castel Porziano e dal fatto che, nonostante ciò, non fosse stato invitato alla gara; si sarebbe tuttavia ignorata, da una parte, la deduzione difensiva secondo cui la contestazione a Tassone riguardava un servizio avulso dalle competenze riconosciute al Consorzio e, dall’altra, della natura pretestuosa della domanda risarcitoria.

29.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di plurimi articoli della Costituzione e del codice di procedura penale e vizio di motivazione “a causa del mancato rilascio in copia dei relativi files audio” delle conversazioni intercettate; in via subordinata si chiede alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 268- 269 – 433 e 454 cod. proc. pen. nonché dell’art.139 disp. att. cod. proc. pen. in relazione agli artt. 2-3-24 e 111 Cost. nella parte in cui non prevedono che l’imputato, destinatario del decreto di giudizio immediato, ed il suo difensore abbiano diritto ad ottenere la copia, su supporto magnetico, dei Nes audio di tutte le conversazioni captate nel corso delle indagini preliminari.

29.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione di plurimi articoli della Costituzione e del codice di procedura penale e vizio di motivazione per avere la Corte escluso la nullità e la inutilizzabilità delle deposizioni testimoniali assunte in assenza delle trascrizioni peritali delle intercettazioni ed utilizzando i c.d. “brogliacci” quale strumento di contestazione probatoria.

29.4. Con il quarto motivo si lamenta violazione di norme processuali previste a pena di nullità e vizio di motivazione per non essersi la Corte di appello pronunciata sul motivo riguardante la mancata risposta del primo giudice alla questione della nullità, per genericità, del capo di imputazione. La difesa, nel corso della discussione finale (ud. 8.5.2017), avrebbe eccepito la nullità dell’imputazione per omessa indicazione delle condotte illecite in concreto ascritte a Tassone, della esatta quantificazione della utilità, di quando e come la somma sarebbe stata erogata. La sentenza sul punto sarebbe silente, essendosi la Corte limitata ad osservare per tutti gli imputati che nei capi di imputazione fossero sufficientemente delineati gli episodi criminosi e che, dunque, sarebbe stato consentito conoscere i profili fondamentali dei fatti.

29.5. Con il quinto motivo si lamenta violazione di legge sostanziale e processuale e vizio di motivazione per avere escluso la Corte il difetto di correlazione fra accusa e sentenza di primo grado. A fronte della imputazione formale, quella in precedenza indicata, il Tribunale aveva ritenuto, da una parte, errata la contestazione, quanto al segmento relativo alla rivendicazione della competenza del X municipio in ordine ai servizi di pulizie delle spiagge, atteso che in quel momento Tassone non aveva rapporti significativi con Buzzi, e, dall’altra, non provato l’assunto secondo cui Tassone avrebbe fornito informazioni a Buzzi sulle procedure di selezione del contrante per i due affidamenti, in quanto Buzzi sarebbe stato già a conoscenza di alcuni dati.

Nonostante ciò, i giudici di primo grado avevano ritenuto comunque provata la responsabilità dell’imputato sul presupposto che Tassone avesse ricevuto “tangenti” da Buzzi per garantirgli l’aggiudicazione delle due procedure di affidamento, violando in tal modo le norme per la scelta del contraente e predisponendo illegittimamente le liste dei soggetti economici da invitare- in realtà predisposte da Buzzi- e che la dazione sarebbe stata effettuata in due soluzioni. Dunque una diversità strutturale.

La Corte di appello avrebbe rigettato il motivo di impugnazione relativo al difetto di correlazione tra accusa e sentenza sul presupposto che il Tribunale si fosse limitato a specificare la condotta già descritta nella imputazione, indicando, tra le informazioni fornite, quelle riguardanti i soggetti “malleabili” da far partecipare alle gare.

Si sostiene che la Corte avrebbe errato nel ritenere sussistente detto rapporto di specificazione rispetto a ciò che il Tribunale aveva ritenuto non provato, tenuto conto che, secondo il Tribunale, non si trattava di “informazioni” ma del fatto che Tassone avesse consegnato ai competenti organi amministrativi le liste dei soggetti da invitare.

Per ricostruire i fatti la Corte avrebbe inoltre valorizzato il materiale “intercettativo” sconfessato dal giudice di primo grado e sarebbe stata silente quanto alla dedotta questione relativa alle modalità della dazione del denaro.

29.6. Con il sesto motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità, fondato solo sul contenuto delle intercettazioni, senza considerare il dato rilevante ed emergente dalle stesse conversazioni intercettate, e cioè che Buzzi ed altri imputati fossero consapevoli di essere intercettati (si richiamano alcune conversazioni); dunque la prova captata avrebbe dovuto essere valutata non secondo i canoni previsti da l’art. 192, commi 2- 3, cod. proc. pen.

La Corte avrebbe recepito in modio acritico il contenuto delle conversazioni senza nessun vaglio e senza porlo a confronto con l’altra parte del materiale probatorio raccolto. Il vizio della sentenza emergerebbe in relazione a temi essenziali quali quelli della configurabilità degli atti contrari ai doveri di ufficio e delle utilità ricevute; in relazione a ciascuno dei temi indicati sono stati articolati, come si dirà, molteplici sottorivoli argomentativi.

29.7. Con il settimo motivo si lamenta violazione di plurime disposizioni di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata riconduzione dei fatti nella fattispecie di cui all’art. 346 bis cod. pen.

29.8. Con l’ottavo motivo, si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla dosimetria della pena ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche; si tratta di un motivo che strutturalmente ricalca quello predisposto sul tema nell’interesse di Coratti.

29.9. Con il nono motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla condanna al pagamento di un somma a titolo di provvisionale nei confronti di Roma Capitale e del Ministero dell’Interno; la condanna sarebbe stata inflitta sulla base di una motivazione assente da parte del Tribunale e la Corte avrebbe ignorato detta doglianza.

29.10. Con il decimo motivo si lamenta violazione di legge, anche processuale, e vizio di motivazione quanto alla disposta confisca di euro 30.000, le ragioni sono quelle relative alla quantificazione corretta del prezzo della ipotizzata corruzione.

30. Testa Fabrizio Franco è stato condannato in primo grado alla pena di anni 12 di reclusione per i reati di cui ai capi 1 del primo decreto ed 8, 16 e 23 del secondo decreto; la Corte di Appello, l’ha assolto dal reato di cui all’ art. 326 cod. pen. di cui al capo 16 del secondo decreto e, riconosciute le attenuati generiche equivalenti alla recidiva, ha ridotto la pena ad anni 9 e mesi 4 di reclusione.

Testa operava sul fronte politico, quale stretto collaboratore di Gramazio. Era stato presidente del CdA di Enav S.p.A. fino al 2010 e candidato a presidente del CdA di A.m.a. S.p.A. (non nominato per le vicissitudini giudiziarie). Quanto al reato associativo, l’imputato sarebbe stato una “testa di ponte” (così l’imputazione) dell’organizzazione nel settore istituzionale, avrebbe coordinato le attività corruttive dell’associazione e si sarebbe occupato delle nomine di persone gradite al gruppo in posti di rilievo.

In tale contesto, a Testa sono contestate anche la corruzione propria di Tassone Andrea (capo 8), la turbativa della gara relativa al servizio C.U.P. (capo 16) e la corruzione di Grannazio (capo 23).

30.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al diniego di rinnovazione della istruttoria dibattimentale, necessaria per la modifica in peius della decisione di primo grado a seguito dell’accoglimento degli appelli delle Procure. Si svolgono argomenti sovrapponibili a quelli sviluppati sullo stesso tema da Buzzi e Carminati.

30.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di associazione mafiosa e della corrispondente aggravante. La prima parte del motivo è strutturalmente sovrapponibile a quello proposto nell’interesse di Brugia. Con riferimento alla specifica posizione del ricorrente, la Corte di appello, per dimostrare la condotta associativa, non avrebbe offerto argomenti ulteriori rispetto alla ritenuta partecipazione dell’imputato agli altri delitti contestati; la motivazione sarebbe carente anche in relazione ai motivi riguardanti la valutazione delle prove a discarico.

30.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla sussistenza del delitto di cui al capo 8 del secondo decreto- corruzione di Tassone. La contestazione non sarebbe chiara quanto alla descrizione del fatto, alle modalità con le quali avrebbe partecipato il ricorrente, alla condotta tenuta da Tassone. La Corte, inoltre, non avrebbe correttamente valutato le prove da cui sarebbe emersa l’assenza di rapporti tra il ricorrente e Tassone nel periodo di interesse.

30.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al reato di cui al capo 16 del secondo decreto; non sarebbe stato individuato il momento di consumazione del reato in contestazione e neppure gli atti mirati alla turbativa della gara: si sarebbero solo valorizzate le intercettazioni telefoniche. Assume il ricorrente che, venuta meno la contestazione della violazione del segreto di ufficio – per la quale il ricorrente è stato assolto – non vi sarebbero condotte a lui attribuibili che avrebbero contribuito alla turbativa della gara.

30.5. Con il quinto motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento alla contestazione di cui al capo 23 del secondo decreto, corruzione di Gramazio.

Con riferimento alla approvazione dell’emendamento per le piste ciclabili, non sarebbe stata individuata la condotta del ricorrente, nonostante le deduzioni contenute nell’atto di impugnazione.

Quanto alla manifestazione di voto favorevole alla mozione “Ozzimo”, non sarebbe stato adeguatamente considerato che detta mozione non fu firmata da Gramazio, che partecipò solo al voto unanime di approvazione in assemblea.

Quanto alle condotte relative all’approvazione dei debiti fuori bilancio, non sarebbe stata valutata la prova liberatoria, costituita dalle dichiarazioni del teste Tomaselli, che aveva escluso qualsiasi intervento del ricorrente, né si sarebbe tenuto conto del fatto che Carminati, per il pagamento dei crediti “misna”, intendesse “fare una causa” al Comune di Roma.

Quanto alla contestazione di aver favorito la destinazione di risorse regionali rispetto alle finalità di Buzzi, non sarebbero state individuate condotte attribuibili a Gramazio ed al ricorrente e non sarebbe stata compiuta un’adeguata valutazione dei motivi di appello.

30.6. Con il sesto motivo si deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge in ordine al diniego delle attenuanti generiche, all’applicazione della recidiva ed agli aumenti per la continuazione. La difesa ha depositato motivi aggiunti, integrando gli argomenti dei motivi principali.

31. Tredicine Giordano è stato condannato in primo grado alla pena di anni 3 di reclusione per il reato di cui al capo 6 del secondo decreto; la Corte di Appello ha ridotto la pena ad anni 2 e mesi 6 di reclusione.

Buzzi avrebbe retribuito Giordano Tredicine, consigliere della assemblea capitolina e, dunque, pubblico ufficiale, asservendo le funzioni dell’imputato al servizio degli interessi delle sue cooperative; Tredicine sarebbe stato il referente attraverso cui Buzzi mirava ad “accaparrarsi” i lotti riservati alle cooperative “riconducibili” ai partiti di “destra” sulla base degli accordi spartitori.

Tredicine si sarebbe attivato:

– per lo sblocco dei pagamenti Eur;

– per la procedura dei debiti fuori bilancio; – per la proroga dei servizi affidati alle cooperative di Buzzi nel settore del verde pubblico (cfr. capo 13 II decreto), in particolare firmò e votò la cd. mozione Ozzimo e si attivò per fare incontrare Alemanno a Buzzi. In cambio di tale attività dal conto corrente intestato alla cooperativa Formula Sociale il 23.4.2013 fu effettuato il versamento di 20.000 euro a titolo di contributo elettorale in favore di Mario Brugia, mandatario elettorale del comitato per Tredicine.

Sono stati articolati otto motivi.

31.1. Con il primo si lamenta violazione di legge, anche processuale, e vizio di motivazione; la sentenza sarebbe nulla per violazione dell’art. 603, comma 2, cod. proc. pen. “in relazione all’ordinanza emessa 1’8/03/2018 dalla Corte di appello”, con cui fu rigettata la richiesta di rinnovazione dibattimentale quanto all’assunzione della testimonianza di tale Pomarici.

Si sostiene che la valenza della deposizione in questione avrebbe dovuto essere diversamente apprezzata in ragione:

a) del contenuto di alcune conversazioni intercettate, intercorse tra terzi soggetti, che avrebbero indirettamente interessato il ricorrente;

b) delle dichiarazioni accusatorie di Buzzi, che avrebbe coinvolto Tredicine solo dopo il rigetto della sua prima richiesta di patteggiamento.

La tesi difensiva è che quelle dichiarazioni sarebbero state rese da Buzzi per “tentare di accedere” nuovamente al patteggiamento. La testimonianza di Pomarici, consigliere comunale indagato- la cui posizione è stata successivamente archiviata-, avrebbe potuto smentire le dichiarazioni di Buzzi relative alla esistenza di un accordo corruttivo e chiarire il senso di quelle conversazioni.

31.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità, fondato, si assume, solo sul contenuto delle conversazioni intercettate.

A fronte di una corruzione “parlata”, la Corte avrebbe omesso di valutare il contenuto delle altre risultanze processuali e, in particolare: a) delle dichiarazioni rese dai testi di polizia giudiziaria Tomaselli e De Luca, i quali avrebbero chiarito che l’imputato si limitò al solo voto, espresso in aula, per il riconoscimento dei debiti fuori bilancio”; b) della documentazione prodotta dalla difesa, da cui sarebbe emerso come l’attività politica di Tredicine fosse stata nel tempo orientata in senso opposto agli interessi di Buzzi.

31.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alle ritenute utilità corrisposte all’imputato. Con i motivi di appello si era censurata la sentenza di primo grado in relazione alla mancanza di prova della relazione finalistico – strumentale tra le utilità corrisposte all’imputato e l’esercizio distorto della funzione. La Corte avrebbe a tal fine valorizzato, travisando la prova, un contributo di 20.000 euro che Buzzi avrebbe corrisposto a Tredicine nell’aprile del 2013.

Si tratterebbe in realtà di un fatto nuovo, mai preso in considerazione dal Tribunale e dalla stessa Procura della Repubblica; quel versamento sarebbe stato solo un contributo elettorale, legittimamente versato non da Buzzi ma dalla cooperativa “Formula Sociale” di Caldarelli e sarebbe “esterno” al reato, peraltro collocandosi in un momento molto antecedente alla contestazione d’accusa, in cui si fa riferimento “in data anteriore e prossima all’ottobre 2014” (così il ricorso).

Il contributo in questione non sarebbe stato indicato nel capo di imputazione ed in relazione alla somma in questione non casualmente non sarebbe stata disposta la confisca; si aggiunge che, pur volendo ritenere che quel contributo avesse natura di dazione illecita, nondimeno non vi sarebbe la prova del nesso sinallagmatico, di cui si è detto.

31.4. Con il quarto motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta “spendita della funzione” da parte di Tredicine; la giurisprudenza in più occasioni avrebbe affermato che non costituisce spendita della funzione la mera segnalazione o raccomandazione.

Sul punto, rispetto ad uno specifico motivo di appello, la Corte non avrebbe fornito risposte; si rivisita il significato attribuito dalla Corte alla deposizione del teste Borghini in relazione alla “vicenda Eur s.p.a.”, atteso che detta testimonianza avrebbe sconfessato l’assunto accusatorio relativo al coinvolgimento di Tredicine nei fatti di causa ed alla presunta attività di condizionamento da parte del ricorrente dello stesso Borghini in favore di Buzzi; in ogni caso, l’attività di Tredicine sarebbe stata compiuta solo “in occasione dell’ufficio”, e quindi non sarebbe punibile. Non sarebbero ravvisabili i presupposti per il reato contestato anche in relazione alle altre condotte attribuite al ricorrente.

31.5. Con il quinto motivo si lamenta:

1) violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla contraddittorietà del dispositivo rispetto alla motivazione;

2) violazione degli artt. 521 cod. proc. pen. e 319 cod. pen.;

3) la nullità della sentenza per mancata rinnovazione dibattimentale.

A fronte di una decisione che non ha riqualificato l’originario fatto contestato, ricondotto sin dall’inizio all’art. 318 cod. pen., la Corte di appello, nella parte relativa alla quantificazione della pena (pag. 582), avrebbe tuttavia fatto espresso riferimento per Tredicine ad una riqualificazione dei fatti; secondo il ricorrente, tale discrasia renderebbe nulla la sentenza, in quanto non consentirebbe di comprendere quale sia la reale decisione; tale riqualificazione avrebbe violato l’art. 521 cod. proc. pen. ed il divieto di “reformatio in peius”.

31.6. Con il sesto ed il settimo motivo Tredicine ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla quantificazione della pena ed al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.La pena sarebbe stata determinata senza considerare la non elevata offensività del fatto, tenuto conto della legittimità dei crediti vantati da Buzzi e che l’approvazione dei debiti fuori bilancio era per un consigliere non capogruppo come l’imputato un fatto doveroso in ragione della adesione al gruppo di appartenenza; sul punto, pur in presenza di motivi di appello specifici, la sentenza sarebbe silente e, comunque, contradditoria, anche in ragione dell’entità della pena inflitta agli imputati del reato di corruzione propria.

31.7. Con l’ottavo motivo si lamenta vizio di motivazione in relazione alle statuizioni civili; la Corte non avrebbe motivato sulla espressa richiesta di “revoca delle statuizioni civili con riferimento alla Regione Lazio, in assenza della prova sull’esistenza di un danno”.

32. Turella Claudio, nei cui confronti, su sua richiesta, è stata pronunciata sentenza ex art. 599 bis cod. proc. pen. quanto ai capi 25) e 26) del primo decreto, ha proposto ricorso per cassazione articolando due motivi.

32.1. Con il primo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla quantificazione della pena inflitta a titolo di continuazione, superiore a quella inflitta agli altri imputati all’esito del processo; la Corte avrebbe inoltre escluso la continuazione interna per altri coindagati in relazione al capo 25) e non invece per il ricorrente (tale profilo, si assume, riguarderebbe la qualificazione giuridica del fatto); un ragionamento sovrapponibile è inoltre compiuto per gli aumenti inflitti a titolo di continuazione per i reati oggetto del capo 26).

32.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla valutazione della documentazione volta a comprovare la provenienza lecita della somma confiscata, cioè della somma in contanti rinvenuta presso l’abitazione dell’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

In ragione del numero di ricorrenti e dei reati per i quali si procede, per maggiore chiarezza verranno trattati i singoli reati, o gruppi di reati tra loro collegati in uniche vicende; da ultimo si considererà il tema maggiormente sviluppato dai ricorsi, ovvero la sussistenza del reato di associazione mafiosa.

Prima dell’esame analitico dei singoli reati, si premettono le risposte ai temi processuali di carattere generale riferiti alla nullità/inutilizzabilità di prove ed alla regolarità della contestazione.

I. Questioni preliminari

1. Nullità dei capi di imputazione per genericità del fatto.

Bugitti, Buzzi, Coratti, Di Ninno, Garrone, Gramazio, Schina, Tassone e Testa, come riportato nella sintesi dei motivi, hanno dedotto la questione di nullità di vari capi di imputazione per genericità della descrizione del fatto, ribadendo questioni già poste in sede di impugnazione di merito.

La Corte di appello, prima di affrontare il tema della corretta enunciazione del fatto “in forma chiara e precisa” in riferimento a ciascuna imputazione per cui la questione era stata posta, ha dato una risposta in termini generali sulle regole applicabili.

Dopo avere dato atto che il Tribunale aveva escluso che la descrizione dei fatti contestati fosse carente, ritenendo che nei capi di imputazione gli episodi criminosi fossero stati sufficientemente descritti in modo che gli imputati avevano potuto conoscere i profili fondamentali dei fatti loro addebitati, ha affrontato le ulteriori doglianze degli appellanti affermando che «i capi di imputazione contengono sempre almeno un’indicazione approssimativa del contesto spazio-temporale dell’episodio contestato, e comunque riferimenti che consentono di collocare nello spazio e nel tempo i fatti storici oggetto di contestazione»; a sostegno di tale argomento ha fatto rinvio a decisioni di questa Corte di legittimità.

La decisione è corretta quanto alla individuazione delle regole generali in ordine alla individuazione della “forma chiara e precisa” della imputazione (artt. 429, comma 1, lett. c), e 456, comma 1, cod. proc. pen.), che la rende idonea alla sua funzione e che, in caso di indicazione “insufficiente”, rende nullo il decreto di giudizio immediato.

Questa Corte si è pronunciata più volte ed in termini omogenei, rilevando come la contestazione debba essere formulata in termini tali da individuare i tratti essenziali del fatto contestato, con la possibilità che il fatto possa essere ulteriormente reso comprensibile all’imputato in base ad atti inseriti nel fascicolo cui lo stesso abbia accesso.

Il carattere di sufficienza o meno dell’informazione data all’imputato va misurato sulla effettiva possibilità di sviluppare un corretto contraddittorio ed esercitare appieno la difesa.

La imprecisione della contestazione, anche se si tratta della collocazione nel tempo del fatto o dell’apporto causale del singolo correo, o del tipo di apporto, non è di per sé determinante: anche tali “difetti” della imputazione non escludono di per sé che l’imputato possa agevolmente individuare il fatto che gli è contestato e, quindi, possa difendersi in modo adeguato.

Si è sostenuto, infatti, che «al fine di ritenere completo nei suoi elementi essenziali il capo d’imputazione è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento», precisandosi che la “chiarezza” può derivare anche dal rinvio ad atti del fascicolo processuale, purché si tratti di atti intellegibili, non equivoci e conoscibili dall’imputato (così, Sez. 5, Sentenza n. 10033 del 19/01/2017, Rv. 269455).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte tale interpretazione evidenzia come «l’attributo della chiarezza e della precisione dell’imputazione devono essere valutate con preciso riferimento alla incisione del diritto di difesa conseguente ad eventuali formulazioni imprecise dei capi di accusa», sicché la genericità della contestazione non discende automaticamente dalla mancata indicazione della data del commesso reato.

Se la descrizione del fatto consente il pieno esercizio del diritto di difesa il capo di accusa non può essere qualificato come “impreciso” e, conseguentemente, non può ritenersi la nullità prevista dall’art. 526 comma 2 cod. proc. pen.

In ogni caso, non è ravvisabile alcuna incertezza sulla imputazione quando il fatto sia stato contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa. Infatti, la contestazione non va riferita soltanto al capo d’imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti, che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito.

Insomma, “non è necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’oggetto della contestazione” (in questo senso, Sez. 2, Sentenza n. 2741 del 11/12/2015 dep. 2016, Rv. 265825; Sez. 5, Sentenza n. 51248 del 05/11/2014 Rv. 261741).

Questi, quindi, sono i principi in base ai quali va valutata la specificità delle imputazioni, quando contestati dalle difese. La risposta verrà data in riferimento a ciascuno dei reati in ordine ai quali è stata dedotta la carente specificazione dei fatti.

2. Violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza. Brugia, Bugitti, Cola, Coratti, Di Ninno, Figurelli, Garrone, Magrini e Tassone hanno dedotto la questione di nullità della sentenza in relazione a vari capi di imputazione per violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenze di primo grado, ribadendo questioni già poste in sede di impugnazione di merito.

La Corte di Appello ha dato una risposta in termini generali sulla violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. che le difese avevano già dedotto in riferimento a vari reati.

Ha quindi affermato che vi è correlazione tra accusa e sentenza quando il capo di imputazione contesti gli elementi fondamentali che consentono la difesa per il fatto come poi ritenuto in sentenza.

Tale correlazione, invece, manca nel caso in cui il fatto per il quale è disposta la condanna sia, rispetto alla imputazione, «in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità di effettiva difesa».

Con una risposta in termini generali, quindi, la Corte di appello ha ritenuto che, per tutti i reati per i quali la questione era stata dedotta, fosse stata comunque consentita una efficace difesa: « … gli imputati suddetti hanno avuto modo di individuare agevolmente gli specifici fatti con riferimento ai quali l’accusa è stata formulata e nel corso del processo sono stati destinatari di contestazioni di risultanze probatorie che hanno inevitabilmente arricchito l’ambito dei fatti oggetto della possibile interlocuzione della difesa e di sostanziale decisione da parte del Tribunale».

La Corte di Appello ha correttamente interpretato i principi dell’art. 521 cod. proc. pen.

Sul tema, in presenza di una interpretazione uniforme, può farsi rinvio alle regole già affermate dalla giurisprudenza di legittimità quanto alla nozione di diversità del fatto che comporta la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.

Si è, infatti, affermato che sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nell’ipotesi in cui tra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza ricorra un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d’effettiva difesa (così, Sez. 6, n. 899 del 11/11/2014, dep. 2015, Isolan, Rv. 261925), precisandosi che il principio di correlazione tra imputazione e sentenza «non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma solo nel caso in cui la contestazione venga mutata in relazione ai suoi elementi essenziali, in modo da determinare incertezza e pregiudicare l’esercizio del diritto di difesa» (Sez. 3, n. 41478 del 04/10/2012, Stagnoli, Rv. 253871).

Il tema è stato affrontato anche con riguardo alla situazione, in questo processo alquanto ricorrente, in cui le vicende complesse descritte nelle imputazioni siano state “arricchite” e “conformate” sulla scorta dello sviluppo della istruttoria dibattimentale.

Si è quindi affermato che «ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sull’intero materiale probatorio posto a fondamento della decisione» (Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera, Rv. 254419).

In definitiva, anche a fronte di una apparente diversità tra la prospettazione dell’imputazione e la concreta ricostruzione in sentenza, non sussiste alcuna violazione del principio dell’art. 521 cod. proc. pen. quando, dal punto di vista dell’imputato, i punti rilevanti della imputazione sono chiaramente delineati e comunque è prevedibile il loro ulteriore sviluppo in dibattimento, risultando chiaro come indirizzare l’esercizio in concreto del diritto di difesa.

Anzi, è del tutto fisiologico che in una vicenda complessa e con numerosi imputati la ricostruzione non collimi strettamente con la ipotesi iniziale per i soggetti partecipanti ed il ruolo di ciascuno. In tal senso, pur rinviando a quanto si dirà in relazione alle singole posizioni processuali, si comprende e giustifica il principio per cui in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).

3. Diritto di accesso ai file contenenti le registrazioni delle conversazioni intercettate e diritto al rilascio di copia.

Gli imputati Carminati, Gaglianone, Gramazio, Magrini, Coratti e Tassone hanno proposto motivi con i quali rilevano l’indebito diniego di rilascio delle copie delle registrazioni di intercettazioni che erano state depositate con il fascicolo delle indagini a seguito della presentazione della richiesta di giudizio immediato.

In particolare, fanno riferimento alle intercettazioni ulteriori rispetto a quelle utilizzate per la adozione delle misure cautelari. Si tratta di una questione già posta con i motivi di appello.

La Corte territoriale ha confermato la correttezza della decisione del Tribunale poiché erano state garantite modalità di accesso alla documentazione tali da garantire un’adeguata difesa. In particolare, ha rilevato che la disciplina dell’accesso alle registrazioni delle conversazioni di cui all’art. 268, commi 6, 7 ed 8, cod. proc. pen., che consente il rilascio di copie delle registrazioni solo dopo la selezione delle conversazioni rilevanti e lo stralcio di quelle di cui è vietata l’utilizzazione, è speciale rispetto alla disciplina generale dell’accesso al fascicolo, con facoltà di copia, a seguito della notifica dell’avviso di chiusura delle indagini ex art. 415-bis cod. proc. pen. ovvero, nel caso del giudizio immediato, a seguito del deposito degli atti ex art.139 disp. att. cod. proc. pen.

Nel caso in esame era stato adottato un rituale provvedimento di autorizzazione al ritardato deposito degli atti delle intercettazioni sino alla fine delle indagini e, procedendosi nelle forme del giudizio immediato, il procedimento di cui all’art. 268, commi 6, 7 ed 8, cod. proc. pen. era stato necessariamente differito al dibattimento.

Considerato allora il citato rapporto di specialità delle disposizioni in tema di intercettazioni, e quindi la loro prevalenza, gli imputati non avevano un diritto alla copia delle registrazioni in base alla norma generale sull’accesso al fascicolo delle indagini.

3.1. I motivi, che sostanzialmente ripropongono le stesse questioni dei motivi di appello, sono infondati.

La decisione impugnata si fonda essenzialmente sulla affermazione che la disciplina dell’art. 268, commi 6, 7 ed 8 cod. proc. pen., che prevede il deposito degli atti relativi alle intercettazioni, l’accesso della difesa per il solo ascolto, la fase di stralcio delle registrazioni inutili e inutilizzabili, la trascrizione di quelle rilevanti e, solo a chiusura di tale fase, la possibilità di estrazione di copie da parte dei difensori, sia una normativa di carattere speciale e, quindi, prevalente, rispetto alle disposizioni generali che prevedono che, a seguito del deposito degli atti per il giudizio immediato, vi sia il diritto ad ottenere copia di tutti gli atti del fascicolo delle indagini.

Secondo la Corte di appello, le esigenze sottese alle disposizioni che pospongono il momento della consegna di copie delle registrazioni (il rischio di diffusione di intercettazioni non rilevanti e/o lesive dell’interesse alla riservatezza di terzi) prevarrebbero sull’esigenza della difesa, da ritenersi adeguatamente soddisfatta con la possibilità di ascolto ed indicazione delle conversazioni rilevanti.

3.2. Su tale tema la giurisprudenza di questa Corte non è univoca.

Facendo riferimento alle decisioni più argomentate in materia, da ultimo è stato affermato (Sez. 6, n. 16583 del 28/03/2019, A., Rv. 275725) che, in una situazione in cui vi era stato deposito degli atti a chiusura delle indagini ma non ancora l’espletamento della procedura di cui all’articolo 268 cod. proc. pen., è quest’ultima disposizione che regola il diritto alla copia per «l’intrinseco pericolo connesso alla diffusione delle tracce foniche o video, sotto forma di copia digitale o informatica»; tale disposizione, quindi, pospone l’esercizio di tale diritto alla fase successiva all’ individuazione delle intercettazioni rilevanti ed all’ esclusione di quelle lesive dei terzi coinvolti.

In definitiva, secondo tale decisione, non è ragionevole che prevalga la disciplina generale in materia di rilascio di copie del fascicolo delle indagini dopo la chiusura delle stesse.

Altre decisioni hanno affermato, invece, che nel caso in cui il pubblico ministero non abbia attivato la procedura di cui sopra, non può ritenersi di per sé preclusa l’acquisizione di copia delle intercettazioni che rappresenta espressione del diritto di conoscenza dell’intero fascicolo degli atti di indagine (Sez. 5, n. 38409 del 12/04/2017, Almavica, Rv. 271118; Sez. 6, n. 41362 del 11/07/2013, Drago, Rv. 257804).

Tali decisioni, però, sono convergenti quanto alle conseguenze del mancato accesso alle copie in una situazione quale quella in esame e consentono di dare la soluzione a prescindere dalla opzione interpretativa sull’ estensione del diritto alla copia (anche) delle registrazioni delle intercettazioni.

3.3. Innanzitutto, va dato atto della manifesta infondatezza della tesi, prospettata dalle difese, di inutilizzabilità delle intercettazioni delle quali non è stata data copia; al riguardo è sufficiente rammentare che la disciplina generale di cui all’art. 191 cod. proc. pen. in tema di inutilizzabilità prevede che questa consegua non alla violazione di clausole generali, qual è il “diritto di difesa”, bensì alla violazione di specifiche disposizioni di legge.

Nell’ambito della disciplina propria delle intercettazioni vi è la norma espressa dell’art. 271 cod. proc. pen. che individua i casi di inutilizzabilità di tale tipologia di prova.

Tra tali casi, vi è la violazione dell’art. 268 cod. proc. pen. limitatamente ai commi 1 e 3, il che testualmente esclude che tale sanzione di inutilizzabilità possa estendersi alla violazione della procedura di cui ai commi 6, 7 ed 8 o alla violazione del diritto al rilascio di copie dopo il deposito degli atti per il giudizio.

La questione della mancata consegna di copia delle registrazioni, invece, viene correttamente posta, secondo entrambe le linee interpretative citate, quale ragione di nullità generale a regime intermedio nei termini che seguono.

La prima decisione citata, invero, nell’ottica della specialità della disciplina dell’accesso della difesa alle prove in questione, afferma che l richiesta della difesa di rilascio delle copie delle intercettazioni, laddove non sia stata espletata la procedura di selezione, stralcio e trascrizione, deve essere sostenuta da una idonea motivazione quanto alla rilevanza delle copie stesse a supporto di specifiche esigenze difensive; tale richiesta è, invece, inammissibile quando sia motivata con la mera finalità di controllo sull’operato della accusa, controllo che, pur se ricollegato ad un legittimo interesse della difesa, si ritiene adeguatamente tutelato con la procedura di ascolto.

Anche nelle altre decisioni, in termini sostanzialmente simili quanto agli effetti concreti, si legge che il mancato rilascio delle copie delle intercettazioni, in assenza di disposizioni che prevedano una specifica sanzione di nullità, vale a costituire una indebita compressione del diritto di difesa.

L’effetto processuale, quindi, è di una nullità di ordine generale a regime intermedio, non tale, però, da incidere sulla validità della prova in sé perché si tratta di un fatto successivo alla sua formazione (Sez. 6, n. 41362 del 11/07/2013, Drago, Rv. 257804).

Non vi è, allora, una nullità quale conseguenza del generico diniego di rilascio delle copie, ma andrà dedotta la specifica compressione del diritto di difesa: quindi, è necessario che vi sia una puntuale deduzione quanto alle conseguenze concrete della mancanza di disponibilità delle registrazioni.

Nell’ottica di entrambi i modi di prospettare le conseguenze del mancato rilascio delle copie, nel caso in esame non risulta alcuna nullità.

Va difatti considerato che la Corte di appello dà atto, e sul punto non vi è alcuna effettiva contestazione delle difese, che fu data piena disponibilità, oltre che per l’ascolto delle conversazioni, anche per il rilascio di copie mirate delle singole registrazioni.

Le richieste di copie, invece, secondo la sentenza impugnata furono presentate con riferimento alla generalità delle intercettazioni e anche nei motivi di ricorso non si fa riferimento a richieste di specifiche conversazioni.

Tutti i ricorrenti, anzi, ribadiscono che la loro istanza era finalizzata ad ottenere tutto il materiale (ovvero limitatamente al singolo soggetto intercettato) senza alcuna specifica finalità difensiva.

Quindi non ricorre alcuna nullità a fronte di una richiesta solo generica ed indiscriminata di rilascio delle copie.

3.4. Resta la questione di costituzionalità proposta nell’interesse di Coratti e Tassone, ma la stessa è posta in termini solo generici e, comunque, non è rilevante in quanto non è stata dedotta alcuna effettiva violazione dei diritti di difesa e, quindi, la questione posta non avrebbe comunque incidenza sulla decisione.

4. Utilizzazione di informazioni confidenziali.

Pucci, Bugitti, Buzzi, Di Ninno e Garrone hanno contestato l’utilizzazione di notizie confidenziali ai fini dell’autorizzazione delle prime intercettazioni.

Su tale questione la Corte di Appello aveva risposto che «le informazioni confidenziali acquisite dagli organi di polizia giudiziaria determinano l’inutilizzabilità delle intercettazioni, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 267, comma 1 -bis, e 203, comma 1 -bis, cod. poc. pen., soltanto quando esse abbiano costituito l’unico elemento oggetto di valutazione ai fini degli indizi di reità (cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 39766 del 15/04/2014, Pascali, Rv. 260456) secondo cui il divieto di utilizzo della fonte confidenziale, tuttavia, non è esteso anche ai dati utili per individuare i soggetti da intercettare, sempre che risulti l’elemento obiettivo dell’esistenza del reato e sia indicato il collegamento tra l’indagine in corso e la persona da sottoporre a captazione)» e, poi, aveva considerato in modo analitico gli elementi posti a sostegno del provvedimento che autorizzava le intercettazioni.

4.1. I motivi sono infondati anche se va in parte corretta la motivazione della Corte di Appello. In base agli artt. 13 d.l. n. 152/1991, convertito dalla legge n. 203/1991, e 203 cod. proc. pen. è espressamente vietata l’utilizzazione di informazioni confidenziali ai fini di ritenere la sussistenza di sufficienti indizi per disporre le intercettazioni.

Non è dubbio che tali disposizioni abbiano una chiara lettura nel senso che tali informazioni non possano in alcun modo fondare il quadro indiziario, non risultando alcun ambito di utilizzazione, neanche quando, come sembra dire la Corte di appello, non si tratti degli unici elementi indiziari ma siano valutati unitamente ad altri elementi.

È corretto, come pure riporta la Corte di appello, che tali elementi possano invece essere utilizzati, quando vi siano gli indizi di reato desunti aliunde, al diverso fine di conoscere il collegamento tra il soggetto da intercettare e la data utenza telefonica, poiché questa non è attività di ricostruzione del quadro indiziario.

Ma non vi è altro ambito di utilizzabilità di tali informazioni.

La Corte di appello, nel sostenere che le informazioni confidenziali possano essere utilizzate nel senso sopra detto, ha fatto erroneamente riferimento a decisioni di legittimità che, in realtà, non affermano affatto che siano utilizzabili le informazioni confidenziali purchè unite ad altri elementi.

Quello che è stato affermato, invece, è che la regola di inutilizzabilità citata non è violata nel ben diverso caso in cui le informazioni confidenziali servano da stimolo per la polizia giudiziaria per svolgere indagini nel corso delle quali risultino poi individuati indizi che consentano, autonomamente, l’autorizzazione del dato mezzo di ricerca della prova. Tale errore interpretativo, però, di fatto è irrilevante per il caso qui di interesse.

Nella sentenza di appello si riporta come il decreto in questione autorizzava le intercettazioni in base ad un quadro indiziario che utilizzava elementi del tutto autonomi, acquisiti nel corso di indagini certamente provocate dalla notizia confidenziale ma senza utilizzarla per ricostruire il quadro indiziario; sul punto non vi sono contestazioni specifiche. In definitiva, il decreto era correttamente motivato e l’erronea affermazione in diritto della Corte di Appello di parziale utilizzabilità delle informazioni confidenziali non ne condiziona la validità.

Quindi, con tale precisazione, i motivi risultano infondati.

Né, pur volendo ragionare con i ricorrenti, dal profilo di invalidità dedotto potrebbe farsi derivare automaticamente la inutilizzabilità del contenuto delle altre conversazioni intercettate.

L’orientamento del tutto prevalente della giurisprudenza è inequivocabilmente nel senso di escludere che sia applicabile all’inutilizzabilità la regola, dettata dall’ art. 185, ccomnna 1, cod. proc. pen., per cui «la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo» (Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014, Strazinniri, Rv. 263031; Sez. 2, n. 44877 del 29/11/2011, Berardinetti, Rv, 251361).

È infatti diffusa sul tema l’affermazione secondo cui la prova inutilizzabile impedisce al giudice di porla a fondamento dell’argomentazione giustificativa di una decisione, con la conseguenza che, risultando invalida la motivazione eventualmente così esibita, la decisione risulterà anche nulla per difetto di motivazione (art. 125, comma 3, cod. proc. pen.), quando non vi siano altre prove idonee a giustificarla indipendentemente da quelle inutilizzabili (cosiddetta prova di resistenza, di cui si è detto).

Ciò che viene tuttavia escluso è la possibilità che l’inutilizzabilità si comunichi, a norma dell’art. 185, ad atti successivi la cui eventuale motivazione non faccia riferimento – nemmeno implicito – alla prova inutilizzabile; sul punto si afferma soprattutto che il riferimento contenuto nella motivazione di un provvedimento ad una prova inutilizzabile deve essere dimostrato da chi ne eccepisce l’invalidità (Sez. 4, n. 736 del 12/02/1999, Rubino, Rv. 212882, Sez. 2, n. 669 del 1/02/2000, Carloni, Rv. n. 215408, Sez. U., 23/04/2009, Fruci, cit.).

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 332/2001, ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, sollevata per contrasto con l’art. 24 della Costituzione, nella parte in cui “consente l’utilizzazione di prove che derivino, non solo in via diretta, ma anche in via mediata da un atto posto in essere in violazione di divieti, ed in particolare l’utilizzazione del risultato di una perquisizione nulla”.

La Corte ha chiarito come:

a) la soluzione prospettata dal giudice remittente avrebbe finito per trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema delle nullita: “l’accoglimento del quesito avrebbe comportato l’esercizio di opzioni che l’ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di più che – quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra gli atti probatori – ammette, già sul piano logico, un’ampia varietà di possibili configurazioni e alternative”;

b) siano fenomeni “tutt’altro che sovrapponibili” quelli della nullità e della inutilizzabilità, così da non potersi “trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema della nullità”.

La inesistenza di una generale principio di inutilizzabilità derivata degli atti è confermata attraverso il riferimento all’art. 202 cod. proc. pen., che inibisce all’autorità giudiziaria l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto di Stato; significativo è che in relazione a tale norma, diversamente dalle altre, la Corte costituzionale abbia chiarito che «tale divieto riguarda l’utilizzazione degli atti e dei documenti coperti da segreto sia in via diretta, ai fini cioè di fondare su di essi l’esercizio dell’azione penale, sia in via indiretta, per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine, le cui eventuali risultanze sarebbero a loro volta viziate dall’illegittimità della loro origine” (Corte cost. n. 110 del 1998).

Acutamente si è osservato in dottrina che la Corte, con riferimento all’art. 202 cod. proc. pen. inibisce l’utilizzazione delle conoscenze coperte da segreto, non solo ai fini delle determinazioni sull’esercizio dell’azione penale e di una qualsiasi decisione giurisdizionale, ma anche a fini investigativi.

La Corte costituzionale distingue un’utilizzazione probatoria, in funzione della decisione sul fatto oggetto della imputazione, e un’utilizzazione c.d. euristica, strumentale alle funzione investigativa o istruttoria, delle informazioni coperte da segreto.

Quello previsto dall’art. 202 cod, proc. pen. è un divieto più ampio che non attiene solo alla funzione probatoria delle informazioni illegittimamente acquisite. Dunque, si osserva in maniera condivisibile, la richiesta di una prova che sarebbe inutilizzabile è una richiesta essa stessa invalida per inammissibilità ed il giudice deve rilevarlo, atteso che, diversamente, quella prova è probatoriamente inutilizzabile ai fini della decisione.

Ma se una tale prova, ammessa a dispetto della sua inammissibilità, non risulti destinata a giustificare in maniera costitutiva una qualche decisione o determinazione, la sua inutilizzabilità, pur persistente e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 191, comma 2), rimane senza ulteriori conseguenze, anche se le informazioni che possano trarsene vengano implicitamente impiegate per l’ammissione e la ricerca di altre valide prove: ciò che ne è preclusa, si osserva testualmente, è infatti solo l’utilizzazione a sostegno di una decisione o determinazione sul fatto controverso, a meno che non si tratti di informazioni di cui è preclusa qualsiasi utilizzazione, che ne comporti anche solo una comunicazione o diffusione.

Nel caso di specie, nulla di specifico è stato dedotto.

5. Nullità o inutilizzabilità delle testimonianze assunte prima del deposito della perizia trascrittiva delle conversazioni intercettate e sulla base delle sole trascrizioni di p.g.; ammissibilità delle testimonianze sul contenuto delle intercettazioni.

Coratti e Tassone hanno contestato la decisione della Corte di Appello che ha escluso la nullità o la inutilizzabilità delle deposizioni testimoniali assunte in assenza delle trascrizioni peritali delle intercettazioni, non ancora completate, ed utilizzando invece nel corso delle escussioni i brogliacci della polizia giudiziaria.

La Corte di appello aveva rigettato le analoghe questioni dedotte nella fase di merito considerando che tutte le parti avevano dato il consenso a sentire i testimoni prima del deposito della perizia trascrittiva e, comunque, in concreto, non vi era stata alcuna lesione del diritto di difesa poiché l’ascolto diretto delle conversazioni registrate avrebbe potuto consentire ai difensori di calibrare il controesame.

5.1. Si tratta di motivi infondati, valendo le risposte già date dalla Corte di appello in ordine ai motivi proposti in sede di appello che avevano ad oggetto la specifica ordinanza del Tribunale del 10 dicembre 2015 che rigettava la eccezione di nullità del provvedimento di autorizzazione alla citazione dei testimoni prima del completamento della trascrizione delle intercettazioni telefoniche ed ambientali.

5.2. Invece, viene proposta la nullità ovvero inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali, interamente o quanto meno nella parte in cui le stesse avrebbero «surrettiziamente introdotto, all’interno del processo di primo grado, dati ed elementi di natura investigativa che dovevano rimanere confinati all’interno delle indagini preliminari».

Viene, inoltre, dedotto il vizio di motivazione con riferimento alla utilizzazione di tali testimonianze.

5.3. Nella giurisprudenza di legittimità si registra un consolidato, ancorchè non univoco, indirizzo favorevole a ritenere che in tema di intercettazioni telefoniche, il contenuto delle conversazioni intercettate può essere provato anche mediante deposizione testimoniale, non essendo necessaria la trascrizione delle registrazioni nelle forme della perizia, atteso che la prova è costituita dalla bobina o dalla cassetta, che l’art. 271, comma primo, cod. proc. pen. non richiama la previsione dell’art. 268, comma settimo, cod.proc.pen. tra le disposizioni la cui inosservanza determina l’inutilizzabilità e che la mancata trascrizione non è espressamente prevista né come causa di nullità, né è riconducibile alle ipotesi di nullità di ordine generale tipizzate dall’art. 178 cod. proc. pen. (fra le altre, Sez. 1, n. 41632 del 03/05/2019, Chan, Rv. 277139; Sez. 1, n. 25806 del 20/02/2014, Caia, Rv. 259675; Sez. 2, n. 13463 del 26/02/ 2013, P.G. in proc. Lagano e altri, Rv. 254910; in senso conforme, Sez. 1, n. 12082 del 6/10/ 2000, Ippolito e altri, Rv. 217345, successivamente confermata da Sez. 2, n. 43606 del 10/10/2003, Isidori e altro, Rv. 227676).

Si è sottolineato come non sia inclusa, tra le cause di inutilizzabilità delle conversazioni intercettate, la mancata effettuazione della trascrizione delle registrazioni con le forme della perizia ed in tal senso si pone l’accento sul fatto che, da un lato, la prova è costituita dalle cassette o bobine contenenti le registrazioni e, dall’altro, che la trascrizione in forme diverse dalla perizia non è espressamente prevista né come causa di inutilizzabilità, né come causa di nullità.

Si afferma che la trascrizione delle intercettazioni telefoniche non costituisce prova o fonte di prova, ma solo “un’operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite mediante la registrazione fonica”, della quale si può far eseguire la trasposizione su nastro magnetico, sicchè la mancata esecuzione della trascrizione nelle indagini preliminari, senza che le parti la richiedano, non comporta la nullità, né l’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate (in tal senso, Sez. 5, n. 47270 del 15/07/2019, Zuccaro, Rv. 277649; Sez. 6, n. 3027 del 20/10/2015, Ferminio, Rv. 266497; Sez. 6, n. 10890 del 22/11/ 2005, dep. 2006, Palazzoni, Rv. 234103; Sez. 1, n. 43725 del 4/10/2011, Cassano, Rv. 251475; Sez. 1, n. 7342 del 6/02/2007, Mangone e altro, Rv. 236361).

La lettura delle sentenze di riferimento della giurisprudenza che si occupa di definire la natura delle operazioni di trascrizione delle intercettazioni conferma, peraltro, la sua complessiva coerenza con l’opzione interpretativa che ammette la testimonianza sul contenuto delle conversazioni intercettate, partendo dalla comune ottica che la trascrizione delle intercettazioni telefoniche non costituisce essa stessa “prova” o “fonte di prova”, ma solo “un’operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite mediante la registrazione fonica”.

E tuttavia, pur volendo prescindere da tale profilo, al di là della doglianza sulla (comprensibile) difficoltà incontrata nella adeguata conoscenza della grande quantità di registrazioni di conversazioni, i ricorrenti deducono in termini di fatto solo generici i profili di nullità ovvero inutilizzabilità.

Si rileva un’assoluta genericità in quanto non è specificato in che termini vi sarebbero state testimonianze sul contenuto di intercettazioni, se si tratti di testimonianze su conversazioni intercettate ma non registrate, registrate ma non trascritte o regolarmente trascritte.

Inoltre, a prescindere dall’ambito in cui le conversazioni intercettate possano essere oggetto di testimonianza, non vi è alcuna concreta deduzione su quali dichiarazioni abbiano avuto un tale contenuto, essendo ovviamente escluso un obbligo di verifica da parte del giudice di legittimità sulla scorta di una generica segnalazione della difesa; né è chiarito l’ambito del preteso collegamento tra la disponibilità delle trascrizioni delle intercettazioni e la effettuazione del controesame.

In ogni caso non può discutersi di inutilizzabilità perché questa può configurarsi solo in riferimento a specifiche violazioni di legge, come previsto dall’art. 191 cod. proc. pen., mentre è palese dallo stesso testo dei motivi che non si individua alcuna disposizione, in ipotesi violata, che abbia ad oggetto la possibilità per la difesa di adeguata preparazione per il controesame.

Anche per quanto riguarda la pretesa violazione di legge, non si individua alcuna specifica violazione delle disposizioni in materia di testimonianza.

Il tema è anche posto sotto il profilo del vizio di motivazione; effettivamente il contenuto delle dichiarazioni può risultare falsato per la non disponibilità di trascrizioni di intercettazioni etc. nell’ambito di motivi in oggetto.

La questione, però, si rivela posta ancora solo in termini generali non indicandosi neanche quali sarebbero le dichiarazioni o le parti di dichiarazioni di fatto non genuine per la modalità di raccolta.

6. Violazione dell’art. 267 cod. proc. pen.

La difesa di Bugitti, Buzzi, Di Ninno e Garrone sostiene che per le intercettazioni richieste in via di urgenza, poi disposte, sulla scorta delle informative del 3 ottobre 2012, andava applicata la regola ordinaria dell’art. 267 cod. proc. pen. che richiede la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e la assoluta indispensabilità per la prosecuzione delle indagini poiché a quella data non era stata ancora iscritta l’ipotesi di associazione mafiosa (iscrizione del 10 febbraio 2013) e Buzzi non era stato ancora iscritto nel registro degli indagati. Si tratta di questioni manifestamente infondate.

Innanzitutto, è un dato pacifico che si procedesse per il reato di associazione per delinquere, che rientra nell’ambito dei reati di criminalità organizzata di cui all’art. 13 legge 203 del 1991, con la conseguente applicazione delle disposizioni che consentono le intercettazioni in presenza di “sufficienti indizi” e di necessità per lo svolgimento delle indagini.

Inoltre, è irrilevante il generico dato della mancata iscrizione di Buzzi perché il concetto di “sufficienti indizi” ai fini dell’autorizzazione delle intercettazioni riguarda la esistenza del reato e non la responsabilità dei singoli.

7. Violazione dell’obbligo di redazione dei verbali di intercettazione.

Come detto, la difesa di Bugitti, Buzzi, Di Ninno e Garrone ha insistito sull’eccezione di inutilizzabilità di tutte le intercettazioni «per violazione dell’obbligo di redazione del verbale».

Il motivo risulta affetto da genericità.

La Corte di appello, sull’analogo motivo proposto rispetto alla ordinanza del Tribunale che escludeva la nullità/inutilizzabilità, ha dato atto «che l’unico verbale indicato dalla difesa di Buzzi riguardava alcune conversazioni della durata di zero secondi e ciò giustifica l’omessa verbalizzazione».

Il ricorso si limita ad una mera affermazione, ovvero che vi sia stata una generalizzata mancanza di sottoscrizione dei verbali; in tale modo, non ha rispettato l’ onere a carico della parte, a pena di inammissibilità del motivo per genericità, di indicare specificamente gli atti affetti dai vizi lamentati, nonchè l’onere di confutare espressamente la ricostruzione della Corte di Appello che ha dato atto di avere proceduto alla verifica di regolarità dei verbali delle intercettazioni utilizzate.

8. Assenza di riscontri delle intercettazioni.

Alcuni ricorrenti hanno dedotto quale violazione di legge «il mancato rispetto del canone probatorio di cui all’articolo 192, comma 3, cod. proc. pen.» nella valutazione delle intercettazioni.

Al di là di quanto sarà specificato nell’ambito dell’esame delle singole posizioni processuali, si tratta di una deduzione del tutto inconsistente, in quanto la norma invocata non impone affatto una regola di valutazione delle intercettazioni; il riferimento della disposizione è chiaramente alle “dichiarazioni” del coimputato etc., ovvero alle prove dichiarative, del testimone e dei soggetti di cui all’ art.210 cod. proc. pen.

Questa Corte, peraltro, ha anche ritenuto manifestamente infondata la questione della mancata estensione della regola probatoria 192, comma 3, cod. proc. pen. alla valutazione delle intercettazioni (Sez. 6, n. 258006 del 20/02/2014, Caia, Rv. 259673).

La questione, invece, almeno in termini generali, non risulta posta sotto il profilo del vizio di motivazione.

H. I reati di estorsione.

1. Le indagini avevano consentito di rilevare che nel periodo dal 2011 in poi Carminati e Brugia frequentarono con assiduità il gestore di un distributore di carburante Eni in Corso Francia, Lacopo Roberto.

Nel contesto di tali rapporti, costoro risultano avere compiuto reati connessi in particolare ad attività di recupero di prestiti fatti da Lacopo Roberto, ricorrendo all’ausilio di Calvio Matteo per atti di intimidazione e violenza.

La relazione tra tali soggetti è stata ritenuta integrare una associazione per delinquere finalizzata ad attività di usura, estorsione ed altro che, per la Corte di appello, era parte della più ampia associazione mafiosa da essa ipotizzata; soprattutto, questo di “Corso Francia” è stato ritenuto l’ambito dal quale promanava il carattere violento della associazione complessiva, tale da contribuire a determinarne il carattere mafioso.

Per questo gruppo di reati (capi da 2 a 7 del primo decreto) la Corte di appello, riformando la decisione di primo grado, ha ritenuto esservi la aggravante di cui all’ art. 7 legge n. 203.1991 (attuale art. 416-bis.1 cod. pen.), oltre che sotto il profilo della “agevolazione”, anche sotto il profilo del “metodo mafioso”.

Mentre l’aggravante della finalità agevolatrice viene automaticamente meno per la esclusione, di cui si darà conto nel prosieguo, del reato di associazione mafiosa, per la aggravante del “metodo mafioso” tale esclusione non è risolutiva: tale circostanza, come è evidente dal testo della norma e comunemente affermato in giurisprudenza, sussiste a fronte della adozione delle date modalità nella commissione del reato e, quindi, anche nel caso in cui non esista l’associazione mafiosa la cui forza di intimidazione è evocata.

Quindi, la esclusione della sussistenza del reato di associazione mafiosa non esclude di per sé che possa configurarsi tale aggravante e, perciò, si faranno le necessarie considerazioni per ogni singolo reato in cui è stata riconosciuta.

2. L’estorsione in danno di Massimo Perazza: ricorsi di Roberto Lacopo e Riccardo Brugia (capo 2 del primo decreto).

Per questo reato sono stati condannati Lacopo e Brugia, entrambi ricorrenti sul punto.

Secondo la contestazione, il 5 novembre 2012 Brugia per indurre Perazza al pagamento di un debito che aveva contratto nei confronti di Lacopo, per rifornimenti di carburante, lo avrebbe aggredito, cagionandogli lesioni.

La sentenza di appello ha fondato la responsabilità di Brugia, quale autore materiale dell’estorsione, e di Lacopo, quale “mandante”, sulla registrazione di un dialogo della vittima con il Brugia stesso presso il distributore, nonché in base ad altre intercettazioni e alcune dichiarazioni testimoniali di chi aveva ricevuto dallo stesso Lacopo confidenze su questa vicenda.

I ricorsi sono infondati per quanto riguarda la responsabilità per tale estorsione dovendosi, però, escludere l’aggravante del “metodo mafioso”.

2.1. Nei ricorsi si censura la sentenza per aver riconosciuto la responsabilità degli imputati senza aver acquisito le dichiarazioni della persona offesa. A questo proposito, si osserva che risulta pacifico dagli atti che il nominativo di Perazza non era nella lista testi del pubblico ministero, bensì in quella presentata da Brugia, che quest’ultimo rinunciò alla sua audizione e che la difesa di Lacopo non chiese che Perazza venisse comunque sentito. Pertanto, deve innanzitutto escludersi che vi sia stata la violazione di legge dedotta nel ricorso di Lacopo.

Infatti, la giurisprudenza, richiamata nello stesso ricorso, riconosce che vi è il diritto della parte che non ha richiesto la prova orale a procedere alla audizione del testimone cui invece rinunci la parte che lo ha indicato in lista, ma è necessario che faccia un’esplicita richiesta.

Lacopo, però, non ha dedotto di avere fatto una tale richiesta e, di conseguenza, deve ritenersi che non ha esercitato nelle forme rituali il potere di procedere alla assunzione del teste indicato dalla parte rinunciante. La questione è infondata anche sotto il profilo del vizio di motivazione.

La mancata audizione della persona offesa, nel caso concreto, non risulta abbia determinato una motivazione carente o affetta da vizi logici: i giudici di merito di entrambi i gradi del giudizio hanno adeguatamente ricostruito l’aggressione nei confronti del Perazza, motivata dal mancato pagamento di un debito nei confronti di Lacopo, sulla scorta delle intercettazioni e delle dichiarazioni degli inquirenti che hanno svolto le indagini.

2.2. Quanto alle aggravanti contestate, rinviando alla motivazione di questa decisione sulla esclusione della configurabilità dell’associazione mafiosa del capo 1 del primo decreto, vanno escluse sia l’aggravante della finalità di agevolazione che l’aggravante della commissione del reato ad opera di appartenenti ad un’associazione mafiosa.

Riguardo all’aggravante del “metodo mafioso” che, com’è noto, è integrata in caso di utilizzazione di determinate modalità della condotta indipendentemente dalla effettiva esistenza della associazione mafiosa evocata, la difesa di Lacopo afferma innanzitutto che la stessa non è stata applicata.

Effettivamente vi è una motivazione equivoca perché la Corte di appello (pag. 576), in riferimento a Lacopo, afferma sinteticamente che nei suoi confronti è configurabile l’aggravante «dell’agevolazione di sodalizio mafioso», apparentemente escludendo che ricorra anche l’altra ipotesi di cui all’art. 416- bis.1 cod. pen.

Invero, ogni dubbio è risolto dalla lettura della parte generale della medesima sentenza (pag. 46), dove si afferma che per tutti i reati di estorsione in contestazione – e solo per questi – ricorre anche l’aggravante del metodo mafioso. Tale circostanza, però, non risulta integrata nel caso di specie. Per questa aggravante, già prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, ora trasfusa dal d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, nell’art. 416-bis.1 cod. pen., quanto all’ipotesi dei “delitti … commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen.” va considerato il dato letterale che richiama il “metodo mafioso” con il quale venga realizzato il reato: è il caso in cui l’autore del reato, per realizzarlo, evoca la forza intimidatrice tipica di una associazione mafiosa e la stessa sia percepita come tale dalla vittima.

Si tratta di una caratterizzazione della condotta che, quindi, prescinde dalla prova della effettiva esistenza di un’associazione mafiosa la cui forza sia evocata, direttamente o implicitamente o, comunque, dalla prova che ne faccia parte ogni singolo concorrente nel reato.

Essendo una aggravante di tipo oggettivo che caratterizza il singolo reato, la stessa ben può essere esclusa per reati commessi da affiliati di una banda mafiosa là dove gli stessi, nel portare a termine la condotta, non facciano alcun riferimento alla loro associazione, così come può essere posta a carico di chi della associazione non faccia parte o, come ipotizzabile nel caso di specie, a carico del soggetto che commetta il reato con le date modalità pur se non risulti (o sia del tutto esclusa) l’esistenza dell’associazione ex art. 416-bis cod. pen.

Tali regole sono consolidate nella giurisprudenza di questa Corte, che ha sostenuto, ad esempio, essere «sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso», precisando che l’aggravante «è pertanto configurabile con riferimento ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, nonché nel caso di reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo» (Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271103).

Si è anche rammentato che la disposizione «ha la funzione di rprimere il “metodo delinquenziale mafioso”, ed è connessa non alla struttura ed alla natura del delitto rispetto al quale la circostanza è contestata, quanto, piuttosto, alle modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso» (Sez. 5, n. 22554 del 09/03/2018, Marando, Rv. 273190) e che è «sufficiente l’aver ingenerato nella vittima la consapevolezza che l’agente appartenga a tale associazione» (ex multis, Sez. 1, n. 16883 del 13/04/2010, Rv. 246753; Sez. 2, n. 49090 del 04/12/2015, Maccariello, Rv. 265515; Sez. 2, n. 36431 del 02/07/2019, Bruzzese, Rv. 277033).

2.3. Nella vicenda in questione tale aggravante va esclusa sia per la grave carenza della motivazione sul punto specifico, sia per non essere possibile affermarne la ricorrenza sulla scorta dei fatti ricostruiti dalla Corte di appello.

Quanto alla carenza della motivazione sull’ utilizzazione di tale “metodo”, la Corte territoriale ha innanzitutto ritenuto, sulla scorta di un succinto riferimento per tutti i reati di estorsione, applicabile l’aggravante quale conseguenza automatica dell’esistenza dell’associazione mafiosa, ma ciò non è certamente sufficiente perché, come si è detto, la norma prevede espressamente la necessità che sia accertata la determinata modalità della condotta.

La Corte, poi, aggiunge quale dato significativo di questa vicenda concreta che la vittima «collegò la sua aggressione a Brugia, Lacopo e a “quell’altro”»; non chiarisce, però, nè si comprende, perché ciò sarebbe significativo ai fini della modalità “mafiosa” della condotta; tale minima motivazione è, quindi, solo apparente.

In ogni caso, il complesso degli elementi probatori trascritti, con la succinta analisi fatta dai giudici di appello, dimostra che la vicenda in questione si colloca nell’ambito di relazioni stabili tra un limitatissimo numero di persone che continuano ad incontrarsi anche successivamente; Perazza risulta anche aver saldato l’ulteriore debito per acquisti che aveva effettuato nel negozio della convivente di Carminati (vicenda, peraltro, presente nel capo di imputazione, ma per la quale non vi è espressa condanna né se ne fa in alcun modo menzione) e, addirittura, secondo le trascrizioni delle conversazioni nel testo della sentenza di primo grado, Perazza nel medesimo contesto temporale in cui si lamentava dell’aggressione, avrebbe chiesto aiuto proprio al Lacopo per trovare un lavoro (va considerato che, però, vi sono significative differenze delle trascrizioni delle conversazioni, tanto che in quelle usate dalla Corte di appello la presunta richiesta di Penazza è trascritta in altro modo).

È quindi escluso che la condotta sia stata tenuta evocando la esistenza di una pretesa associazione mafiosa sia perché non vi è stata alcuna motivazione su una tale condotta e sia, soprattutto, perché la stessa è incompatibile con i fatti come ricostruiti dai giudici di merito.

3. Estorsione in danno di Fausto Refrigeri: ricorsi di Riccardo Lacopo e Matteo Calvio (capo 3 del primo decreto).

In questo caso, secondo l’accusa, l’estorsione sarebbe stata commissionata sempre da Lacopo che si sarebbe servito di Calvio per ottenere da Fausto Refrigeri il pagamento di alcuni assegni, risultati privi di copertura, ricevuti per rifornimenti di benzina: nel giugno 2013 Calvio avrebbe minacciato Refrigeri per costringerlo ad estinguere il debito. Entrambi, quindi, sono stati condannati.

I motivi dei due imputati in punto di responsabilità sono del tutto infondati.

3.1. Il fatto non è stato contestato da Lacopo e, del resto, la sua responsabilità è stata accertata con ampia motivazione dai giudici di merito sulla base della testimonianza della persona offesa e delle intercettazioni.

D’altra parte, le censure proposte nell’interesse di Calvio sono generiche, limitate alla mera negazione di quanto esposto in sentenza: in particolare, la sua attività minacciosa, consistita nel recarsi nella strada prospiciente la casa della vittima, e lì trattenendosi con atteggiamento platealmente minaccioso, risulta essere stata chiaramente percepita dal debitore; che, poi, Calvio sia stato o meno retribuito da Lacopo per tale opera di convincimento, non incide sul concorso nel reato che certo non richiede quale elemento costitutivo il suo tornaconto personale.

La qualificazione del reato quale estorsione è corretta, in quanto l’estorsione ricorre nel caso di una condotta di recupero di un credito, effettuata mediante l’ausilio di una terza persona inviata ad esercitare una “seria” violenza o minaccia.

Nel caso di specie deve ritenersi che la minaccia fosse seria sulla base innanzitutto di quanto affermato testualmente dalla vittima nel corso delle intercettazioni trascritte nella sentenza e comunque dichiarato dalla stessa quale testimone in dibattimento: la moglie gli aveva riferito di due persone, Brugia e Calvio, che in sua assenza si erano presentate a casa loro per incontrarlo e che Calvio era rimasto davanti casa in attesa del suo ritorno, assumendo un atteggiamento plateale, andando avanti ed indietro e riferendo ai passanti del debito del Refrigeri, minacciando violenze nei suoi confronti (la moglie di Refrigeri, in particolare, riferiva di espressioni quali «mò aspetto che arriva in garage e gli sfascio la macchina e poi gli buco la panza»).

3.2. Riguardo alle aggravanti, escluse quelle collegate alla esistenza della associazione mafiosa, come detto sopra, deve negarsi che vi sia stato un “metodo mafioso”. Vi è, infatti, innanzitutto una totale assenza di motivazione: la Corte di Appello si limita ad affermare che « Refrigeri subì la “visita” di Calvio e Brugia e ne chiese conto a Lacopo», ma si tratta di una motivazione solo apparente perché non è neanche riferibile al tema dell’aggravante. Comunque, una tale modalità è chiaramente esclusa alla stregua dei presupposti in fatto esposti dalla sentenza.

Le stesse trascrizioni delle conversazioni sui contatti tenuti dalla persona offesa con Lacopo dopo l’intervento di Calvio e, comunque, le modalità della condotta di quest’ultimo, non hanno alcuna caratteristica del “metodo mafioso”. Difatti, ribadite le regole esposte in riferimento all’estorsione del capo 2, non risulta in alcun modo espressamente evocata la “forza di intimidazione” di una associazione mafiosa e, soprattutto, i testimoni riferiscono, in piena corrispondenza con il contenuto del colloquio intercettato tra la vittima e Lacopo, che si era in presenza di minacce strettamente poste in essere per conto del Lacopo personalmente. Si consideri, infine, che l’obiettività della condotta non era di per sè di gravità tale da fare ipotizzare l’azione di una banda criminale.

4. Estorsione in danno di Manattini: ricorsi di Roberto Lacopo e Matteo Calvio (capo 4 del primo decreto).

Questa estorsione, secondo la ricostruzione contenuta nelle sentenze, è stata realizzata da Lacopo per recuperare un debito di 180.000 euro che Riccardo Manattini aveva contratto nei confronti di suo padre, Giovanni Lacopo, condannato per tale estorsione e successivamente deceduto.

In questo caso, sarebbe stato incaricato ancora una volta Calvio, il quale avrebbe minacciato e aggradito fisicamente Manattini. Hanno proposto ricorso sia Lacopo che Calvio.

4.1. I motivi sono infondati per la parte in cui escludono la responsabilità, proponendo valutazioni alternative rispetto al materiale probatorio, peraltro a fronte di una ricostruzione logica ed assai dettagliata del giudice di merito, non residuando ambiti di valutazione in questa sede di legittimità.

4.2. Invece, sono motivi fondati per quanto riguarda le aggravanti.

Per le aggravanti connesse alla esistenza della associazione mafiosa vale quanto detto sopra.

Quanto al “metodo mafioso”, ribadite le regole esposte in riferimento all’estorsione del capo 2, anche in questo caso non vi è stata alcuna specifica valutazione da parte della Corte di appello, ragione che giustificherebbe di per sé l’annullamento.

Comunque è evidente dagli stessi presupposti in fatto lungamente esposti (e dalla sintesi della vicenda fatta nella sentenza di primo grado, soprattutto quanto ai complessivi rapporti ed alla particolare personalità di Manattini, ritenuto dai giudici di merito «un abile truffatore, abituato a dilapidare il denaro, soprattutto altrui, e capace di ottenere e gestire prestiti su più fronti») che, pur se sono riportate circostanze maggiormente indicative di un timore della persona offesa nei confronti di Carminati e Brugia (non condannati per tale reato, pur se presenti nel contesto ambientale in cui veniva a trovarsi la medesima persona offesa), non si fa mai riferimento ad alcuna evocazione di un’associazione mafiosa. Se del caso, da quanto riportato, il timore era dovuto alla notorietà criminale propria dei due.

Anche per tale reato, quindi, l’annullamento per la esclusione di tale aggravante va disposto senza rinvio non residuando ambiti per una diversa decisione.

5. Tentata Estorsione in danno di In fantino Andrea: ricorso di Riccardo Brugia (capo 5 del primo decreto).

Brugia è stato ritenuto responsabile del tentativo di estorsione ai danni di Infantino, titolare di una gioielleria, per ottenere il pagamento di un debito contratto nei suoi confronti. In assenza della prova del versamento effettivo, la Corte di appello ha ritenuto che si trattasse di un fatto restato allo stadio di tentativo. Per ottenere il pagamento del debito, Infantino sarebbe stato aggredito e picchiato in occasione di una sua visita a Brugia presso la pompa di benzina di Corso Francia, dove lo stesso sarebbe giunto con la figlia.

Dalle conversazioni intercettate e riportate dalla sentenza impugnata, Brugia sarebbe stato consigliato da alcuni presenti a non aggredire Infantino alla presenza della figlia, sicché l’avrebbe portato nel retro del locale per poi picchiarlo.

5.1. Il terzo motivo del ricorso di Brugia avverso tale condanna è infondato. Innanzitutto, quanto alla pretesa violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., il ricorso si limita ad una mera doglianza, non considerando la specifica risposta della Corte di appello sull’analogo motivo dell’impugnazione di merito. Poi, a fronte di una ricostruzione dei fatti rilevanti con motivazione completa ed esente da palesi errori logici, il ricorrente sostanzialmente formula generiche contestazioni in punto di fatto, non compatibili con il giudizio di legittimità.

Vanno, invece, escluse le aggravanti con i medesimi rilievi già fatti.

Anche in questo caso, peraltro, la vicenda si colloca nell’ambito di rapporti personali diretti e certamente senza alcuna evocazione di forza “mafiosa”. Innanzitutto la Corte di appello non indica alcuna ragione per la quale la aggravante vada contestata in questa vicenda; né per questa può rilevare la affermazione generale che i responsabili di ciascuna estorsione erano «soggetti incaricati delle riscossioni» in quanto, in questo caso, Brugia agiva per un proprio credito, in parte derivante dalla indebita appropriazione dei due orologi che Brugia aveva consegnato in conto vendita.

Poi, comunque, non risulta in alcun modo l’evocazione”, anche solo implicita, della forza di una associazione mafiosa, perché quanto riportato in sentenza è chiaramente riferito ad una condotta minacciosa e violenta nei rapporti personali diretti tra Brugia e Infantino.

6. Tentata estorsione in danno di Seccaroni: ricorsi di Riccardo Brugia e Massimo Carminati (capo 6 del primo decreto).

Brugia e Carminati sono stati ritenuti colpevoli del reato di cui agli artt. 56 e 629 cod. pen. per avere tentato, tra l’aprile e il giugno del 2013, di costringere Luigi Seccaroni, commerciante di automobili, a cedere loro un terreno al quale erano interessati per utilizzarlo a fini economici.

La Corte di appello ha valorizzato, oltre alle intercettazioni di conversazioni, quanto riferito dalla persona offesa che ha raccontato dei suoi iniziali rapporti con Brugia e Carminati, di come costoro avessero iniziato a frequentare con assiduità il suo esercizio commerciale assumendo un atteggiamento invadente e, quindi, della loro pretesa ad ottenere la cessione del terreno in questione. Per indurlo a tanto, erano giunti a minacciarlo di danni alla sua persona, ai suoi familiari ed all’azienda.

6.1. I motivi di Brugia e Carminati riferiti a tale reato sono infondati in quanto non vi è alcun vizio di motivazione.

Brugia, in particolare, fa riferimento ad avere segnalato nell’impugnazione contraddizioni, inesattezze e falsità di quanto detto da Seccaroni nel corso delle conversazioni intercettate e rinvia alla «corposa produzione documentale in corso di causa», in particolare brogliacci di conversazioni, per porre in dubbio la attendibilità della testimonianza di Seccaroni.

Carminati, parimenti, contesta la valutazione di attendibilità della testimonianza di Seccaroni, segnalando il contrasto con una intercettazione di cui indica la corretta interpretazione ed altre discordanze che renderebbero inattendibile la testimonianza della vittima.

La Corte di appello, invero, ha ricostruito la vicenda con ampie argomentazioni per le quali non si rilevano errori logici ed ha sostanzialmente considerato i dati incerti segnalati dalle difese; non ha quindi avuto ragioni per dubitare dell’attendibilità di Seccaroni, riscontrato dal testimone Zanna, che ha riferito dell’attività dei ricorrenti per indurre lui ed il padre a cedere il terreno, chiarendo ciò che già era risultato chiaro dalle intercettazioni.

A fronte di tale motivazione adeguata, i motivi risultano sostanzialmente mirati alla revisione della valutazione delle prove, proponendo una interpretazione alternativa di alcune intercettazioni, attività non consentita in sede di legittimità.

6.2. Anche in questo caso vanno escluse le aggravanti in contestazione, come già detto. Più in particolare, per quanto riguarda il “metodo mafioso”, la Corte di appello in questo caso si sofferma lungamente sulle dichiarazioni della persona offesa in udienza nonché su quanto intercettato per rilevare la particolare condizione di intimidazione del Seccaroni rispetto ai due imputati.

Sebbene risulti che il Seccaroni fosse di per sé in soggezione nei confronti dei due, prima ed a prescindere dall’esercizio di minaccia nella specifica vicenda del terreno, tuttavia non si può ritenere che vi sia stata una intimidazione mafiosa: il timore era chiaramente riferito alle specifiche persone di Carminati e Brugia, situazione peraltro del tutto comune in tema di estorsione, e non ad una pretesa forza di una banda criminale di appartenenza. Come la stessa Corte riferisce, Seccaroni «sentito in fase di indagini il 27.1.205 ha spiegato che il rapporto con Brugia e Carminati era nato come rapporto di lavoro perché i due erano suoi clienti, che però poi in seguito erano divenuti sempre più invadenti». Anche il teste Zanna ha affermato che i timori paventati dal Seccaroni erano riferiti ai due ricorrenti.

Quindi, a prescindere dalla portata effettiva dell’atteggiamento di intimidazione e delle questioni poste dalle difese sulla incertezza manifestata dalla persona offesa in occasione della sua deposizione, dovute alla inattendibilità e non alla condizione di intimidito, quanto rappresentato non integra un “metodo mafioso” rilevante ai fini dell’art. 416-bis.1 cod. pen., che richiede l’evocazione e percezione di una associazione mafiosa.

7. Estorsione in danno di Seccaroni: ricorso di Riccardo Brugia (capo 7 del secondo decreto).

Brugia è stato condannato anche in relazione ad una seconda estorsione realizzata sempre ai danni di Seccaroni. Lo avrebbe costretto a consegnargli la somma di mille euro, corrispondente alla provvigione che il Seccar ni aveva guadagnato per la rivendita di un’automobile BMW X3 dello stesso Brugia, lasciata in permuta in funzione dell’acquisto di una Jeep Wrangler, consegnata a Brugia il 5 aprile 2013.

Dalla sentenza si apprende che Brugia si era lamentato perché il commerciante, cui era stata affidata la sua vecchia auto per la rivendita, l’aveva poi effettivamente rivenduta con un forte ricarico, così dimostrando che a lui, al momento della permuta, era stato riconosciuto un valore troppo basso. Le intercettazioni hanno dimostrato, nella ricostruzione dei giudici, che Seccaroni ha effettivamente consegnato a Brugia la somma pari alla propria provvigione, di mille euro; inoltre, «nel corso del suo esame il 21.3.2016 Seccaroni ha confermato la vicenda dell’auto e ha spiegato di aver restituito a Brugia i mille euro della sua provvigione per non scontentarlo come cliente».

7.1. Il ricorso di Brugia per tale reato è infondato.

Anche in questo caso l’imputato contesta la ricostruzione dei fatti che nella sentenza non è affatto carente né presenta manifesti errori logici rispetto alle premesse in fatto. In particolare, la Corte di appello ha offerto argomentazioni congrue per ritenere dimostrata la minaccia implicita per potere ottenere una maggiore somma per l’auto data in permuta, che è poi corrisposta a quella che inizialmente era la provvigione spettante al Seccaroni.

I giudici di secondo grado hanno spiegato come Seccaroni decise di dare a Brugia la somma a lui spettante in ragione di quella condizione di intimidazione creata volutamente dal Brugia nel contesto della vicenda del capo 6).

In questo modo, il giudice di merito ha superato l’ipotesi alternativa, secondo cui che la condotta di Seccaroni si sarebbe limitata al mero cedere ad una pretesa di un cliente che, pur se in torto, non si voleva scontentare.

A fronte della adeguatezza di tale motivazione, non può farsi un diverso apprezzamento di fatto in questa sede. Va anche confermata la qualificazione giuridica del fatto poiché la pretesa del Brugia, cui la vittima ritenne di dovere aderire per il timore che aveva nei suoi confronti, non era comunque riferibile al rapporto con Seccaroni; questi aveva avuto il ruolo di mero intermediario per avere fatto da tramite con il compratore ed aveva ricevuto una provvigione che si vide costretto a riversare per intero al Brugia. L’eventuale “diritto” alla differenza per il maggiore valore dell’auto venduta doveva essere fatto valere, se del caso, nei confronti del terzo commerciante di auto usate.

È palese, quindi, la ingiustizia della pretesa nei confronti di Seccaroni per cui il fatto effettivamente integra il reato di estorsione.

7.2. Anche per questa ipotesi, comunque, vanno escluse le aggravanti valendo gli argomenti già svolti. Per il “metodo mafioso”, risulta utilizzato, per ottenere il risultato, il timore dovuto alle singole persone del Brugia e del Carminati, per la propria capacità criminale; la stessa decisione impugnata non ha neanche prospettato alcuna evocazione di forza criminale di un gruppo. III.

I reati commessi per la espansione delle attività delle cooperative facenti capo a Salvatore Buzzi.

1. Premessa.

Si tratta di reati che, nella ricostruzione dei giudici di merito, sarebbero stati commessi nell’ambito delle attività delle cooperative facenti capo a Salvatore Buzzi, finalizzati alla acquisizione di appalti di servizi del Comune di Roma e di altri enti esercenti servizi pubblici locali.

Secondo la sentenza impugnata «Buzzi sviluppò un sistema di cooperative e di società di capitali (che davano lavoro ad oltre 1.000 dipendenti, fra cui molti ex detenuti), le quali erano contigue a settori e partiti di Sinistra, e formavano un gruppo coordinato con sede in via Pomona.

Questo gruppo cooperativistico di Buzzi aveva instaurato rapporti con il mondo politico e burocratico dell’amministrazione capitolina, principale committente delle prestazioni offerte dalle cooperative, tra l’altro nei settori della manutenzione del verde, dell’accoglienza degli immigrati e dello smaltimento dei rifiuti.

Per quanto riguarda l’attività svolta da Buzzi prima della sua intesa con Carminati, lo stesso Buzzi ha descritto un sistema degli appalti al Comune di Roma fondato sugli accordi spartitori più o meno leciti e ha ammesso di aver costruito nel tempo una serie di contatti con i vertici dell’Amministrazione e con i politici, anche ad alto livello (andava personalmente a parlare con Alemanno e Gianni Letta – pag. 1804 sentenza).

Nel confermare la responsabilità di Ozzimo la sentenza di questa Corte di appello in data 6.7.2017, divenuta definitiva, ha accertato che “già da tempo prima dei fatti di questo processo” le cooperative di Buzzi furono favorite sia legittimamente che illegittimamente da alcuni esponenti politici asserviti al suo sistema.

Fabio Melone, amministratore della cooperativa sociale Sviluppo e Servizi, nel corso delle indagini ha dichiarato che dal 2006 era impossibile partecipare alle gare riservate alle cooperative sociali nell’ambito dei servizi gestiti da Ama, Servizio Giardini e più in generale nel settore dell’ambiente perché le gare venivano fatte su misura per la 29 Giugno.

Il teste in particolare ha dichiarato, riferendosi a Buzzi: “se non andavi a genio a lui avevi chiuso” (cfr. dichiarazioni rese in data 28.1.2015 riportate nella sentenza del Gup del Tribunale di Roma in data 3.11.2015 nei confronti di Salvatori Emanuela e Gammuto Emilio ed altri, divenuta irrevocabile il 28.2.2018 ed acquisita in primo grado all’udienza del 1.2.2016).

Il gruppo di Buzzi, attraverso la remunerazione (sovvenzioni per cene ed eventi, assunzione di soggetti raccomandati, scambi di favori, vere e proprie tangenti) di politici appartenenti sia alla sua area di riferimento sia allo schieramento opposto, riusciva a sollecitare finanziamenti pubblici e poi in concreto l’affidamento dei servizi finanziati, riuscendo negli anni ad ottenere le proroghe delle precedenti assegnazioni.

Buzzi aveva creato uno stabile sistema di infiltrazione nelle istituzioni in base a cui i Dipartimenti, i Municipi e gli altri centri di costo di Roma Capitale per la gestione dei servizi fecero ricorso sistematico alle proroghe non previste nel bando originario e ad affidamenti diretti in favore delle alle cooperative di Buzzi ostacolando la libera concorrenza e alterando la possibilità di accesso alle gare di appalto e la regolarità del loro svolgimento».

A sua volta il Tribunale ha evidenziato come il gruppo di gestione delle cooperative di Buzzi, per la presenza di uno stabile programma di ricorso ai reati di corruzione, turbativa d’asta e quant’altro per l’espansione nel proprio settore economico di interesse, avesse costituito una associazione per delinquere alla quale, alla fine del 2011, si aggregò anche Carminati iniziando una collaborazione con Buzzi.

Su questo punto, la ricostruzione della Corte di appello diverge in quanto ritiene che nel 2011 sia nata una nuova associazione con la confluenza nell’associazione di Buzzi non solo di Carminati, ma dell’intero gruppo di Corso Francia. Tale questione sarà oggetto di un’apposita trattazione, mentre per ora verranno valutati i singoli reati, ritenuti anche reati fine della associazione per delinquere.

2. I reati di corruzione: le questioni giuridiche in campo.

La Corte di Appello con una argomentazione generale, riferita ad una pluralità di contestazioni in cui pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio risultavano messi “a libro paga” dalla organizzazione criminale, ha affermato conclusivamente che «le numerose ipotesi accertate di corruzione c.d. “per asservimento della funzione” devono quindi essere qualificate come corruzioni “proprie”, caratterizzate dalla vendita della discrezionalità e dalla rinunzia alla valutazione comparativa degli interessi, punibili ai sensi dell’art. 319 del c.p., e devono essere configurate come “reati permanenti” rispettivamente consumati con l’ultima delle condotte».

Tale valutazione giuridica non può essere generalizzata.

Si tratta di una questione che è stata oggetto di motivi di ricorso da parte di numerosi molteplici imputati ed è dunque necessario fissare i principi di diritto di riferimento. Sulla base di tali regole generali, si procederà a qualificare i fatti oggetto delle singole imputazioni.

2.1. I rapporti tra corruzione propria e corruzione impropria prima delle modifiche apportate con la legge n. 190 del 2012.

Nel sistema precedente alla riforma attuata con la legge 6 novembre 2012, n. 190, il reato di corruzione esprimeva una concezione c.d. mercantile; si incriminava la pattuizione avente ad oggetto la compravendita di singoli atti amministrativi, conformi o contrari ai doveri d’ufficio.

Nell’ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, erano disciplinati i distinti reati di corruzione propria o per atti contrari ai doveri d’ufficio, di cui all’art. 319 cod. pen., e di corruzione impropria o per atto d’ufficio, punita dall’art. 318 cod. pen.

La relativa linea di discrimine riguardava l’oggetto del patto corruttivo e, in particolare, la conformità o meno ai doveri d’ufficio dell’atto compiuto.

Il chiaro riferimento all’atto dell’ufficio aveva tuttavia fatto emergere evidenti difficoltà in tutti i casi di sistemici rapporti “clientelari” tra soggetti pubblici e privati, cioè quei rapporti che prescindevano da una stretta logica di formale sinallagma, in quanto fondati non sul mercimonio di specifici atti – singoli o molteplici – quanto, piuttosto, sull’asservimento della parte pubblica, che si poneva stabilmente a disposizione di quella privata. In particolare, l’ineffettività del sistema, la sua incapacità a fornire una limpida risposta, la sua inadeguatezza strutturale emergeva in maniera evidente in tutti i casi in cui il patto corruttivo aveva ad oggetto “il rapporto” tra soggetto pubblico e privato e ruotava su interessenze sganciate “a monte” dal compimento di specifici atti, che, peraltro, in molti casi non erano rinvenibili nemmeno ex post.

Si trattava di casi in cui l’oggetto del patto corruttivo era, per così dire, muto, nel senso che al momento in cui l’accordo illecito veniva concluso il pubblico ufficiale non “vendeva” atti , ma se stesso, il suo essere pubblico ufficiale, la sua funzione, il futuro esercizio del potere pubblico.

L’effetto che ne era conseguito era stato il sostanziale mutamento dell’oggetto dello scambio corruttivo, passato dall’atto alla funzione del pubblico agente.

Tale traslazione si era verificata nel corso del tempo attraverso:

a) la dematerializzazione dell’elemento di fattispecie di corruzione propria dell’atto di ufficio;

b) la inclusione nella nozione di atto d’ufficio dei meri comportamenti, ovvero l’affermazione di principio secondo cui sarebbe stato sufficiente la individuabilità nel genere dell’atto;

c) la interpretazione estensiva dello stesso concetto di atto contrario ai doveri d’ufficio, ravvisata anche nei casi in cui l’atto, pur formalmente legittimo, persegua “finalità diverse”; la questione, come meglio si dirà, attiene all’esercizio dell’attività discrezionale ed in tale contesto si era tendenzialmente ritenuto di ravvisare “sempre” la corruzione propria, addebitando al pubblico agente la violazione di doveri generali e, in particolare, di quello d’imparzialità, per il fatto oggettivo di avere ricevuto denaro o altra utilità;

d) l’affermazione secondo cui la corruzione propria era ravvisabile anche nel caso in cui la promessa o la dazione fossero riferiti nella previsione generica di eventuali, futuri, imprecisati atti, al fine di ottenere la benevolenza del soggetto corrotto;

e) l’inevitabile sostanziale ridimensionamento della corruzione impropria, sussistente nei soli casi in cui il mercimonio riguardasse specifici atti conformi ai doveri d’ufficio e cioè, in sostanza, solo nei casi di compimento di atti vincolati.

2.2. La “nuova” fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione. In tale contesto è intervenuta la legge n. 190 del 2012 che ha introdotto la nuova fattispecie di corruzione per la funzione prevista dall’art. 318 cod. pen.

Con la nuova fattispecie:

a) è scomparso il riferimento all’atto d’ufficio legittimo, adottato o da adottare da parte del pubblico ufficiale;

b) il patto corruttivo ha per oggetto l’esercizio dei poteri o delle funzioni: il compenso che il pubblico agente riceve non retribuisce più il compimento di un atto non contrario ai doveri dell’ufficio, ma, più in generale, rimunera “la presa in carico” degli interessi di cui è portatore il privato;

c) il consenso del funzionario pubblico alla pattuizione illecita deve essere accertato, atteso che l’accordo segna la linea di confine con la “nuova” istigazione alla corruzione (art. 322, comma 1, cod. pen.) in cui l’offerta e la promessa di denaro o altra utilità non è accettata dall’agente pubblico ovvero resta allo stadio di sollecitazione, se l’iniziativa proviene da quest’ultimo (art. 322, comma 3, cod. pen.);

d) è stato configurato un reato eventualmente permanente, almeno nei casi di plurime dazioni indebite che trovano una loro ragione giustificatrice nel fattore unificante dell’asservimento della funzione pubblica. (Sez. 6, n. 3043 del 27/12/2015 (dep. 2016), Esposito, Rv. 265619, in cui la Corte ha qualificato in termini di corruzione per l’esercizio della funzione la condotta di un indagato che aveva stabilmente asservito le proprie funzioni di consigliere comunale, nonché di presidente e vicepresidente di commissioni comunali, agli scopi di società cooperative facenti capo ad altro coindagato; nello stesso senso, Sez. 6, n. 49226 del 25/9/2014, Chisso, Rv. 261355).

Entrambe le fattispecie criminose previste dagli artt. 318 – 319 cod. pen. descrivono il perfezionamento di una pattuizione tra un privato e un soggetto qualificato, il cui oggetto tuttavia deve essere accertato.

Concluso l’accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione; è l’accordo che si punisce, anche se intervenuto successivamente all’adozione dell’atto- legittimo o illegittimo che sia – ovvero all’esercizio della funzione.

Ciò che accomuna le due fattispecie è il divieto di “presa in carico” d’interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario, dunque con un atto specifico; nella corruzione per l’esercizio della funzione, invece, la “presa in carico” realizza un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi in futuro, in modo non preventivato e non preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo. I delitti di corruzione puniscono il collateralismo clientelare o mercantile.

2.3. I rapporti tra gli artt. 318 e 319 cod. pen.: l’indirizzo della giurisprudenza che si pone in continuità con il precedente. Si è posto il tema della corretta individuazione dei rapporti strutturali tra le due fattispecie. Secondo un primo orientamento, autorevolmente sostenuto in dottrina, nella specie vi sarebbe un’ipotesi di concorso apparente di reati ex art. 15 cod. pen.; le due fattispecie sarebbero tra loro in rapporto di specialità unilaterale per specificazione.

Sarebbe generale la norma di cui all’art. 318 cod. pen. e speciale quella dell’art. 319 cod. pen.; il reato di corruzione propria sarebbe infatti configurabile solo in presenza di uno specifico atto, individuato o individuabile, oggetto dell’accordo corruttivo.

Un secondo orientamento fa invece riferimento al principio di sussidiarietà ed al disvalore giuridico del fatto: tra due norme, che tutelano lo stesso bene giuridico, si dovrebbe applicare quella che realizza un’offesa maggiore.

Dunque, anche seguendo detta impostazione, l’art. 319 cod. pen. sarebbe applicabile solo in presenza di un accordo che preveda da parte del pubblico funzionario corrotto il compimento di un atto determinato o determinabile.

In definitiva, due diversi ambiti:

1) il primo, riferibile all’art. 319 cod. pen., in cui il patto corruttivo ha ad oggetto uno specifico atto, determinato o determinabile, che il funzionario si sia impegnato a compiere (o abbia compiuto) a favore del privato;

2) il secondo, relativo al nuovo art. 318 cod. pen., riguarda tutti i casi in cui l’agente pubblico si accorda con il privato corruttore, ma l’oggetto del patto attiene alla messa a disposizione della sua funzione o dei suoi poteri in relazione al compimento di possibili, futuri, non specificati atti vantaggiosi e favorevoli per il privato; si tratta di casi in cui la dazione pone le condizioni per ottenere futuri favori.

Rispetto a tale quadro di riferimento, la questione riguarda se, anche dopo la nuova fattispecie di corruzione per la funzione, continuino ad essere riconducibili al reato di corruzione propria tutti quei fatti che, sulla base del diritto vivente precedente alla legge n. 190 del 2012, erano ricondotti all’art. 319 cod. pen. in ragione della indicata attività interpretativa estensiva, sostanzialmente fondata sul processo di smaterializzazione dell’atto oggetto del patto corruttivo.

In concreto, il tema attiene a tutti i casi in cui il pubblico ufficiale sia “solo” a “libro paga” e se la nuova fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. debba essere interpretata come se il suo dato testuale sia rimasto identico a quello precedente, nel senso di ritenere configurabile la fattispecie in questione solo in presenza di atti conformi ai doveri d’ufficio e, fra questi, solo in presenza di atti vincolati, atteso che, in presenza di patti prospettici ovvero di atti discrezionali, il reato sussistente sarebbe sempre quello di corruzione propria.

Secondo un primo orientamento, che parrebbe consolidato, all’art. 318 cod. pen. non potrebbero essere ricondotti i casi di generale asservimento dell’intera funzione, che continuerebbero ad integrare la fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio. Gli argomenti sono molteplici, costantemente richiamati.

Si è sostenuto, da un lato, che il generico riferimento, anticipato dalla preposizione finalistica “per”, all’esercizio delle funzioni e dIei poteri del pubblico ufficiale – espresso dal nuovo art. 318 cod. pen. – non consentirebbe una immediata decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri può assumere in concreto, e, dall’altro, che sarebbe ben singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla legge n. 190 del 2012), tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatorie di sempre più diffusi fenomeni di corruzione sistemica e a renderne più agevole l’accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell’offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.).

Il tema – in verità valorizzato prima della modifica della cornice edittale dell’art. 318 cod. pen., ad opera della legge 9 gennaio 2019, n. 3 – ruota intorno all’assunto secondo cui non sarebbe sistemico che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità (“venda”) un solo suo atto contrario all’ufficio debba essere punito con una cospicua pena, mentre invece un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l’intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o nemmeno specificamente individuabili ex post (in caso diverso si rifluirebbe, come è ovvio, nella previsione dell’art. 319 cod. pen.), debba essere irrazionalmente punito con una pena più mite.

Una diversa interpretazione, evidenzia l’impostazione in parola, troverebbe giustificazione solo sul presupposto, tuttavia non razionale sul piano sistematico, secondo cui vi sarebbe una maggiore offensività ed un più elevato disvalore giuridico e sociale nella condotta prevista dall’art. 318 cod. pen. rispetto a quella di cui all’art. 319 cod. pen.

Tali considerazioni spiegano l’affermazione tradizionale secondo cui, ai fini della integrazione del delitto di cui all’art. 319, non sarebbe necessaria l’individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, a condizione che, dal suo comportamento, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli ed a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (Sez. 6, n. 22301 del 24/05/2012, Saviolo, Rv. 254055 che richiama, tuttavia, Sez. 6, n. 34417 del 15/05/2008, Leoni, Rv. 241081; Sez. 6, n. 20046 del 16/01/2008, Bevilacqua, Rv. 241184; Sez. 6, n. 21192 del 26/02/2007, Eliseo, Rv. 236624; si tratta di pronunce tutte precedenti alla introduzione della nuova fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen.).

Dunque, la fattispecie prevista dall’art. 318 avrebbe sostanzialmente un ambito di operatività residuale, potendo ravvisarsi solo nella ipotesi in cui la vendita della funzione abbia ad oggetto il mercimonio di un atto conforme ai doveri di ufficio, ovvero un atto non determinato (ex ante o ex post), ovvero non determinabile; il reato non sarebbe neppure sostanzialmente configurabile, come si dirà, nemmeno nel caso di atto discrezionale conforme ai doveri d’ufficio (sul tema, Sez. 6, n. 8211 del 11/2/2016, Ferrante, Rv. 266510; Sez. 6, n. 40237 del 7/7/2016, Giangreco, Rv. 267634; Sez. 6, n. 15959 del 23/2/2016, Caiazzo, Rv. 266735; Sez., 6, n. 47271 del 25/9/2014, Casarin, Rv. 260732; Sez. 6, n. 6056 del 23/9/2014, (dep. 2015), Stafferi, Rv. 262233, Sez. 6, n. 9883 del 15/10/2013, (dep. 2014), Terenghi, Rv.258521; conforme è anche Sez. 6, n. 24535 del 10 aprile 2015, Mogliani).

L’atto, peraltro, sarebbe sempre quantomeno determinabile in ragione della competenza e della sfera di influenza del pubblico ufficiale; nel contesto della interpretazione estensiva dell’art. 319 cod. pen. di cui è detto, l’indirizzo in esame si pone infatti in chiara continuità con il principio secondo cui, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 319 cod. pen., sarebbe sufficiente la mera individuabilità del genus di atti da compiere, e detta operazione sarebbe possibile in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al genus. (tra le tante, Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012, Di Giorgio, Rv. 253216; Sez.6, n. 2818 del 02/10/2006, Bianchi, Rv. 235727).

Un’interpretazione conservativa del nuovo art. 318 cod. pen., a cui viene attribuita una sostanziale funzione accessoria, di contorno, come se il testo della norma non fosse stato innovato.

2.4. La corruzione per l’esercizio della funzione e la anticipazione della tutela.

Restano tuttavia sullo sfondo delicate questioni che attengono, da una parte, al rapporto di specialità unilaterale che caratterizza il reato di corruzione propria rispetto a quello di cui all’art. 318 cod. pen, e, dall’altro, sul piano della offensività, alla progressione criminosa che viene a realizzarsi attraverso le due fattispecie.

Quanto a quest’ultimo profilo, si è già detto di come sia diffusa l’affermazione secondo cui la offensività della condotta del pubblico ufficiale che venda la funzione senza accordarsi per il compimento di un atto specifico, determinato o determinabile, contrario ai propri doveri di ufficio sarebbe comunque maggiore rispetto a quella del funzionario che, in ragione del patto corruttivo, compia anche solo un atto contrario ai propri doveri di ufficio.

Si tratta di un assunto che deve essere precisato.

Si è correttamente evidenziato come, se è vero che, attraverso l’art. 318 cod. pen. il legislatore abbia inteso punire di per sé la condotta del pubblico ufficiale che, dietro compenso di una utilità, “prenda a carico” un interesse privato a prescindere dal compimento di un atto dell’ufficio, è altrettanto vero che in tali casi l’incriminazione sembra rispondere alla logica della anticipazione della tutela del bene protetto dalla norma – e, in particolare, della imparzialità dell’agire amministrativo- secondo lo schema del reato di pericolo.

In tal senso la fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. rivela una offensività diversa e – probabilmente – minore rispetto al reato di corruzione propria, che è fondata, invece, sul danno in concreto arrecato e sull’accertamento di un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio.

Se infatti l’oggetto dell’accordo corruttivo con cui il pubblico ufficiale vende “solo” la sua funzione è l’impegno a considerare in futuro, cioè a curare, gli interessi del privato corruttore ed a tutelarlo, appaiono condivisibili le impostazioni dottrinarie e le affermazioni contenute in altre sentenze della Corte di cassazione secondo cui «il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio).

Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto» (ed in particolare, della imparzialità dell’azione amministrativa) meritando quindi una pena più severa (così, Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018 (dep. 2019), Palozzi, Rv. 274984; nello stesso senso, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261353, e sostanzialmente, Sez. 6, n. 33828 del 26/04/2019, Masobrio, Rv. 276783; Sez. 6, n. 32401 del 20/06/2019, Monaco, Rv. 276801).

È fondato ritenere che la nuova formulazione dell’art. 318 cod. pen., ora rubricata come ‘corruzione per l’esercizio della funzione’, abbia inciso notevolmente sulla struttura della norma, mutandone la natura; mentre infatti nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno, connesso alla compravendita di un atto d’ufficio (purché non contrario ai doveri), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di ‘compravendita della funzione’ non connesse causalmente al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio.

Dunque, una offensività “diversa” e “minore”, rispetto a quella insita nel reato di corruzione propria, che giustifica una risposta sanzionatoria minore.

L’art. 318 cod. pen. sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l’intesa programmatica – l’impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcunchè -, previene la compravendita degli atti d’ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. «Il discrinnine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio).

Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa» (così, Sez. 6, n. 4486, Palozzi, cit.).

In tale ottica, la recente modifica apportata all’art. 318 dalla legge n. 3 del 2019, che ha consistentemente aumentato la pena per il reato di corruzione per l’esercizio della funzione, ha indubbiamente eliso una delle argomentazioni maggiormente valorizzate dall’indirizzo che riconduce all’art. 319 cod. pen. “la messa a libro paga” del pubblico funzionario e contribuisce a sgomberare il campo da possibili fraintendimenti.

Sotto altro profilo, se la fattispecie di reato di cui all’art. 319 cod. pen. è in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quella di cui all’art. 318 cod. pen., è necessario che l’atto contrario ai doveri d’ufficio sia specificamente individuato o individuabile, altrimenti il fatto non potrà che essere sussunto nella fattispecie generale, cioè nell’art. 318 cod. pen.

Assume decisiva valenza non il mero riferimento astratto ed onnicomprensivo alla competenza dell’ufficio, di cui si è in precedenza detto, quanto, piuttosto, il contenuto del patto corruttivo. Il tema si incrocia con l’accertamento probatorio dei fatti e, in particolare, con il senso e la natura dell’accordo.

È possibile che il patto corruttivo sia solo apparentemente muto, ma in realtà il suo oggetto sia in concreto ricostruibile, nel senso che l’impegno da parte del pubblico ufficiale sia quello di compiere uno o più specifici atti contrari ai doveri d’ufficio; non importa che l’atto specifico sia successivamente compiuto, quanto, piuttosto, la esatta determinazione del contenuto del programma obbligatorio che il pubblico ufficiale assume.

Si tratta di un accertamento che, sotto il profilo probatorio, deve essere compiuto caso per caso; potranno assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore, cioè il movente della condotta del corruttore – il senso ed il tempo della pretesa di questi-, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo.

Deve essere accertato il “colore” del patto corruttivo, il suo oggetto specifico, la sua riferibilità o meno al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio; se il contenuto del patto non “attiene” al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, la condotta è riconducibile all’art. 318 cod. pen.

Il patto può essere probatoriamente muto, nel senso che non sia individuabile nessuno specifico atto che il pubblico ufficiale si sia impegnato a compiere; è possibile che, a fronte della dazione di denaro da parte del privato corruttore — anche con scadenze temporali fisse (es. una determinata somma al mese) -, il pubblico ufficiale assuma solo l’impegno “di sorvegliare”, “di vigilare” che gli interessi del privato, presi indebitamente “in carico”, non siano danneggiati nel corso del procedimento amministrativo.

Si tratta di ipotesi in cui la condotta sarà riconducibile all’art. 318 cod. pen.

2.5. I delitti di corruzione e l’esercizio dell’attività amministrativa discrezionale.

Le considerazioni esposte assumono una maggiore complessità in tutti i casi in cui oggetto del mercimonio sia l’attività amministrativa discrezionale, cioè un’attività in cui la norma attributiva del potere consente all’amministrazione un ampio ambito di possibilità di azione. Il tema del rapporto tra esercizio della discrezionalità amministrativa e corruzione involge l’interpretazione del sintagma “atto contrario ai doveri d’ufficio”, di cui all’art. 319 cod. pen. ed assume una sua rilevanza problematica perché non tutte le regole che presiedono all’esercizio della funzione amministrativa discrezionale hanno lo stesso grado di precettività.

Nella giurisprudenza della Corte di cassazione è diffusa l’affermazione secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 319 cod. pen., sono contrari ai doveri d’ufficio non solo gli atti illeciti o illegittimi perché assunti in violazione di norme giuridiche, riguardanti la loro validità ed efficacia, ma anche quelli che, “pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, dall’osservanza dei doveri istituzionali, espressi in norme di qualsiasi livello, compresi quelli di correttezza e di imparzialità” (Sez. 6, n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383; Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269347; Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273448).

La “sudditanza” del pubblico ufficiale al corruttore si tradurrebbe comunque in atti che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell’an, nel quando o nel quomodo, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, n. 29267 dei 05/04/2018, cit.).

In altri termini, anche se ogni singolo atto, di per sé considerato, corrisponda ai presupposti normativi – come nel caso in cui il funzionario si adoperi al solo fine di velocizzare la definizione di un procedimento senza tuttavia inficiarne l’esito – l’inquinamento “alla base” della funzione imporrebbe di ritenere integrato il reato di corruzione propria. In tal senso si è ritenuto integrare il reato di cui all’art. 319 cod. pen.

il comportamento del dipendente comunale addetto a istruire pratiche relative a gare d’appalto, che abbia percepito da un privato denaro o altre utilità al fine di “velocizzare” la liquidazione di fatture nell’interesse di quest’ultimo, poiché “l’accettazione di una indebita retribuzione, pur se riferita ad un atto legittimo, configura comunque una violazione del principio d’imparzialità” (Sez. 6, n. 22707 del 11/04/2014, Lo Cricchio, Rv. 260275; nello stesso sembra porsi, Sez. 6, n. 33032 del 24/05/2018, Mancuso, non massimata).

Una soluzione interpretativa sovrapponibile ai casi, tuttavia obiettivamente diversi, in cui il funzionario non si limiti solo ad accelerare la definizione delle pratiche cui è interessato il corruttore, ma per fare ciò faccia anche “altro”, come ad esempio, inverta l’ordine di trattazione delle pratiche, così violando l’art. 13 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che impone al pubblico impiegato di trattare gli affari attribuiti alla sua competenza “tempestivamente e secondo l’ordine cronologico” (Sez. 6, n. 1777 del 21/11/2005, Abeysundera, Rv. 233114).

Ed invece, si assume, l’accettazione del compenso di per sé farebbe perdere al funzionario l’imparzialità fondamentale per l’esercizio del potere discrezionale: per il solo fatto di avere accettato una retribuzione, il pubblico ufficiale agirebbe in modo contrario ai suoi doveri d’ufficio, non orientando le proprie scelte verso l’interesse pubblico.

Astrattamente, la giurisprudenza sottolinea che, a fronte dell’esercizio di un potere discrezionale, gli estremi della corruzione propria ricorrono solo nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia accettato dietro compenso di non esercitare la discrezionalità che gli è stata attribuita dall’ordinamento oppure di usare tale discrezionalità in modo distorto, alterandone consapevolmente i fondamentali canoni di esercizio e ponendo perciò in essere una attività contraria ai suoi doveri di ufficio.

Detta affermazione, tuttavia, viene collegata al principio secondo cui “integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali spettantigli rinunciando a una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l’interesse pubblico”, e questo perché, “ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla ‘vendita’ della discrezionalità accordata dalla legge” (Sez. 6, n. 5577 del 03/02/2016, Maggiore Rv. 267187, in fattispecie in cui l’indagato, in qualità di Presidente della Commissione medica di verifica presso il ministero dell’economia e delle finanze, aveva ricevuto somme di denaro da un medico legale per far ottenere benefici pensionistici ai suoi pazienti).

In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto irrilevante, per escludere il reato, la circostanza che, trattandosi di persone affette da gravi patologie, sarebbero stati comunque riconosciuti loro i benefici richiesti; nello stesso senso, Sez. 6, n. 4454 del 24/11/2016, dep. 2017, Fiorani, Rv. 269613, Sez. 6, n. 7903 del 17/01/2018, Morace, non massimata).

Si tratta di una interpretazione che deve essere esplicitata. La questione non coincide con il tema del se la corruzione propria sia configurabile solo in presenza di un atto amministrativo illegittimo e, dunque, se il giudice penale debba compiere un sindacato sull’atto sovrapponibile a quello che compie il giudice amministrativo.

L’atto amministrativo non costituisce un presupposto del reato, ma è lo strumento di cui l’agente si serve per commettere il reato; l’atto viene in considerazione al fine della verifica del comportamento, della condotta che integra il reato.

Come sostenuto da autorevolissima dottrina, l’atto amministrativo viene “retrocesso a fatto”; non è l’atto a dover essere sindacato dal giudice penale ai fini della verifica della sussistenza del reato di corruzione propria, ma una condotta umana, e cioè come il pubblico ufficiale si sia posto rispetto alla funzione pubblica di cui è titolare e cosa abbia fatto in concreto per “giungere” all’atto.

Il giudice deve verificare la corrispondenza fra fatto storico e previsione normativa: deve stabilire se sia stata o meno realizzata una condotta abusiva, arbitraria, contraria a ciò che i doveri di ufficio imponevano di fare.

La legittimità dell’atto, della quale il giudice deve tenere eventualmente conto, serve solo perché “essa può concorrere a consentirgli di stabilire se si sia realizzata, o meno, una condotta abusiva o arbitraria”.

Anche con riguardo all’attività discrezionale, se si ritiene che il fatto oggettivo della conclusione del pactum sceleris, che abbia ad oggetto il compimento di un atto discrezionale, sia di per sé sufficiente a configurare il reato di corruzione propria, la distinzione tra il reato di cui all’art. 319 e quello previsto dall’art. 318 cod. pen. resta di difficile riconoscibilità, perché anche nel reato di corruzione per l’esercizio della funzione, il pubblico ufficiale, accettando una remunerazione indebita, viola i doveri istituzionali di correttezza.

Ove si ritenga che la retribuzione del pubblico ufficiale implichi di per sé la violazione del dovere di imparzialità, la violazione di detto dovere finirebbe per costituire un contenitore generale al cui interno ricondurre una quantità indistinta di condotte la cui rilevanza, ai fini della integrazione della fattispecie di cui all’art. 319 cod. pen., sarebbe fatta derivare solo dalla esistenza dell’accordo corruttivo, “a prescindere” dalla concreta offesa della funzione amministrativa, dalla concreta violazione di questa, dalla inosservanza dei doveri specifici di ufficio.

Ciò che deve essere rivisto è il “presupposto, di tipo “presuntivo- psicologico”, secondo cui una volta concluso l’accordo corruttivo, “il successivo (futuro e incerto) esercizio del potere pubblico non potrà non essere inquinato, contaminato dall’interesse privato veicolato dell’intesa illecita”; si finisce per centrare il disvalore della fattispecie sul patto criminoso e per spostare l’antigiuridicità del comportamento del funzionario dai profili relativi alla condotta (la non conformità ai doveri di ufficio) a quelli che riflettono maggiormente l’elemento psicologico del reato (il dolo insito nell’accettazione del denaro o della sua promessa).

In realtà, si osserva correttamente, al di là delle infedeltà in quanto tali del pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria rileva la violazione dei doveri che attengono al modo, al contenuto, ai tempi degli atti da compiere e delle decisioni da adottare, alla violazione, cioè, della regola “giusta” nel concreto operare della discrezionalità amministrativa.

È necessario fare riferimento alle regole sottese all’esercizio dell’attività discrezionale e si tratta di verificare se l’interesse pubblico sia stato in concreto condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore; nel caso in cui l’interesse pubblico non sia stato condizionato, il fatto integrerà la fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. Quello che deve essere verificato, cioè, è se l’interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, se questo sia stato soddisfatto, ovvero se esso sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l’accordo corruttivo.

È possibile che l’atto discrezionale, nonostante l’accordo corruttivo, realizzi l’interesse pubblico e che il comportamento del pubblico ufficiale non abbia violato nessun dovere specifico. L’atto discrezionale ed il comportamento sottostante sono contrari ai doveri di ufficio nei casi in cui “siano state violate le regole sull’esercizio del potere discrezionale o ne siano stati consapevolmente alterati i fondamentali canoni di esercizio in vantaggio del corruttore”. L’esistenza di un potere discrezionale non basta a far ritenere integrata la fattispecie di corruzione propria, che, invece, sussiste solo ove sia dimostrata la violazione di una delle regole sull’esercizio del corrispondente potere.

E’ necessario esaminare la struttura del patto corruttivo, da una parte, per accertare se sia o meno identificabile “a monte” un atto contrario ai doveri di ufficio; nel caso in cui ciò non sia possibile, occorre verificare la condotta del pubblico agente nei settori che interferiscono con gli interessi del corruttore, per comprendere se il predetto funzionario, al di là del caso di manifeste violazioni di discipline cogenti, di elusione della causa fondativa del potere attribuito, abbia, nonostante ed in conseguenza del patto, fatto o meno buon governo del potere assegnatogli, tenendo conto di tutti i profili valutabili, o se abbia pregiudizialmente inteso realizzare l’interesse del privato corruttore, a fronte di ragionevolmente possibili esiti diversi.

Anche in tal caso il profilo giuridico interferisce con quello processuale di accertamento probatorio dei fatti e assumerà rilevante valenza l’interpretazione dell’oggetto del patto corruttivo; è possibile, come in precedenza detto, che un privato si rivolga ad un funzionario non per esserne pregiudizialmente favorito, ma per assicurarsi che la valutazione non sia condizionata da pregiudizi in suo danno o da indebite interferenze altrui, ipotesi nelle quali non potrà prospettarsi a priori, nel caso in cui si compia un atto discrezionale, alcuna violazione dei doveri diversa da quella inerente all’indebita ricezione di un’utilità non dovuta (in tal senso, la Corte di cassazione si era in passato già espressa, Sez. 6, n. 9927 del 10/07/1995, Caliciuri, Rv. 202877; Sez. 6, n. 11462 del 12/06/1997, Albini, Rv. 209699; Sez. 6, n. 1319 del 28/11/1997, Gilardino, Rv. 210442; Sez. 6, n. 3945 del 15/02/1999, Di Pinto, Rv. 213885).

In conclusione, se la pregiudiziale accertata rinuncia all’esercizio genuino della discrezionalità conduce all’adozione di atti contrari ai doveri di ufficio, non può dirsi il contrario, e cioè che sia configurabile la corruzione propria per il solo fatto che il pubblico ufficiale abbia ricevuto denaro in ragione del compimento della sua attività, anche discrezionale.

3. Corruzione di Salvatori Emanuela e Romani Alfredo nell’ambito delle attività di ampliamento del campo nomadi di Castel Romano (capo 10 del primo decreto).

3.1. Buzzi e Caldarelli (legale rappresentante della “Formula Sociale società cooperativa sociale integrata a r.l. onlus”) sono stati ritenuti colpevoli della corruzione di Emanuela Salvatori e Alfredo Romani, funzionari del Comune, responsabili, rispettivamente, dell’attuazione del piano nomadi e dell’ufficio immigrazione; il prezzo della corruzione era consistito nell’assunzione della figlia della Salvatori e di una conoscente di Romani. La vicenda si colloca nell’ambito delle attività finalizzate all’ampliamento di una preesistente struttura destinata a campo nomadi, gestita dalla Eriches 29 di Buzzi.

La funzionaria Salvatori si attivò nell’interesse dei predetti Buzzi e Caldarelli «perché la determina del settembre 2012, che finanziava i lavori del campo nomadi e prevedeva un canone rapportato al numero di ospiti del campo, superasse le obiezioni riscontrate in sede di visto dalla dirigente della Ragioneria generale Maria Letizia Santarelli.

Fu pure predisposta una seconda versione dell’originaria determina del settembre 2012 contenente il riferimento a 300 persone (anziché 180) in modo da giustificare il corrispettivo erogato e nel maggio 2013 fu superato un ulteriore blocco della pratica dovuto agli eccessivi costi». In cambio di tale attività, Buzzi promise alla Salvatori l’assunzione della figlia, neolaureata in ortodonzia, nell’ambito del progetto denominato “Sportello di orientamento socio-sanitario e di monitoraggio odontoiatrico ed oculistico” presentato dalla cooperativa Formula Sociale di Caldarelli e rivolto agli immigrati accolti nelle strutture del Comune di Roma, con un compenso mensile di euro 1.500, ed al Romani l’assunzione di una segretaria da lui indicata, con un compenso mensile di euro 800.

La prova a carico sono fondate essenzialmente sulle conversazioni intercettate e sulle indagini in ordine alla gestione amministrativa della pratica. I giudici di merito hanno ritenuto il ruolo della Salvatori come di costante asservimento quantomeno sino all’inizio del 2014, così superando le obiezioni della difesa sulla assenza di collegamento temporale tra le attività di ufficio svolta in favore dei corruttori nell’ultima parte del 2012 e nella prima parte del 2013 e le utilità conferite nel 2014.

Per tale reato sono stati proposti il primo motivo del ricorso di Caldarelli ed il motivo di cui al punto 3.1 del ricorso di Buzzi.

I ricorsi sono infondati quanto alla sussistenza del reato, imponendosi la riforma limitatamente alla aggravante dell’agevolazione mafiosa.

3.2. Il motivo di Caldarelli relativo all’uso improprio della forma del giudizio immediato è infondato poiché i giudici di merito hanno rappresentato che, ancorché non fosse indicato il nome del Caldarelli nell’intestazione del capo 10, egli era stato interrogato anche con riferimento a tale reato.

La difesa contesta solo genericamente tale dato fattuale, limitandosi ad esporre giurisprudenza sulla data materia. In definitiva, non risulta seriamente smentito che il ricorrente sia stato sottoposto a previo interrogatorio anche in riferimento al capo 10 del primo decreto, risultando quindi regolarmente disposto il giudizio immediato.

Il capo di imputazione, poi, risulta adeguatamente specifico, sia per il contenuto immediatamente desumibile dal suo testo, sia per l’effettiva possibilità di conoscenza della contestazione. In particolare, dalla lettura del capo di imputazione risultano ben caratterizzate le condotte di “messa a disposizione” e quelle di presunta attività contraria ai doveri di ufficio: difatti si chiarisce quale sia l’ambito di intervento dei pubblici ufficiali, incaricati di seguire gli interessi delle cooperative di Buzzi e Caldarelli.

Caldarelli lamenta anche che sia indicata la «violazione non di precipue disposizioni normative bensì del principio universale di imparzialità della P.A.». Si tratta di un argomento erroneo poiché il reato di corruzione ben ricorre quando oggetto della vendita sia un impegno alla “parzialità”. Il tema che la difesa pone è, in realtà, collegata ad una questione dibattuta in riferimento al diverso reato di abuso di ufficio e, quindi, in questa sede non ha alcuna rilevanza.

Sul tema della corretta qualificazione della corruzione ex art. 319 cod. pen., invece, si tornerà dopo.

3.3. Per quanto riguarda l’utilizzazione della sentenza resa in giudizio abbreviato nei confronti della Salvatori, il motivo è manifestamente infondato.

La contestazione della difesa è riferita all’uso della sentenza quale accertamento del fatto storico e non al diverso tema della utilizzazione di dichiarazioni tratte dalla sentenza.La doglianza, così posta, è quindi manifestamente infondata perché la Corte di appello richiama la sentenza resa del giudizio abbreviato ma, diversamente da come appare con la solo parziale trascrizione nel motivo di ricorso di un brano della sentenza, non esaurisce certo la ricostruzione della vicenda con tale richiamo, facendo ampia ed autonoma valutazione delle prove sul punto.

La decisione resa in separato giudizio abbreviato è, difatti, stata richiamata dalla Corte di appello solo per conferma di ciò che viene dimostrato con le prove ritualmente acquisite in questo processo; ciò esclude che ricorra la presunta violazione dell’art. 238 bis cod. proc. pen.

3.4. Per quanto concerne la motivazione, le contestazioni delle difese sono fondamentalmente articolate sul piano della presunta mancata risposta specifica ai motivi di appello e sulla non adeguatezza della ricostruzione dei fatti.

Invero, per quanto riguarda la completezza della risposta ai motivi di appello va considerato che, a fronte di una analitica contestazione da parte della difesa della ricostruzione della vicenda, una risposta adeguata è anche, come nel caso di specie, una completa e logica ricostruzione dei fatti che complessivamente superi le obiezioni della difesa, pur senza una analitica risposta per ogni specifica deduzione.

Sotto questo punto di vista, è evidente che la Corte di appello ha ampiamente ripercorso il materiale probatorio, ha ricostruito in termini completi senza vizi logici la vicenda sotto il profilo dei vari momenti di impegno della Salvatori per sostenere le ragioni di Buzzi ed indurre la funzionaria Santarelli ad adottare i provvedimenti nei termini più favorevoli richiesti dalle cooperative interessate. Inoltre, la Corte territoriale ha correttamente ricollegato sul piano temporale e logico le vicende degli impegni da parte della Salvatori e del Romani in favore delle cooperative e le successive utilità offerte in cambio.

Ha rilevato come i tempi siano sostanzialmente vicini in quanto la condotta della Salvatori si protraeva per un arco temporale arrivato sino ai primi mesi del 2013 e nei mesi subito successivi iniziava la fase organizzativa del progetto nell’ambito sanitario in cui erano poi inseriti la figlia della Salvatori e la persona di interesse di Romani.

Complessivamente, quindi, vi è una ricostruzione logica nel collegare le attività di favore per Buzzi e le utilità corrisposte ai funzionari: è indiscutibile, sulla base dei fatti accertati in sentenza, che le assunzioni furono compiute quale favore personale e non certo per una casualità: del resto Buzzi è inequivoco nel dire che (cfr. Rit 8416/13 progr. pr.1614) deve piazzare i figli dei dirigenti del Comune.

È quindi del tutto ragionevole la valutazione dei giudici di merito nel senso che tali “piazzamenti” rappresentino il mantenimento di impegni assunti in precedenza.

3.5. Valutati quindi questi profili in cui si prospettava effettivamente una possibile erronea ricostruzione sulla scorta dei presupposti in fatto, le altre ampie osservazioni svolte nel ricorso di Buzzi non devono essere valutate perché consistono sostanzialmente nella richiesta di rivisitazione del materiale probatorio per darne una diversa valutazione, anche in una prospettiva diversa da quella considerata dai giudici di merito: la sentenza considera le attività svolte nel dato ruolo di funzionario del Comune per incidere sulle determine a firma della Santarelli e, quindi, non interessa in questa sede accertare se tali atti fossero o non fossero atti rientranti nelle specifiche mansioni della Salvatori.

Resta il tema della qualificazione giuridica. Tale tema non è stato affrontato dalla sentenza di appello poiché non era rilevante una volta applicata la propria interpretazione dell’ambito di applicabilità dell’articolo 319 cod. pen. comprensivo di ogni caso di “compravendita della funzione”.

Tale interpretazione, però, come detto, non appare corretta, per cui va verificato se, alla luce del principio regolatore della distinzione tra le due figure criminose dell’art. 318 e dell’art. 319 cod. pen., come sopra indicato, sussiste il reato configurato dai giudici di merito o il meno grave reato di cui all’articolo 318 cod. pen. Invero, la motivazione fa chiaro riferimento al compimento di atti contrari ai doveri di ufficio, essendo evidente nella motivazione “un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio”.

Pacifico che non spettava alla Salvatori la adozione dei provvedimenti di pagamento per i lavori del campo nomadi; la funzionaria, secondo i giudici di merito, si preoccupò, comunque, di veicolare delle informazioni anche artefatte pur di far approvare una misura maggiore dei pagamenti.

La Corte di merito, difatti, con valutazione non sindacabile, nel leggere ed interpretare le conversazioni del dicembre 2012 in cui si fa riferimento ad una relazione datata al precedente ottobre per rappresentare una situazione che consenta il pagamento per 300 persone e non 180, conclude nel senso che «la Salvatori quindi non si era limitata a dare informazioni sullo stato delle pratiche ma aveva recepito relazioni artatamente retrodatate suggerendo di presentare agli uffici del Dipartimento documenti posticci».

Il fatto così accertato comporta chiaramente uno svolgimento di attività contraria ai doveri di ufficio ed in favore del privato.Anche rivisitando la decisione alla luce del corretto principio di diritto, la qualificazione giuridica risulta corretta. La condanna per tale capo, invece, va annullata quanto all’applicazione della aggravante della agevolazione mafiosa: sul punto si rinvia a quanto verrà sostenuto nella parte dedicata ai reati associativi.

4. Corruzione di Panzironi Franco nella veste di amministratore della azienda municipalizzata Ama S.p.A. e di consigliere del sindaco di Roma Alemanno — turbativa della gara Ama di cui al bando 18/2011 (capi 11 e 12 del primo decreto).

4.1. I capi 11 e 12 vanno trattati insieme in quanto sono i due reati fine contestati a Franco Panzironi, il quale è stato anche condannato per il concorso esterno ex art. 110 cod. pen. nella associazione del capo 1.

Per il reato di cui al capo 11 sono stati condannati Panzironi, Buzzi, Caldarelli e Carminati. Per il reato di cui al capo 12 sono stati condannati Panzironi e Buzzi.

Panzironi è stato amministratore delegato di Ama S.p.A. dall’agosto 2008 all’agosto 2011 ed è stato nominato consulente del sindaco Alemanno per le relazioni esterne dal 2 luglio 2008. Dall’agosto 2011 sino al 2013 svolgeva l’incarico di amministratore delegato della multiservizi S.p.A., controllata dall’Ama al 51%.

Viene qui in questione il suo ruolo svolto nell’ambito di A.m.a. S.p.A. anche dopo la cessazione del suo incarico formale in quanto, sulla scorta delle dichiarazioni del direttore della amministrazione, finanza e controllo dell’ente, «Panzironi, anche nel periodo in cui non era più l’amministratore delegato di A.m.a. S.p.A. aveva comunque una qualità formale e sostanziale costituita dall’essere espressione del sindaco Alemanno; una qualità che egli spendeva e che era confermata dal sindaco.

Egli anche nel periodo in cui non era più amministratore delegato interveniva nei miei confronti, forte dei legami che si erano creati e del suo ruolo di consigliere del sindaco per sollecitarne dei pagamenti nei confronti della 29 Giugno o di Buzzi».

Varie intercettazioni, secondo i giudici di merito, dimostrano il ruolo effettivo che Panzironi svolse di fatto nel definire le deleghe per il nuovo amministratore delegato, nonché il suo sentirsi ed essere percepito quale dominus della società. Per questo coinvolgimento di fatto, i giudici di merito lo hanno ritenuto pubblico ufficiale in riferimento alle vicende di cui appresso.

4.2. La prima vicenda (capo 11) consiste nel compimento dei seguenti atti da parte di Panzironi:- lo sblocco di crediti vantati dal gruppo Buzzi nei confronti della AMA municipalizzata per circa euro 5.000.000, sblocco consentito mediante pressione sugli organi competenti, in violazione della «par condicio dei creditori». – In cambio Panzironi ottenne euro 100.000, ovvero il 2% del totale, mediante assegni intestati alla Fondazione Nuova Italia; – l’intervento per lo sblocco di crediti vantati dal gruppo di Buzzi nei confronti della Eur S.p.A.

Il ruolo del Panzironi era consistito nell’avere garantito un incontro con il sindaco Alemanno; in cambio Panzironi ottenne la somma di euro 40.000; – un intervento per garantire l’aggiudicazione della gara 18/2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti organici, aggiudicata il 5 dicembre 2012.

I giudici di merito hanno ricostruito il complesso dei vantaggi economici realizzati da Panzironi in oltre euro 600.000, superiore a quanto originariamente contestato dal pubblico ministero.

Secondo la sentenza impugnata, vari elementi confermerebbero i versamenti di denaro ed altro: in particolare, vi sono intercettazioni assolutamente chiare nel contenuto testuale in cui si parla di somme elargite, intercettazioni con richieste dirette di Panzironi (come nel caso della richiesta dell’acquisto in suo favore di un orologio, da computare sulla somma di euro 30.000 dovutagli, o del sollecito di bonifici non ancora a lui pervenuti). Lo stesso Buzzi, peraltro, ha ammesso le dazioni presentandole, però, come casi di concussione.

Quanto alla aggiudicazione della gara 18/11 (per la quale è contestata la turbativa ex art. 353 cod. pen. – capo 12), i giudici di merito hanno ritenuto raggiunta la prova che Panzironi avesse concordato con Buzzi i provvedimenti di assegnazione prima della loro aggiudicazione, come risulta dalle conversazioni intercettate: il costante interessamento ed il flusso di informazioni sulla gara nonché il versamento di somme di denaro dimostrerebbero la turbativa, nonostante le dichiarazioni del direttore generale e amministratore delegato di Ama abbia riferito di non avere riscontrato alcuna anomalia della procedura di gara.

Sono stati ritenuti responsabili del reato di cui al capo 11 anche: – Carminati, limitatamente alla vicenda dei crediti Eur spa, avendo espressamente condiviso la strategia del pagamento di C 40.000. – Caldarelli, per la partecipazione a tutte le attività collegate e per esser stata la sua cooperativa il tramite per i pagamenti in favore della Fondazione di Panzironi, risultando significativo il dialogo in cui concorda con Buzzi la strategia della corruzione.

Con riferimento a tali reati vanno valutati, per Panzironi il ricorso dell’avv. Bartolo, quanto al primo, terzo, quarto, quinto, sesto, settimo, dodicesimo, quattordicesimo e sedicesimo motivo; per Buzzi i motivi di cui ai punti 3.1.5 e 3.1.6; per Caldarelli l’ottavo motivo; per Carminati il quinto motivo. I ricorsi sono fondati limitatamente al tema della qualificazione giuridica oltre che della esclusione della aggravante della agevolazione mafiosa.

4.3. La questione principale riguarda il ruolo di pubblico ufficiale di Panzironi, che va escluso.

Del più ampio capo di imputazione 11, in cui venivano contestate al Panzironi anche condotte tenute quale extraneus in riferimento alla corruzione di altri pubblici ufficiali, all’esito della fase di merito la condanna è stata riferita alla condotta mirata a favorire lo sblocco di crediti vantati dal gruppo Buzzi nei confronti della AMA e dell’E.U.R. s.p.a. Il ruolo del Panzironi era consistito nell’avere garantito un incontro con il sindaco.

Si aggiunge la contestazione del capo 12: Panzironi si era attivato per garantire l’aggiudicazione della gara 18/2011 (aggiudicata il 5 dicembre 2012). Il giudice di primo grado aveva qualificato Panzironi quale pubblico ufficiale sia per la sua funzione di amministratore delegato di Ama S.p.A., che per il ruolo di consigliere del sindaco Alemanno. Il giudice di appello, invece, ha ritenuto che la qualifica sussista limitatamente al ruolo nella Ama S.p.A., affermando che il ruolo di collaboratore del sindaco, a titolo gratuito, nella cura delle relazioni esterne (tale è il ruolo di “consigliere politico”) non comportava la qualifica pubblicistica. E’ in discussione, quindi, solo una veste di pubblico ufficiale da ricollegare alla “funzione” in Ama.

La stessa Corte di appello ha considerato che il ruolo del Panzironi in occasione delle condotte incriminate non fosse di amministratore “di diritto” dell’ente Ama, bensì di amministratore di fatto. È un dato pacifico, difatti, che ad agosto 2011 Panzironi non avesse più alcun ruolo formale in A.m.a. S.p.A., perché era giunto a termine il suo incarico apicale. Né è stato riconosciuto alcun collegamento dei fatti in contestazione con la ulteriore attività di Panzironi di amministratore delegato della Multiservizi S.p.A. «controllata Ama al 51%».

Sostanzialmente, la Corte di appello ha ritenuto che Panzironi esercitò le funzioni di pubblico ufficiale di fatto proseguendo nel suo ruolo di dominus dell ‘Ama. I presupposti di fatto su cui i giudici di secondo grado hanno basato la prova della prosecuzione del rapporto sono:- le dichiarazioni di Anelli Giovanna, direttore generale dal settembre 2012 ad aprile 2013, la quale, riporta la sentenza, aveva affermato che, pur dopo la cessazione dell’incarico, Panzironi esercitò un perdurante dominio operativo in A.m.a. S.p.A. e continuò «ad incidere indebitamente sui procedimenti amministrativi di pertinenza dell’ente presso il quale aveva prestato servizio» e «aveva comunque una qualità formale e sostanziale costituita dall’essere espressione del sindaco Alemanno; una qualità che egli spendeva e che era confermata dal sindaco.

Egli anche nel periodo in cui non era più amministratore delegato interveniva nei miei confronti, forte dei legami che si erano creati e del suo ruolo di consigliere del sindaco per sollecitarne dei pagamenti nei confronti della 29 Giugno o di Buzzi» (va considerato che Anelli fu inizialmente accusata del medesimo reato e, quindi, sarebbe stata necessaria una più attenta valutazione della sua credibilità per l’ovvio interesse personale; tale valutazione non sembra esservi ma, per quanto appresso, la cosa non ha concreta influenza sulla decisione di questa Corte). – vari commenti ascoltati nelle intercettazioni: Panzironi il 19 aprile 2013 diceva di essersi interessato di definire le deleghe per il nuovo amministratore delegato Fiscon; si citano, inoltre, tre spezzoni di conversazioni in cui si fa riferimento ad una ingerenza di Panzironi.

Da questi presupposti la Corte è giunta alla conclusione che si è in presenza di elementi che « (…) provano l’indubbia ingerenza negli affari riguardanti A.m.a. S.p.A. e, poiché il suo ruolo fu riconosciuto da parte di chi formalmente amministrava la società, deve senz’altro riconoscersi a Panzironi la funzione di pubblico ufficiale» e che Panzironi «continuò ad esercitare le funzioni di pubblico ufficiale e fu in grado di interferire anche con riferimento al recupero dei crediti Eur spa, settore non strettamente legato al suo campo di attività».

4.4. Va considerato che le conclusioni indicate, formulate sulla base di premesse in fatto alquanto generiche, sovrappongono due profili legati alla commissione del reato da parte di chi non è formalmente pubblico ufficiale al momento del reato che, pur se collegati, sono sostanzialmente ben dissimili: – da un lato vi è l’ipotesi regolata dall’articolo 360 cod. pen. (cui la Corte di Appello fa riferimento indiretto, mediante il rinvio alle decisioni di questa Corte Sez. 6, Sentenza n. 39010 del 10/04/2013 Rv. 256596 e Sez. 6, Sentenza n. 20558 del 11/05/2010, Rv. 247394), relativa al caso in cui la qualifica di pubblico ufficiale sia stata determinante nella commissione del reato, non rilevando che, al momento della consumazione, la stessa qualifica già posseduta sia venuta meno.

In questo caso, però, questa ipotesi sicuramente non ricorre: la stessa ricostruzione dei giudici di merito esclude un qualsiasi “rapporto funzionale tra la commissione del reato e l’ufficio ricoperto” in precedenza, in quanto colloca temporalmente tutta l’attività criminosa, dalla ideazione alla esecuzione del reato, dopo la cessazione del ruolo dell’imputato nell’ente.

E, soprattutto, al ricorrente si contesta di aver utilizzato la attuale influenza che non era affatto dovuta alla precedente attività in Ama bensì al fatto di essere «espressione del sindaco Alemanno; una qualità che egli spendeva e che era confermata dal sindaco»; – dall’altro lato, la Corte di appello fa riferimento alla ipotesi del pubblico ufficiale, quale funzionario di fatto; anche se i riferimenti giurisprudenziali a sostegno della propria decisione rinviano all’art. 360 cod. pen., la conclusione della sentenza appare chiaramente nel senso della attualità del ruolo di pubblico ufficiale di Panzironi al momento della commissione delle condotte di cui si discute.

La Corte di merito, difatti, afferma, che gli elementi «menzionati provano l’indubbia ingerenza negli affari riguardanti A.m.a. S.p.A. e, poiché il suo ruolo fu riconosciuto da parte di chi formalmente amministrava la società, deve senz’altro riconoscersi a Panzironi la funzione di pubblico ufficiale».

4.5. I presupposti in fatto accertati dal giudice di merito non consentono di attribuire a Panzironi la qualifica giuridica di pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio). Sul piano definitorio, anche per il tramite del richiamo della giurisprudenza di questa Corte, la figura del funzionario di fatto è stata correttamente individuata per il soggetto che eserciti effettivamente una pubblica funzione con il tacito consenso o la acquiescenza o, quantomeno, la tolleranza della Amministrazione.

Che questo non sia quello che è avvenuto nel caso di specie risulta proprio da quei pochi riferimenti concreti fatti dalla Corte di appello all’esercizio di un “potere” di fatto del Panzironi. Non si individua alcuna specifica attività operativa svolta dal ricorrente rispetto a cui possa ritenersi l’esercizio effettivo della pubblica funzione: non bastano le generiche affermazioni sentite nel corso delle intercettazioni, di per se compatibili anche con la diversa (e più probabile) situazione di influenza (per capacità di convincimento) sulle scelte gestionali, senza che ricorra una situazione di reale gestione (esercizio del potere decisionale) da parte del pubblico ufficiale, ancorché di fatto.

La condotta del Panzironi, come descritta dai giudici di merito, salva la valutazione degli ulteriori motivi, si inquadra invece agevolmente nella figura del traffico di influenze ex art. 346-bis cod. pen. introdotta dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, (disposizione applicabile in quanto più favorevole anche per le condotte precedenti inquadrabili nel più grave reato di millantato credito ex art.346 cod. pen., rispetto al quale vi è continuità normativa: Sez. 6, n. 51688 del 28/11/2014, Rv. 267622; Sez. 6, n. 17980 del 14/03/2019, Rv. 275730).

Tale diversa qualificazione si attaglia chiaramente ai fatti in contestazione risolvendo anche il tema della sussistenza o meno di specifici atti contrari ai doveri di ufficio (questione che andava altrimenti posta quanto alla presunta violazione del «dovere di imparzialità nei confronti dei creditori», dovere che, affermato così tout court, non sembra esistere sia nei comuni rapporti fra debitore e pluralità di creditori che nel più peculiare rapporto tra società in house e controparte dei rapporti di diritto privato – la par condicio creditorum citata nella sentenza impugnata riguarda situazioni diverse nella fase prefallimentare delle imprese, questione che qui non viene in rilievo).

La vicenda di cui al capo 11 come accertata dalla Corte di Appello all’epoca della commissione dei fatti, integrava una delle fattispecie rientranti nell’ampia previsione del reato di traffico influenze; in particolare, l’ipotesi del soggetto che, fuori del caso del concorso nel reato di corruzione, “sfruttando … relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio …., indebitamente fa dare …., a sé …., denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio”.

La condotta di Panzironi, nella ricostruzione dei giudici di merito, è certamente nel senso che egli accettò una rilevante remunerazione per influenzare in favore di Buzzi le decisioni dei dirigenti di A.m.a. S.p.A. e, tramite il Sindaco di Roma, di E.u.r. S.p.A..

Va in particolare considerato: innanzitutto i tempi dei vari segmenti di condotta rilevanti, soprattutto quanto alla data di alcuni dei versamenti in favore di Panzironi, sono antecedenti alla introduzione del reato di cui all’art. 346-bis cod. pen. e, quindi, va considerato che il reato di cui all’art. 346 cod. pen., millantato credito, nel cui ambito rientrava la condotta incriminata sino al 28 novembre 2012, aveva una portata più limitata quanto al soggetto pubblico nei cui confronti è offerta la mediazione.

La disposizione, difatti, limitava la sua applicazione al millantato credito verso un pubblico ufficiale o “un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio”. Va quindi considerato quale fosse la qualifica pubblicistica dei soggetti interessati dalla sua mediazione e, quindi, se fosse punibile la condotta di Panzironi tenuta nella vigenza di quella disposizione.

Questo profilo, per quanto non trattato dalla Corte di Appello in quanto non rilevante secondo la qualificazione giuridica ritenut preferibile, è comunque risolto sulla base dei fatti riportati nella decisione.

Per quanto riguarda la A.m.a. S.p.A., dalla sentenza risulta che questa era una società in house providing del Comune di Roma; quindi, secondo la ricostruzione del quadro normativo che si legge nella sentenza Sez. U civili, n. 26283 del 25.11.2013, in base alla disciplina dell’art. 113, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 ” …. le società in house hanno della società solo la forma esteriore ma costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi”. In conseguenza, anche a ritenere che i soggetti nei cui confronti era offerta la mediazione per la finalità di indebito favoritismo fossero “semplici” incaricati di pubblico servizio, comunque rivestivano la qualità di pubblici impiegati nel senso di cui all’art. 346 cod. pen. (sul punto, la Sez. 6, Sentenza n. 30441 del 2018 ha confermato la condanna dello stesso Panzironi per assunzioni da lui disposte quando era direttore generale A.m.a. non rispettando le regole del concorso pubblico, modalità prevista dall’art. 35, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, richiamato dall’art. 18, comma 1, d.l. 25 giugno 2008, n. 112).

Per quanto riguarda l’intervento di Panzironi finalizzato allo sblocco dei crediti nei confronti dell’E.u.r. S.p.A., la sua attività di mediazione, finalizzata ai provvedimenti favorevoli a Buzzi, è stata individuata nel promovinnento di un incontro con il Sindaco di Roma; in questo caso, quindi, la mediazione era attuata nei confronti di quest’ultimo, pacificamente un pubblico ufficiale.

Quanto alla corrispondenza della condotta accertata alla citata fattispecie del traffico di influenze: – la sentenza ha accertato che Panzironi aveva ricevuto le varie utilità esclusivamente in proprio favore promettendo di svolgere un’attività di mediazione nei confronti dei pp.uu. sfruttando le relazioni realmente esistenti con gli stessi. In particolare, il ricorrente secondo la Corte di appello aveva mantenuto la capacità di incidere sulla dirigenza dell’A.m.a.

In relazione al suo presentarsi, ed essere percepito, quale “espressione del sindaco”, tanto da essersi ipotizzata la sua posizione di funzionario di fatto; – la mediazione era da ritenersi illecita. Secondo una ragionevole lettura della disposizione dell’art. 346-bis cod. pen., che non definisce il limite della mediazione “lecita”, il reato sussiste quando l’intervento del soggetto attivo non corrisponda ad una legittima attività di “lobbying”.

Nel caso di specie, la finalità della mediazione era quella di fare ottenere al Buzzi, in difformità dalle ordinarie scelte degli enti, trattamenti di favore sui pagamenti dei crediti pregressi che, senza mediazione, non sarebbero stati garantiti, nonché un rilevante appalto in violazione delle regole di assegnazione, tanto da integrare il reato di turbativa di cui al capo 12.

I fatti ricostruiti dalla Corte di appello, quindi, non lasciamo alcuno spazio per potere ipotizzare la liceità della mediazione nel caso concreto.”(N Il limite all’applicazione della disposizione, in base alla espressa clausola di riserva dell’art. 346-bis cod. pen., è che non vi sia un’effettiva corruzione dei soggetti pubblici con i quali il mediatore ha i rapporti effettivi, reato in cui il mediatore concorrerebbe ex art. 110 cod. proc. pen.

Nel caso in oggetto, non è stata prospettata alcuna ipotesi di corruzione dei soggetti rispetto ai quali Panzironi prospettava la sua mediazione; rileva, al riguardo, che la sentenza dà atto che per la Anelli, direttore generale di A.m.a., che ha riferito delle pressioni di Panzironi in favore di Buzzi, è anche stata disposta archiviazione per l’iniziale ipotesi del suo concorso nel reato di cui al capo 12, per l’assegnazione della gara 18/2011.

Su queste premesse, chiarita quale sia la qualificazione giuridica dei fatti accertati dalla sentenza, possono esaminarsi innanzitutto i motivi riferiti alla sussistenza dei reati.

4.6. È innanzitutto infondato il sedicesimo motivo di Panzironi mirato alla presunta genericità del capo di imputazione 11 ed alla riproposizione del ventesimo motivo di appello che assume non aver avuto adeguata risposta.

In realtà il capo di imputazione è sufficientemente specifico, avendo di fatto consentito la sua adeguata difesa; la stessa lettura dei motivi di ricorso lo dimostra, essendo la parte stata in grado di prospettare anche la diversa qualificazione giuridica qui accolta (tema del sesto motivo di ricorso).

A fronte di una adeguata risposta sul complesso dei temi proposti dal ventesimo motivo di appello, non rileva, quindi, la assenza di confronto con ogni singola deduzione in essa sviluppato.

E’ del tutto inammissibile per genericità il dodicesimo motivo con il quale Panzironi lamenta la mancata ammissione di prove da lui indicate, essendosi limitato ad affermare apoditticamente che si trattasse di prove “decisive” senza alcuna argomentazione a sostegno. Il terzo ed il quarto motivo sono infondati in quanto propongono una lettura alternativa delle prove, con riferimento al capo 11).

Peraltro, parte degli argomenti sono di fatto superati dalla diversa qualificazione giuridica rispetto alla quale, per la vicenda concreta, è sufficiente dimostrare la mediazione con i pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio. Il motivo proposto da Buzzi (punto 3.1.5 del ricorso quanto al capo 11) è infondato poiché la Corte di Appello ha affrontato il tema proposto dalla sua difesa, ovvero che si era in presenza di una condotta di concussione da parte di Panzironi nei confronti di Buzzi, escludendone la fondatezza sulla base di una motivazione congrua rispetto alla quale le doglianze qui ripetute risultano chiaramente mirate ad una diversa ricostruzione in fatto.

Anche in questo caso non rileva la assenza di risposta per ogni singola argomentazione, essendo sufficiente la adeguatezza della motivazione complessiva. Peraltro, il motivo è formulato in tema di deduzione di omessa valutazione “completa” delle prove in atti, rinviando genericamente ai propri atti difensivi con i quali si faceva riferimento al presunto carattere intimidatorio nei confronti di Buzzi dei provvedimenti, adottati nel 2009, di revoca dei subappalti; si tratta, quindi, di motivo che, quanto allo specifico capo 11, risulta mirato ad una non ammissibile rivalutazione del merito.

Il motivo di Caldarelli è infondato sia perché richiede una valutazione in fatto richiamando i motivi di appello e sia perché è del tutto generico rispetto agli argomenti della sentenza.

È infondato anche il quinto motivo nell’interesse di Carminati che, con argomenti alquanto generici, invita a rivalutare la deposizione del maresciallo De Luca per ricostruire un disinteresse dell’imputato con riferimento ai crediti Ama ed una sua condotta di mera connivenza.

Al di là, poi, di tale genericità, va considerato come dagli argomenti in tema di reato associativo si desume il ruolo di partecipe del Carminati quando, indipendentemente dal compimento di atti concreti, sia comunque partecipe di dialoghi che dimostrino il pieno interessamento a quelli che risultano “affari” della associazione. Con riferimento al capo 11, quindi, i ricorsi vanno accolti limitatamente alla riqualificazione del fatto ex art. 346-bís cod. pen., senza l’aggravante della “finalità agevolatrice”, con rinvio alla Corte di appello limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

4.7. In ordine al capo 12 per il quale sono stati condannati Buzzi e Panzironi, i ricorsi vanno rigettati, salva la esclusione della aggravante di mafia. In riferimento all’ aggiudicazione della gara 18/11 i giudici di merito hanno ritenuto raggiunta la prova che Panzironi avesse concordato con Buzzi i provvedimenti di assegnazione prima della loro aggiudicazione: le conversazioni intercettate in cui emerge il costante interessamento ed il flusso di informazioni sulla gara valutate insieme al concomitante versamento di somme di denaro in favore diretto od indiretto di Panzironi dimostrano, secondo la Corte di appello, la turbativa ancorché il direttore generale e l’amministratore delegato di Ama S.p.a. abbiamo sostenuto di non avere riscontrato alcuna anomalia nella procedura di gara.

Buzzi al punto 3.1.6 del suo ricorso afferma che la sentenza «non prende in considerazione i motivi di appello ma, addirittura, non spiega in che modo sarebbe stata consumata la condotta delittuosa».

Panzironi muove una pluralità di critiche con i motivi quinto e settimo del ricorso dell’avv. Bartolo:

– vi sarebbero stati vari travisamenti delle prove, in particolare laddove la Corte di appello ha erroneamente ritenuto che la gara 18/11 sia stata indetta quando il ricorrente era ancora amministratore della municipalizzata, che Panzironi abbia ammesso di aver ricevuto denaro per la gara, che egli abbia avvisato Buzzi della intervenuta aggiudicazione;

– non sarebbe stato correttamente compreso il contenuto della sentenza di primo grado; – non vi è stata risposta ai motivi di appello;

– non si è dato atto della violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. per la diversa quantificazione del presunto compenso;

– non è stata considerata la portata della assoluzione dei soggetti intranei, ovvero Fiscon, che presiedeva la commissione aggiudicatrice, ed il responsabile unico del procedimento.

Per tali argomenti va innanzitutto considerato la evidente “eccessività” dei motivi di ricorso che, con la “tecnica” dell’integrale trascrizione dei motivi di appello, richiedono una nuova valutazione di merito al di là di quelli che possono essere i profili di carenza od errore di valutazione della Corte di appello; tale modalità di redazione rende particolarmente arduo selezionare i temi deducibili in questa sede di legittimità.

Va invero considerato che i travisamenti in questione o sono irrilevanti (ad es. l’avere ritenuto la gara indetta quando Panzironi era ancora amministratore, è un errore, se del caso, del tutto irrilevante nel caso concreto) o non sono affatto “travisamenti”: sono il risultato di una interpretazione delle prove — insindacabile – e non di un errore di percezione del dato probatorio.

Tali presunti travisamenti, comunque, rilevabili o meno che siano in questo giudizio di legittimità, nell’ottica della complessiva motivazione data dalla Corte di Appello non incidono affatto sulla complessiva ricostruzione della vicenda.

Va invero considerato che: La Corte di appello ha offerto una motivazione completa e logica per fondare la condotta mirata alla turbativa, basata sulla capacità di pressione di Panzironi per influenzare la assegnazione della gara; inoltre, si è rilevato come i flussi di denaro fossero esattamente corrispondenti alla fase di aggiudicazione e come in una intercettazione del 16 maggio 2014 (vedi pag. 98 e 106) Buzzi facesse un chiaro riferimento ai soldi versati in relazione a tale gara.

Non ha rilievo neanche l’argomentazione della difesa secondo la quale non vi è prova diretta delle condotte finalizzate ad alterare il risultato: la turbativa fu comunque realizzata dagli accordi tra Buzzi e Cancelli per spartirsi i cinque lotti in cui fu divisa la gara, accordo garantito da Panzironi che fu retribuito da entrambe le parti.

Così risolte le doglianze di Panzironi, vanno disattese anche le deduzioni di Buzzi che sono del tutto generiche quanto alla mancata risposta ai motivi di appello: il ricorso non fa alcun chiaro riferimento a quali dei temi posti in sede di impugnazione di merito non sia stata data risposta con la motivazione complessiva.

Infine, è manifestamente infondata la doglianza di Panzironi relativa alla confisca.

La difesa, facendo riferimento a precedenti di questa Corte, intende affermare che nei confronti di Panzironi la confisca potesse essere disposta solo per le somme che erano state a lui versate personalmente e non anche per le somme che, pur prezzo della sua corruzione/mediazione, su sua indicazione erano state destinate a terzi.

La tesi è insostenibile non avendo certamente una diversa natura il prezzo del reato laddove il reo indichi altro soggetto per la materiale consegna. Va solo precisato che è del tutto fuorviante la giurisprudenza citata dal ricorso che riguarda una situazione certamente non comparabile, ovvero quella in cui il prezzo della corruzione è stato solo promesso ma mai versato; in tale caso correttamente si è esclusa la confisca dell’equivalente di tale prezzo solo promesso, ma è situazione che non ha nulla in comune con il caso di specie in cui la somma promessa è stata anche corrisposta secondo le modalità volute da Panzironi.

In definitiva, va pienamente confermata la condanna per il capo 12), con la esclusione della aggravante di “mafia” (sul punto si rinvia alla parte in cui si tratterà dei reati associativi e della contestazione di concorso esterno in associazione mafiosa rivolta a Panzironi).

5. Turbativa della gara relativa al servizio di raccolta delle foglie (capo 13 del primo decreto).

5.1. Per il reato di cui al capo 13 è stato condannato Buzzi in concorso con Fiscon, nei cui confronti si è proceduto separatamente.

L’ attività di raccolta delle foglie per conto di A.m.a. S.p.A. era stata svolta fino dal 2011 dalle cooperative facenti capo al Buzzi e, dopo varie proroghe, era stata indetta una gara con inviti spediti ad otto ditte diverse.

Ciò poneva a rischio la possibilità di vittoria di Buzzi. Tale gara, comunque, fu poi vinta dalle cooperative di Buzzi (29 Giugno e Formula Sociale), secondo l’accusa, grazie a condotte collusive.

Gli elementi a carico risulterebbero da una conversazione in cui Buzzi interveniva sulla direzione di A.m.a. S.p.A. (Fiscon), lamentando la indizione di una gara aperta; ne conseguiva un apparente impegno del Fiscon a risolvere la questione in favore di Buzzi impedendo la vincita delle imprese concorrenti. Il reato, secondo la Corte di appello, è stato commesso in quanto due imprese concorrenti furono escluse per questioni formali, come aveva auspicato proprio Buzzi con l’espressione usata nel corso delle intercettazioni «l’unica speranza è che sbagliano i documenti». Buzzi per tale imputazione ha rilevato la rottura logica tra le premesse, quanto alla condotta valutata, e le conclusioni che ne sono state tratte.

5.2. Invero, il vizio di motivazione è assolutamente evidente.

Si consideri, innanzitutto, che la originaria contestazione faceva riferimento a «collusioni materialmente intervenute tra Fiscon e Buzzi e Panzironi e Buzzi, intese tra l’altro a predeterminare il contenuto delle assegnazioni»; nella decisione, invece, non risulta alcuna collusione di tale genere, anche solo descritta.

La Corte, invece, ha individuato una diversa condotta, cui attribuisce rilievo ai fini del reato: si è riferito di una conversazione in cui Buzzi lamenta la scelta di Perrone, presidente della commissione di gara, di invitare otto imprese e si limita ad auspicare che le concorrenti commettano errori formali nel presentare i documenti.

Da tale affermazione la Corte stessa non ha fatto derivare alcun elemento, anche solo di sospetto, di una condotta percepibile di “collusione” finalizzata ad alterare il risultato di gara; si è limitata, invece, in termini del tutto apodittici, a rilevare che due imprese «furono escluse per questioni assolutamente formali», ritenendo tale affermazione sufficiente per descrivere il fatto commesso e affermare il suo rilievo ai fini penali.

Risulta, invece, che, per una prima impresa, la stessa Corte di appello abbia chiarito che la questione c.d. “formale” riguardava la mancanza di copia del documento di identità del sottoscrittore, senza tuttavia alcuna indicazione di perché tale circostanza fosse sospetta e in un qualsiasi modo condizionata da Buzzi e Fiscon.

Per l’altra impresa, invece, non è stato spiegato per nulla quale fosse la ragione della esclusione ma l’informazione è desumibile dalla sentenza di primo grado, ove è detto che l’impresa non era iscritta all’albo nazionale dei gestori ambientali, requisito essenziale; si tratta quindi di una ragione di esclusione che obiettivamente esclude che fosse conseguente ad un intervento anomalo per impedire la partecipazione nei tempi e modi compatibili con la conversazione incriminata. N 148.

In definitiva, quindi, la motivazione è totalmente carente nella individuazione della condotta collusiva ed è manifestamente illogica nel ritenere significativo il solo generico auspicio di Buzzi.

Considerando che manca del tutto una prospettazione in fatto corrispondente ad una turbativa della gara, considerando anche che vi è stato l’esame di tutto il materiale probatorio disponibile, come risulta ancor di più dalla particolarmente ampia motivazione della sentenza di primo grado sulla questione, per tale reato va disposto l’annullamento senza rinvio con la formula “il fatto non sussiste”.

6. Corruzione di Fiscon in relazione alla gara sulla raccolta differenziata multimateriale (capi 14 del primo decreto e 3 del secondo decreto).

6.1. Quanto al capo 3 del secondo decreto (in cui è stato ricompreso il fatto contestato al capo 14 del primo decreto), Buzzi è stato ritenuto responsabile della corruzione di Fiscon, direttore generale di Ama S.p.A. (nei cui confronti si procede separatamente) in relazione alla gara dell’A.m.a. 30/13 (raccolta differenziata multimateriale). Fiscon, come emerso da una intercettazione del 23 dicembre 2013, su richiesta di Buzzi avrebbe accettato di spostare in avanti il termine per la presentazione delle offerte per i quattro lotti della gara.

La ragione di tale dilazione del termine era chiaramente esplicitata dal Buzzi che necessitava di avere il tempo per trovare gli accordi necessari tra i partecipanti. Le ulteriori conversazioni del Buzzi nei giorni successivi confermavano il suo attivarsi per rivedere a proprio favore gli accordi tra i partecipanti al fine di puntare ai lotti più convenienti, non essendo i vari lotti di identico valore. Quindi, il provvedimento dell’ente del 20 dicembre 2013, che spostava il termine di presentazione delle offerte dal 7 gennaio al 20 gennaio 2014, risulta essere un atto compiuto nell’interesse delle cooperative di Buzzi.

Il prezzo di tale condotta di Fiscon è stato individuato nel sostegno politico di Buzzi che, di lì a poco, si attivava per garantire che Fiscon non fosse rimosso dal suo incarico, rischio che quest’ultimo correva per i provvedimenti in corso di adozione per il cattivo stato di pulizia della città di Roma. Il 10 luglio 2014, difatti, Buzzi intrattiene varie conversazioni che dimostrano il suo attivarsi per tale sostegno e, alla fine, appare vantare il risultato ottenuto (ovvero la prosecuzione dell’incarico).

A tale prezzo, i giudici di merito aggiungono anche il vantaggio consistito nell’avere Fiscon chiesto ed ottenuto da Buzzi la prestazione lavorativa di un operaio per ripulire una sua cantinola, fatto contestato nel separato capo 14 del primo decreto e, quindi, ritenuto parte del complessivo prezzo della corruzione.

6.2. Il motivo di Buzzi contro tale capo è infondato:

– quanto alla doglianza sulla carenza di risposta ai motivi di appello ed alle altre difese, perché è adeguata la risposta complessiva a tale motivo, considerato che il ricorrente non ha affatto indicato quali sarebbero stati i punti sui quali sarebbe mancata la risposta;

– quanto alla richiesta di rinnovazione istruttoria mediante ascolto della conversazione, in quanto neanche si prospetta quale concreto e diverso risultato era ragionevole attendersi rispetto alla prospettazione della Corte di appello sulla scorta delle trascrizioni.

Infine, è del tutto irrilevante il rilievo di Buzzi riferito all’ accordo con Cancelli: che tale accordo vi sia stato, difatti, non è posto in dubbio perché è esattamente quello che ha ipotizzato la Corte territoriale che ritiene che l’atto indebito in contestazione, ovvero il posticipo della data ultima di presentazione delle domande per favorire Buzzi, fosse proprio strumentale a consentire a quest’ultimo di gestire i suoi rapporti con Cancelli.

La questione, del resto, è ampiamente trattata dalla Corte di appello ed oggetto della contestazione di turbativa d’asta del capo 16 del primo decreto.

Anche per questi reati, ovviamente, deve essere esclusa l’aggravante della agevolazione mafiosa.

7. Turbativa della gara per il trasporto dei rifiuti all’estero (cd. Federambiente) (capo 15 del primo decreto).

7.1. Si tratta della turbativa della gara indetta il 31 luglio 2013 dal consiglio di amministrazione A.m.a. S.p.A. in relazione all’emergenza rifiuti da trasportare all’estero a causa della chiusura della discarica in località Malagrotta. Si tratti una gara cui Buzzi partecipò con CNS, non vincendola.

La turbativa è rappresentata dal fatto che, pur se Fiscon escluse la possibilità per Buzzi di partecipare alla gara provvisoria, essendo state invitate le ditte indicate da Federambiente in attesa di procedere alla gara europea, dette comunque indicazioni al Buzzi per farlo partecipare con la suindicata CNS, segnalandogliene le modalità.

Buzzi con il motivo di cui al punto 3.4 del ricorso deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge; rileva che lui aveva già notizia della gara sulla scorta di due articoli comparsi su un quotidiano, prodotti nel corso del giudizio di primo grado, quindi la condotta di Fiscon era priva di alcuna efficacia ai dati fini; inoltre, smentisce in diritto la affermazione della Corte di Appello secondo la quale non importa che l’esito della partecipazione del Buzzi alla gara sia stato negativo.

7.2. Il ricorso di Buzzi, che sostiene l’irrilevanza della notizia datagli da Fiscon e, comunque, l’esito non a lui favorevole della gara, è infondato:

– che la indizione della gara fosse “conoscibile” sulla scorta degli articoli di giornale non dimostra, come sostiene la difesa sulla scorta di diverse valutazioni dei fatti, che l’imputato ne fosse già a conoscenza, tanto che la ricostruzione della vicenda sulla scorta della intercettazione è proprio nel senso che Fiscon allertò Buzzi;

– la affermazione del ricorso che la turbativa ex art. 353 cod. pen. sia configurabile solo quando sia effettivamente alterato l’esito della gara, pur tratta da una decisione di questa Corte, in realtà è in palese contrasto con la previsione della norma che ritiene sufficiente un “turbamento, situazione che può verificarsi quando la condotta fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla regolare procedura della gara medesima, essendo irrilevante che si produca un’effettiva alterazione dei risultati di essa”.

Va, comunque, esclusa l’aggravante della agevolazione mafiosa.

8. Turbativa della gara di A.m.a. S.p.A. per la raccolta differenziata multimateriale (capo 16 del primo decreto).

8.1. Il reato riguarda la turbativa della gara di appalto 30/2013 di ama S.p.A. per la raccolta differenziata multimateriale. La turbativa è collegata agli episodi di corruzione di cui ai capi 14 del primo decreto e 3 del secondo decreto: il direttore generale Fiscon, come è stato già esposto, accettava di spostare il termine ultimo della gara in modo da rendere possibile a Buzzi, in accordo con Guarany, Bugitti e Garrone, di trovare gli accordi (in particolare con Cancelli) per condizionare l’aggiudicazione.

Alla turbativa avrebbero concorso, oltre a Buzzi, Bugitti Emanuela, che partecipò alla riunione organizzativa in cui si decise la strategia da tenere con gli altri partecipanti, prospettando l’opportunità del pagamento di tangenti e che nel corso di altre conversazioni intercettate manifestò la consapevolezza degli accordi illeciti, nonché Garrone e Guarany che, intercettati, risultarono parimenti partecipi consapevoli agli accordi per il condizionamento alla gara. Tale capo non era stato appellato da parte di Buzzi.

Contro la sentenza di appello ricorrono Garrone, Bugitti e Guarany.

8.2. I loro motivi, che investono solo il profilo della partecipazione dei tre ricorrenti al reato non ponendo in discussione la sua sussistenza, sono infondati non risultando né la carenza in sé della motivazione sulla loro colpevolezza e sui motivi di appello né la contraddittorietà tra le premesse in fatto e le conclusioni cui giungono i giudici di merito.

Come si rileva a pagina 116 della sentenza di appello, la difesa di Garrone e Bugitti aveva già dedotto con la impugnazione la assenza di contributo causale delle ricorrenti avendo queste partecipato soltanto alla riunione del 5 maggio 2014; in risposta a tale motivo si rileva una ampia e diffusa motivazione con la quale la Corte di appello, con riferimento alle circostanze di fatto emergenti dalle intercettazioni, dimostra come per entrambe le ricorrenti risultasse dimostrata la partecipazione alla fase di predisposizione della strategia complessiva dei rapporti con la concorrenza per la partecipazione e il condizionamento della gara.

Quindi né sussiste il dedotto vizio di motivazione né, comunque, il ricorso contesta espressamente tali argomentazioni. Lo stesso vale per il ricorso di Guarany che, di fatto, ripete gli argomenti già a base del suo motivo di appello non tenendo conto degli argomenti (pagina 119 della sentenza di appello) con i quali i giudici di merito chiarivano la sua modalità di partecipazione alla attività di collusione per falsare il risultato della gara.

La sentenza va quindi confermata in punto di responsabilità, con esclusione della aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.

9. Corruzione di Pucci Carlo, dirigente di EUR Spa (capo 17 del primo decreto).

9.1. Nel processo di merito è stata accertata la corresponsione da parte di Buzzi di un importo mensile fisso di euro 5.000, poi ridotto, per un lungo arco di tempo in favore di Pucci Carlo, dirigente della Eur S.p.A.

Tale pagamento era finalizzato ad ottenere la disponibilità di costui per quanto di possibile interesse nello svolgimento delle attività delle sue cooperative. La Corte di appello, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto Pucci Carlo, nella data qualità, pubblico ufficiale, qualificando il reato ai sensi dell’art. 318 cod. pen.

Nel contesto di tale “messa a disposizione”, i giudici di merito hanno accertato uno specifico intervento di Pucci per favorire il pagamento dei crediti vantati dalle cooperative di Buzzi a fronte di una condizione di insolvenza della società: «dall’ottobre 2012 le cooperative riferibili a Buzzi avevano maturato nei confronti di Eur spa e Marco Polo spa, crediti per un valore di circa 5 milioni di euro per prestazioni effettuate in relazione alle gare aggiudicate alla 29 Giugno, fino al 2005, nella forma di Associazione Te poranea di Imprese (Ati).

Ha accertato inoltre che in relazione alla gara bar4zlita il 28.2.2012, aggiudicata il 19.6.2012 alla 29 Giugno e a Formula Sociale (cd. Ati a 2), i servizi furono in parte subappaltati alla Cosma». Buzzi e Carnninati si era attivati in vario modo per recuperare tali crediti: «Tra il 2012 e il 2014 vennero corrisposti alle cooperative di Buzzi crediti per un ammontare complessivo di circa 6 milioni e mezzo di euro (circa un milione e 600.000 euro sotto la gestione Mancini e 5 milioni circa sotto la gestione Borghini e Lo Presti) pagati in 4 fasi, anche se la 29 Giugno accettò una riduzione dell’importo (del 7,5% nella prima fase e del 20% nella seconda)».

Pucci intervenne in questo contesto per facilitare il pagamento, agendo come intermediario di Mancini, amministratore delegato di Eur S.p.A., anche se la Corte di appello ha ritenuto ambiguo il suo ruolo, considerato che egli era legato sia a Carminati che a Mancini.

In sostanza, il dato significativo era il suo intervento per il pagamento di tali crediti: «(…) in effetti l’11.2.13 Eur spa sbloccava 267.475,34 euro in favore della 29 Giugno. Il 14.2.13 era nominato il nuovo amministratore delegato di Eur spa, Massimo Verrazzano. Pucci si interessava anche sotto la nuova amministrazione di Eur spa. Il 19.2.2013 Carminati e Pucci si incontravano al bar Palombini. Il 27.2.13 Eur spa sbloccava l’ulteriore somma di 596.114,19 euro».

9.2. Con i motivi sopra sintetizzati la decisione viene contestata. Buzzi sostiene che Pucci riceveva soldi in via del tutto personale da Carminati e, del resto, non risulta alcun atto di Pucci in favore delle cooperative. Carminati afferma di avere dato un personale aiuto economico al Pucci e, comunque, ritiene che questi non aveva la qualifica di pubblico ufficiale e, quindi, non era configurabile il reato contestato.

Pucci, oltre alla contraddittorietà tra motivazione e dispositivo ed alla violazione dell’obbligo di correlazione tra contestazione e sentenza di cui nella sintesi dei motivi, esclude la propria qualità di pubblico ufficiale o funzionario di fatto e colloca la vicenda, tuttalpiù, nell’ambito del traffico di influenze.

9.3. I ricorsi vanno accolti nei limiti della diversa qualificazione, oltre che dell’esclusione dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Nell’ordine vanno affrontati prima i motivi che riguardano la individuazione del reato per il quale è stata disposta la condanna, reato di corruzione ex art. 318 o ex art. 319 cod. pen., e la sussistenza della qualifica pubblicistica in capo al Pucci. Il capo di imputazione contestava il reato di cui all’art. 318 cod. pen. commesso nel 2013.

In particolare, «Pucci quale dirigente e procuratore speciale di Eur S.P.A., dunque incaricato di pubblico servizio» riceveva denaro «per l’esercizio della sua qualità pubblicistica in tutte le situazioni che involgevano le cooperative riconducibili a Buzzi».

La qualifica pubblicistica del Pucci, però, nella sentenza di primo grado, muta: a pagina 1517 il Tribunale aveva affrontato il tema della posizione- nell’ambito dell’Eur spa – di Pucci, formalmente dirigente, dando atto della assenza di indagini specifiche sul suo ruolo effettivo («in controesame il maresciallo escusso precisava che non era stato accertato come fosse composta la direzione commerciale suddetta né che funzione specifica avesse») ed a pagina 1518 lo aveva definito «un pubblico ufficiale a disposizione della associazione».

Successivamente, a pag. 1667, il Tribunale nuovamente lo aveva definito espressamente «pubblico ufficiale», rilevando che il suo ruolo in favore della associazione era ricollegabile alla sua posizione apicale e non a specifiche funzioni. Nessuna ragione veniva tuttavia indicata che giustificasse la modifica rispetto all’originaria qualifica di incaricato di pubblico servizio riportata nel capo di imputazione.

Per tale ruolo, il Tribunale aveva condannato espressamente Pucci per il reato di cui all’art. 318 cod. pen., conformemente sia al ruolo di pubblico ufficiale riconosciuto, che alla condotta di “messa a disposizione”, senza la individuazione di specifiche attività contrarie a doveri d’ufficio.

La Corte di appello ha affrontato espressamente solo il tema della generica funzione pubblica dell’imputato, considerando non rilevante ai fini della decisione il fatto che Pucci avesse o meno operato nell’ambito delle proprie mansioni ribadendo, invece, la sufficienza di una sua ingerenza di mero fatto consentita, all’interno dell’ente (ritenuto implicitamente pubblico), dalla generica funzione di dirigente.

In definitiva, la Corte di appello, ha definito l’imputato pubblico ufficiale, illecitamente pagato in ragione del proprio ruolo nella società Eur S.p.A.

Dalla lettura del punto 10.3.34 della sentenza di appello, ove effettivamente si legge «corruzione propria aggravata, reati meglio descritti nei capi 1 e 17 I decreto», sembra, però, che sia stata anche mutata in peius la qualificazione giuridica della condotta (da art. 318 ad art. 319 cod. pen.).

9.4. Insomma, risulta che la decisione di primo grado ha ritenuto sussistere l’ipotesi dell’art. 318 cod. pen. e poiché vi è stata piena conferma della condanna per tale capo da parte della Corte di secondo grado, dalla stessa motivazione di quest’ultima appare chiaro che, pur se vi è la di ione equivoca di «corruzione propria aggravata», la condanna è stata confermata per il reato di cui all’art. 318 cod. pen. Quindi, non vi è stato alcun mutamento di qualificazione giuridica del fatto, ma un mero errore che, sulla base della lettura complessiva delle due sentenze, non produce alcuna conseguenza.

Va invece rilevato che vi è stata una qualificazione diversa del ruolo del ricorrente, definito pubblico ufficiale, a fronte della iniziale contestazione del ruolo di incaricato di pubblico servizio. Nelle due decisioni di merito non si legge alcun argomento che supporti la diversa qualificazione. Nella contestazione si afferma che E.u.r. S.p.A. esercita un pubblico servizio.

Tale premessa non è stata oggetto dei motivi di ricorso (del resto lo stesso Pucci, pur se genericamente, definisce la attività di Eur S.p.A. di pubblico interesse) e, quindi, può ritenersi accertata, considerato che è certamente possibile l’esercizio di una pubblica funzione tramite una società formalmente di diritto privato.

Ovviamente, in assenza di contestazioni, non è compito del giudice di legittimità verificare di ufficio se la società esercitasse effettivamente una pubblica funzione. La specifica attività del ricorrente, però, non viene indicata, né quanto alle sue specifiche mansioni, né quanto alla presunta ingerenza di fatto, in quelle tipiche del pubblico ufficiale.

Va, allora, ritenuta corretta la qualificazione del capo di imputazione proprio alla luce degli argomenti spesi nelle due decisioni e della non contestazione: poiché il ruolo specifico di Pucci non è chiaramente individuato, ma risulta comunque un dirigente della società e che partecipa all’attività di pubblico servizio; ciò consente la sua qualificazione ex art. 358 cod. pen., ed in tale ruolo è in grado di influire anche sulla attività dei vertici della società con riferimento proprio alle attività qualificanti la conduzione del pubblico servizio. In tal caso, però, trattandosi della corruzione dell’incaricato di pubblico servizio, la qualificazione giuridica corretta è, evidentemente, quella del reato di cui agli artt. 318, 320 e 321 cod. pen.

9.5. Gli altri motivi sono tutti infondati.

Non sono valutabili in questa sede gli argomenti di Buzzi e Carminati in base ai quali si vorrebbe ricostruire diversamente le ragioni della dazione di denaro in favore di Pucci sulla scorta di una interpretazione alternativa del materiale probatorio sul quale i giudici di merito si sono espressi in modo completo e non illogico, non restando ambiti di valutazione del giudice di legittimità. 155 [N- La qualificazione giuridica è corretta, salvo la precisazione relativa al ruolo di incaricato di pubblico servizio, poiché non rileva la particolare attività di mediazione con Mancini per il pagamento in questione, bensì rileva la costante disponibilità in favore delle cooperative che i giudici di merito hanno ricostruito quale contropartita di un versamento fisso mensile. In definitiva, va confermata la sentenza con riferimento al capo di imputazione 17), diversamente qualificato nei termini sopraddetti, e con esclusione dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa. L’annullamento con rinvio, quindi, riguarda la nuova determinazione della pena nei confronti di Buzzi, Carminati e Pucci sia per l’esclusione dell’aggravante, che per la minore pena prevista per il reato di cui agli artt. 318, 320 e 321 cod. pen.

10. Turbativa di gara per la raccolta differenziata del comune di S. Oreste e corruzione (capi 18 e 19 del primo decreto).

10.1. Secondo la Corte di Appello, Buzzi, prima dell’aggiudicazione della gara per la raccolta differenziata del piccolo Comune di Sant’Oreste, si sarebbe accordato con Placidi, nella qualità di responsabile dell’Ufficio tecnico dello stesso Comune (che assumeva l’iniziativa della corruzione), per sostituire le offerte originariamente presentate con altre appositamente predisposte, in modo da garantirsi l’aggiudicazione della gara; Placidi in cambio della sua condotta avrebbe ricevuto la somma di almeno euro 10.000.

La Corte ha assolto il sindaco, Menichelli, ritenendo non provato il suo coinvolgimento nella iniziativa di Placidi, unico soggetto che trattò effettivamente con il Buzzi ricevendo il denaro. Buzzi versò in tutto euro 16.000.

Tali reati sono stati confessati da Buzzi che non ha proposto impugnazione.

Per il solo reato di turbativa è stata condannata anche Garrone.

10.2. I ricorsi di Placidi e Garrone sono infondati, salva la esclusione della aggravante di agevolazione mafiosa. Quanto al motivo proposto da Placidi, a fronte di una puntigliosa motivazione in cui la Corte di appello ha indicato i numerosi elementi probatori posti a fondamento del giudizio di penale responsabilità, derivanti da molteplici fonti di prova, il motivo di ricorso è, in parte, generico, non essendo stato dedotto alcunché sulle ragioni per cui Buzzi sarebbe stato portatore di un interesse inquinante nei riguardi di Placidi, e quindi, avrebbe dovuto accusarlo falsamente (sul tema si rinvia alle considerazioni fatte per la posizione dell’imputato Tassone), e, in parte, propone una rilettura, non consentita, del materiale probatorio ed una sua valutazione parcellizzata, svalutando, in maniera assertiva, la portata delle intercettazioni, rispetto alle quali le dichiarazioni di Buzzi sono state considerate quale mero riscontro.

Garrone, poi, ripropone un argomento che è già stato posto in sede di impugnazione di merito, ovvero che non vi era affatto un suo proposito di sostituire l’offerta già presentata perché era stato accertato che l’«offerta economica non è mai stata modificata»; si tratta innanzitutto di un argomento non valutabile in questa sede perché relativo all’apprezzamento delle prove e, comunque, infondato perché non tiene alcun conto della complessiva e particolarmente ampia motivazione della sentenza che ha ribadito la sua responsabilità proprio tenendo conto di questa sua obiezione.

Peraltro, Garrone non nega il concorso nella complessiva attività di collusione finalizzata ad alterare la gara. Va quindi disposto annullamento con rinvio nei confronti di Garrone e Placidi, per la sola rideterminazione della pena per la definitiva esclusione della aggravante della agevolazione mafiosa. L’annullamento con rinvio per la stessa ragione va disposto anche in favore di Buzzi che non ha impugnato la condanna in primo grado in punto di responsabilità ma ha, invece, proposto ricorso avverso la sentenza di appello per la parte in cui accoglieva l’impugnazione dei pubblici ministeri, riconoscendo l’aggravante dell’art. 416-bis.1 cod. pen.

11. Corruzione di Altamura Gaetano (capo 7 del secondo decreto).

11.1. I giudici di merito hanno accerto che Buzzi, nell’operare con le sue cooperative nel settore di lavori nel settore del verde pubblico, aveva corrotto Altamura Gaetano, direttore del X Dipartimento per la Tutela Ambientale e del Verde e Turella Claudio, funzionario del Servizio Giardini dello stesso dipartimento. Con riferimento al primo, vi è stata la condanna di Buzzi e Carminati (per Altamura si è proceduto separatamente) per il capo 7 del secondo decreto, ovvero la “messa a disposizione” del direttore, retribuita con l’assunzione di due sue nipoti presso due cooperative.

Secondo la ricostruzione dei giudici di merito sulla scorta del contenuto di alcune conversazioni e di servizi di osservazione, risultavano contatti fra gli imputati finalizzati all’assunzione delle nipoti di Altamura e successivi contatti nel corso dei quali Altamura forniva informazioni e dimostrava la propria disponibilità a favorire le cooperative di Buzzi in vista della pubblicazione e aggiudicazione delle gare per la pulizia degli arenili del litorale e per la manutenzione del verde e dei canili, oltre ai lavori afferenti le pulizie di Colle Oppio e di Piazza Vittorio.

La Corte di appello ha valorizzato anche delle conversazioni fra Buzzi e Carminati in cui il primo aveva fatto chiaro riferimento all’essersi comprato i favori di Altamura, persona facilmente corruttibile, considerando il suo ruolo significativo nella assegnazione di lavori di interesse.

In particolare, si rilevava la capacità di Altamura di assegnare lavori al di fuori del “circuito politico”, decidendo in forma autonoma con il meccanismo delle offerte al massimo ribasso, avvalendosi di Turella. Buzzi e Carminati hanno contestato la decisione con i motivi sopra sintetizzati, in particolare sostenendo il primo che non è stata indicata in alcun modo la relazione tra il presunto favore nei confronti del p.u. e le iniziative di quest’ultimo in favore di Buzzi e delle sue cooperative.

Si fa solo riferimento alle espressioni utilizzate dallo stesso Buzzi («prende soldi»; «Mi sono comprato Altamura»), prive, però, di alcun riscontro e sostenendo il secondo che non è stata individuata alcuna sua condotta casualmente orientata al reato del quale, peraltro, veniva a conoscenza solo dopo la sua presunta commissione.

11.2. Entrambi i ricorsi per tale reato sono infondati. La Corte di Appello ha collocato la vicenda in un contesto nel quale dalle stesse intercettazioni è emersa la scelta consapevole di creare una situazione di compiacenza nei confronti delle cooperative mediante ricorso a pagamenti per la “messa a disposizione”, indipendentemente dalla individuazione di specifici atti contrari.

In tale contesto la Corte ha individuato una condotta chiaramente di favore, ovvero la assunzione, nell’ambito delle cooperative, delle due nipoti di Altamura, segnalando anche come emergesse testualmente dalle intercettazioni l’informazione sulla loro inesperienza, a conferma che la scelta non fosse certamente casuale e motivata dalle esigenze di personale.

Ha poi ricostruito sulla scorta di conversazioni e di specifiche attività relative al lavoro di competenza dell’ufficio di Altamura l’ambito dell’attività di ufficio di quest’ultimo con chiaro riferimento anche a specifiche gare su cui sarebbe stato possibile un suo intervento. In tale quadro, la Corte di appello ha anche chiaramente motivato sul ruolo attivo assunto da Carminati che, con Buzzi, concordava la strategia per l’utilizzazione dei favori di tale funzionario; questi era da loro particolarmente apprezzato perché persino in grado di garantire vantaggi indebiti senza necessità di un previo accordo con il contesto politico.

Rileva, peraltro, nella complessiva motivazione della Corte di appello, anche il rapporto fra Altamura e Turella («l’uomo di Altamura»).

A fronte di tale motivazione, completa e priva di palesi vizi logici, contrastata solo con argomenti generici, non vi è alcuna ulteriore verifica di competenza del giudice di legittimità.Va, invece, esclusa la aggravante dell’agevolazione mafiosa con conseguente rinvio per rideterminazione della pena.

12. Corruzione di Turella Claudio e turbativa della gara per la manutenzione del verde delle ville storiche (capi 25 e 26 del primo decreto).

12.1. Buzzi, di concerto con Carminati e in accordo con i suoi collaboratori Garrone, Caldarelli, Bugitti e Di Ninno, corrompeva Turella Claudio, funzionario del Servizio Giardini del dipartimento diretto da Altamura (a sua volta corrotto, si veda la vicenda del capo 7 del secondo decreto).

Secondo l’accusa:

– Buzzi avrebbe versato a Turella la somma di euro 25.000 per l’assegnazione alle sue cooperative dei servizi di pulizia delle strade a seguito dell’emergenza neve;

– Buzzi avrebbe promesso il versamento di euro 30.000 per il suo intervento relativo allo stanziamento per la manutenzione delle piste ciclabili con lo scorporo del pagamento dell’IVA (dalla cifra di 800.000 euro che inizialmente la ricomprendeva) – le cooperative di Buzzi erano aggiudicatarie delle cinque gare finanziate con tale stanziamento;

– Turella si sarebbe adoperato per l’assegnazione alla Eriches 29 dei lavori per la manutenzione ordinaria delle aree a verde delle ville storiche agevolandola nelle varie fasi e, in particolare, per le difficoltà derivanti dalla qualità del progetto presentata dalla cooperativa concorrente II Solco di Mario Monge, tale da incidere sulla prospettiva di vincita della gara (turbativa del capo 26).

I fatti sono dimostrati dalle intercettazioni e dalle indagini sulle pratiche amministrative. Quanto alla turbativa della gara (Turella presiedeva la commissione aggiudicatrice) relativa alle ville storiche, Buzzi venne informato della forte concorrenzialità del progetto, definito «bellissimo», della concorrente cooperativa Il SolCo di Monge; tale informazione gli consentì sia di intervenire sul concorrente perché desistesse dalla partecipazione, sia di apportare integrazioni alla propria domanda per renderla più competitiva.

Per il reato di turbativa sono stati condannati Buzzi e Turella mentre per il reato di corruzione sono stati condannati anche Bugitti, Caldarelli, Carminati, Di Ninno e Garrone.

Costoro, difatti, risultano avere partecipato alla conversazione del 28 marzo 2013 in cui si determinò l’ammontare della tangente da corrispondere in euro 30.000.

Questi reati sono stati ammessi da Buzzi che non ha proposto appello né ricorso.

Ha proposto ricorso Turella, nei cui confronti, su sua richiesta, è stata pronunciata sentenza ex art. 599-bis cod. proc. pen., per profili relativi alla pena ed alla confisca, nonché Bugitti, Di Ninno, Garrone che hanno anche rilevato una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.

12.2. I motivi di Bugitti, Di Ninno, Garrone, Caldarelli e Carminati sono infondati.

La Corte di appello ha offerto argomenti specifici, privi di manifesti errori logici, quanto alla attività connessa alla corruzione svolta nel corso della riunione del 28 marzo 2014, in cui, secondo la propria ricostruzione, fu determinata collegialmente la entità della tangente da corrispondere al Turella, così portandosi a perfezione il reato.

Quindi, non sussiste né carenza né illogicità della motivazione, non spettando, ovviamente, a questa Corte effettuare una propria valutazione delle prove utilizzate dai giudici di merito. Questo risolve i motivi di Bugitti, Di Ninno e Garrone e Caldarelli che chiedono una diversa valutazione del ruolo di ciascuno nel corso di quella che, presieduta da Buzzi, era una riunione destinata a decisioni condivise.

Inoltre è chiara anche la insussistenza della dedotta mancanza di correlazione tra contestazione e sentenza: secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, l’accordo corruttivo si colloca nell’arco temporale che corrisponde alla contestazione; nella riunione del 28 marzo 2014 si svolgeva una ulteriore fase, ovvero la determinazione di quanto dare al corrotto per il servizio offerto.

Tale riunione, quindi, è stata valorizzata per ritenere la partecipazione dei collaboratori di Buzzi alla complessiva attività di corruzione. Per quanto riguarda Carnninati, il ricorso, peraltro assai generico, non considera come, al di là di valere anche per lui la partecipazione alla determinazione delle condizioni della tangente da corrispondere, sia stato individuato un suo concreto interesse nella vicenda perché una delle attività cui era finalizzata la corruzione riguardava lavori aggiudicati alla Cosma, cooperativa gestita dal Carminati.

Va, invece, esclusa l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, con conseguente rinvio al solo fine della rideterminazione della pena, anche nei confronti di Buzzi, ricorrente contro l’accoglimento degli appelli con applicazione di detta aggravante.

12.3. Sono inammissibili i due motivi di ricorso presentati nell’interesse di Turella Claudio, che possono essere valutati congiuntamente.

La Corte di cassazione ha chiarito che, in tema di concordato in appello, è ammissibile il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 599-bis cod. proc. pen. solo nel caso in cui siano dedotti motivi relativi alla formazione della volontà della parte di accedere al concordato in appello, al consenso del Procuratore generale sulla richiesta ed al contenuto difforme della pronuncia del giudice, mentre sono inammissibili le doglianze relative a motivi rinunciati.

In particolare, è inammissibile il ricorso per cassazione, avverso la sentenza resa all’esito del concordato sui motivi di appello ex art. 599-bis cod. proc. pen., volto a censurare la quantificazione della pena o la valenza della base probatoria posta a fondamento della misura patrimoniale, in quanto l’accordo delle parti in ordine ai punti concordati implica la rinuncia a dedurre nel successivo giudizio di legittimità ogni diversa doglianza, anche se relativa a questione rilevabile di ufficio, con l’unica eccezione, che non ricorre nel caso di specie, dell’irrogazione di una pena o di una misura di sicurezza illegali (Sez. 6, n. 41254 del 04/07/2019, Leone, Rv. 277196; Sez. 2, n. 30990 del 01/06/2018, Gueli, Rv. 272969).

13. Corruzione di Coratti Mirko e Figurelli Franco (capi 1 e 2 del secondo decreto).

13.1. Buzzi, con Carminati, Garrone, Di Ninno e Bolla, avrebbe corrotto Coratti Mirko, presidente del Consiglio comunale di Roma, e Figurelli Franco, della sua segreteria (ritenuto un pubblico ufficiale di fatto), per essersi messo a disposizione delle cooperative di Buzzi.

Il primo avrebbe ricevuto la somma di euro 10.000 versati all’associazione Rigenera, l’assunzione nella Coop 29 Giugno di una persona da lui indicata e la promessa di euro 150.000, il secondo euro 1000 al mese.

Le condotte contestate a Coratti al capo 2 sono:

– di aver facilitato l’aggiudicazione alle cooperative di Buzzi di gare indette da Ama, tra cui quella 30/13 per la raccolta del multimateriale;

– di aver concorso alla riconferma del Direttore Generale di Ama Fiscon;

– di aver dirottato i fondi regionali al X Municipio (Ostia) in funzione della loro utilizzazione per gare a cui erano interessate cooperative del gruppo Buzzi;

– di aver contribuito allo sblocco di fondi destinati ad attività sociale di interesse delle cooperative di Buzzi (crediti per la gestione di campi nomadi);

– di aver pilotato la sostituzione di Gabriella Acerbi, direttore del V Dipartimento, Politiche sociali, non gradita per avere ridotto le tariffe per i minori stranieri non accompagnati (Fu nominato la Cozza, gradita perché legata ai due corrotti);

– di aver contribuito al riconoscimento dei debiti fuori bilancio (tra cui quello relativo alle spese effettuate per l’assistenza dei Minori Stranieri Non Accompagnati -Misna-, a cui avevano provveduto cooperative del gruppo Buzzi) approvato con delibera assembleare del 30.10.214.

Hanno proposto ricorso Bolla, Buzzi, Carminati, Coratti, Di Ninno, Figurelli e Garrone.

13.2. Quanto alle posizioni di Mirko Coratti e Franco Figurelli, è utile per ragioni di ordine espositivo fare dapprima riferimento al ricorso presentato nell’interesse di Mirko Coratti.

Rinviando l’esame dei primi due motivi di ricorso alle considerazioni esposte ai paragrafi 3 e 5 della parte relativa alle questioni preliminari e quello del dodicesimo e del tredicesimo motivo al paragrafo sulle statuizioni civili, quanto al terzo motivo di ricorso, assume il ricorrente di aver dedotto con l’atto di appello che l’imputazione, al di là del riferimento agli atti contrari ai doveri d’ufficio, non indicasse in concreto le condotte illecite tenute dal ricorrente per l’esercizio della funzione e, sotto altro profilo, che non si sarebbe potuto configurare un concorso formale tra i reati di cui agli artt. 318- 319 cod. pen., entrambi contestati.

La sentenza sul punto sarebbe silente, essendosi la Corte limitata ad osservare per tutti gli imputati come nei capi di imputazione fossero sufficientemente delineati gli episodi criminosi e, dunque, fosse consentito conoscere i profili fondamentali dei fatti loro addebitati.

Anche la descrizione fattuale di tutti gli atti contrari ai doveri di ufficio sarebbe connotata, secondo il ricorrente, da una terminologia aspecifica. Si tratterebbe di una nullità a regime intermedio, deducibile fino alla sentenza di primo grado. Il motivo è infondato. Il motivo è testualmente riproduttivo del sesto motivo di appello e censura la risposta fornita dalla Corte di appello alle pag. 18- 19 della sentenza; si tratta di un motivo inammissibile, quanto al riferimento all’art. 318 cod. pen., ed infondato, quanto agli assunti riguardanti l’art. 319 cod. pen.

Sotto un primo profilo, la Corte di cassazione ha in molteplici occasioni chiarito che non sono denunciabili, con il ricorso per cassazione, dei «vizi della motivazione nelle questioni di diritto affrontate dal giudice di merito in relazione alle argomentazioni giuridiche delle parti» (Sez. 5, n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993), in quanto o le medesime «sono fondate, e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge, ovvero sono infondate, ed in tal caso il provvedimento con cui il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all’art. 619 cod. proc. pen., che consente di correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta» (Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016, dep. 2017, Emanuele, Rv. 271451).

La questione di diritto proposta, a cui la Corte ha fornito una risposta, deve dunque essere valutata al fine di verificare se il giudice di merito abbia fatto corretta applicazione della legge. In relazione all’art. 318 cod. pen. il motivo, come detto, è inammissibile per carenza di interesse, atteso che Coratti è stato condannato solo per il reato di corruzione propria (pag. 3169 sentenza di primo grado; pag. 569 sentenza impugnata).

Quanto alla descrizione delle condotte di corruzione propria, al di là della obiettiva genericità del motivo, la Corte di cassazione ha in più occasioni affermato il principio secondo cui non è ravvisabile alcuna incertezza sulla imputazione, quando il fatto sia stato contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa.

La contestazione, in particolare, non va riferita soltanto al capo d’imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (Sez. F, n. 43481 del 7 agosto 2012, Ecelestino, Rv. 253582).

Dunque, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, non vi è incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all’imputato di difendersi, mentre non è necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’oggetto della contestazione (Sez. 5, n. 10033 del 19/11/2017, Iogha’, Rv. 269455; Sez. 5, n. 51248 del 5/11/2014, Cutrera, Rv. 261741; Sez. 5, n. 6335/ 14 del 18 ottobre 2013, Morante, Rv. 258948; Sez. 2, n. 16817 del 27 marzo 2008, Muro e altri, Rv. 239758).

Nel caso di specie, l’imputazione è costruita nel senso che l’imputato avrebbe compiuto una serie di atti contrari ai doveri d’ufficio in favore di Buzzi, e dei soggetti a questi riconducibili, in cambio del conseguimento di molteplici utilità.

Diversamente dagli assunti difensivi, la tecnica utilizzata nella redazione della imputazione è stata quella di descrivere le condotte contrarie ai doveri d’ufficio che l’imputato avrebbe compiuto e le utilità conseguite; si è fatto riferimento alle singole vicende inquinate, al tipo di attività che Coratti avrebbe posto in essere, alle gare specifiche in cui l’imputato sarebbe intervenuto per tutelare l’interesse privato di cui si era fatto carico, alla incidenza che il ricorrente avrebbe avuto nella adozione delle delibere dell’assemblea capitolina (destinazione fondi al X municipio, sblocco dei fondi per il sociale, riconoscimento dei debiti fuori bilancio), all’influenza nelle nomine di dirigenti.

Si sono individuate le specifiche utilità che Coratti avrebbe conseguito e si sono indicate le fonti di prova poste a fondamento delle contestazioni.

Non può pretendersi che nel decreto di rinvio a giudizio il fatto debba essere necessariamente puntualizzato in ogni suo elemento specifico, anche perché ciò può non essere compatibile col momento processuale in cui il decreto viene emesso e in cui – di norma – si dispone del solo materiale investigativo unilateralmente acquisito dal P.M.; il decreto, cristallizzando l’accusa nel suo nucleo qualificante e nella sua tipicità, deve esplicitare e fissare l’oggetto della contestazione ed il “thema probandum”, indicando sommariamente le relative fonti, e preludere così all’approfondimento dell’attività dibattimentale per la definitiva puntualizzazione e qualificazione dei fatti contestati.

Gli elementi accessori e quelli che si concretano nella prova del fatto non incidono sul requisito della enunciazione dello stesso, che risulta nella specie di agevole individuazione, e non integrano, qualora siano omessi o precisati in maniera elastica e incerta, la mancanza o l’incompletezza della imputazione, sì da creare difficoltà all’esercizio del diritto di difesa.

Il ruolo di ciascun imputato, il nesso di causalità tra la relativa condotta e la lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, il mercimonio della pubblica funzione al servizio di interessi di parte sono stati chiaramente enunciati ed è quanto basta per escludere la sanzione della dedotta nullità del decreto dispositivo del giudizio.

La prova in ordine ai detti elementi e il conseguente accertamento delle specifiche modalità operative delle azioni illecite appartengono al successivo momento processuale del dibattimento ed è negli esiti di questo che va ricercata.

Peraltro, rispetto ad una difesa articolatissima che si è sviluppata con atti di impugnazione di centinaia di pagine con cui si è contestato in modo puntuale ogni rivolo della prospettazione d’accusa, ogni singolo elemento valorizzato al fine del giudizio di penale responsabilità, il motivo è strutturalmente generico, non essendo stato spiegato ed indicato quale prerogativa difensiva sia stata in concreto inficiata, quale diritto e quale valore siano stati danneggiati.

13.3. Sono infondati, ai limiti di inammissibilità, il quarto ed il quinto motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, relativi alla violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza.

Rinviando a quanto già detto nella parte generale, non è chiara quale sarebbe la radicale eterogeneità del fatto accertato – nei suoi elementi essenziali – rispetto a quello contestato e quale sarebbe il pregiudizio dei diritti della difesa, tenuto conto dello sviluppo concreto del processo, di come l’imputato si sia trovato nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione e di come il diritto di difesa sia stato esercitato.

Sotto altro profilo, al di là dei profili strettamente lessicali – puntualmente evidenziati dal ricorrente – dalle sentenze di merito emerge chiaramente come i giudici abbiano in concreto esaminato analiticamente le singole condotte contestate nella imputazione e siano giunti, sulla base delle articolate evenienze istruttorie e degli articolatissimi rilievi difensivi, a formulare il giudizio di penale responsabilità facendo riferimento ad una ricostruzione degli accadimenti che si pone in rapporto di diretta e immediata derivazione dalla imputazione.

Esemplificativo dell’approccio del motivo di impugnazione è l’assunto secondo cui nella imputazione non vi sarebbe riferimento al contributo di 5.000 euro che Coratti avrebbe ricevuto e che è stato utilizzato nella struttura motivazionale per provare la corruzione; e tuttavia, se è vero che formalmente il contributo in questione non è indicato fra quelli che Coratti avrebbe ricevuto in ragione del compimento degli atti contrari ai suoi doveri d’ufficio, è altrettanto vero che l’imputazione non limita le utilità oggetto di corruzione a quelle espressamente indicate, perché l’imputazione è costruita intorno all’assunto secondo cui l’imputato avrebbe ricevuto “promesse ed erogazioni continuative”, tra cui quelle poi quelle specificamente descritte.

Dunque non è condivisibile l’assunto secondo cui Coratti sarebbe stato condannato per condotte non contestate e valorizzate “a sorpresa” dai giudici di merito.

13.4. È infondato, ai limiti della inammissibilità, il sesto articolatissimo motivo di ricorso. Si è già detto di come la tesi difensiva, sviluppata in relazione a numerosi temi d’accusa, è che la ricostruzione alternativa proposta dall’imputato, attraverso una serie di contributi probatori, non sarebbe stata mai vagliata dalla Corte, che si sarebbe “limitata” ad una ricostruzione parziale – e viziata – delle singole vicende prese in considerazione.

La tesi difensiva si articola e si sviluppa in relazione:

a) all’analisi ed alla valutazione delle conversazioni del coimputato Buzzi in ordine ai rapporti tra questi ed il coimputato Figurelli ed al fatto che nessuna conversazione avrebbe avuto come autore diretto Coratti;

b) alle smentite individualizzanti che le affermazioni captate da Buzzi avrebbero ricevuto proprio con riguardo a Coratti ed all’assunto secondo cui Figurelli operasse “per conto” di questi;

c) ai rilievi difensivi riguardanti la prova degli elementi strutturali del reato contestato; d) alle condotte in concreto contestate.

È utile riportare, in relazione alle singole condotte contestate al ricorrente, la ricostruzione dei fatti compiuta dalla Corte di appello.

1) Quanto al tema della aggiudicazione a Buzzi ed ai soggetti a questi riconducibili delle gare indette da Ama s.p.a. la Corte ha evidenziato come: a) Buzzi, per quel che concerne la gara A.m.a. 27, parlando con Caldarelli disse a questi che non era necessario l’intervento specifico di Coratti il quale, a dire dello stesso Buzzi, avrebbe dovuto invece interessarsi per il milione di euro “ancora da spendere” in ambito A.m.a.; b) il 10 aprile 2014 Buzzi disse a Figurelli di “ricordare” a Coratti, che doveva incontrarsi con Fortini, il nome di un dato ingegnere che avrebbe dovuto essere segnalato; c) Buzzi chiese a Figurelli conto dell’incontro tra Coratti, Fiscon e Fortini e Figurelli assicurò la disponibilità “all’apertura verso la cooperazione”, circostanza questa che indusse Buzzi a riferire “hanno recepito quindi..”.

2) Quanto alla sostituzione della dott.sa Acerbi a capo del V Dipartimento con un nuovo soggetto gradito allo stesso Buzzi, la Corte ha evidenziato: a) che la Acerbi avesse ridotto le tariffe per i servizi Misna e per i servizi Sprar, pure forniti da Buzzi, e come questi fosse interessato, al momento della sostituzione della stessa Acerbi, a collocare in quella posizione una figura a lui gradita, inizialmente individuata in tale Napolitano; b) i numerosi contatti registratisi nell’ottobre del 2013 tra Buzzi e Figurelli al fine di “pilotare” la nomina di Napolitano; c) come, in realtà, il 2.11.2013 fu invece nominata Isabella Cozza, la quale, nondimeno, per Figurelli e per lo stesso Buzzi, era un soggetto gradito, in quanto aveva come riferimento Coratti ” la Cozza è sua, ce pensa Coratti”; d) i successivi contatti – dal gennaio 2014- tra Buzzi e Figurelli chiaramente rivelatori della circostanza che la Cozza “era” di Coratti;

3) Quanto al pagamento dei servizi Misna per il 2013 ed all’interesse che Buzzi aveva affinché fossero riconosciuti i debiti fuori bilancio nei riguardi della Eriches, si è chiarito: a) che Buzzi si era “affidato” direttamente a Coratti, ricevendo da questi assicurazioni, e come ciò fosse stato chiaramente rappresentato da Buzzi a Figurelli (conversazione 22.1.2014 “con Coratti è chiuso… mi stò a comprà tutti”; conversazione del 23.1.2014 “ma debiti fuori bilancio, io nnò m’affido a Coratti”; conversazione n. 1752 ” me so comprato Corat…. 10.000 euro gli ho portato”); b) che Figurelli provvide costantemente ad informare Buzzi della evoluzione della vicenda; c) come Buzzi, pur di riuscire a “sbloccare” la situazione, intendesse versare denaro anche ad altri consiglieri comunali, oltre he a Coratti “Ferrari c’ha detto .. quanto a Coratti sennò io non faccio un cazzo” e come proprio detta disponibilità a coinvolgere anche altri soggetti nella vicenda avesse suscitato la reazione negativa di Coratti; d) come Buzzi avesse dubbi sulla capacità di Coratti di smuovere la situazione nel senso sperato; e) che, dopo il parere favorevole (emesso il 25.9.2014) da parte della Prima Commissione Bilancio e della Quinta commissione – politiche sociali- al proseguimento della pratica relativa al riconoscimento dei debiti fuori bilancio dei Misna, Coratti, tramite Ferrara, comunicò la necessità che fossero i Capigruppo consigliari a fare in modo che la questione fosse inserita nell’ordine del giorno dei lavori dell’assemblea capitolina, non potendo esser “portata” solo dallo stesso Coratti; f) che tale comunicazione non fu gradita da Buzzi, che rimproverò a Coratti di non fare “gioco di squadra” con D’Ausilio, altro consigliere comunale (conversazioni del 14.10.2014), cioè che non fosse in grado di procedere efficacemente; g) 1’1.10.2014 Buzzi, Figurelli, Coratti e tale Nucera, “braccio destro di D’Ausilio” si incontrarono in un ristorante; h) il 2.10.2014 Buzzi confidò a Caldarelli di avere sentito Coratti “un discorso strano con D’ausi… insomma ho avuto il sospetto che D’ausilio prende i soldi e non li gira a Coratti”; i) il 28.10.2014 Figurelli informò Buzzi che la delibera relativa ai debiti fuori bilancio era stata calendarizzata; I) la delibera che riconosceva i debiti fuori bilancio per l’accoglienza al Misna per il periodo gennaio- giugno 2091 fu approvata il 30.10.2014, cioè proprio entro il termine che Buzzi aveva auspicato ed in relazione al quale Ferrara aveva manifestato dubbi sulla possibilità concreta che ciò potesse accadere.

4) Per quel che concerne lo sblocco della somma di tre milioni di euro di competenza del V Dipartimento, si è spiegato che: a) Coratti e Figurelli intervennero sulla dott.ssa Cozza, che era il capo del dipartimento in questione, in favore di Buzzi; b) il 21.1.2014, Buzzi, dopo aver incontrato Coratti, mandò un sms a Coltellacci dicendo “con Coratti tutto ok, poi ti dico”; il 22.1.2014 Buzzi ripetette il concetto a Caldarelli; c) il 23.1.2014, Buzzi, alla presenza di Carminati e Caldarelli, disse di essersi “comprato” Coratti, al quale aveva promesso 150.000 euro se questi gli avesse “fatto prendere” i tre milioni di euro per le pratiche per le quali era interessato il V dipartimento diretto dalla Cozza;d) il 30.1.2014 Buzzi disse di dover incontrare Coratti ed il 31.1.2014 riferì a Coltellacci come l’incontrò fosse andato “molto bene” e come la Cozza stesse predisponendo la delibera da tre milioni di euro per l’affidamento del campo nomadi per trenta mesi alla Eriches; e) il 5.2.2014 Buzzi affermò nuovamente di dover incontrare Coratti e, successivamente, che l’incontro era andato “bene, no bene, benissimo”; f) Buzzi chiese a Coltellacci di predisporre un elenco delle pratiche che “channo sul V dipartimento”; g) nell’ufficio di Figurelli furono rinvenuti, all’esito di una perquisizione, due promemoria su carta intestata Eriches di cui uno relativo al “campo F”, datato 14.1.2014, e l’altro, datato 27.1.2014, relativo al contenzioso Si.AI service (di Buzzi e Coltellacci ) con il Comune. La Corte di appello ha poi posto in connessione le condotte, così come ricostruite, con le utilità che Coratti avrebbe ricevuto, evidenziando che:

1) il 6.5.3013, Buzzi, su richiesta espressa di Figurelli, eseguì un bonifico di 5000 euro da parte della Cooperativa 29 giugno Eriches 29 al mandatario elettorale di Coratti;

2) il 17.1.2014 dal conto intestato alla cooperativa 29 Giugno fu effettuato un bonifico di 10.000 euro all’associazione Rigenera, “riconducibile a Coratti” (il tema è collegato all’incontro che Buzzi riferì di avere avuto il 14.1.2014 proprio con Coratti);

3) il versamento in questione aveva la propria causa giustificativa non nella volontà di corrispondere un mero contributo elettorale, atteso che in quel momento Coratti non era impegnato in competizioni politiche, ma nella vicenda relativa all’iter che, in seguito, portò all’adozione della delibera per il riconoscimento dei debiti fuori bilancio, di cui si è detto ampiamente in precedenza, ed, in particolare, alla calendarizzazione dei lavori da parte dell’imputato;

4) Buzzi, nel ottobre 2014, su indicazione di Figurelli, assunse, su espressa richiesta di Coratti, tale Ilenia Silvestri. Rispetto a tale complesso quadro di riferimento, il motivo di ricorso, pur essendo molto articolato, perde di valenza.

È utile premettere che l’onere motivazionale del giudice è soddisfatto attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti, senza che sia necessario un esame dettagliato delle stesse laddove ciascun rilievo risulti disatteso dalla motivazione della sentenza, complessivamente considerata (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Camello, Rv. 256340;fN Sez. 5, n. 6746 dei 13/12/2018, dep. 2019, Curro, Rv. 275500; Sez. 5, n. 42921 del 19/06/2014. Ganci, Rv. 262111).

Nella motivazione della sentenza, cioè, il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame specificatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e delle risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, re ragioni che hanno determinato n suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; In tal caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni direnshie che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente Incompatibili con la decisione adottata (Sez. 4, n. 1149 cher 24/10/2005, deo. 2006, Mirabilia, Rv.2331B7).

Il motivo di ricorso, in particolare, per carne strutturato, esula dal percorso di una ragionata censura del complessivo percorso motivazionale del provvedimento impugnato, con il quale obiettivamente non si confronta, e si risolve In una Indistinta critica difettiva la frammentazione del ragionamento sotteso al motivo, la moltiplicazione di .rivoli argomentativi neutri o, comunque, non decisivi, la scomposizione indistinta di fatti e di piani di indagine non ancorata al ragionamento probatorio complessivo della sentenza impugnata, la valorizzazione di singoli elementi il cui significato viene scisso ed esaminato atornisticamente rispetto all’intero contesto, violano tuttavia il necessario onere di specificazione delle critiche mosse ar provvedimento (sul tema, Sez. 6, n. 10539 del 10/02/2017, Lorusso, Rv. 269379).

Le censure difensive tendono sostanzialmente a sollecitare una differente e non consentita comparazione dei singoli significati probatori e per giungere a ciò si sottolinea una valenza diversa del singolo elemento di prova, della singola conversazione intercettata, del singolo rivolo argomentativo dei giudici di merito.

Si sostiene, quanto alla valutazione delle conversazioni del cofmputato Buzzi ed ai rapporti di questi con Coratti e Flgurelli, che la Corte non avrebbe considerato i molteplici temi dl prova, che pure erano stati portati alla sua cognizione, relativi: a) all’acredine che Buzzi avrebbe avuto in un dato momento nei confronti del ricorrente – elemento, questo, si evidenzia, incompatibile con la consumazione di un accordo illecito, tenuto canto che detta acrimonia si sarebbe manifestata In un momento temporale affatto successivo a dueno della presunta consumazione dell’accordo criminoso (si richiamano conversazioni); b) alla complicità duale e diretta tra Buzzi e Figurelli e, quindi, alla infondatezza dell’assioma secondo cui- tutto da che sarebbe imputatine a Figurelil lo sarebbe anche a Coratti (vengono richiamate conversazioni, e, in particolare, una In cui Buzzi avrebbe detto a Figurelll “Io investo su di te”, richiamata dalla Corte, si fa osservare, per la valutazione della posizione di questi e non anche per Corattl).

Si tratta di argomenti che, tuttavia, non si confrontano con /a motivazione della sentenza e con il contenuto delle conversazioni intercettate, di cui la Corte ha dato ampiamente conto; argomenti: a) che non prospettano nemmeno in astratto l’esistenza di un interesse inquinante da parte di 6UZ2i nei riguardi di Coratti; b) che non tengono conto del fatto, pure evidenziato dalla Corte, che i giudizi non positivi espressi da B111221 in un dato momento nei confronti di Coratti fossero legati esclusivamente al fatto che questi non riuscisse a “fare squadra”, cioè a dialogare con gli altri soggetti coinvolti nella comune vicenda; 3) che non spiegano sulla base di quali elementi, ai di là della conversazione evidenziata dalla difesa, Figurelii, di cui s dirà in prosieguo, non avrebbe assolto H compito di filtrare i rapporti tra Buzzi e Coratti, di tenere cioè i collegamenti tra ir ricorrente e Buzzi.

Non diversamente, in una visione obiettivamente atomistica, si afferma che Fa Corte non avrebbe preso in considerazione le smentite Individualizzanti relative alla attendibilità delle affermazioni di Buzzi captate nel corso delle conversazioni e, In particolare, il contenuto di un dialogo tra Buzzl e la di lui compagna Garrone – in cui il primo avrebbe fatto riferimento ad un Incontro con Coratti – in realtà mai avvenuto – per dissimulare un diverso Impegno; anche sul punto, si tratta di un argomento che può trovare spiegazioni molteplici ricollegabili al rapporto privato tra Buzzi e Garrone, ma che non intacca la struttura del complessivo ragionamento probatorio, che non spiega i pagamenti assicurati a Corattl, nè le molteplici conversazioni in cui Buzzi, parlando con soggetti a lui vicinissimi che erano a conoscenza dei generalizzato sistema corruttivo, parla di Coratti come un soggetto “comprato”.

SI sostiene che la sentenza sarebbe viziata guanto alla prova della esistenza dell’accordo corruttivo; si è già detto della tesi difensiva secondo cui la Corte i Innovando l’accusa, avrebbe fatto riferimento ad un contributo di 5000 euro corrisposto In occasione delle elezioni comunali del 2013, rispetto al quale non sarebbe stata raggiunta la prova – della causale illecita; la Corte, si aggiunge, avrebbe travisato il senso di una conversazione tra Buzzi e Figureill, laddove invece da essa emergerebbe chiaramente Come, a dire di Buzzi, Corani non avesse richiesto nessun contributo (la conversazione è la n. 9577 del 6.5.2013, dì cui si è già detto), la Corte avrebbe interpretato erroneamente la conversazione del 23.1.2014 in cui Buzzi disse di essersi “comprato” Corattl assume che, proprio l’Interpretazione della conversazione del 6.5.2013 renderebbe contraddittoria quella della conversazione del successivo 23.1.2014, atteso che; se fosse vera la interpretazione data della prima – cioè che il versamento dei 5.000 euro fosse il prezzo della corruzione-, non avrebbe avuto senso l’affermazione- successiva di mesi- “me so comprato Coratti” e ciò contrasterebbe anche con l’assunto del Tribunale secondo cui la data dell’accordo corruttivo risalirebbe al gennaio del 2014); si aggiunge che la Corte non avrebbe spiegato perché, se Figurelli percepiva davvero un compenso di mille euro al mese per l’attività svolta in favore di Buzzi, detta attività dovrebbe essere ascritta a Coratti.

Si tratta di aspetti centrali su cui la Corte ha motivato adeguatamente, mettendo in relazione il contenuto delle conversazioni intercettate, la cui portata è obiettivamente chiara, con le utilità che Coratti ricevette nel tempo, evidenziando la connessione tra la dazione delle utilità e lo stato dei procedimenti per i quali Buzzi aveva interesse; al di là dei riferimenti alle dazioni di somme di denaro a Figurelli ed ad ipotetiche causali alternative lecite relative ai 10.000 euro all’associazione Rigenera, il ricorso è silente in ordine alla dazione dei 5.000 euro – per il quale non si spiega perché Buzzi, nonostante la somma non fosse stata richiesta da Coratti, dette immediatamente esecuzione a quanto Figurelli aveva fatto intendere- alla promessa della dazione di 150.000 euro nel caso in cui fosse stata sbloccata la somma di tre milioni di competenza del v dipartimento – ai due resoconti trovati nella stanza di Figurelli, alla assunzione di Ilenia Silvestri, alla connessione temporale tra la dazione dei 10.00 euro (17.1.2014) e gli accadimenti precedenti e successivi di quel periodo, di chi pure si è detto.

Su questi fondamentali profili, il ricorso non “attacca” la motivazione del provvedimento impugnato.

Ancora, quanto alle condotte che Coratti avrebbe compiuto, si afferma, con specifico riferimento all’approvazione della delibera Misna (30.10.2014), che la Corte non avrebbe spiegato perché Buzzi si sarebbe espresso su Coratti, cioè del soggetto corrotto, in termini fortemente critici (“noi con Balotelli non andiamo da nessuna parte… il gioco di squadra che manca”), ma non si tiene conto di quanto già detto, e cioè che le riserve di Buzzi erano legate al timore che Coratti “non bastasse” ad ottenere quel che si voleva ottenere; in tal senso, si è logicamente valorizzato dalla Corte il fatto che Buzzi, in un dato momento, cercò di “avvicinare” anche altri consiglieri comunali e come proprio ciò destò la reazione di Coratti (pag. 170 telefonata n. 7445).

Si assume che: a) non sarebbe stata presa posizione sul tema relativo alle modalità ed alla tipologia della calendarizzazione delle proposte di deliberazione in consiglio comunale, ovvero su quello riguardante la formazione dell’ordine dei lavori dell’assemblea capitolina (la proposta di deliberazione d’interesse di Buzzi sarebbe stata la penultima su 58, il potere di formazione dell’ordine sarebbe stato erroneamente ritenuto dalla Corte una prerogativa del presidente del consiglio comunale, laddove, invece, l’art. 22, comma 3, del regolamento comunale lo attribuirebbe alla conferenza dei presidenti dei gruppi consiliari, di concerto con il Presidente del consiglio comunale); detti temi, se adeguatamente valutati, avrebbero reso manifesta, secondo il ricorrente, l’assenza di favoritismi da parte di Coratti ed in tal senso si richiamano prove dichiarative indicate con l’atto di appello e la documentazione prodotta; b) la sentenza non spiegherebbe in cosa e come Coratti avrebbe fatto convergere l’opinione dei consiglieri sulla decisione di inserire la delibera che interessava Buzzi nell’ordine del giorno; c) la Corte non avrebbe preso posizione sull’argomento secondo cui Figurelli si sarebbe mosso automaticamente in ragione di un proprio accordo corruttivo con Buzzi, con conseguente estraneità concorsuale del ricorrente.

La motivazione sarebbe viziata anche:

1) quanto alla presunta volontà di Coratti di aiutare Buzzi nella attività imprenditoriali con l’AMA s.p.a.; detto segmento fattuale sarebbe fuori dal perimetro imputativo e rivelerebbe la contraddittorietà della motivazione, tenuto conto della revoca delle statuizioni civili proprio nei riguardi di A.m.a. S.p.A.;

2) nella parte relativa alla nomina della dott.ssa Cozza al V dipartimento a seguito dell’avvicendamento del dirigente Gabriella Arsi; non sarebbe stato valutato il motivo di appello con cui venivano segnalate alcune deposizioni (Cutini, Iudicello), da cui sarebbe emerso che l’avvicendamento sarebbe stato fisiologico, che Coratti non aveva rapporti personali con la dott.ssa Cozza, che non aveva mai perorato la nomina di questa; né sarebbe stato considerato il contenuto di una informativa di polizia con cui si faceva risalire la nomina della dott. Cozza alla vicinanza di questi con altri soggetti.

Si tratta di argomenti lungamente sviluppati nell’atto di appello, in relazione ai quali la Corte ha tuttavia congruamente motivato (pag. 178 – 179 sentenza impugnata): si sono indicate le conversazioni da cui logicamente si è fatta discendere la prova che Buzzi “usasse” Figurelli come tramite per giungere a Coratti; si è chiarito che il rapporto tra Buzzi e Coratti si “aggiungeva” a quello tra il primo e Figurelli; si è spiegata la ragione per cui la nomina della dott.ssa Cozza fu in qualche modo collegata anche a Coratti, circostanza, questa, che, peraltro, non esclude che quella nomina potesse essere caldeggiata anche da altri; si è descritto il ruolo che Coratti ebbe per le pratiche Ama, quello avuto per l’assunzione della Silvestri – su cui il ricorso è silente – quello per lo sblocco dei fondi per il sociale in relazione alle pratiche del V Dipartimento.

Non assume decisiva valenza l’assunto secondo cui la formazione dell’ordine del giorno dei lavori dell’assemblea fosse di competenza della conferenza dei presidenti dei gruppi consiliari; assume rilievo l’art. 22 del regolamento del Consiglio comunale di Roma che prevede “La Conferenza dei Presidenti dei Gruppi Consiliari: a) esamina le questioni relative all”interpretazione dello Statuto Comunale che siano state proposte al di fuori della seduta del Consiglio Comunale, sentiti, ove ritenuto opportuno, la competente Commissione Consiliare Permanente e il Segretario Generale; b) definisce, d’intesa con il Presidente del Consiglio Comunale, il calendario e gli orari delle sedute del Consiglio nonché la programmazione ed organizzazione dei lavori del Consiglio medesimo”.

La calendarizzazione dei lavori dell’assemblea era “atto” di Coratti, fatto da Coratti: questi contribuì a calendarizzare -entro il termine indicato da Buzzi- i lavori, inserendo, in conformità ai voleri di Buzzi, la delibera con cui si riconobbero i debiti fuori bilancio per i quali era stato “comprato”: questo spiega il contenuto delle conversazioni intercettate.

Ne discende l’infondatezza del motivo di ricorso.

13.5. Il settimo, l’ottavo ed il nono motivo, relativi alla qualificazione giuridica dei fatti, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

Si è già detto di come, a fini della configurabilità del reato di corruzione propria, rilevi, a differenza della fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen., il compimento di un atto in violazione dei doveri d’ufficio e come, a tal fine, assuma decisiva valenza il contenuto del patto corruttivo, il modo, i tempi con cui il potere pubblico è esercitato.

Il tema, si è detto in precedenza, attiene alla violazione della regola “giusta” nel concreto operare della discrezionalità amministrativa. Si è detto di come sia necessario fare riferimento alle regole sottese all’esercizio dell’attività discrezionale e come si debba verificare se l’interesse pubblico sia stato in concreto condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore; nel caso in cui l’interesse pubblico non sia stato condizionato, il fatto integrerà la fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen.

Quello che deve essere verificato, cioè, è se l’interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, se questo sia stato soddisfatto, ovvero se esso sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l’accordo corruttivo.

Occorre esaminare la struttura del patto corruttivo per accertare se sia o meno identificabile “a monte” un atto contrario ai doveri di ufficio; occorre verificare la condotta del pubblico agente nei settori che interferiscono con gli interessi del corruttore, per comprendere se il predetto funzionario, al di là del caso di manifeste violazioni di discipline cogenti, di elusione della causa fondativa del potere attribuito, abbia, in conseguenza del patto, fatto o meno buon governo del potere assegnatogli – tenendo conto di tutti i profili valutabili- o se abbia pregiudizialmente inteso realizzare l’interesse del privato corruttore, a fronte di ragionevolmente possibili esiti diversi.

In applicazione dei principi indicati, i fatti devono essere ricondotti alla fattispecie di corruzione propria e non a quelle invocate dal ricorrente. Il tema attiene quanto meno all’approvazione della delibera n. 120 del 2014. È stato evidenziato come Coratti calendarizzò – ovvero contribuì a calendarizzare – la questione relativa al riconoscimento del debiti fuori bilancio che condusse poi all’adozione della delibera n. 120 del 30.10.2014; dunque, l’imputato pose in essere un atto del suo ufficio non solo rinunciando di fatto ad esercitare ogni potere valutativo, ma facendo indirettamente sapere a Buzzi della necessità di intervenire sui capigruppi per fare in modo che quella decisione fosse calendarizzata (progressivo n. 84287 del 14.10.2014 richiamato dalla sentenza impugnata in cui Ferrara, altro consigliere comunale, informò Buzzi che, secondo Coratti, “vabbè ma a me m’ò devono di i Capigruppi che deve essere emesso all’ordine del giorno, non lo posso portà io… quindi ce ne so’, chi abbiamo?). Buzzi, si è spiegato, comprese cosa stesse accadendo e auspicò che Coratti parlasse con D’Ausilio, cioè con un altro consigliere “loro due sono”; si è chiarito come sin dal luglio di quell’anno Ferrara avesse informato Buzzi della incidenza dei Capigruppo nella formazione dell’ordine dei lavori e della necessità di “attivarsi”, aggiungendo, non casualmente, che, se ciò fosse accaduto, Coratti avrebbe assolto il suo compito: “Lui lo fa”.

Una condotta violativa dei doveri di ufficio per contenuto, per tempi e per modalità; Coratti, che aveva preso in carico l’interesse del privato corruttore, incontrato in più occasioni, rinunciò ad ogni valutazione comparativa sul se e sul quando quella delibera dovesse essere calendarizzata, e fece in modo che Buzzi, che aveva interesse che quella decisione fosse assunta entro il 30.10.2014, sapesse che per fare ciò, per ottenere questo obiettivo, occorreva “intervenire” anche sui Capigruppi, cioè, occorreva, in ragione della previsione regolamentare, creare le condizioni ed il “consenso”.

Sul punto il ricorso è silente, né risulta quale sarebbe l’elemento rivelatore dalla corretta contemperazione degli interessi che Coratti fece per calendarizzare quella delibera proprio entro il termine auspicato da Buzzi, quale l’interesse pubblico perseguito attraverso quelle modalità.

Dunque, un patto corruttivo che non si limitava a prevedere il generico asservimento della funzione in favore dell’interesse del corruttore, ma che di fatto comportò l’adozione di un atto che, a prescindere dalla sua regolarità formale, per come adottato, fu contrario ai doveri di ufficio.

13.6. Sono inammissibili il decimo e l’undicesimo motivo, relativi al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed alla dosimetria della pena.

La Corte di appello ha evidenziato la obiettiva gravità della condotta, il perdurante asservimento della funzione di pubblico ufficiale, il ruolo propositivo avuto dall’imputato – che addirittura rimproverò Buzzi per la scarsa fiducia risposta nei suoi riguardi – la varietà e l’entità delle utilità promesse e corrisposte; nulla è stato in concreto dedotto, essendosi il ricorrente limitato ad una valutazione comparativa del trattamento sanzionatorio inflitto all’imputato rispetto a quello riservato ad altri imputati ed a prospettare un difetto di motivazione, in realtà insussistente, rispetto alla invocata circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4 cod. pen. Quanto al dodicesimo ed al tredicesimo motivo, si rinvia al paragrafo relativo alle statuizioni civili. 13.7. La posizione di Franco Figurelli.

Quanto al primo motivo, si assume che per il reato previsto dal capo 1) (art. 318 cod. pen.) Figurelli non sarebbe stato attinto da un titolo custodiale e, dunque, non avrebbe potuto essere disposto il giudizio immediato per detto reato; l’imputato, quindi, avrebbe dovuto essere giudicato per tutti i reati con il rito ordinario.

La violazione della sequenza procedimentale prevista per il giudizio ordinario avrebbe prodotto una nullità, ex art. 178 lett. b) e c) cod. proc. pen., assoluta, perché sarebbe stato determinato un indebito mutamento del giudice naturale, ma anche a carattere intermedio, per l’omesso interrogatorio dell’imputato in ordine ad un reato connesso per il quale non risulterebbe il requisito della evidenza della prova.

La Corte di appello non avrebbe dato risposta ai motivi di impugnazione, essendosi limitata ad affermare erroneamente che l’interrogatorio fosse stato assunto per entrambi i capi di imputazione davanti al g.i.p. dopo l’emissione del titolo cautelare.

Le questioni dedotte non sarebbero superate nemmeno alla luce del ritenuto assorbimento da parte della Corte di appello del reato di cui al capo 1) in quello di cui al capo 2), atteso che il tema relativo alta competenza dovrebbe essere valutato al momento della proposizione della “domanda” (così il ricorso) e non all’esito di questa.

La conseguenza del patologico sviluppo procedimentale sarebbe quella indicata nell’art. 453, comma 2, cod. proc. pen. e dunque anche i fatti di cui al reato sub capo 2) del decreto, in quanto connesso con un reato per il quale sarebbero mancanti le condizioni per la scelta del rito, avrebbe dovuto essere accertato con il rito ordinario, essendo indispensabile la riunione.

13.8. Il tema attiene al rapporto tra giudizio immediato cautelare e reato cumulativo per il quale non vi è stata misura. Il giudizio immediato presenta la peculiarità di svilupparsi attraverso differenti modelli applicativi il cui comune elemento unificatore è costituito dalla mancata previsione della celebrazione dell’udienza preliminare; la struttura del procedimento ruota intorno alla diversità dei possibili promotori – il pubblico ministero e l’imputato – e risente del ruolo e della funzione che, per ciascuno di questi soggetti, assume l’udienza preliminare.

Pur nella molteplicità dei modelli procedimentali, il principio fondante è quello per cui l’imputato, al di là delle ipotesi di rinuncia, non può essere privato della udienza preliminare e dei diritti ad essa sottesi se non in presenza di un rigoroso accertamento dei presupposti costitutivi per l’instaurazione del giudizio immediato.

Ciò spiega, si è fatto notare in dottrina, la maggiore complessità della disciplina che connota il giudizio immediato instaurato su istanza del pubblico ministero, rispetto a quello introdotto su richiesta dell’imputato. Sino all’introduzione del c.d. giudizio immediato custodiate, il giudizio immediato poteva essere instaurato dal pubblico ministero solo sulla base della evidenza della prova, qualora la stessa fosse emersa in tempi assai ristretti – novanta giorni dall’acquisizione della notizia di reato – ed in un contesto investigativo in cui comunque fosse stata offerta alla persona sottoposta alle indagini la possibilità di difendersi.

A questa evenienza si è aggiunta la previsione contenuta nel comma 1-bis dell’art. 453 cod. proc. pen., introdotta dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito nella legge 24 luglio 2008, n. 125, che legittima l’organo dell’accusa a richiedere il giudizio immediato nei confronti della persona “in stato di custodia cautelare”.

Si tratta di una disposizione che lega la modalità di esercizio dell’azione penale alla sussistenza di un provvedimento custodiale che abbia raggiunto una certa stabilità e prevede che il pubblico ministero “richiede” il giudizio immediato entro centottanta giorni dall’esecuzione della misura, “per il reato in relazione al quale la persona sottoposta alle indagini si trova in stato di custodia cautelare” (art. 453, comma 1 bis, cod. proc. pen.).

La norma in parola supera il rapporto fisiologico tra procedimento principale e procedimento incidentale cautelare, caratterizzato dalla permeabilità del secondo rispetto al primo e dalla impermeabilità del procedimento di merito rispetto al titolo cautelare e si pone invece in linea di continuità con l’idea secondo cui, in presenza di determinate condizioni, è possibile che le decisioni che si intendano assumere in sede di merito possano essere in qualche modo condizionate da quelle adottate in ambito cautelare.

Una tendenza, inaugurata con l’inserimento del comma 1-bis nell’art. 405 cod. proc. pen.; il giudizio immediato c.d. custodiale è introdotto storicamente dopo due anni dalla precedente iniziativa legislativa che aveva modificato l’art.405 cod. proc. pen., ma prima che la Corte costituzionale dichiarasse l’illegittimità della disposizione appena richiamata.

La permeabilità della fase di merito rispetto a quella cautelare si manifesta, come detto, nel senso che la consistenza indiziaria accertata in sede cautelare, stabilizzata dall’eventuale esperimento della procedura di riesame, giustifica l’apertura del processo omettendo la celebrazione dell’udienza preliminare.

La rivisitazione sistematica dei rapporti tra procedimento principale è stata oggetto di attenzione da parte della Corte costituzionale che, nel dichiarare incostituzionale l’art. 405, comma 1 bis, cod. proc. pen., ha evidenziato i limiti strutturali con i quali è necessario confrontarsi in presenza di norme che si muovano nello stesso senso, cioè invertendo il rapporto tra fase di merito e fase cautelare (Corte Cost., n. 121 del 2009).

Si è sottolineato come ogni intervento sulle dinamiche che regolano i rapporti in questione debba necessariamente tenere conto di una serie di considerazioni di sistema. Il principio di «impermeabilità» del procedimento principale agli esiti del procedimento cautelare, ha osservato la Corte costituzionale, possiede «un preciso fondamento logico-sistematico», costituito dal fatto che una valutazione operata «in un procedimento a cognizione sommaria e a carattere accessorio, quale quello cautelare, non può … condizionare gli sviluppi del procedimento a cognizione piena cui il primo è strumentale».

La impermeabilità del procedimento principale ad accogliere gli esiti del procedimento cautelare costituisce infatti un logico corollario del carattere tendenzialmente accusatorio dell’attuale codice di procedura penale, e, dunque, la limitazione degli effetti condizionanti dalla cautela al merito è funzionale a garantire e preservare la scelta positiva di tenere ben distinta la fase delle indagini preliminari da quella del processo.

Ciò non implica, osserva ancora la Corte, la impossibilità assoluta per il legislatore di intervenire sul rapporto tra procedimento di merito e procedimento cautelare e di prevedere possibilità condizionanti di quest’ultimo sul primo; non è cioè esclusa «pregiudizialmente ed in assoluto» la compatibilità costituzionale di disposizioni che «in particolari frangenti o per particolari aspetti» agiscano nel senso indicato, ma, spiega la Corte, per mutare e, per così dire, invertire il rapporto fisiologico tra merito e cautela è indispensabile attenersi a «solidi canoni di razionalità, quanto a presupposti ed effetti».

Alla luce di tali precisazioni, devono essere valutate quelle opzioni interpretative relative ai presupposti costitutivi del giudizio immediato custodiale che propendono in senso divergente rispetto al rapporto fisiologico tra procedimento di merito e procedimento cautelare, nel senso di ampliare la portata del rito in questione, ampliandone i presupposti.

Il giudizio immediato custodiale è subordinato a due presupposti.

In primo luogo, occorre la corrispondenza tra reato custodiale e reato per il quale si chiede l’immediato (art. 453, comma 1- bis).

In secondo luogo, in caso di processo cumulativo, è necessaria la presenza dei requisiti dell’immediato in tutti i reati connessi, pena la separazione se i requisiti non vi sono, ovvero, nel caso in cui la riunione risulti indispensabile, la prevalenza “in ogni caso” del rito ordinario (art. 453, comma 2).

Il senso della norma è chiaro: la opportunità del simultaneus processus implica la prevalenza del rito più garantito, perché segnato dal controllo giudiziale circa i presupposti per un utile avvio della fase dibattimentale; una disposizione normativa chiara, che si pone peraltro in senso conforme alle affermazioni di principio della Corte costituzionale.

La questione del rapporto tra giudizio immediato custodiale e procedimenti connessi è conseguente al fatto che raramente i due presupposti indicati sono presenti in tutti i procedimenti connessi. Sul tema, come puntualmente si è evidenziato in dottrina, rilevano i lavori della Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale, insediata dal Ministro della Giustizia nel 2006.

La Commissione aveva ipotizzato un correttivo per superare l’inconveniente derivante dalla difficoltà oggettiva di instaurare il giudizio immediato in tutti i casi di procedimenti aventi ad oggetto più reati – connessi tra loro- in relazione ai quali tuttavia il titolo custodiale fosse stato emesso solo per alcuni dei reati; era stato infatti previsto l’accesso al rito immediato per tutti i reati connessi meno gravi a condizione che la misura cautelare fosse intervenuta per il reato più grave: intervenuta la custodia cautelare per il reato più grave, i reati connessi meno gravi avrebbero seguito il più grave nel rito immediato.

Si tratta tuttavia di una soluzione non recepita successivamente dal legislatore che ha introdotto il giudizio immediato custodiale e che non ha modificato il preesistente art. 453, comma 2, cod. proc. pen., come invece era stato prospettato. Non diversamente, il tema si pone nei casi di processi soggettivamente cumulativi; si fa riferimento ad un processo per criminalità organizzata nel quale solo nei riguardi di alcuni sia stata emessa la custodia cautelare, mentre per gli altri vi siano misure coercitive non custodiali.

Anche in tal caso, si era ipotizzata nella Commissione di studio indicata una speciale e nuova – rispetto al giudizio immediato – ipotesi di esercizio dell’azione penale mediante atto di citazione diretta a giudizio con riguardo alle imputazioni contestate con un’ordinanza applicativa di misura coercitiva, anche non custodiale, sempre che il provvedimento restrittivo fosse stato confermato in sede di riesame.

Un meccanismo semplificato, si è osservato in dottrina, ispirato al presupposto della superfluità del controllo giurisdizionale sulla sostenibilità dell’accusa in giudizio, precluso laddove fosse stata giudizialmente verificata la solidità del quadro di gravità indiziaria espresso nel titolo cautelare.

Dette opzioni non sono state recepite. Dunque, da una parte, i principi fissati dalla Corte costituzionale, dall’altra, il dato normativo dell’art. 453, comma 2, cod. proc. pen., rimasto invariato sia nel d.l. n. 23 maggio 2008 n. 98, sia nella legge 24 luglio 2008, n. 125.

Ne consegue che, nel caso di procedimenti oggettivamente o soggettivamente cumulativi, ai fini della instaurazione del giudizio immediato custodiale è necessaria la coesistenza del primo e fondamentale presupposto – quello della corrispondenza tra il reato per cui è stato emesso il provvedimento custodiale e quello per il quale si richiede il giudizio immediato (art. 453, comma 1bis, cod. proc. pen.)- e la sussistenza dei requisiti voluti per l’ immediato custodiale in tutti i procedimenti connessi.

La Corte di cassazione ha già chiarito come l’art. 453, comma 2, cod. proc. pen. trovi applicazione anche al giudizio immediato custodiale, posta la generalità tanto della regola della separazione dei procedimenti relativi a reati connessi per i quali non sussistano le condizioni per l’instaurazione del giudizio immediato, quanto della regola di prevalenza del rito ordinario rispetto al rito speciale, nel caso in cui la connessione tra i reati imponga la riunione dei rispettivi procedimenti.

Ha spiegato la Corte che si tratta di regole che esprimono la volontà del legislatore che prescrive le cadenze procedimentali tipiche del rito ordinario – con le garanzie e le facoltà connesse all’avviso della conclusione delle indagini preliminari e all’udienza preliminare – qualora si proceda per reati per i quali il giudice per le indagini preliminari ritenga di escludere la sussistenza dei presupposti del rito speciale (Sez. 4, n. 17700 del 14/04/2015, Pmt ed altri, Rv. 263446).

Si tratta peraltro di un principio indirettamente confermato dall’indirizzo secondo cui in caso di connessione tra un reato per il quale deve procedersi con citazione diretta ed un altro per il quale è prevista l’udienza preliminare, il pubblico ministero può formulare una richiesta congiunta di giudizio immediato, se per entrambi i reati sussistono i presupposti di cui all’art. 453 cod. proc. pen. (cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 15189 del 14/10/2015, dep. 2016, Verde, Rv. 266689; Sez. 6, n. 14186 del 10/12/2013, dep. 2014, Scalese, Rv. 258 746).

Dunque, anche nel caso di connessione fra reati per i quali si debba celebrare l’udienza preliminare e reati per si procede a citazione diretta, in tanto è possibile emettere il decreto di giudizio immediato in quanto per tutti i reati sussistano i presupposti previsti dalla legge; il presupposto è sempre costituito dalla sussistenza delle condizioni previste dalla legge per ciascuno dei reati, atteso che diversamente la connessione tra gli stessi opera in senso inverso, cioè nell’imporre per tutti i reati la celebrazione del processo nelle forme ordinarie.

13.9. Alla luce delle considerazioni esposte, il motivo di ricorso è infondato.

Non è in contestazione che Figurelli non sia mai stato attinto da un autonomo titolo custodiale per il reato formalmente contestato al capo 1 del secondo decreto che dispone il giudizio (pagg. 2044 sentenza del Tribunale). E tuttavia, il motivo di ricorso sarebbe fondato se davvero a Figurelli fossero stati contestati due distinti reati connessi e fosse stato emesso un decreto di giudizio immediato c.d. custodiale, in assenza del titolo cautelare per uno di essi. Se così fosse, la conseguenza sarebbe la nullità del decreto di giudizio immediato per entrambi i reati, atteso il disposto di cui all’art. 453, comma 2, cod. proc. pen.

Ciò che deve essere tuttavia verificato è se il fatto oggetto del capo 1 del secondo decreto con cui fu disposto il giudizio immediato, sia “altro” rispetto a quello descritto al capo 2 dello stesso decreto (corruzione propria), se, cioè, i due reati abbiano una propria autonomia strutturale per la diversità dei fatti in essi descritti e contestati.

Dalla lettura delle imputazioni – e, dunque, prescindendo dalla risultanze probatorie che hanno indotto i giudizi di merito a ritenere assorbito il fatto di cui al capo 1 in quello di cui al capo 2 – emerge che con il capo 1 si è contestato a Figurelli di essersi fatto corrompere, in ragione della sua appartenenza alla segreteria del Presidente del consiglio comunale di Roma – cioè di Coratti-, da Carminati, Buzzi, Di Ninno e Garrone, ricevendo la somma di 1000 euro al mese. Una vendita della funzione senza indicazione di un atto oggetto del mercimonio.

Con il capo 2, si contesta all’imputato di avere concorso con Coratti, quest’ultimo pubblico ufficiale, anche nel reato di corruzione propria in relazione agli atti contrari ai doveri di ufficio materialmente compiuti dallo stesso Coratti ed indicati nel capo di imputazione; detta corruzione sarebbe stata compiuta in concorso con Buzzi, Carminati, Di Ninno, Garrone e Bolla, cioè sostanzialmente con gli stessi soggetti con cui Figurelli avrebbe concorso nel reato sub 1, e nell’ambito dello stesso contesto spazio- temporale.

Dunque, secondo l’imputazione, una corruzione, quella di Figurelli, che si sarebbe rivelata attraverso gli atti posti in essere in concorso con Coratti e per tale ragione trasmodata nel reato di corruzione propria, contestato al capo 2; un patto corruttivo articolato, la cui attuazione si sarebbe protratta nel tempo, concretizzandosi anche attraverso il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio.

Ne deriva che, al di là della previsione di un capo autonomo di imputazione che aveva ad oggetto il solo reato previsto dall’art. 318 cod. pen. – quello sub 1- , ciò che sostanzialmente era contestato sin dall’inizio a Figurelli era un unico fatto, che ben avrebbe potuto essere “confinato” all’interno di un unico capo di imputazione: un’unica, articolata, vicenda corruttiva, quella di cui al capo 2 del secondo decreto di giudizio immediato per la quale era stata emessa ordinanza custodiale.

Ne discende l’infondatezza del motivo di ricorso attesa la legittimità del decreto di giudizio immediato.

13.10. Sono infondati anche il secondo ed il terzo motivo di ricorso, che devono essere valutati alla luce della ricostruzione fattuale e delle considerazioni esposte in ordine alla posizione giuridica dell’imputato Coratti.

Con il secondo motivo si è dedotta la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza per avere la Corte condannato il ricorrente per il reato di cui all’art. 319 cod. pen. attribuendogli la qualifica di pubblico ufficiale; la Corte di appello avrebbe modificato la veste soggettiva dell’imputato rispetto a quella indicata nelle imputazioni, in cui, invece, Figurelli era stato considerato come incaricato di pubblico servizio e concorrente extraneus per i comportamenti tenuti da Coratti (quest’ultimo considerato pubblico ufficiale); si deduce anche violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta qualifica in fatto di pubblico ufficiale.

Con il terzo motivo, si è lamentata la erronea qualificazione dei fatti attribuiti all’imputato che, si assume, avrebbero dovuto essere ricondotti all’art.346 bis cod. pen. e non al contestato reato corruttivo.

Si è già detto: a) del rapporto corruttivo che legava Coratti a Buzzi; b) delle condotte poste in essere da Coratti; c) della rilevanza, ai fini della configurazione del reato di corruzione propria, del modo, dei tempi e della rinuncia ad ogni valutazione comparativa del potere pubblico con cui fu calendarizzata e approvata dal Consiglio Comunale di Roma la delibera n. 120 del 30.10.2014, che riconobbe la legittimità dei debiti fuori bilancio; d) del ruolo evidente di collegamento tra Buzzi e Coratti che Figurelli ebbe in tutto il periodo e per tutte le questioni per le quali Coratti asservì la sua azione agli interessi di Buzzi; e) della specifica, capillare, attività assicurata da Figurelli proprio in relazione al compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio posto in essere da Coratti; f) di come nell’ufficio di Figurelli furono trovati i due promemoria redatti su carta intestata alla Eriches relativi al campo F) ed la contenzioso Sial Service (di Buzzi e Coltellacci) con il Comune.

Tali elementi sono stati posti in connessione con quelli da cui si è fatta discendere la prova delle utilità che Figurelli avrebbe ricevuto da Buzzi e dai soggetti a questi riconducibili. La Corte, riprendendo la sentenza di primo grado, ha evidenziato: a) come, dall’esame del libro relativo alla contabilità occulta di Buzzi gestito dalla Cerritto – sia emerso che in un dato numero di volte – almeno da novembre del 2013 a novembre del 2014 – in determinati giorni in cui furono annotati prelevamenti di denaro da parte di Buzzi, questi si incontrò con Figurelli; b) come, con riferimento specifico alla annotazione compiuta l’1.8.2014 – da cui emerge che proprio quel giorno Buzzi avrebbe prelevato 15.000 euro – sia stata intercettata una conversazione tra Buzzi e la Cerritto in cui il primo affermò ” a me mi servono per tutti i pagamenti del mese.

Mi servono 15.000… allora mi servono 2500 1.500 per Coratti, 1 per Figurelli, 1.000…..” (cfr. sentenza pag. 177 in cui si richiama il contenuto della conversazione n. 6312 del RiT 8416); c) come tali elementi assumano valore se rapportati con il contenuto della conversazione n. 1752 del 23.1.2014 in cui Buzzi affermò “il capo segreteria suo (riferito a Coratti) noi gli diamo 1000 euro al mese”; d) la illogicità sul tema di alcune dichiarazioni di Buzzi.Sotto ulteriore profilo, la Corte ha spiegato che Figurelli era pienamente consapevole della corruzione di Coratti (pag. 173 della sentenza): si sono richiamati i molteplici incontri tra Buzzi e Coratti ai quali prese parte Figurelli ed il ruolo da questi avuto per l’assunzione di Ileana Silvestri; si è richiamata la conversazione n. 9577 del 6.5.2013 in cui Figurelli chiese a Buzzi il bonifico per “Mirko” e come subito Buzzi inoltrò a Di Ninno le coordinate bancarie del mandatario elettorale di Coratti, sul cui conto il giorno successivo fu effettuato dalla cooperativa 29 giugno un bonifico di 5000 euro.

Dunque, un’articolata- seppur non sempre ordinata – ricostruzione fattuale da cui la Corte ha fatto conseguire la responsabilità penale dell’imputato ritenendo che: Figurelli fosse al servizio di Buzzi; Coratti fosse ai servizio di Buzzi; Figurelli avesse un ruolo di collegamento tra Coratti e Buzzi; Coratti ben sapeva del ruolo e del rapporto tra Figurelli e Buzzi; Figurelli ebbe un ruolo attivo nella commissione dell’attività illecita da patte di Coratti e, in particolare, nella adozione della delibera di riconoscimento dei debiti fuori bilancio.

Figurelli riceveva denaro per concorrere nella fatto corruttivo di Coratti; Buzzì comprò Coratti ed il suo stretto collaboratore perchè Figurelli era funzionale all’altro.

Questa è la ricostruzione fattuale della Corte di appello in relazione alla quale il diritto di difesa ed il diritto alla prova sono stati pienamente esercitati; questo il fatto obiettivamente non “diverso” rispetto a quello descritto nelle originarie imputazioni, poi correttamente unificate; questo il fatto non strutturalmente diverso anche rispetto alla ricostruzione compiuta dal Tribunale.

Va escluso che i fatti possano essere ricondotti all’art. 346 bis cod. pen. che strutturalmente si differenzia dalle fattispecie di corruzione per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione compiuta da chi si adopera per promuovere un accordo corruttivo al quale resta tuttavia estraneo (in tal senso, Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, dep. 2017, Rigano, Rv. 269736).

Con la introduzione del reato di traffico di influenze illecite si è intesa sanzionare penalmente la condotta del mediatore che compia atti diretti a mettere in contatto il pubblico ufficiale ed il privato, sì da creare le condizioni per la commissione di delitti di corruzione propria e di corruzione in atti giudiziari; la clausola di sussidiarietà con la quale esordisce la formulazione letterale della fattispecie incriminatrice “fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter” dimostra che il legislatore ha inteso sanzionare una condotta in certo modo meramente preparatoria da parte di chi resta esterno rispetto alla conclusione del patto corruttivo. (Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269348).

Ricostruiti i fatti nel senso indicato, i giudici di merito hanno correttamente applicato i principi in più occasioni affermati dalla Corte di cassazione secondo cui nel delitto di corruzione, che è a concorso necessario ed ha una struttura bilaterale, è ben possibile il concorso eventuale di terzi, sia nel caso in cui il contributo si realizzi nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all’uno o all’altro dei concorrenti necessari, sia nell’ipotesi in cui si risolva in un’attività di collegamento funzionale al patto corruttivo, di collante tra gli autori necessari (Sez. 6, n. 3606, del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269348; Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani, in motivazione; Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Rv. 234361).

Rispetto a tale complesso quadro di riferimento, non assume decisiva valenza la obiettivamente inutile, oltre che tecnicamente confusa, motivazione della sentenza impugnata relativa alla attribuzione della qualifica di pubblico ufficiale a Figurelli, su cui il motivo di impugnazione è stato sviluppato con serie argomentazioni.

La responsabilità a titolo di compartecipazione di Figurelli sarebbe stata configurabile anche nel caso in cui a questi non fosse stata riconosciuta la qualifica di pubblico ufficiale.

Buzzi stipulò un patto corruttivo a struttura complessa con cui, da una parte, acquistò i servigi di Coratti e, dall’altra, quelli di Figurelli che sapeva della corruzione del suo “capo” e fu “stipendiato” per collegare Buzzi con Coratti, per “cucire” i due concorrenti necessari del reato; Figurelli promise a Buzzi il proprio contributo, mettendosi al servizio di questi in ragione di Coratti, dell’attività e degli atti di questi; Coratti sapeva che Figurelli rappresentava Buzzi ed il “sistema” che intorno a questi ruotava. L’imputato fu retribuito da Buzzi per il suo ausilio alle parti costitutive di quel accordo, per la sua “promessa di aiuto”, per la sua capacità di garantire l’attuazione del contratto illecito.

13.11. Infondato è anche il quarto motivo di ricorso.

A fronte di un motivo di appello obiettivamente generico, relativo all’entità delle somme erogate a Figurelli, la Corte di appello, con motivazione non manifestamente illogica, ha spiegato sulla base di quali elementi si sia giunti a confiscare la somma di 14.000 euro all’imputato; il motivo di ricorso è tendenzialmente volto, da una parte, a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale fondata sull’assunto secondo cui Buzzi non avrebbe corrisposto a Figurelli la somma di mille euro al mese, e, dall’altra, ad attribuire un diverso significato ed un diverso peso agli elementi valorizzati dalla Corte di appello.

13.12. La doglianza di Buzzi sulla assoluta mancanza di motivazione sul suo atto di appello è infondata. Buzzi era stato condannato in primo grado per il capo 2, non essendogli contestato il capo 1.

La sentenza di appello, a pag. 186, afferma che Buzzi non ha proposto impugnazione per tale reato.

La difesa, però, sostiene che la decisione è sbagliata in quanto a pagina 58 del proprio atto di appello risultava formulato un motivo specifico. Ne consegue una carenza assoluta di motivazione rispetto alla impugnazione. La decisione della Corte di Appello è corretta.

Si rammenta che con il capo 1 del secondo decreto si contestava la corruzione di Figurelli, retribuito con euro 1.000 al mese per la “vendita della funzione” di addetto alla segreteria del presidente del Consiglio comunale Coratti ed al capo 2 la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio propri del Coratti. Tali reati erano stati tenuti distinti dal Tribunale.

Sul piano letterale il punto 6.1 dell’atto di appello di Buzzi era titolato «la corruzione di Figurelli: la sentenza» e sottotitolato «capo 1 del II giudizio immediato». Quindi il capo 2 non era indicato quale oggetto della impugnazione. Va tenuto conto che l’appello di per sé non investiva tutti i capi di imputazione per i quali vi era stata condanna per cui non poteva ritenersi evidente che vi fosse un semplice errore nella indicazione del capo 1 “la corruzione di Figurelli” anziché il capo 2 “la corruzione di Coratti”.

La lettura del contenuto del motivo di appello, inoltre, diversamente da quanto affermato nel ricorso, chiarisce che l’impugnazione era realmente riferita alla sola corruzione di Figurelli quale descritto nel capo 1 e non alla corruzione di Coratti. Il tema del motivo, difatti, era proprio quello della (non) corresponsione di euro 1000 al mese a Figurelli, mentre il capo 2 riguardava le condotte di Coratti; del resto la difesa, per sostenere che non vi era stata la corruzione di Figurelli, più volte nel testo dell’impugnazione ricorda che Buzzi aveva invece confessato la corruzione di Coratti, oggetto del capo 2.

Quindi l’appello di Buzzi non investiva il capo 2 del secondo decreto, con conseguente infondatezza del motivo in oggetto.

13.13. Carminati, come riportato, sostiene che la sentenza non avrebbe individuato alcun suo apporto causale alla corruzione di Coratti ma si limita a utilizzare una intercettazione che, riferita soltanto al fatto che Buzzi esponeva ai collaboratori di avere ricevuto richieste di denaro dal Coratti, dimostra soltanto la sua connivenza, ovviamente non punibile.

Si tratta, però, di un argomento infondato, essendo limitato ad una generica contestazione di adeguatezza delle prove senza confrontarsi con la motivazione che e pone ampiamente gli elementi che dimostrano la condivisione della scelta di ricorrere all’appoggio di Coratti, corrompendolo.

13.14. E’ infondato anche il motivo di Garrone e Di Ninno che, a parte la doglianza sulla assenza di risposte ai loro motivi di impugnazione, affermano comunque la assenza di prove di un loro concorso materiale o morale nella corruzione commessa dal solo Buzzi, non essendo sufficiente che ne fossero a conoscenza per attribuire loro la responsabilità in concorso.

Premesso, sul piano formale, che la decisione sui motivi di appello non richiede la analitica risposta ad ogni profilo dedotto ma è sufficiente una complessiva valutazione che individui gli elementi indicativi della diretta partecipazione al fatto, la Corte ha comunque individuato correttamente tali elementi: – con riferimento al Di Ninno, nel rispondere ad un motivo analogo a quello qui dedotto, la Corte di Appello ha rilevato che non vi è stata una semplice attività collegata al ruolo di contabile perché l’imputato curava espressamente un pagamento consapevolmente finalizzato alla corruzione – con riferimento alla Garrone, secondo la ricostruzione della Corte di Appello la stessa non si era limitata a prendere atto della corruzione, ma partecipò in pieno alle riunioni organizzative in cui si discusse della gestione di tale attività corruttiva.

13.15. Il motivo di ricorso presentato da Bolla è inammissibile. La Corte, non violando il divieto di regormatio in peius (si tratta di un assunto che il ricorrente ha formulato in modo diffuso anche per altri motivi e che è infondato), ha chiarito che:

a) Bolla, diversamente dagli assunti difensivi, prese parte attivamente alla riunione del 15.1.2014, proprio nel momento in cui si parlò di Coratti ed interloquì direttamente con Buzzi, con la Garrone con Di Ninno; in tal senso sono stati ricostruiti in modo non illogico i dialoghi tra i soggetti in questione, individuando il contributo dialettico concreto offerto dal ricorrente ed il chiaro riferimento illecito dell’argomento;

b) la conferma del coinvolgimento di Bolla nel reato in esame, deriva dalla sua partecipazione alla riunione del 23.1.2014 e, in particolare, dal contenuto della conversazione ambientale, da interpretarsi, anche in questo caso diversamente dagli assunti difensivi, non in ragione del momento in cui essa intervenne rispetto alla dazione, ma in connessione con gli elementi in precedenza indicati;

c) l’imputato fu presente anche nella riunione del 26.9.2014, con Carminati e Buzzi, in cui questi fece ancora chiaro riferimento a Coratti e alla “benzina” messa.

Da tale ricostruzione fattuale si è fatta discendere l’inferenza per cui Bolla partecipò a quelle riunioni perché pienamente consapevole e compartecipe della strategia corruttiva.

Rispetto a tale struttura motivazionale, il motivo di ricorso, da una parte, è obiettivamente orientato a sollecitare una diversa interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate ed, in sostanza, una diversa ricostruzione dei fatti, e, dall’altra, ad evidenziare lacune motivazionali in relazione ad elementi obiettivamente inidonei a destrutturare il complessivo ragionamento dei giudici di merito.

L’onere motivazionale del giudice è soddisfatto attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti, senza che sia necessario un esame dettagliato delle stesse laddove ciascun rilievo risulti disatteso dalla motivazione della sentenza, complessivamente considerata (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Camello, Rv. 256340; Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Curro, Rv. 275500; Sez. 5, n. 42821 del 19/06/2014, Ganci, Rv. 262111).

Come detto, nella motivazione della sentenza, il giudice di merito, cioè, non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005, dep. 2006, Mirabilia, Rv.233187).

La sentenza non può essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata ( Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, rv. 234148).

Inammissibili, in particolare, sono le doglianze che “sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti 187 N dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento” (così, Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., rv. 262965).

13.16. Va esclusa l’aggravante della agevolazione mafiosa per le ragioni di cui si è detto e si dirà, con effetto anche nei confronti di Buzzi, ricorrente per tale profilo.

14. Corruzione di Odevaine Luca e Schina Mario per agevolare le cooperative di Buzzi nella gestione degli immigrati (capo 29 del primo decreto).

14.1. L’assunto accusatorio è che Luca Odevaine, quale componente del Tavolo di Coordinamento Nazionale sull’accoglienza per richiedenti e titolari di protezione internazionale, organismo pubblico che avrebbe operato anche prima di essere incardinato formalmente nel 2012 nelle strutture del Ministero nell’Interno, avrebbe favorito il Consorzio di Buzzi – a cui apparteneva anche Coltellacci con le cooperative “Impegno per la promozione”, “Un Sorriso” e “Atlante”-, orientando l’assegnazione di flussi di immigrati alle strutture gestite dallo stesso, favorendo l’apertura di centri in luoghi a questo graditi, comunicando i contenuti delle riunioni e le posizioni espresse dai rappresentanti delle istituzioni del tavolo di coordinamento, effettuando pressioni finalizzate all’apertura di centri in luoghi graditi al gruppo di Buzzi (così l’imputazione).

A fronte di dette attività, Odevaine avrebbe ricevuto 5.000 euro al mese per sé e una retribuzione di 1.500 euro al mese per Schina Mario; questi avrebbe svolto le funzioni di intermediario tra Buzzi e lo stesso Odevaine.

In tale contesto, a Coltellacci è contestato di avere, nella qualità di esponente di soggetti economici interessati alle vicende amministrative della Eriches, corrotto, in concorso con Buzzi, Luca Odevaine per la vendita della funzione e per il compimento di atti contrari a doveri di ufficio.

14.2. Il ricorso proposto da Schina ed il motivo di ricorso presentato da Coltellacci sull’imputazione in esame sono infondati.

14.3. È infondato il primo motivo del ricorso presentato da Schina relativo alla nullità del decreto che dispone il giudizio immediato per genericità ed indeterminatezza del capo di imputazione.

A differenza degli assunti difensivi, l’imputazione, che fa riferimento ad una ipotesi di concorso nel delitto di corruzione propria, descrive con sufficiente chiarezza le condotte ascritte ai singoli correi ed anche il contributo che Schina avrebbe apportato alla fattispecie plurisoggettiva, attribuendogli, rispetto ad fatto corruttivo che si sarebbe protratto per più anni, il ruolo di intermediario tra il gruppo di Buzzi e lo stesso Odevaine.

Rinviando alle considerazioni esposte con riguardo alle posizioni degli imputati Tassone e Coratti, nella specie si è correttamente applicato il principio secondo cui “in tema di requisiti del decreto di citazione a giudizio, la mancata enunciazione dell’ambito spaziale e temporale delle condotte e degli elementi specificatori dell’oggetto materiale del reato costituisce ragione di nullità soltanto quando non sia possibile collocare nel tempo e nello spazio l’episodio criminoso contestato, mentre l’omissione è improduttiva di conseguenze giuridiche quando, come nel caso di specie, «dagli altri elementi enunciati, e dai richiami contenuti nel decreto ed eventualmente anche in altri provvedimenti, risultino chiari i profili fondamentali del fatto per il quale il giudizio è stato disposto» (così; Sez. 3, n. 42537 del 21/05/2014, Caputo, Rv. 261147; Sez. 1, n. 12149 del 02/03/2005, Cifarelli, Rv. 231615).

14.4. Inammissibile è il secondo motivo di ricorso presentato nell’interesse di Schina, con cui si deduce l’omessa motivazione quanto alla richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale in appello con riguardo alle testimonianze di Ignazio Marino, teste indicato nella lista difensiva e non ammesso, e Walter Veltroni, teste non indicato in lista ma “utilizzato in sede di motivazione” (così il ricorso); si tratta di deposizioni ritenute necessarie per la verifica della veridicità delle affermazioni di Salvatore Buzzi contenute nelle conversazioni intercettate e poste, si assume, da sole a fondamento della penale responsabilità del ricorrente.

Rinviando sul tema a quanto si dirà in ordine alla posizione di Tredicine Giordano, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’art. 603, comma 1, cod. proc. pen. è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria, accertamento rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Sez. 6, n.8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, Ligresti, Rv. 229666).

Ai fini del sindacato sulla decisione di non procedere alla rinnovazione della istruttoria, ciò che deve essere valutato è se esista un vizio della deliberazione assunta sulla regiudicanda e della relativa motivazione, e, posto che esista, se detto vizio appaia conseguente, dipendente, derivante dalla erronea decisione di non provvedere all’integrazione della prova, d’ufficio o su richiesta delle parti processuali.

Ciò che conta non è la qualità della risposta che la Corte territoriale ha inteso dare alle istanze di prova della difesa, ma la desumibilità o meno dal tessuto argomentativo della sentenza – posto in relazione alle censure difensive – di una grave lacuna del ragionamento probatorio e della sua rappresentazione a livello motivazionale, dipendente dalla decisione di non rinnovare l’istruttoria dibattimentale al fine di chiarire la circostanza dedotta dalla difesa dell’imputato.

Nel caso di specie, al di là di generiche affermazioni, questa connessione non è stata affatto esplicitata dal ricorrente. Il motivo di ricorso è silente sul punto, essendosi l’imputato limitato ad affermare che le due testimonianze richieste, quelle di Ignazio Marino e di Walter Veltroni, sarebbero servite “per verificare se le affermazioni di Salvatore Buzzi corrispondono al vero” (così testualmente il ricorso a pag. 9) e che il teste Marino era stato indicato “nei Rit che hanno formato oggetto e fonte di prova secondo la motivazione della sentenza” (così il ricorso a pag. 14).

Dunque, pare di comprendere, deposizioni volte a dimostrare che le affermazioni contenute nelle conversazioni intercettate fossero inattendibili attraverso le dichiarazioni dei testi evocati in dette conversazioni; e tuttavia, al di là di un riferimento altrettanto generico contenuto in un altro motivo di ricorso, nulla è stato spiegato su quali fatti avrebbero dovuto essere ascoltati i due testi, perché detti fatti avrebbero avuto la capacità di disarticolare l’intero ragionamento probatorio, tenuto conto che se l’interesse non esplicitato fosse quello di chiedere ai due testimoni se avessero ricevuto da Buzzi denaro, la circostanza fattuale in questione avrebbe avuto una valenza limitata, atteso il disposto dell’art. 198, comma 2, cod. proc. pen.

Quanto alle valutazioni in ordine alla attendibilità del contenuto delle conversazioni intercettate, si rinvia a quanto in prosieguo si dirà in ordine alla posizione dell’imputato Tassone.

14.5. Inammissibile è anche il sesto motivo di ricorso presentato nell’interesse di Schina, relativo alla nullità del procedimento e della sentenza per la mancata tempestiva ammissione dell’imputato al patrocinio a spese dello Stato.

La Corte di cassazione ha in molteplici occasioni chiarito, in tema di patrocinio a spese dello Stato, che – a seguito delle modifiche apportate all’art. 96 d.lgs. 30 maggio 2002, n. 115 dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92 del 2008, convertito con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 – l’inosservanza del termine per provvedere sull’istanza di ammissione (ovvero dieci giorni successivi a quello in cui detta istanza è stata presentata o è pervenuta) non è sanzionata in termini gen rali, ma si risolve in una mera irregolarità, salvo che tale omissione o ritardo comporti una effettiva lesione al diritto di difesa da cui derivi una nullità riconducibile alle ipotesi espressamente previste dal codice.

Il citato decreto legge n. 92 del 2008, all’art. 12-ter, ha infatti eliminato l’ipotesi di nullità in precedenza prevista nell’ipotesi che il giudice non decidesse nei termini sull’istanza di ammissione al patrocinio legge e la giurisprudenza esclude che sussista tale nullità quando, come nel caso di specie, l’imputato sia stato comunque difeso dal suo difensore e non siano stati indicati in concreto pregiudizi per il diritto di difesa derivanti dal ritardo nella decisione. Nessun pregiudizio per la difesa si realizza quando l’imputato è assistito dal difensore di fiducia, il cui impegno professionale, ovviamente, non può mutare in ragione dell’alea riguardante il pagamento del compenso.

Dunque, una carenza di interesse all’impugnazione, essendo stato comunque il ricorrente difeso in modo professionale dal difensore da lui scelto e, lo si ribadisce, non essendo stata nemmeno prospettata una concreta ed effettiva violazione del diritto di difesa, che abbia compromesso, o anche reso più disagevole, l’esercizio del diritto (Sez. 2, n. 18462 del 08/03/2017, Lakhifi, Rv. 269746; Sez. 6, n. 19080 del 28/01/2010, Catabiani, Rv. 247362; Sez. 6, n. 6866 del 15/01/2009, Orefice, Rv. 243662; Sez. 1, n. 3607 del 16/01/2009, Barletta, Rv. 242528). 14.6. Infondati, ai limiti della inammissibilità, sono i motivi relativi al giudizio di penale responsabilità (terzo, quarto, quinto).

Non è sostanzialmente in contestazione che tra Odevaine e Buzzi vi fosse un accordo corruttivo, né il rapporto di connessione sostanziale tra Schina e Odevaine (sulla manifestazione concreta di tale accordo, pag. 1793 e ss. sentenza di primo grado).

In tale quadro di riferimento, la Corte di appello, con una motivazione adeguata e priva di illogicità evidenti, soprattutto se valutata insieme a quella del Tribunale, ha chiarito in punto di fatto che:

1) la collaborazione di Odevaine con il Comitato di coordinamento iniziò nell’aprile del 2011, dunque prima della formale istituzione del Tavolo di coordinamento (sul punto, sono state richiamate le dichiarazioni rese in dibattimento dallo stesso Odevaine; in tal senso, attraverso richiami documentali, si è evidenziato nella sentenza di primo grado come già prima del 2012 fu istituito un Comitato di Coordinamento ex art.1 comma 2 ordinanza Pcdm n. 3933 del 13.4.11 — composto, oltre che dal Capo della Protezione Civile, dal Ministero dell’Interno, nelle persone del Direttore Centrale per l’Immigrazione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza e del o Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, nonché da un rappresentante della Regione coordinatrice della Commissione Speciale Protezione Civile della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, un rappresentante dell’Anci e uno dell’Upi- e come Odevaine, già prima di essere formalmente nominato componente del Tavolo, partecipò al comitato per conto dell’Upi- convocazione per il 6.5.11, per il 5.8.11 e per il 26.9.11);

2) le utilità corrisposte da Buzzi ad Odevaine e Schina furono poste in essere nel tempo ad Odevaine sotto forma di pagamento di canoni di locazione sui conti correnti della moglie e del figlio, e, quanto a Schina, tramite un contratto di lavoro occasionale, fittiziamente intestato alla cittadina extracomunitaria Aldana Ramos (conversazione n. 52633 del 2.8.2013 in cui Buzzi, parlando con altri, farebbe espresso riferimento al contratto di lavoro), nonché con somme corrisposte in parte allo stesso Mario Schina ed in parte al di lui fratello;

3) al di là delle argomentazioni difensive relative alla dichiarazioni di Buzzi, il pagamento delle somme di denaro a Schina sarebbe provato:

a) da numerose conversazioni in cui Buzzi rivelerebbe espressamente che l’imputato fosse destinatario di 1.500 euro al mese (cfr. pag. 156 della sentenza impugnata in cui si richiama, tra le altre, la conversazione n. 3240 del 20.4.2013);

b) da due contratti di lavoro tra Schina e la cooperativa “Un Sorriso” di Coltellacci, uno per il periodo dal 15.3.2012 al 14.1.2013 con il compenso di 1500 euro al mese, ed uno per il periodo dal 5 agosto al novembre 2013 per un corrispettivo di 8 euro netti per ogni ora effettiva di lavoro;

c) dalla documentazione prodotta dallo stesso Coltellacci (estratti conto) e dagli accertamenti dell’Anagrafe tributaria;

d) dal fatto che anche i pagamenti compiuti in favore di Aldana Ramos erano in favore di Mario Schina (conversazione, richiamata dalla Corte di appello, intercettata il 4.7.2013) e che anche i pagamenti in favore di ulteriori terzi erano poi “girati” al ricorrente;

4) Coltellacci sarebbe stato partecipe – consapevole del sistema corruttivo; sul punto, la Corte ha richiamato le conversazioni n. 53998 e 53993 del 6.8.2013 in cui Coltellacci, parlando con una sua collaboratrice prima di incontrare Schina, farebbe chiaro riferimento a somme mensilmente corrisposte a questi;

5) una parte del prezzo della corruzione fu destinata a Schina, che ricevette denaro dal giugno 2011 al 2014; Schina, che conosceva l’accordo corruttivo tra Buzzi ed Odevaine (pag. 1792 della sentenza del Tribunale in cui si fa riferimento alla conversazione n. 5772 del 22/09/2014 Rit. 5641/14), era per Odevaine il riferimento del gruppo di Buzzi (cfr. pag. 159 sentenza impugnata che richiama la conversazione del 27.3.2014 n. 1481 Rit 564/14); in tal senso assume rilievo la motivazione del Tribunale (pag. 1789) secondo cui Schina era il “collante” fra Buzzi, Coltellacci ed Odevaine (conversaz one n. 3295 Rit n. 8146/13 del 28.3.2014 in cui Buzzi, conversando con Garrone, Caldarelli, Di Ninno e Bugitti, afferma: “Luca Odevaine piglia 5.000 euro al mese da tre anni”, Garrone: “lo so”; Buzzi continuava: “Mario Schina piglia 2.000 euro al mese da 3 anni e glieli abbiamo dati in tempi di pace e in tempi di guerra… in tempi di guerra glieli abbiamo dati, cioè quando non c’avevamo più un cazzo.. costavano, dice: .., e l’investimento ha pagato perché arrivano. Dopodiché Schina, non contento, dice: <embè, mo=”” che=”” avete=”” vinto=”” castelnuovo=”” e=”” abbiamo=”” contribuito…=””>”);

6) i contratti di lavoro fossero solo uno strumento per “coprire” i pagamenti a Schina, considerato dallo stesso Odevaine “il referente del gruppo, diciamo Eriches, è il nostro referente per quel gruppo lì” (cfr., conversazione richiamata dalla Corte a pag. 159 tra lo steso Odevaine e tale Tommaso Addeo e, soprattutto, la lunga, puntigliosa ricostruzione compiuta dal Tribunale, solo richiamata dalla Corte);

7) Schina riceveva da Buzzi e Coltellacci soldi a prescindere dai contratti di lavoro e la ragione giustificativa delle dazioni era costituita dal fatto che Schina, per Buzzi, “era” Odevaine; Schina era il “cane” di Odevaine (così Coltellacci, nelle conversazioni evidenziate dalla Corte n. 2989- 2990 del 29.5.2014) e costituiva per Odevaine il riferimento per il gruppo di Buzzi (in tal senso la Corte ha richiamato le conversazioni intercettate tra Schina, Coltellacci e Buzzi da cui si è fatta discendere la prova che le dazioni erano addirittura anticipate personalmente da Coltellacci senza fare nessun riferimento ai contrati di lavoro, cfr. pag. 159 sentenza impugnata).

Rispetto alla articolata ricostruzione fattuale compiuta, soprattutto, dal Tribunale e, solo in parte, richiamata dalla Corte di appello, i motivi di ricorso perdono di capacità persuasiva perché, da un lato, non si confrontano con la motivazione del provvedimento impugnato e, dall’altra, tendono ad una rivisitazione del significato probatorio dei singoli elementi ed a sollecitare una nuova valutazione in fatto, preclusa in sede di legittimità. In tal senso, i ricorrenti ripercorrono il tema:

a) della non coincidenza temporale tra i pagamenti effettuati a Schina, iniziati nel giugno 2011, ed il momento in cui Odevaine assunse un “ruolo” presso il Tavolo di coordinamento, senza tuttavia considerare quanto è stato evidenziato dai giudici di merito in ordine al ruolo attivo che Odevaine aveva ricoperto presso il Comitato di coordinamento, istituito presso il Ministero dell’interno nel coordinamento sin da maggio 2011, e, dunque, la sostanziale coincidenza tra pagamenti a Schina e ruolo di Odevaine;

b) della non coincidenza temporale dei pagamenti effettuati a Schina rispetto a quelli corrisposti ad Odevaine, senza tuttavia considerare che lo stesso Odevaine avrebbe riferito in dibattimento di avere ricevuto denaro da Buzzi da “fine 2011 fino al novembre del 2014”) (pag. 1793 sentenza Tribunale);

c) della base probatoria parziale su cui sarebbe stato fondato il giudizio di responsabilità penale, che, si assume, sarebbe basato solo sul contenuto di alcune conversazioni intercettate; anche in tal caso non si considera quanto i giudizi di merito hanno nel complesso evidenziato, e cioè le pluralità di fonti da cui si è fatta discendere la prova del reato posto in essere a titolo di compartecipazione criminosa (dichiarative, documentali e tecniche; cfr. pag. 1855 sentenza Tribunale in cui si evidenzia come dell’argomento della dazione di denaro a Schina per il suo “ruolo di continua informazione e di costante intermediazione con Odevaine”, Coltellacci parlasse in modo inequivoco con l’ex moglie dello stesso Schina —alla quale era legato da un rapporto sentimentale “in un contesto dunque di assoluta sincerità”);

d) della valenza giustificativa dei contratti di lavoro, senza confrontarsi con l’inesistenza probatoria della ricostruzione alternativa lecita indicata rispetto alla molteplicità di elementi che, al di là del dato formale, chiariscono l’anemia di quei contratti, la loro inidoneità strutturale a spiegare:

1) la reale causale per cui Coltellacci e Buzzi fossero davvero interessati a Mario Schina;

2) il motivo concreto per cui Buzzi dovesse pagare per anni una persona con la quale non aveva rapporti formali, al di là dei fatti per cui è processo;

3) perché Coltelacci dovesse stipulare contratti con una cittadina extracomunitaria che poi “girava” il denaro proprio a Schina;

4) perché dovesse essere corrisposto denaro in favore dei fratelli di Schina, che poi “giravano” a questi il denaro.

e) il tema della causale dei pagamenti e del ruolo di Schina, senza considerare, anche in questo caso, i numerosissimi elementi, puntualmente riportati dai giudici di merito, che comprovano che Schina, da una parte, per Buzzi e Coltellacci, era un soggetto “fungibile” ad Odevaine, era cioè il soggetto che, per conto di Odevaine, parlava ed aveva i contatti con loro, e, dall’altra, per Odevaine, costituiva il referente di Buzzi e del suo gruppo; Schina era, come correttamente osservato dal Tribunale, il collante del patto corruttivo, era il collegamento materiale tra corruttori e corrotto e, per tale ragione, era necessario “pagare” la sua intermediazione; il prezzo della corruzione fu sin dall’inizio, almeno in parte, destinato a Schina in ragione del fatto che egli aveva un compito chiaro e noto a tutti.

Ne consegue l’infondatezza dei motivi di ricorso.

14.7. Né dubbi possono sussistere in ordine alla qualificazione di fatti per cui si procede ed alla loro riconducibilità al reato corruzione propria.

Va escluso che i fatti possano essere ricondotti all’art. 346-bis cod. pen., che si differenzia dal punto di vista strutturale dalle fattispecie di corruzione per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l’opera di mediazione compiuta da chi si adopera per promuovere un accordo corruttivo al quale resta tuttavia estraneo (in tal senso, Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, dep. 2017, Rigano, Rv. 269736).

Si è già detto di come con l’introduzione del reato di traffico di influenze illecite si è intesa sanzionare penalmente la condotta del mediatore che compia atti diretti a mettere in contatto il pubblico ufficiale ed il privato, sì da creare le condizioni per la commissione di delitti di corruzione propria e di corruzione in atti giudiziari; la clausola di sussidiarietà con la quale esordisce la formulazione letterale della fattispecie incriminatrice “fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter” dimostra che il legislatore ha inteso sanzionare una condotta in certo modo meramente preparatoria da parte di chi resta esterno rispetto alla conclusione del patto corruttivo. (Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269348).

Ricostruiti i fatti nel senso indicato, i giudici di merito hanno correttamente applicato i principi in più occasioni affermati dalla Corte di cassazione secondo cui nel delitto di corruzione, che è a concorso necessario ed ha una struttura bilaterale, è ben possibile il concorso eventuale di terzi, sia nel caso in cui il contributo si realizzi nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all’uno o all’altro dei concorrenti necessari, sia nell’ipotesi in cui si risolva in un’attività di collegamento funzionale tra le parti del patto corruttivo, in un’opera di collante tra gli autori necessari (Sez. 6, n. 3606, del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269348; Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani, in motivazione; Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, dep. 05/10/2006, Rv. 234361).

Nel caso in esame, come si è osservato, si sono evidenziate una serie di condotte poste in essere da Odevaine in violazione ed in contrasto con i doveri d’ufficio, retribuite con compensi fissi a scadenza mensile; dette condotte erano finalizzate ad agevolare gli interessi di Buzzi (sul punto, ampiamente, il Tribunale).

Si è altresì evidenziato come Odevaine, al servizio di Buzzi e Coltellacci, agisse nell’ambito di un organismo pubblico incardinato nelle strutture del Ministero nell’Interno competenti in materia di protezione dei richiedenti asilo – e, dunque, nel perimetro della concreta sfera di intervento e di influenza propria e delle sue pubbliche funzioni – inquinando i processi decisionali di governo in senso favorevole ai soggetti corruttori, i cui interessi erano stati presi in carico e perseguiti senza alcuna valutazione comparativa con quelli pubblici sottesi alla funzione conferita.

Il reato di corruzione rientra tra i reati propri funzionali e richiede che il comportamento oggetto del mercimonio rientri nella sfera di competenza o di influenza dell’ufficio cui appartiene il soggetto corrotto (Sez. 6, n. 33435 del 4/5/2006, Battistella, Rv. 234359; più di recente in senso analogo, Sez. 6, n. 23355 del 26/2/2016, Margiotta, Rv. 267060, Sez. 6, n. 20502 del 2/3/2010, Martinelli, Rv. 247373, secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, non è determinante il fatto che l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio sia ricompreso nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto»).

Odevaine, nell’ambito di un patto corruttivo ampio, di volta in volta perseguì l’interesse inquinante di Buzzi e Coltellacci attraverso una pluralità di singoli atti rientranti nella concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, ancorché non preventivamente individuati.

Schina di quel patto corruttivo era concorrente originario, ancorché non necessario; l’imputato fu retribuito da Buzzi e Coltellacci sin dall’inizio per il suo ausilio alle parti costitutive di quel accordo, per la sua “promessa di aiuto”, per la sua capacità di garantire l’attuazione del contratto illecito.

14.8. Inammissibili sono il settimo e l’ottavo motivo del ricorso di Schina, avendo la Corte di appello chiarito, quanto all’invocata circostanza attenuante prevista dall’art. 114 cod. pen. ed alle circostanze attenuanti generiche, il ruolo tutt’altro che secondario rivestito dall’imputato, anche in ragione della durata temporale in cui Schina sarebbe stato retribuito da Buzzi (pagg. 556- 580 sentenza impugnata); rispetto a tale congrua motivazione, nulla di specifico è stato dedotto.

14.9. Non diversamente, è inammissibile il nono motivo di ricorso, avendo la Corte spiegato il criterio di determinazione della somma confiscata (pag. 581 sentenza impugnata, in cui si fa riferimento in modo non manifestamente illogico ad un calcolo matematico che avrebbe dovuto condurre alla ablazione di una somma addirittura superiore) ed essendo il motivo di impugnazione fondato essenzialmente sulla quantificazione delle somme che Schina avrebbe personalmente conseguito e dichiarato anche ai fini delle imposte — in ragione del rapporto di lavoro di cui è detto- della cui effettiva ragione giustificativa, tuttavia, si è ampiamente detto.

14.10. Non vi è stato appello né ricorso di Buzzi per tale reato; va comunque disposto l’annullamento limitatamente all’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. per le ragioni già esposte.

15. Corruzione del consigliere comunale Caprari Massimo (capo 4 del secondo decreto).

15.1. Buzzi aveva erogato a Caprari, consigliere rappresentante al Comune del Centro Democratico, remunerazioni commisurate all’importo dei lavori assegnati di volta in volta alle sue cooperative e disposto, su sua richiesta, l’assunzione di Enzo Artistico in cambio del suo interessamento per formare il consenso politico e istituzionale per il riconoscimento di debiti fuori bilancio, approvato il 30.10.14, che giovava anche alle cooperative di Buzzi.

La difesa di Buzzi non ha appellato questo capo e la responsabilità di Caprari è stata accertata con sentenza della Corte di appello di Roma in data 6.7.2017 divenuta definitiva il 13.7.2018.

È stata anche intercettata una conversazione da cui risulta una palese trattativa tra Buzzi e Caprari per essere quest’ultimo messo a “libro paga” Buzzi non ha impugnato la condanna in primo grado in punto di responsabilità nè ha proposto ricorso al riguardo; in ogni caso, la vicenda rileva per le successive valutazioni in ordine al reato associativo. Va comunque disposto in favore di Buzzi l’annullamento quanto all’applicazione dell’aggravante della agevolazione mafiosa, per le ragioni già dette e per quelle che saranno in seguito esposte quanto alla esistenza dell’associazione mafiosa.

16. Corruzione dei consiglieri comunali Francesco D’Ausilio, Luca Giansanti e Alfredo Ferrari (capo 5 del secondo decreto).

16.1 Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, con riferimento alla vicenda dei debiti fuori bilancio, Buzzi aveva sollecitato anche altri consiglieri comunali fra cui Francesco D’Ausilio, Luca Giansanti e Alfredo Ferrari e, d’accordo con Francesco Ferrara della cooperativa La Cascina, aveva programmato di retribuirli, oltre che con l’assunzione di persone di loro interesse, con la complessiva somma di euro 130.000.

Buzzi non ha impugnato la condanna di primo grado in punto di responsabilità nè ha proposto ricorso al riguardo. In base alle ragioni generali va esclusa la aggravante della agevolazione mafiosa e, comunque, si riporta tale vicenda per le successive valutazioni in ordine al reato associativo.

17. Corruzione del consigliere comunale Tredicine Giordano (capo 6 del secondo decreto). 17.1. Al capo 6 del secondo decreto è contestato a Giordano Tredicine, in concorso con Buzzi, il delitto previsto dall’art. 318 cod. pen. Buzzi avrebbe retribuito Tredicine, consigliere della assemblea capitolina e, dunque, pubblico ufficiale, asservendo le funzioni dell’imputato al servizio degli interessi delle sue cooperative; questi sarebbe stato il referente attraverso cui Buzzi mirava ad “accaparrarsi” i lotti riservati alle cooperative “riconducibili” ai partiti di “destra” sulla base degli accordi spartitori.

Tredicine si sarebbe attivato: – per lo sblocco dei pagamenti Eur; – per la procedura dei debiti fuori bilancio; – per la proroga dei servizi affidati alle cooperative di Buzzi nel settore del verde pubblico (cfr. capo 13 II decreto), firmando e votando la cd. mozione Ozzimo, nonché attivandosi per fare incontrare Alemanno a Buzzi. In cambio di tale attività, dal conto corrente intestato alla cooperativa Formula Sociale il 23.4.2013 fu effettuato il versamento di 20.000 euro a titolo di contributo elettorale in favore di Mario Brugia, mandatario elettorale del comitato per Tredicine.

Hanno proposto ricorso sia Tredicine che Buzzi.

17.2. Il ricorso proposto nell’interesse di Tredicine è nel complesso infondato.

Inammissibile per genericità è il primo motivo di ricorso, quanto alla mancata rinnovazione dibattimentale per escutere il teste Pomarici.

Prescindendo da ogni considerazione sul se la testimonianza di Pomarici possa davvero ritenersi, come affermato dal ricorrente, una prova “sopravvenuta” o “scoperta” dopo il giudizio di primo grado, trattandosi in realtà di una testimonianza a cui la parte aveva rinunciato (pag. 197 sentenza impugnata), secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria, accertamento rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Sez. 6, n.8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, Ligresti, Rv. 229666).

È diffusa in giurisprudenza l’affermazione di ncipio secondo cui, mentre la decisione di procedere alla rinnovazione deve ess re specificatamente motivata – occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza dell’acquisizione probatoria – nell’ipotesi di rigetto, viceversa, la decisione può essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa, posta a base della pronuncia di merito, che, tuttavia, evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti ed adeguati per una valutazione in ordine alla responsabilità dell’imputato, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620).

Ai fini del sindacato sulla decisione di non procedere alla rinnovazione della istruttoria, ciò che tuttavia deve essere valutato è se esista un vizio della deliberazione assunta sulla regiudicanda e della relativa motivazione, e, posto che esista, se detto vizio appaia conseguente, dipendente, derivante dalla erronea decisione di non provvedere all’integrazione della prova, d’ufficio o su richiesta delle parti processuali.

Si è notato, in conformità ad alcuni precedenti, che “può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello” (Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014, dep. 2015, P., Rv. 261799; Sez. 6, n.1256 del 28/11/2013, Cozzetto, Rv. 258236).

Dunque, ciò che conta non è la qualità della risposta che la Corte territoriale ha inteso dare alle istanze di prova della difesa, ma la desumibilità o meno dal tessuto argomentativo della sentenza – posto in relazione alle censure difensive – di una grave lacuna del ragionamento probatorio e della sua rappresentazione a livello motivazionale, dipendente dalla decisione di non rinnovare l’istruttoria dibattimentale al fine di chiarire la circostanza dedotta dalla difesa dell’imputato.

Nel caso di specie, il motivo di ricorso è strutturalmente generico, non avendo il ricorrente chiarito perché le dichiarazioni del teste Pomarici, il cui oggetto non è stato in nessun modo indicato, avrebbero dovuto avere una efficacia disarticolante dell’intero ragionamento probatorio riguardante l’esistenza di un accordo corruttivo tra Buzzi e Tredicine; non è stato specificato quali fossero i fatti concreti che Pomarici avrebbe dovuto riferire per dimostrare non l’assenza di prove di un proprio coinvolgimento, quanto, piuttosto, l’estraneità di Tredicine ai fatti a questi contestati.

17.3. Infondati, al limite della inammissibilità, sono il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente e che attengono al giudizio di responsabilità penale.

Nell’ambito di un’adeguata motivazione, la Corte di appello ha indicato le numerose conversazioni, il cui significato letterale non è stato contestato, in cui Buzzi, conversando con soggetti a lui vicinissimi (Carminati, Caldarelli), ha descritto il ruolo di Tredicine, il proprio legame con l’imputato, la serietà e l’affidabilità di Tredicine (“come sta sul pezzo Giordano non ho mai visto nessuno”), l’utilità di quel rapporto, atteso che Tredicine, eletto nelle file del centrodestra, consentiva a Buzzi di interferire anche in quella parte politica (“stamo de qua e stamo de là”).

In tale contesto si è spiegato:

a) perché, ed in ragione di quali elementi, il contenuto di quelle conversazioni utilizzate per formulare il giudizio di penale responsabilità, ancorché intervenute tra terzi, debbano considerarsi attendibili, trattandosi di conversazioni intercorse tra imputati ed in relazione a concrete dinamiche operative criminali: non è chiaro perché i dialoghi in questione avrebbero dovuto essere inquinati;

b) il ruolo che Tredicine avrebbe avuto nel tenere i rapporti tra Buzzi, le persone che a questi facevano riferimento, e Borghini, amministratore delegato, in ordine alle vicende che riguardavano lo sblocco dei crediti nei confronti dell’Eur s.p.a. (“la pratica nostra sull’Eur l’ho affidata a Giordano”);

c) perché, con quali modalità e sulla base di quali elementi si è ritenuta raggiunta la prova dell’apporto concreto fornito da Tredicine in relazione alle due delibere adottate il 9-10 aprile 2013 e il 30.10.2014 per il riconoscimento di debiti fuori bilancio (il tema è quello trattato al capo 11 del primo decreto);

d) il coinvolgimento diretto di Tredicine anche in relazione agli accadimenti riguardanti la proroga dei servizi affidati alle cooperative di Buzzi nel settore del verde pubblico (i fatti sono indicati nel capo 13 del secondo decreto) e per la gara per la manutenzione del verde (i fatti sono attinenti al capo 25) del primo decreto).

Tali elementi sono stati posti in correlazione con il tema delle utilità che Tredicine avrebbe ricevuto; in particolare, il 23.4.2013, nell’ambito di rapporti e contatti precedenti e, soprattutto, successivi, in un momento di fermento elettorale in ragione dell’elezioni comunali a Roma nel 2013, fu effettuato un versamento di 20.000 euro dalla cooperativa “Formula Sociale” a titolo di contributo elettorale in favore di Mario Brugia, “mandatario elettorale del comitato per Tredicine”.

Il senso di quel versamento è stato ricostruito dai giudici di merito, che hanno chiarito come, dopo le elezioni comunali del 2013 ed il cambio di maggioranza, Buzzi si fosse lamentato, parlando con Gammuto, della mancata vittoria della coalizione di Centrodestra perché, se ciò fosse accaduto, “avrebbe potuto contare sui favori di alcuni esponenti del Centrodestra e indicava specificamente Tredicine” (così pag. 2056 sentenza Tribunale, in cui è fatto un inequivoco riferimento alla conversazione del 28.5.2013: “ao, l’avevamo comprati tutti, eh”; Buzzi: “se vinceva Alemanno, ce l’avevamo tutti comprati, partivanno..fiuuu (fonetico come a indicare una partenza a razzo). C’avevamo l’Assessore ai Lavori Pubblici, Tredicine doveva sta’ su ai Servizi Sociali”).

Quel versamento aveva una funzione prospettica perché volto ad assicurarsi che l’interesse inquinante di Buzzi fosse preso in carico dal pubblico potere nel caso in cui le elezioni fossero state vinte dai partiti di Centrodestra. Tredicine era stato “comprato” per ciò che sarebbe potuto accadere e ciò illumina e riempie di contenuto penalmente rilevante quanto in seguito accadde: Tredicine era “debitore” di Buzzi e, nonostante l’esito delle elezioni, mise al servizio del suo creditore la sua funzione di consigliere comunale.

Sulla base di tale quadro di riferimento, i motivi di ricorso perdono di progressiva specificità.

Si è riproposta la questione relativa alla valenza probatoria delle conversazioni intercorse tra Buzzi con terzi soggetti in cui si sarebbe fatto riferimento a Tredicine, senza tuttavia indicare nessuna concreta ragione per la quale Buzzi, dialogando con i suoi più stretti collaboratori, avrebbe dovuto accusare falsamente Tredicine.

La giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata nel senso che «il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se anch’esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen.» (Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, Cigliola, Rv. 2684141; Sez. 5, n. 4572 del 17/07/2015, Ambroggio, Rv. 265747; Sez. 5, n. 21878 del 26/03/2010, Cavallaro, Rv 247447; Sez. 4, n. 35860 del 28/09/2006, Della Ventura).

Da tale presupposto si è fatta discendere la non applicabilità della norma di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. e dunque la non necessità di rinvenire, in presenza di conversazioni contenenti dichiarazioni teroaccusatorie, riscontri di carattere esterno.

Sul punto, si rinvia alle considerazioni sul tema fatte in relazione alla posizione del coimputato Tassone.

La Corte di cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, 195, 526 e 271 cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e l’art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono che le indicazioni di reità e correità, rese nell’ambito di conversazioni intercettate, debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria; nella occasione si è sottolineata la impossibilità di equiparare, ai fini predetti, il chiamante in reità o correità – ovvero un soggetto che, nel rendere dichiarazioni accusatorie nel corso di un interrogatorio, può essere mosso da intenti calunniatori od opportunistici – al conversante, il quale è animato dalla volontà di scambiare liberamente opinioni con il proprio interlocutore salvo che non risulti accertata l’intenzione dei loquenti, nella consapevolezza dell’intercettazione in corso, di far conoscere all’autorità giudiziaria informazioni finalizzate ad accusare taluno di un reato (Sez. 6, n. 258006 del 20/02/2014, Caia, Rv. 259673).

Nel caso di specie, nessun interesse inquinante da parte di Buzzi nei confronti di Tredicine è stato anche solo in astratto prospettato, nessuna ragione è stata anche soltanto ipotizzata per dubitare che, mentre Buzzi parlava con i suoi collaboratori più stretti o con Carminati di fatti rilevanti penalmente e di accadimenti in corso, avrebbe dovuto, nella consapevolezza di essere intercettato, accusare ingiustamente Tredicine.

Si è riproposto, sotto altro profilo, il tema della mancata considerazione da parte dei giudizi di merito della documentazione secondo cui Tredicine, nel corso della sua attività politica avrebbe perseguito obiettivi contrastanti con gli interessi di Buzzi, senza, tuttavia, spiegare perché l’attività in generale compiuta dal ricorrente escluderebbe il coinvolgimento dello stesso nei fatti specifici per i quali si procede.

Si è affermato che la sentenza sarebbe viziata in ordine alla prova della esistenza delle utilità che Tredicine avrebbe conseguito e del nesso di correlazione fra le utilità in questione e la vendita della funzione.

Quanto alla prima questione, si è già detto; nulla è stato in concreto dedotto, essendosi limitato il ricorrente ad affermare che quella specifica dazione, da una parte, non sarebbe stata espressamente menzionata nella imputazione – il cui tenore testuale, tuttavia, è idoneo a ricomprenderla -, e, dall’altra, non sarebbe stata valorizzata dal Tribunale.

Quanto al nesso di corrispettività tra dazione e vendita della funzione, si è già chiarito, allorché si è affrontata in generale la questione dei rapporti tra le fattispecie previste dagli artt. 318 e 319 cod. pen., che per la nuova fattispecie di corruzione funzionale il compenso che il pubblico agente riceve costituisce la remunerazione per “la presa in carico” degli interessi di cui è portatore il privato.

Si è già detto di come, attraverso l’art. 318 cod. pen. il legislatore abbia inteso punire di per sé la condotta del pubblico ufficiale che, dietro compenso di una utilità, si prenda cura di un interesse privato, a prescindere dal compimento di un atto dell’ufficio; l’art. 318 cod. pen. sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l’intesa programmatica, l’impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la precisa individuazione di alcunché; essa previene la compravendita degli atti d’ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.

Si è già argomentato sulla natura di reato di pericolo della fattispecie prevista dall’art. 318 cod. pen. e della tutela anticipata che con essa il legislatore persegue rispetto al reato di corruzione propria.

Nel caso di specie, rispetto alla corresponsione di denaro del 23.4.2013 che riguardò Tredicine, sono stati individuati una serie di elementi fattuali, precedenti e successivi alla dazione – tutti indicati dai giudici di merito – che riempiono ed illuminano la causale di quella dazione e confermano la esistenza del patto corruttivo.

Anche in relazione a tale profilo, il motivo di ricorso, lungi dall’attaccare il provvedimento impugnato, si risolve in una generale critica destrutturata.

Si è sostenuto che la sentenza sarebbe viziata per non avere considerato che Tredicine avrebbe al più ricevuto denaro per una condotta posta in essere solo “in occasione del suo ufficio, ma non implicante, lo svolgimento di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell’agente” (così testualmente il ricorso a pag. 16).

In realtà, non è determinante che la condotta attenga alle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che rientri nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto (fra le tante, Sez. 6, n. 17973 del 22/01/2019 Caccuri, Rv. 275935).

La preposizione “per” contenuta nell’art. 318 cod. pen. designa innanzitutto la causa della dazione, ricollegandola all’esercizio della funzione o del potere da parte dell’agente pubblico, ma anche la finalità in vista della quale si remunera indebitamente (o si promette di farlo) l’agente pubblico.Il concetto di funzione attiene all’insieme delle attività e di compiti attribuiti al pubblico funzionario.

Nel caso di specie, la Corte ha spiegato come l’attività in concreto compiuta da Tredicine in favore di Buzzi fu espressione della sua qualità di consigliere comunale ed in tal senso si è evidenziata quella volta alla adozione di delibere dell’assemblea del Comune di Roma.

Sotto ulteriore profilo si sono riproposte una serie di questioni, già portate alla cognizione della Corte di appello e da questa valutate in modo non manifestamente illogico, che tendono a rivisitare il significato dei singoli elementi di prova.

Anche in questo caso, i motivi in esame, per come strutturati, esulano dal percorso di una ragionata censura del complessivo percorso motivazionale del provvedimento impugnato, con il quale obiettivamente non si confrontano, e si risolvono in una indistinta critica generalizzata; la frammentazione del ragionamento sottesa ai motivi, la moltiplicazione di rivoli argomentativi neutri o, comunque, non decisivi, la scomposizione indistinta di fatti e di piani di indagine non ancorata al ragionamento probatorio complessivo della sentenza impugnata, la valorizzazione di singoli elementi il cui significato viene scisso ed esaminato atomisticamente rispetto all’intero contesto, violano il necessario onere di specificazione delle critiche mosse al provvedimento (sul tema, Sez. 6, n. 10539 del 10/02/2017, Lorusso, Rv. 269379).

Le censure difensive tendono sostanzialmente a sollecitare una differente e non consentita comparazione dei singoli significati probatori, per giungere a conclusioni differenti sulla valenza di elementi di prova valorizzati in chiave accusatoria. I giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione autonoma e non manifestamente illogica sui punti specificamente indicati nell’impugnazione di appello, di talché la motivazione risulta esaustiva ed immune dalle censure proposte. Ne discende l’infondatezza dei motivi in esame.

17.4. Inammissibile, per difetto di interesse, è il quinto motivo di ricorso, relativo alla assunta contraddittorietà del dispositivo rispetto alla motivazione. Rispetto al chiaro tenore della imputazione, della decisione, del dispositivo e della stessa motivazione della sentenza, la discrasia segnalata dal ricorrente attiene ad un rivolo della motivazione contenuto a pagg. 582-583 della sentenza, in cui la Corte, nel determinare la pena, evoca una “riqualificazione” di cui, tuttavia, non vi è concreta traccia nel provve nto, atteso che, proprio nello stesso paragrafo richiamato dal difensore, la Corte, escludendo la continuazione, ha rideterminato la pena facendo riferimento alla fattispecie contestata.

17.5. Sono inammissibili il sesto ed il settimo motivo.

La Corte di appello ha chiarito con motivazione congrua ed esente da illogicità la ragione per cui non possono essere riconosciute le invocate circostanze attenuanti generiche, attesa la pervicacia dimostrata, la propensione a delinquere, la portata temporale della condotta criminosa; ciò nondimeno si è ridotta la pena al fine di adeguarla a quelle inflitte ad altri imputati “per fattispecie simili”.

Nulla di specifico sul punto è stato dedotto, essendosi limitato il ricorrente ad affermazioni generiche senza confrontarsi con la motivazione della sentenza.

Quanto all’ottavo motivo, si rinvia al paragrafo relativo alle statuizioni civili.

17.6. Il motivo proposto da Buzzi è del tutto generico.

Alla luce delle considerazioni esposte in ordine alla posizione di Tredicine, il motivo di ricorso ricorso perde valenza.

L’imputato, infatti, si limita ad affermare, in palese contrasto con il contenuto evidente della sentenza di merito, che non sarebbe stato individuato alcun esercizio della funzione del Tredicine in suo favore e dell’essere le sue elargizioni al Tredicine dei liberi contributi per la campagna elettorale. Si tratta di temi su cui si è già detto.

Va, comunque, esclusa l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. per le ragioni già indicate in precedenza e per quelle che saranno ulteriormente esposte nella parte della motivazione dedicata all’associazione mafiosa.

18. Corruzione di Tassone Andrea, presidente del X Municipio di Roma Capitale (capo 8 del secondo decreto).

18.1. Nell’ambito delle due gare per i servizi di potatura degli alberi e per la pulizia degli arenili del X Municipio, Buzzi e Testa sono stati ritenuti responsabili di avere erogato somme non inferiori a 30.000 euro al presidente del X Municipio Tassone, per tramite del suo intermediario Solvi (condannato in via definitiva).

A Tassone è stato contestato:

a) di aver rivendicato la competenza del X Municipio in materia di lavori per la pulizia delle spiagge, consentendo così lo stanziamento e la distribuzione dei relativi fondi regionali;

b) di aver comunicato al gruppo di Buzzi notizie e informazioni sulla procedura di selezione delle imprese cui affidare i lavori relativi agli interventi di potatura delle alberature stradali e di pulizia delle spiagge assegnati alla cooperativa 29 giugno.

Tassone, con riferimento ad entrambe le gare, avrebbe fornito informazioni utili e, con riferimento a quella per la pulizia degli arenili, recepito la lista delle imprese da invitare predisposta dallo stesso Buzzi.

Per tale capo hanno proposto ricorso Tassone e Testa.

18.2. Il ricorso proposto nell’interesse di Andrea Tassone è infondato.

Riservando l’esame del primo motivo a quanto si dirà nel paragrafo relativo alle statuizioni civili e quello del secondo e del terzo motivo alle valutazioni contenute nei paragrafi in cui si sono trattate le specifiche questioni preliminari, il quarto motivo di ricorso – relativo alla violazione di norme processuali per non essersi la Corte pronunciata sul motivo di appello riguardante la mancata risposta del primo giudice sulla questione della nullità, per genericità, del capo di imputazione – è inammissibile, quanto al riferimento all’art. 318 cod. pen., infondato, quanto alle condotte indicative del reato di corruzione propria.

In relazione all’art. 318 cod. pen. il motivo è inammissibile per carenza di interesse, atteso che Tassone è stato condannato solo per il reato di corruzione propria (pag. 581 sentenza impugnata).

Quanto al reato di corruzione propria, l’imputazione è costruita, come detto, nel senso che l’imputato avrebbe, nell’ambito di un generale asservimento della sua funzione agli interessi di Buzzi, compiuto anche atti contrari ai doveri d’ufficio in favore dello stesso Buzzi e dei soggetti a questi riconducibili, in cambio del conseguimento di somme di denaro non inferiori a euro 30.000.

La tecnica utilizzata nella redazione della suddetta imputazione è stata quella di descrivere le condotte contrarie ai doveri d’ufficio che l’imputato avrebbe compiuto e le utilità conseguite.

Sulla base di tale presupposto descrittivo, il motivo di ricorso rivela la sua infondatezza per le stesse ragioni già esposte per l’imputato Coratti, alle quali si rinvia.

18.3. È infondato anche il quinto motivo di ricorso, relativo al difetto di correlazione fra accusa e sentenza, per le ragioni già esposte in sede di esame del quarto e del quinto motivo del ricorso proposto da Coratti.

Non è innanzitutto indicato in cosa consisterebbe la radicale eterogeneità del fatto accertato – nei suoi elementi essenziali – rispetto a quello contestato e, in particolare, quale sarebbe stato il pregiudizio dei diritti della difesa, tenuto conto, come già detto, dello sviluppo concreto del processo, di come l’imputato si sia trovato nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione e di come in concreto il diritto di difesa sia stato esercitato.

Al di là di profili strettamente lessicali valorizzati dal ricorrente, dalle sentenze di merito emerge chiaramente come i giudici di merito abbiano in concreto esaminato e ricostruito le condotte sostanzialmente contestate all’imputato e siano giunti, sulla base delle articolate evenienze istruttorie e degli articolatissimi rilievi difensivi, a formulare il giudizio di penale responsabilità sulla base di una ricostruzione fattuale, che si pone in obiettiva derivazione dalla imputazione.

Il nucleo costitutivo del fatto per il quale Tassone è stato condannato è, come detto, che questi avrebbe ricevuto denaro per fare in modo che a Buzzi ed alle imprese a questi riconducibili fossero aggiudicati le gare per i lavori assegnati al X Municipio, di cui l’imputato era Presidente, relative alla potatura degli alberi e per la pulizie delle spiagge; si è spiegato analiticamente cosa l’imputato avrebbe fatto e su detta ricostruzione fattuale il diritto di difesa è stato ampiamente assicurato ed esercitato. Dunque, diversamente dagli assunti difensivi, non è condivisibile l’assunto secondo cui Tassone sarebbe stato condannato per condotte non contestate e valorizzate “a sorpresa” dai giudici di merito.

18.4. Il sesto, articolatissimo, motivo di ricorso, strutturato in modo sostanzialmente sovrapponibile al sesto motivo presentato nell’interesse di Coratti.

Anche in questo caso, l’assunto costitutivo sviluppato in relazione a numerose tematiche di rilevante valenza è che la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa, attraverso una serie di contributi probatori, non sarebbe stata vagliata dalla Corte, che si sarebbe “limitata” ad una valutazione parziale, calibrata solo sul contenuto delle conversazioni intercettate, viziata nella analisi delle singole vicende fattuali prese in considerazione.

Il vizio della sentenza emergerebbe in relazione a temi fondanti quali quelli della configurabilità degli atti contrari ai doveri di ufficio e delle utilità ricevute; in relazione a ciascuno dei temi indicati sono stati articolati, come si dirà, molteplici sottorivoli argomentativi.

Sotto altro profilo, Buzzi, si afferma, sarebbe stato consapevole di essere intercettato e ciò avrebbe dovuto imporre una valutazione stringente della attendibilità soggettiva del dichiarante e della attendibilità intrinseca del dichiarato. Il motivo è infondato, ai limiti della inammissibilità.

È utile riportare brevemente anche per Tassone, in relazione alle singole condotte contestate, la ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito.

La Corte, evidenziata l’intervenuta sentenza di condanna irrevocabile del coimputato Solvi in ordine ai fatti per cui si procede, anche in ordine al ruolo di mediazione che questi avrebbe avuto, ha ricostruito, sostanzialmente in modo autonomo, i fatti nel modo seguente:

a) Buzzi contava di beneficiare di un finanziamento di un milione di euro “veicolato da Gramazio” al Comune di Roma per ottenere commesse “sulla manutenzione del verde”;

b) il 27.3.2014 Tassone chiese a Buzzi di assumere una persona nel suo interesse;

c) il 5.5.2014 il Comune di Roma pubblicò l’avviso per la procedura negoziata riservata alle cooperative e relativa alla pulizia delle spiagge;

d) il 6.5.2014 Tassone, da una parte, inviò una nota all’assessorato all’ambiente, al ragioniere generale ed al direttore del dipartimento tutela ambiente del Comune di Roma, con cui rivendicò la “competenza in materia di litorale” del X municipio, e, dall’altra, cercò Buzzi, che ancora non sapeva di detta rivendicazione (pag. 2119 sentenza primo grado);

e) 1’8.5.2014, quando ancora non aveva ancora saputo dell’ostacolo che Tassone aveva frapposto, Buzzi effettuò un bonifico di 5.000 euro all’associazione culturale “Le Aquile” – che faceva riferimento a Tassone – per la campagna elettorale di tale Gasbarra, candidato al parlamento europeo;

f) il 10.5.2014 Buzzi, saputo della rivendicazione di competenza del X Municipio da parte di Tassone, incontrò, insieme a Paolo Solvi, lo stesso Tassone ed, all’esito, manifestò il convincimento di “averlo quasi convinto”, nonché la volontà di assicurarsi non solo la soma di 450.000, già stanziata per il X Municipio, ma quella più ampia di un milione di euro (“Ostia è conquistata … ho quasi convinto il Presidente… tutto il milione a lui… a fa’ lui la gara riservata alle cooperative sociali”);

g) il 12.5.2014 il Comune di Roma revocò il bando per la pulizia delle spiagge in precedenza pubblicato, a seguito della rivendicazione della competenza da parte del X Municipio;

h) Buzzi confermò a Guarany e Caldarelli che per Ostia le gare sarebbero state due (potature e pulizie degli arenili) e quello stesso giorno chiarì a Garrone e Nacamulli “la lista delle erogazioni ai politici in vista delle lezioni europee… su Tassone ad Ostia”;

i) Tassone chiese ed ottenne un nuovo incontrò con Buzzi, tenutosi il 16.5.2014, cui partecipò anche Solvi; 1) prima dell’arrivo di Solvi, Buzzi chiamò, una prima volta, la Garrone per chiederle di avere una copia del bando revocato e, una seconda volta, dicendole di inviare il bando revocato direttamente all’indirizzo di posta elettronica che in quel momento Tassone aveva fornito;

m) nel corso dello stesso giorno, la Commissione Direzionale Ambiente e territorio del X Municipio individuò cinque imprese, di cui quattro facenti capo a Buzzi, “per i lavori a somma urgenza per indagini sulla stabilità delle alberature stradali e conseguenti interventi di potatura”;

n) sempre il 16.5.2014 Buzzi, parlando con Garrone, Guarany e Caldarelli chiarì “so’ stato a Ostia. Avemo preso Ostia… 400.00 al verde….le spiagge fanno due lotti: 350 e 300. 300 li pija Maraini e 350… noi Tassone è nostro, è solo nostro; non c’è maggioranza o opposizione, è mio” e, facendo l’elenco delle persone cui corrispondeva denaro ” noi nell’ambito de ste cose… nell’ambito di questa monnezza, pe tenè i voti già semo arrivati a 43.000 euro… Tassone 30. 10 Alemanno…”;

o) il 20.5.2014 Buzzi consegnò le buste relative al bando di gara per la potatura degli alberi;

p) il 23.5.2014 la Commissione aggiudicò in via provvisoria alla cooperativa 29 giugno i lavori in questione;

q) il 12.6.2014 Buzzi si recò, a seguito di un appuntamento, presso l’abitazione di Solvi; nell’occasione, davanti al tentativo di parcheggiare la autovettura da parte della collaboratrice Chiaravalle in un posto distante dalla casa dello stesso Solvi, Buzzi disse: ” no, non cammino, perché c’ho delle cose in mano che è meglio non camminacce”;

r) dopo una serie di contatti con cui Buzzi sollecitò Solvi a seguire l’iter amministrativo relativo alla gara per i lavori di pulitura delle spiagge, non ancora bandita, l’11.7.2014 Testa, alla presenza di Gammuto, Carminati e Garrone, fece riferimento ad un nuovo incontro avuto con Tassone, nel corso del quale aveva avuto conferma da questi che gli inviti erano pronti (“Vi facciamo gli inviti la settimana prossima”) e che lo stesso Tassone aveva ricevuto da Solvi la lista, predisposta da Buzzi, delle imprese da invitare (la Corte ha spiegato, rispondendo al motivo di appello, che la lista in questione era proprio quella predisposta da Buzzi e che quelle imprese furono invitate);

s) il 31.7.2014 il servizio per la pulizia degli arenili fu affidato alla cooperativa 29 giugno, unica ad avere presentato l’offerta;

t) 1’1.8.2014 Buzzi affermava a Guarany “abbiamo preso le potature. Ora abbiamo preso le spiagge … li comandano in due, Tassone e D’ausilio”.

18.5. Sulla base di tale ricostruzione fattuale la Corte di appello ha indicato e spiegato in maniera adeguata il ruolo di intermediario ricoperto da Solvi nei rapporti tra Buzzi e Tassone ed i rapporti di vicinanza tra lo stesso Solvi e Tassone, desunti, soprattutto, dalla presenta di Solvi ai due incontri tra Buzzi e Tassone del 10 e 16 maggio.

Inoltre, si è ritenuta raggiunta la prova che Tassone, in violazione dei propri doveri d’ufficio, fornì, per entrambe le gare, notizie utili a Buzzi e, per quel che concerne la gara relativa alla pulizia degli arenili, ricevette dallo stesso Buzzi la lista delle imprese da invitare; si è chiarito infine che il prezzo della corruzione, pari a 30.000 euro, fu consegnato almeno in parte a Solvi il 12.6.2014.

Rispetto a tale ricostruzione il motivo di ricorso è costruito innanzitutto sul tema della inattendibilità dei dialoghi captati: si assume che Buzzi sarebbe stato consapevole di essere intercettato, sicché questo avrebbe dovuto imporre una maggiore cautela nella valutazione del contenuto delle conversazioni, che nella specie, sarebbe stata omessa.

L’assunto è infondato.

La giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata nel senso che «il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se anch’esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen.» (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714; Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, Cigliola, Rv. 2684141; Sez. 5, n. 4572 del 17/07/2015, Ambroggio, Rv. 265747; Sez. 5, n. 21878 del 26/03/2010, Cavallaro, Rv 247447; Sez. 4, n. 35860 del 28/09/2006, Della Ventura).

Da tale presupposto si fanno discendere due corollari:

a) la non applicabilità della norma di cui all’art. 192, comma 3, del codice di rito e, dunque, la non necessità di rinvenire, in presenza di conversazioni contenenti dichiarazioni eteroaccusatorie, riscontri di carattere esterno;

b) l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità.

È stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, 195, 526 e 271 cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e l’art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono che le indicazioni di reità e correità, rese nell’ambito di conversazioni intercettate, debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria; nell’occasione, si è sottolineata la impossibilità di equiparare, ai fini predetti, il chiamante in reità o correità – ovvero un soggetto che, nel rendere dichiarazioni accusatorie nel corso di un interrogatorio, può essere mosso da intenti calunniatori od opportunistici – al conversante, il quale è animato dalla volontà di scambiare liberamente opinioni con il proprio interlocutore salvo che non risulti accertata l’intenzione dei loquenti, nella consapevolezza dell’intercettazione in corso, di far conoscere all’autorità giudiziaria informazioni finalizzate ad accusare taluno di un reato (Sez. 6, n. 25806 del 20/02/2014, Caia, Rv. 259673).

Si tratta di un principio condivisibile tenuto conto che chi comunica a terzi un fatto, dice la verità (principio di affidabilità, sul quale si fonda la normale vita di relazione) e mente solo se a tanto abbia sufficiente interesse (principio di normalità) e ciò specialmente se dalla veridicità del dichiarato possano scaturire conseguenze pregiudizievoli per sé o per altri (principio di responsabilità).

La dichiarazione è normalmente attendibile se dotata di adeguata capacità dimostrativa del fatto da provare e questa sarà tanto maggiore quanto meglio il dichiarante sia in grado di rappresentare il fatto e quanto più l’oggetto della dichiarazione sia “significativo”; giova in tale senso la circostanza che il fatto sia analiticamente esposto, attesa la regola di esperienza che insegna che la menzogna è genericamente lacunosa ed incompleta, per l’impossibilità di attribuire ad un fatto inventato la ricchezza di particolari che sono propri, invece, degli accadimenti reali.

Nel caso di specie, nessun interesse inquinante da parte di Buzzi nei confronti di Tassone è stato anche solo in astratto prospettato, nessuna ragione è stata in concreto indicata per ritenere che Buzzi, nella ipotetica consapevolezza di essere intercettato, mentre parlava con i suoi collaboratori più stretti di fatti penalmente rilevanti anche per sé, mentre rendeva dichiarazioni confessorie in relazione a gravi reati descrivendo accadimenti, circostanze specifiche, ruoli soggettivi e contributi individuali, dovesse – proprio in quei contesti – accusare ingiustamente o millantare privilegiati rapporti con Tassone con il quale, invece, aveva tutto l’interesse a coltivare il rapporto personale in ragione della utilità che avrebbe potuto conseguire.

È possibile che Buzzi, nel dialogare con le persone a lui più vicine, abbia sovrapposto profili fattuali diversi, abbia in buona fede comunicato inesattezze o approssimazioni su singoli aspetti o su specifiche circostanze, abbia caricato di enfasi i fatti descritti, ma ciò non consente affatto di ritenere soggettivamente ovvero intrinsecamente inattendibili Buzzi e il contenuto del dichiarato oggetto di captazione.

Ciò vale soprattutto se, come nel caso di specie, non solo i dialoghi intercettati sono stati confermati dallo stesso Buzzi in dibattimento, ma esistono indubbi riscontri alle dichiarazioni captate, puntualmente indicati dai giudici di merito.

Al di là di specifici profili, su cui pure si dirà, i giudizi di merito, ma soprattutto il Tribunale, hanno puntualmente risposto agli argomenti poi riproposti dall’imputato con il ricorso per cassazione (pagg. 2190 e ss. della sentenza di primo grado).

Si è evidenziato che:

a) Tassone era il soggetto che poteva assicurare a Buzzi i profitti derivanti dalle gare relative ai lavori per la potatura degli alberi e per la pulizia degli arenili;

b) Tassone, dopo aver rivendicato il 6.5.2014 la competenza del X dipartimento a decidere in materia di litorale”, il 10.5.2014 incontrò Buzzi, da cui fino a qual momento era stato ignorato (pag. 2181 sentenza primo grado);

c) l’incontro si tenne dopo che l’imputato, appena due giorni prima, aveva ricevuto da Buzzi un contributo di 5.000 euro senza causale (pag. 2126 sentenza primo grado);

d) all’esito di quell’incontro, Buzzi, interloquendo con i suoi collaboratori, fece riferimento non solo a notizie già note (la notizia di gara riservata alle cooperative, l’importo delle somme stanziate) ovvero a previsioni poi non completamente avveratisi (l’aggiudicazione del servizio in una zona del territorio piuttosto che un’altra, l’assegnazione di uno dei lotti alla cooperativa Villa Maraini, poi in realtà aggiudicato alla cooperativa “la XII Cooperativa” dello stesso gruppo – pag. 2181 sentenza Tribunale), ma spiegò il senso di quell’incontro, cioè quello di avere ricevuto dal Presidente di quel Municipio sostanziale conferma dell’importo erogato, di aver saputo il numero delle gare e delle imprese invitate alla gara (pag. 205 sentenza appello che richiama il progressivo n. 4394 del 13.5.2014);

e) fu Tassone, evidentemente interessato, a sollecitare il 14.5.2014 un nuovo incontro con Buzzi ed a chiedere ed ottenere da Buzzi una copia del bando revocato, segno dell’interesse dell’imputato e del suo ruolo non di mero ricettore passivo delle richieste di Buzzi;

f) a Tassone fu fatta pervenire da Buzzi la lista delle imprese che dovevano essere invitate per la pulizia degli arenili, elemento, quest’ultimo, rivelatore del coinvolgimento dell’imputato.

Si tratta di inferenze che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non sono basate solo sugli esiti delle conversazioni intercettate, essendo state queste, come è stato sottolineato dai giudici di merito, riscontrate dalle dichiarazioni dello stesso Buzzi e dalla documentazione acquisita e non smentite dai contributi probatori dai testimoni della difesa che, secondo la Corte, non hanno “aggiunto nulla … per scagionare l’imputato”.

Si è chiarita la interferenza temporale e la connessione obiettiva fra i dialoghi intercettati e la documentazione relativa alle procedure di affidamento:

a) il 19.5.14, cioè tre giorni dopo l’incontro tra Buzzi e Tassone al cui esito il primo disse che” Tassone era nostro”, il X Municipio individuò le imprese da invitare per la potatura del tratto di strada Castelfusano-via del Mare;

b) il 22.5.14 il X Municipio emise la determina di impegno di 474.000 per pulire le spiagge di Castelporziano così preparando il terreno ai successivi inviti;

c) il 23.5.2014 vi fu l’aggiudicazione provvisoria alla 29 giugno dei lavori per la potatura degli alberi;

d) il 12.6.2014 fu pagata almeno una parte del prezzo della corruzione; sul punto, le conversazioni sarebbero riscontrate dalle stesse dichiarazioni di Buzzi, secondo cui egli consegnò 6.550 euro quel giorno a Solvi nonché dalla annotazione sul libro della contabilità della Cerritto proprio della somma in questione, seppure in data 13.6.2014, cioè il giorno dopo;

e) l’11.7.2014 fu intercettata la conversazione da cui è stata tratta la prova della consegna a Tassone della lista, predisposta da Buzzi, delle imprese da invitare per la gara relativa ai lavori di pulizia del litorale;

f) il 31.7.2014 fu affidato alla cooperativa 29 giugno il servizio di pulizia degli arenili;

g) l’1.8.2014 Buzzi riferì a Guarany ” abbiamo preso le potature. Ora abbiamo preso le spiagge… li comandano in due, Tassone e D’Ausilio”.

18.6. Rispetto a tale quadro di riferimento, il motivo di ricorso, da una parte, tende, attraverso il vizio di motivazione, a rivisitare il “peso” probatorio dei singoli elementi, sollecitando una diversa ricostruzione fattuale, e, dall’altra, non si confronta con il testo delle sentenze.

Quanto al tema degli atti contrari ai doveri di ufficio, si insiste sul tipo e sull’oggetto delle informazioni che Tassone avrebbe fornito a Buzzi in ordine alle procedure amministrative relative alla due gare, sul fatto che esse fossero già in possesso di Buzzi, sulle imprecisioni in cui Buzzi sarebbe incorso nelle conversazioni; e tuttavia non si considerano le risposte puntigliose fornite dal Tribunale in ordine alla sostanziale inesistenza delle dedotte imprecisioni ovvero alla accessorietà di esse (si è sottolineato come gli importi a cui fece riferimento Buzzi nel suo “dialogare” non fossero troppo diversi da quelli effettivi, al come la “XII Cooperativa” fosse in realtà una impresa dello stesso gruppo di quella indicata da Buzzi; in verità anche l’assunto secondo cui Buzzi avrebbe erroneamente indicato nella conversazione n. 4394 che gli inviti erano prossimi ad essere inviati è smentito dalla lettura del contenuto di quella conversazione, integralmente richiamato dal Tribunale, da cui emerge che Buzzi era perfettamente consapevole dell’invio già compiuto di quegli inviti), ovvero non si considera il dato obiettivo che in quegli in incntri si parlò delle gare e che – l’imputato fornì, anche solo in via confermativa, notizie, anche solo in parte non conosciute, che non aveva ragione di diffondere.

Si ripropone la questione della consegna da parte di Buzzi dell’elenco delle imprese che avrebbero dovuto essere invitate per la gara relativa ai lavori per le spiagge e della possibile ricostruzione alternativa difensiva, senza considerare, anche in questo caso, la precisa ricostruzione compiuta dal Tribunale e la adeguata risposta della Corte di appello che ha indicato, richiamando una ulteriore conversazione (la n. 71835 del 21.7.2014), la ragione per cui si è ritenuta raggiunta la prova del fatto in questione e, dunque, della consegna di quella lista.

Si è argomentato lungamente sul rapporto tra Solvi e Tassone, sul peso – in realtà accessorio – della testimonianza di Storri, sul fatto che la Corte avrebbe sul punto meramente recepito il contenuto della sentenza con cui è stata definita la posizione di Solvi; il ragionamento dei giudici di merito, lungi dal ripiegare pigramente sul fatto accertato con la sentenza di condanna per Solvi, che pure non può giuridicamente costituire un fatto irrilevante, mostra una propria tenuta argomentativa autonoma.

In realtà, a fronte di un motivo di ricorso articolatissimo, nulla è stato tuttavia dedotto:

a) sul perché Tassone decise di incontrare Buzzi – che fino a quel momento non aveva prestato attenzione nei suoi riguardi – proprio dopo aver rivendicato la propria competenza “sul litorale” ed avere ricevuto un contributo di 5.000 euro;

b) perché Tassone chiese ed ottenne da Buzzi la copia del bando revocato;

c) perché Tassone chiese di incontrare Buzzi nuovamente il 16.5.2014 e quale fosse l’interesse dell’imputato; d) perché Tassone decise di farsi consegnare la lista delle imprese da invitare e perché durante quegli incontri decise di fornire informazioni a Buzzi su quelle gare.

Ne consegue l’infondatezza anche sul punto del motivo di ricorso.

18.7. A non diverse conclusioni deve giungersi anche per quel che concerne il tema delle utilità ricevute. In relazione a conversazioni dal contenuto obiettivamente chiaro, puntualmente riportate dai giudici di merito (conversazione del 16.5.2014), i quali hanno spiegato in modo coerente e non manifestamente illogico:

a) perché non sarebbe decisiva la conversazione del 13.5.2014 in cui la somma da destinare a Tassone sembrerebbe essere diversa e minore;

b) come il prezzo della corruzione fu di 30.000 euro; c) che parte della somma fu consegnata, a dire dello stesso Buzzi, il 12.6.2014 a casa di Solvi (ambientale 10089 richiamata dalle sentenze, di cui si è detto), si è sostenuto che:

1) Buzzi avrebbe prelevato quella somma con quelle annotazioni per giustificare proprie appropriazioni di denaro;

2) comunque quella somma, ove pure consegnata, avrebbe avuto una causale diversa, quella cioè di un contributo per la campagna elettorale europea;

3) al più la somma – comunque sconnessa da un qualsiasi atto funzionale – sarebbe stata di 5.000 euro;

4) non vi sarebbe la prova che la somma fu davvero consegnata a Solvi e da questi girata a Tassone;

5) a differenza di quanto dichiarato da Buzzi – secondo cui questi consegnò a Solvi 6.500 euro – nella contabilità occulta della Cooperativa 29 giugno risultava sì un’annotazione della somma in questione, ma solo nel giorno successivo;

6) a seguito di una perquisizione domiciliare presso l’abitazione del ricorrente non fu trovato sostanzialmente nulla;

7) nessuna movimentazione bancaria sarebbe stata registrata per Tassone quanto alla cifra di 30.000;

8) nessun elemento comproverebbe che Solvi, incassata la tangente, l’abbia poi consegnata a Tassone;

9) lo stesso Testa aveva dichiarato che mai Tassone era stato destinatario di tangenti;

10) Buzzi era rimasto silente con la Chiaravalle in ordine alle ragioni del suo incontro con Solvi.

Anche in questo caso, valgono le stesse considerazioni già esposte. Il motivo di ricorso tende a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale e comunque non inficia la portata probatoria complessiva a fondamento del giudizio di penale responsabilità.

Escluso, per le ragioni già indicate, che Buzzi in quelle conversazioni abbia raccontato il falso ed escluso che vi siano motivi per ritenere che lo stesso Buzzi sia inattendibile nella parte in cui ha confermato il contenuto di quelle conversazioni intercettate, aggiungendo di avere consegnato a Solvi il 12.6.2014 la somma di euro 6.500; considerate, inoltre, l’annotazione sul libro contabile della Cerritto proprio di 6.500 euro, seppur avente data 13.6.2014, cioè il giorno successivo a quello indicato da Buzzi, nonché l’intercettazione telefonica del 12.6.2014, quella tra Buzzi e Chiaravalle, interpretata correttamente in senso confermativo dell’assunto accusatorio, traspare la genericità del motivo di ricorso, perché basato su argomentazioni che attengono a segmenti fattuali non decisivi, perché finalizzato a proporre una ricostruzione alternativa delle emergenze processuali senza tuttavia indicare specifiche fratture logiche della motivazione o precise carenze motivazionali, quanto agli elementi portanti del ragionamento probatorio.

Le discrasie logiche ovvero le carenze motivazionali eventualmente rilevate non assumono rilevante valenza perché non hanno decisività, sono cioè inidonee ad incidere il compendio probatorio ed ad incrinarne la capacità dimostrativa.

18.8. È infondato il settimo motiva di ricorso, relativo alla mancata riconduzione dei fatti alla fattispecie di cui all’art. 346-bis cod. pen.

Secondo il ricorrente, sarebbe viziata l’affermazione della Corte secondo cui le condotte dell’imputato rientrerebbero nei poteri funzionali del Presidente del X Municipio di Roma Capitale; si evidenzia, invece, che le norme richiamate (erroneamente indicate dalla Corte) dello Statuto di Roma Capitale non riguarderebbero i poteri del Presidente, ma quelli della Giunta municipale.

Dalle norme in questione e, soprattutto, dall’art. 27 dello Statuto, emergerebbe che il Presidente del Municipio non aveva nessun potete funzionale in materia di procedure d’appalto, la cui gestione era attribuita alla dirigenza amministrativa ai sensi dell’art. 107 T.U.E.L.

Non essendo stato provato nemmeno che l’imputato abbia posto in essere, verso soggetti terzi, una qualche forma di ingerenza connaturata – direttamente o indirettamente – ad un potere funzionale del pubblico ufficiale, seppur generico, non sarebbe configurabile il delitto di corruzione.

Secondo la stessa Corte di appello Tassone avrebbe al più esercitato solo una “mera influenza” sull’aggiudicazione delle due gare e tale comportamento, si assume, sarebbe riconducibile all’art. 346-bis cod. pen.

L’assunto non può essere condiviso.

Si è già detto di come la Corte di cassazione abbia in più occasioni affermato che il delitto di corruzione appartiene alla categoria dei reati “propri funzionali”, perché elemento necessario di tipicità del fatto è che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell’ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto; nel senso che occorre che essi siano espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata da quest’ultimo.

Non ricorre il delitto di corruzione se l’intervento del pubblico ufficiale, in esecuzione dell’accordo illecito, non comporti l’attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio ovvero non sia in qualche maniera a quest’ultimo ricollegabile, e, invece, sia destinato a incidere nella sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale.

Ai fini della configurabilità del reato di corruzione non è cioè determinante il fatto che l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio sia ricompreso nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, essendo necessario e sufficiente che si tratti di atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli abbia o possa avere una qualche possibilità di ingerenza, sia pure di mero fatto In particolare, si è asserito che, ai fini della sussistenza del delitto di corruzione, è sufficiente una generica competenza dell’agente, derivante dalla sua appartenenza all’ufficio pubblico, quando questa gli consenta in concreto una qualsiasi ingerenza (o incidenza) illecita nella formazione o manifestazione della volontà dell’ente pubblico, culminante nell’emanazione dell’atto.

Tale competenza non va, peraltro, necessariamente riferita all’atto terminale del procedimento amministrativo, assumendo rilievo in relazione a qualsiasi segmento (anche non formalizzato) della serie procedimentale, attesa la forza esponenziale che il comportamento (non quindi l’atto) assume ai fini della realizzazione del reato previsto dall’art. 319 cod. pen.

In definitiva, alla nozione di “atto di ufficio” non può essere ricondotta la condotta commessa “in occasione” dell’ufficio, che perciò non concreti l’uso di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell’agente.

Nel caso di specie, è necessario fare riferimento ai commi, 23 e 24 dell’art. 27 dello Statuto di Roma Capitale, che stabiliscono che la Giunta del Municipio, presieduta dal Presidente del Municipio, “collabora con il Presidente del Municipio, in attuazione degli indirizzi generali del Consiglio, nel governo del Municipio e opera attraverso deliberazioni collegiali. In particolare, la Giunta compie tutti gli atti rientranti nelle funzioni di indirizzo e di controllo politico- amministrativo che la legge, lo Statuto o i regolamenti di Roma Capitale disciplinanti l’ordinamento del Municipi non attribuiscano alla competenza del Consiglio o del Presidente del Municipio (…).

La Giunta del Municipio, anche tramite i singoli Assessori, impartisce ai dirigenti le necessarie direttive ai fini dell’espletamento dei compiti loro assegnati nel rispetto degli atti di indirizzo emanati dal Consiglio e del principio di distinzione delle competenze e delle attribuzioni tra organi di governo e dirigenza”.

Dunque, Tassone, in qualità di Presidente del Municipio e della Giunta del Municipio (comma 21 dell’art. 27 in questione) era competente ad impartire le direttive necessarie alla dirigenza per l’espletamento dei compiti a questa assegnati.

In tale quadro di riferimento, assume rilevante valenza quanto indicato dalla Corte di appello e, cioè, che Tassone, il Municipio e la dirigenza, a tacer d’altro, recepirono la lista, predisposta da Buzzi, delle imprese da invitare alla gara per la pulizia delle spiagge.

Dunque, un atto su cui l’imputato aveva ed ebbe diretta influenza per ragioni di competenza; dunque, diversamente dagli assunti del ricorrente, non una mera sollecitazione ad un soggetto terzo, ma una condotta inerente la propria competenza.

Ne deriva l’infondatezza del motivo.

18.9. L’ottavo motivo, relativo alla dosimetria della pena ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche, è inammissibile per le stesse ragioni indicate per il coimputato Coratti, alle quale si rinvia.

18.10. Quanto al nono motivo, inerente la condanna al pagamento di una somma a titolo di provvisionale nei confronti di Roma Capitale e del Ministero dell’Interno, si rinvia al paragrafo sulle statuizioni civili.

18.11. Infondato è anche il decimo motivo di ricorso, quanto alla disposta confisca di euro 30.000, avendo la Corte spiegato come la somma in questione coincida con il prezzo pattuito della corruzione.

18.12. Il motivo di Testa è infondato.

È infondata la prima parte del motivo con il quale si dubita della realizzazione della condotta incriminata da parte di Tassone; al riguardo, a parte la considerazione che si tratta di questioni in fatto, sono esaustivi gli argomenti già svolti in riferimento ai motivi di Tassone.

E’ infondata anche la seconda parte del motivo, con cui il ricorrente censura la sentenza per aver ritenuto dimostrato il suo concorso nel reato.

Innanzitutto, va considerato che viene richiesta una nuova e diversa valutazione del materiale probatorio, in particolare quanto ai rapporti di Testa con il Tassone, proponendosi la rivalutazione di una conversazione intercettata e delle dichiarazioni del testimone Carletti, offrendosi anche una interpretazione del possibile diverso contenuto della documentazione che il ricorrente aveva consegnato a Solvi.

Inoltre, nel proporre una diversa valutazione, il motivo non tiene conto della specifica risposta sulle stesse deduzioni da parte della Corte di appello, in particolare quanto agli elementi che, in contrasto con quanto ritenuto dal testimone citato, dimostravano i contatti tra Testa e Tassone anche dopo il 12 aprile 2014.

Si tratta, quindi, di un motivo, per tale seconda parte, non deducibile ex art. 606 cod. proc. pen. perché propone questioni attinenti al merito ed è comunque inammissibile per genericità perché non si confronta con il contenuto della sentenza impugnata.

Per Testa e Buzzi, che non ha impugnato la condanna per tale reato, va comunque esclusa la aggravante della agevolazione mafiosa per le ragioni già dette e per quelle che saranno in seguito esposte quanto alla esistenza dell’associazione mafiosa.

19. Corruzione di Magrini Guido, Pedetti Pierpaolo, Ozzimo Daniele (capo 9 del secondo decreto) e turbative delle procedure negoziate per i servizi di assistenza (capi 10 ed 11 del secondo decreto).

19.1. Gli imputati Buzzi, Garrone, Caldarelli, Dì Ninno, Nacamulli, Carminati, Coltellacci, Bolla, Magrini e Pedetti sono stati condannati per il reato di corruzione di cui al capo 9 del secondo decreto.

Buzzi, Garrone, Caldarelli, Di Ninno, Nacamulli, Carminati, Coltellacci, Bolla avrebbero ottenuto dai pubblici ufficiali Guido Magrini, direttore del Dipartimento delle Politiche Abitative della Regione Lazio, Pierpaolo Pedetti, consigliere comunale e presidente della VII Commissione Patrimonio Politiche abitative, e Daniele Ozzimo (per il quale si è proceduto separatamente), assessore alla casa del Comune di Roma («il primo, in violazione dei doveri di imparzialità con riguardo alla tempistica con l’adozione della Determinazione G05811 con cui sono stati destinati oltre 7 milioni di euro per realizzare interventi per contrastare il disagio abitativo, il secondo ed il terzo con varie attività istituzionali») il rinnovo dei servizi di assistenza di emergenza alloggiativa a favore della Eriches a valori sovradimensionati (euro 24,30 “pro capite” al giorno – per un valore complessivo di oltre 5 milioni di euro in un anno), in cambio dell’acquisto, effettuato da Buzzi in concorso con i suoi collaboratori, di 14 appartamenti di proprietà della Coop Deposito Locomotive San Lorenzo per consentirne il salvataggio finanziario.

Sarebbe stato stipulato un accordo testualmente finalizzato al salvataggio da parte della Eriches della cooperativa Deposito Locomotive, mediante l’acquisto di 14 appartamenti, in cambio del rinnovo della convenzione in atto tra Comune e la Eriches sull’emergenza alloggiativa per l’anno 2014 al prezzo dell’anno precedente, come sopra riportato.

L’accordo tra Magrini, Ozzimo e Buzzi sarebbe stato raggiunto nel corso di un incontro con Magrini il 12 novembre 2013, al quale Buzzi fece partecipare anche Bolla e Coltellacci.

Successivamente, secondo i giudici di merito, attraverso la turbativa delle gare di cui ai capi 10) e 11) del secondo decreto, Buzzi avrebbe inquinato le procedure indette dal funzionario Barletta a seguito dell’intervento del Servizio Ispettivo del Mef, che aveva rilevato l’anomalia della assegnazione dei servizi in questione mediante proroghe; in tal modo lo stesso Buzzi si sarebbe assicurato la prosecuzione di queste attività di assistenza anche per l’ulteriore periodo agosto-dicembre 2014.

Tutti gli imputati, salvo Buzzi, hanno proposto ricorso.

19.2. Sono fondati i ricorsi di Caldarelli, Carminati, Di Ninno, Garrone, Nacamulli e Pedetti e vanno invece rigettati i ricorsi di Coltellacci, Bolla e Magrini.

Dai fatti esposti nelle sentenze di merito, risulta che:

– gli accordi finalizzati alla operazione di salvataggio finanziario della Deposito Locomotive, da realizzare con l’acquisto di 14 appartamenti, erano iniziati con il contatto tra Magrini e Buzzi del 9 novembre 2013, intercettato dagli inquirenti; dal contenuto di tale colloquio si comprende che vi era già stata una valutazione anche da parte di Ozzimo sulla opportunità di tale operazione;

– Buzzi l’11 novembre aveva riferito a Coltellacci dell’appuntamento preso con Magrini per tale questione; – il 12 novembre Buzzi aveva informato Magrini che, non potendo allontanarsi dai propri uffici – ove era in corso una verifica della Guardia di Finanza- all’appuntamento sarebbero andati per conto suo («ti mando») Bolla Claudio e Coltellacci Sandro, – dopo la riunione, Bolla aveva comunicato a Buzzi l’esito dell’incontro, facendo riferimento all’intesa di Magrini con Ozzimo ed alla disponibilità dei fondi;

– i succcessivi contatti intercettati tra Buzzi, Magrini ed Ozzimo sarebbero ulteriormente esplicativi nei riferimenti all’intervento di Buzzi per il salvataggio della Cooperativa;

– il 18 novembre Buzzi aveva riferito a Coltellacci i termini dell’accordo;

– il 19 novembre vi era stato un incontro tra Buzzi e Pedetti in cui era stato esplicitato il riferimento all’operazione in questione;

– sempre il 19 novembre, Buzzi aveva informato dei termini dell’accordo Bugitti, Garrone, Caldarelli, Bolla e anche Carminati, affermando testualmente «Magrini ha trovato 16 milioni di euro che li dà a Ozzimo … l’accordo è questo: lui ce rifà la convenzione per il 2014 a 24 euro e… senza riduzioni e noi compriamo le case»; nel corso del più ampio dialogo, venivano spiegati vari dettagli significativi dell’operazione;

– il 21 novembre 2013 veniva firmato il contratto preliminare tra Buzzi, rappresentante del consorzio Eriches 29, e Santino Dei Giudici, rappresentante della Deposito Locomotive San Lorenzo, avente ad oggetto la vendita di 14 appartamenti.

In tale contratto era espressamente prevista la clausola condizionale (che appare corrispondere a quanto aveva suggerito la Garrone nel corso dell’incontro del 19 novembre) di «rinnovo allo stesso prezzo pro die pro capite per il 2014 della convenzione per l’esecuzione del servizio d’emergenza alloggiativa entro la data del 20 dicembre 2013 da parte di Roma Capitale nei confronti del promissario acquirente all’avveramento della quale era specificatamente condizionata l’esistenza stessa dell’atto senza possibilità di rivalsa della promittente venditrice»;

– le successive attività di adozione delle determine e di non interruzione del servizio di emergenza alloggiativa corrispondono al tempo di stipula del contratto definitivo; in particolare, il 17.12.2013 la Giunta Regionale adottava la delibera n. 470 che prevedeva il finanziamento di 16.500.000 di euro in favore di Roma Capitale e di altri comuni per esigenze abitative;

– il 19.12.2013 veniva emessa la determina n. 704 con cui si stabiliva la non interruzione del servizio affidato al Consorzio Eriches 29 fino al 28.2.2014 al corso unitario di 24, 30 euro;

– il 20.12.2013 Magrini firmava la determina n. G05811 con cui veniva destinata la somma di euro 7.182003 a Roma Capitale “per la realizzazione di interventi per il contrasto del disagio abitativo”; nella stessa giornata Eriches stipulava il contratto definitivo per l’acquisto dei 14 appartamenti e 3.362.000 euro versando 901.000 euro.

Su tale quadro si innesta, l’ammissione dei fatti da parte di Buzzi.

19.3. La particolarità di questa vicenda, caratterizzata dalla finalità politica di salvataggio della cooperativa (la Corte di appello ha sottolineato come tale salvataggio costituisse la remunerazione per Magrini, Ozzimo e Pedetti) comporta una più stringente valutazione delle condotte dei concorrenti, non essendovi stato un “tornaconto” strettamente personale.

Inoltre, proprio perché la modalità di remunerazione dei pubblici ufficiali corrotti fu caratterizzata da una attività complessa, ovvero l’acquisto degli immobili alle date condizioni, vi sono state attività che, connesse alla gestione dell’operazione economica, non possono essere riferite alla fase di commissione del reato, che di per sé è stato realizzato con la conclusione del contratto di acquisto e l’impegno alle attività in favore di Buzzi e dei complici.

19.4. Magrini propone motivi infondati. Il secondo motivo è infondato in quanto non vi è alcun rilevante difetto di correlazione tra accusa iniziale e fatti accertati in sentenza.

L’assunto difensivo è basato su un dato formale, ancorché obiettivo, riguardante l’apparente rigida limitazione della condotta attribuita nella imputazione al ricorrente e relativa alla adozione della determina G05811, ma è indubbio che la contestazione, per come descritta nel complesso dei fatti, fosse chiaramente riferita al complessivo accordo di scambio tra l’intervento in favore della cooperativa Deposito Locomotive e i provvedimenti finalizzati al rinnovo dei servizi di interesse di Eriches.

Tali accuse sono state espressamente contestate e proprio rispetto a queste sono state sviluppate le difese, di cui la Corte di appello ha tenuto conto nella motivazione. Non era necessario che l’imputazione formale riportasse analiticamente tutte le circostanze significative, né era precluso alla decisione di appello valutare come rilevanti, nell’ambito delle attività necessarie per offrire a Buzzi l’utilità che gli era stata promessa, circostanze che il giudice di primo grado non aveva inteso valorizzare, fermo restante il nucleo centrale del fatto in contestazione.

Anche il terzo motivo è infondato. Il ricorrente propone una valutazione del materiale probatorio per una diversa ricostruzione in fatto, finalizzata a smentire il collegamento tra gli accordi emersi dalle intercettazioni e le attività del Magrini.

Si tratta della ripetizione in questa sede del tema del “nesso “funzionale” tra i fondi stanziati dalla Regione (erogati materialmente dopo gli arresti degli imputati) e il rinnovo delle convenzioni alle Eriches, asseritamente, si assume, frutto di una scelta politica che rispondeva all’esigenza di superare i “residence ghetto” e non già di quella di favorire le cooperative di Buzzi.

Su tale specifico profilo la sentenza di appello si è ampiamente e logicamente pronunciata, affrontando anche il tema della illegittimità dei rinnovi delle convenzioni con Buzzi.

La richiesta di diversa valutazione dei fatti, con nuovo apprezzamento di prove, non è consentita in questa sede e, comunque, va considerato come non sia stato nemmeno prospettato un concreto elemento per ritenere non attendibile il contenuto delle conversazioni intercettate e, dunque, il contenuto inequivoco dell’accordo corruttivo relativo alio scambio tra il salvataggio della Cooperativa Deposito Ferrovieri ed i benefici per Buzzi.

Il motivo, infine, sviluppa anche una critica sull’esservi differenza tra le sentenze dei due gradi di giudizio che avrebbero concluso diversamente sulla individuazione del momento di perfezionamento dell’accordo corruttivo, in un caso con la telefonata del 9/11 e nell’altro con l’incontro del 12/11; sostiene inoltre il ricorrente che mancherebbe la prova del contenuto di tale incontro. Si tratta, però, di valutazioni in fatto e, comunque, manifestamente infondate in considerazione di quanto esposto dalla sentenza. Non diversamente, è infondato il quarto motivo di ricorso.

La qualificazione dei fatti da parte dei giudici di merito è senz’altro corretta. Nella specie, si è in presenza di una corruzione propria, ex art. 319 cod. pen., in quanto l’accordo corruttivo riguardava l’affidamento e le condizioni dell’affidamento dei servizi alla Eriches in chiara violazione dei doveri di ufficio perché legata sul piano causale all’intervento di Buzzi per il salvataggio della cooperativa Locomotive San Lorenzo.

In applicazione dei principi in precedenza indicati, nel caso di specie, il patto corruttivo non è “muto”: il suo oggetto è stato ricostruito dai giudici di merito, nel senso che l’impegno da parte dei pubblici ufficiali era quello di “assicurare” un risultato specifico attraverso il necessario compimento di una serie di atti contrari ai doveri d’ufficio, che involgevano distinti livelli politico – amministrativi e diversi soggetti che, nell’ambito delle loro rispettive posizioni – in seno alla Regione Lazio ed al Comune di Roma – dovevano garantire a Buzzi ed al suo gruppo il “Rinnovo allo stesso prezzo pro die pro capite per il 2014 della convenzione per l’esecuzione del servizio d’emergenza alloggiativa entro la data del 20 dicembre 2013”; ciò era necessario per il salvataggio della Cooperativa Locomotive San Lorenzo.

L’esatta ricostruzione del contenuto del programma obbligatorio che i pubblici ufficiali assunsero con il patto illecito, consente di ricondurre i fatti oggetto del processo al reato di corruzione propria. I pubblici ufficiali, assumendo un’obbligazione di risultato (garantire a Buzzi la continuità dei servizi alle condizioni favorevoli da questi indicate), rinunciarono in via preventiva ed assoluta ad ogni possibile valutazione comparativa tra possibili interessi concorrenti ed il perseguimento dell’interesse pubblico, in concreto condizionato e piegato alla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore.

L’interesse perseguito attraverso gli atti amministrativi che portarono a trasferire il denaro prima dalla Regione Lazio al Comune di Roma ed alla “gestione” degli accadimenti successivi – con particolare riguardo alla necessità di garantire a Buzzi la continuità del servizio (proroghe e procedure pubbliche contestate ai capi 10) e 11) – fu inquinato e condizionato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati, illegittimamente recepiti con l’accordo corruttivo volto al salvataggio della Cooperativa Locomotive San Lorenzo ed al perseguimento degli interessi politici sottesi.

La Corte ha spiegato in modo chiaro come l’operazione del salvataggio della cooperativa Deposito locomotive fosse connessa al rinnovo delle convenzioni.

19.5. Il ricorso di Coltellacci, che contesta la propria responsabilità per il reato in oggetto, è chiaramente infondato poiché è evidentemente mirato ad una diversa lettura delle risultanze processuali, non consentita in questa sede, pur se il ricorrente parla di «veri e propri travisamenti delle prove».

In realtà, Coltellacci non smentisce di avere partecipato alle varie fasi della operazione, giungendo sino all’acquisto diretto di appartamenti della cooperativa da salvare, ma afferma di non avere avuto consapevolezza dell’accordo intervenuto, ovvero che il proprio intento fosse solo quello di partecipare alla operazione «non già con animo corruttivo» per ottenere un maggior corrispettivo, «ma esclusivamente per evitare di essere estromesso al servizio in ambito consortile».

Non si tratta, quindi, di prove travisate ma di una richiesta, non consentita in questa sede, di nuova valutazione del merito; gli argomenti svolti, peraltro, si scontrano con una ricostruzione assolutamente logica della Corte di appello che considera giustamente significativa la partecipazione del Coltellacci all’incontro prodromico alla stipula del contratto che suggellò il patto corruttivo e, a dimostrazione della sua piena consapevolezza, la partecipazione all’acquisto degli immobili, ovvero proprio al pagamento del prezzo per ottenere i vantaggi.

19.6. Anche il terzo motivo di ricorso proposto nell’interesse di Bolla è infondato.

La sentenza impugnata individua condotte significative di un suo consapevole ruolo nella commissione della corruzione.

La Corte di appello ha spiegato che Bolla prese direttamente parte all’incontro, di cui si è detto, con Magrini del 12.11.2013, in sostituzione di Buzzi, e come, subito dopo detto incontro, informò questi della “disponibilità” di Magrini, del fatto che quest’ultimo avesse ribadito di avere già parlato con Ozzimo, della disponibilità dei 16 milioni euro e della necessità di farne una richiesta per poterne disporre con il bilancio.

È stata evidenziata inoltre la sua presenza all’incontro del 19.11.2013, in cui Buzzi esplicitò il patto corruttivo; si è chiarito come, nell’ occasione, l’imputato intervenne direttamente nel dialogo, dando espressi suggerimenti, sollecitando tutti (“qui bisogna correre”), manifestando dubbi, ribadendo l’importanza dell’accordo e manifestando il proprio pieno coinvolgimento (pag. 215 – 216 sentenza impugnata).

L’imputato prese parte attivamente anche agli eventi successivi, consapevole del nesso che esisteva fra il rinnovo delle convenzioni e il salvataggio della cooperativa (riunione 7 gennaio e successive conversazioni intercettate).

La Corte di appello ha fatto discendere la responsabilità concorsuale dell’imputato valorizzando il fatto obiettivo che Bolla, diversamente dagli assunti difensivi, non fu occasionale ed inconsapevole spettatore di un generale ed articolato accordo corruttivo, ma si pose come diretto interlocutore di Buzzi e Magrini sia nella fase precedente, che in quelle contestuale e successiva alla conclusione del patto corruttivo.

Rispetto a tale quadro di riferimento, le censure dedotte si sviluppano sul piano della ricostruzione fattuale e sono sostanzialmente volte a sovrapporre un’interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai giudici di merito, piuttosto che a far emergere un vizio della motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen.

Secondo i principi consolidati dalla Corte di cassazione, la sentenza non può essere tuttavia annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148).

L’odierno ricorrente ha riproposto con il ricorso per cassazione la versione dei fatti dedotta in primo e secondo grado e disattesa in modo non manifestamente illogico dai giudici del merito, senza tuttavia confrontarsi con la motivazione del provvedimento impugnato, senza spiegare perché Bolla fosse sempre presente e costantemente informato, perché Buzzi dovesse inviare un inconsapevole estraneo a riunioni di importanza strategica in funzione della stipula dell’accordo corruttivo.

Ne discende il rigetto del motivo di ricorso.

19.7. Per Di Ninno e Garrone risulta fondato il motivo unico che rileva la grave carenza di motivazione sul loro ruolo nella commissione della corruzione.

Per Di Ninno, la Corte di appello ha ritenuto significativo il suo interessamento alla gestione finanziaria dell’acquisto degli appartamenti, ma non ha indicato nessun ruolo attivo nella fase rilevante per la commissione del reato, tanto è vero che si è fatto riferimento solo a quanto emerso successivamente alla data di consumazione della corruzione.

Per Garrone, la Corte ha ritenuto significativo il suo ruolo nel fissare quale dovesse essere il contenuto del contratto preliminare, ma anche nel suo caso la motivazione non ha individuato un momento di effettiva partecipazione all’accordo corruttivo.

Il ricorso comune di Garrone e Di Ninno, quindi, deve essere accolto e va disposto l’annullamento con rinvio per nuovo giudizio sulla sussistenza di un effettivo concorso nella commissione del reato, secondo le circostanze ed i tempi sopra indicati.

In ogni caso, deve escludersi l’aggravante dell’agevolazione mafiosa per quanto detto e per quanto si dirà in seguito in ordine alla esistenza dell’associazione mafiosa.

19.8. Sono fondati i rilievi di Caldarelli poiché dalla sua partecipazione alla riunione del 19 novembre viene tratta la conclusione che egli partecipò alla corruzione, ma la motivazione risulta carente in ordine al suo effettivo apporto, risultando solo che Buzzi ebbe a riferirgli i termini dell’accordo.

Ferma restata l’esclusione della aggravante della agevolazione mafiosa, va disposto rinvio per nuovo giudizio sulla sua responsabilità per tale reato.

19.9. Per quanto riguarda Nacamulli, è assorbente la decisione sul secondo motivo di ricorso, che impone l’annullamento senza rinvio della sentenza nei suoi confronti per tale imputazione.

Risulta che l’attività lavorativa del ricorrente nella cooperativa ebbe inizio nel gennaio 2014 e, quindi, che questi non ebbe alcun ruolo nella fase di commissione del reato; secondo la stessa Corte di appello il ruolo di Nacamuli sarebbe stato quello di “gestire” le scadenze della convenzione, recandosi spesso negli uffici dell’assessore Ozzimo e del Dipartimento.

Dunque, attività riferibili non alla commissione del reato, bensì alla mera gestione della convenzione che, con quella corruzione, era stata assicurata. Il reato di corruzione, nelle sue varie ipotesi, integra un reato a forma libera, plurisoggettivo, fondato sul “pactum sceleris” tra privato e pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio). Si tratta di un illecito che si sostanzia in condotte convergenti, tra loro in reciproca saldatura e completamento, idonee ad esprimere, nella loro fisiologica interazione, un unico delitto.

Da ciò consegue che il reato si configura e si manifesta, in termini di responsabilità, solo tra le parti dell’accordo illecito e se entrambe le condotte – del corrotto e del corruttore – in connessione indissolubile, sussistano probatoriamente; il reato si realizza alternativamente al momento dell’accettazione della promessa ovvero con il ricevimento effettivo dell’utilità.

Ciò che dunque deve essere processualmente accertato è se il pubblico ufficiale abbia accettato una utilità, se quella utilità sia collegata all’esercizio della sua funzione, al compimento di quale atto quella utilità sia connessa, se quell’atto sia o meno conforme ai doveri di ufficio.

Nel caso di specie, la Corte di appello non ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto indicati, atteso che pretende di attribuire a Nacamulli, in via postuma, la veste di parte di un accordo corruttivo pregresso, già concluso ed intercorso tra altri; la tesi è che un terzo, che non abbia concorso in qualunque modo alla conclusione del patto illecito, possa assumere la veste di parte di un negozio corruttivo preesistente solo in ragione del fatto che, conoscendo successivamente l’esistenza del patto illecito tra altri, si adoperi alla realizzazione dell’accordo corruttivo.

Si tratta di una conclusione tecnicamente non condivisibile.

La condotta del terzo, compiuta successivamente alla conclusione dell’accordo corruttivo intercorso integralmente tra altri e che non implica la novazione del precedente patto e la realizzazione di un nuovo patto corruttivo, ma che attiene alla sola fase esecutiva dell’accordo, non modifica la struttura del patto già concluso, né consente di aggiungere all’unico patto pregresso un nuovo contraente postumo; essa può assumere al più rilevanza penale in relazione ad altre fattispecie di reato (a titolo esemplificativo, favoreggiamento reale).

Pertanto, essendo evidentemente irrilevanti ai fini in questione gli altri incarichi che Buzzi avrebbe affidato in tale contesto al Nacamulli, la motivazione è assolutamente carente e, dalle sue premesse in fatto, risulta positivamente esclusa la responsabilità di Nacamulli nei cui confronti la sentenza per tale capo 9) deve essere annullata senza rinvio per non avere commesso il fatto.

19.10. Quanto alla posizione di Carminati, dei più ampio contenuto del suo motivo, va ritenuta infondata la questione relativa alla qualificazione del fatto nei termini di cui si è detto e va, invece, ritenuta fondata la doglianza in ordine alla mancata individuazione di una condotta di concorso nel reato.

Anche in questo caso, la motivazione si limita a dare atto della presenza del ricorrente in occasione degli incontri del 19 novembre, 3 gennaio e 12 febbraio.

In assenza di qualsiasi altra valutazione che non sia la mera indicazione di tali occasioni, è sufficiente rammentare che per gli ultimi due l’imputato si sarebbe limitato ad ascoltare le informazioni sulla operazione ormai già compiuta e, quanto alla presenza alla riunione del 19 novembre, la sentenza afferma semplicemente che Carminati fu presente ricevendo le informazioni sulla attività in atto, formulando osservazioni che, senza alcun approfondimento, non sembrano significare altro se non la presa d’atto di un accordo già intervenuto.

Anche in questo caso, quindi, manca una motivazione in ordine alla effettiva partecipazione alla corruzione, considerando che, pur con il particolare ruolo di Carminati nella decisione sulle strategie di intervento con metodi corruttivi, per la vicenda in questione va considerata la particolare genesi: non esecuzione dell’ordinario disegno corruttivo, ma accettazione di quella particolare proposta legata alla esigenza politica di salvataggio della cooperativa dei ferrovieri in fase di dissesto. Ferma restando l’esclusione della aggravante della agevolazione mafiosa, va disposto rinvio per nuovo giudizio sulla responsabilità per tale reato.

19.11. È fondato anche il motivo di ricorso presentato nell’interesse di Pedetti relativo al reato in questione: anche in questo caso, si è fatta discendere la prova della partecipazione del ricorrente alla corruzione da elementi riferibili ad una fase successiva alla conclusione del patto corruttivo (“si attivò per la realizzazione del programma corruttivo”: così testualmente la sentenza impugna a pag. 237).

Nell’ambito di una stringata motivazione, la Corte di appello, al di là del riferimento alla conversazione del 19.11.2013, ha valorizzato il dato, oggetto di separata imputazione, per cui Pedetti sarebbe intervenuto al fine dell’adozione del provvedimento di proroga del servizio di assistenza alloggiativa.

Va però considerato che, fermo restando quanto si dirà in ordine alla irregolarità degli affidamenti dei servizi, la Corte di appello non ha motivato espressamente sulla partecipazione effettiva di Pedetti alla corruzione, non chiarendo, da una parte, se il contributo che l’imputato avrebbe apportato nella fase esecutiva fosse stato già promesso da questi al momento della conclusione del patto corruttivo – atteso che, se così fosse, sarebbe configurabile la compartecipazione criminosa dell’imputato – ovvero fu compiuto in maniera avulsa e senza collegamento con il momento della stipula dell’accordo, e, dall’altra, in che misura possa essere desunta la prova del contributo concorsuale dalle conversazioni intercettate il 19.11.2013.

A differenza della posizione giuridica dell’imputato Nacamulli, la cui condotta non solo è successiva alla stipula del patto corruttivo, ma è slegata strutturalmente da questo, avendo avuto inizio il suo coinvolgimento nel 2014, per Pedetti si impone invece l’annullamento con rinvio; in applicazione dei principi indicati, dovrà essere verificata la specifica consapevolezza e partecipazione alla corruzione commessa in una fase definita con la firma del contratto preliminare, come già detto.

19.12. Buzzi non ha proposto ricorso in ordine alla responsabilità ma, per le ragioni già dette, va pronunciato annullamento in ordine all’aggravante dell’agevolazione mafiosa.

19.13. L’accordo illecito relativo al salvataggio della Cooperativa ferrovieri, nella ipotesi di accusa fatta propria dai giudici di merito, aveva consentito alle cooperative di Buzzi di ottenere le proroghe dei servizi relativi alla accoglienza di 580 persone sul territorio e dei servizi di assistenza nei residence di Valcannuta e Montecarotto, sostanzialmente alle stesse condizioni.

Dopo tale fase vi era stato, però, l’intervento del Ministero dell’Economia che, rilevata l’anomalia del costante ricorso alle proroghe, aveva imposto di procedere all’affidamento dei servizi mediante procedure competitive.

Il Comune di Roma si era adeguato ed aveva emanato dei bandi per affidare questi servizi: in particolare, si era proceduto in via di urgenza per lo svolgimento dei servizi nella seconda metà del 2014, facendo ricorso a procedure negoziate in attesa dello svolgimento di una gara europea, che richiedeva tempi più lunghi.

Per potere continuare a svolgere tali prestazioni, secondo i giudici di merito, Buzzi ed i soggetti a lui collegati avrebbero commesso le turbative contestate ai capi 10 ed 11 del secondo decreto.

Il capo 10, per il quale sono stati condannati Buzzi, Bolla, Carminati, Nacamulli e Pedetti, riguarda la turbativa della procedura negoziata per l’accoglienza di 580 persone dal 1° settembre 2014 al 31 dicembre 2014, per un importo di circa euro 1,6 milioni.

Il capo 11, per il quale sono stati condannati Buzzi, Bolla, Carminati e Nacamulli, riguarda la turbativa della procedura negoziata per l’assegnazione dei servizi presso i residence di Valcannuta e Montecarotto, per un importo di circa euro 1,6 milioni.

Secondo l’accusa Buzzi, avendo saputo che erano state attivate tali procedure negoziate, si attivò per indurre i possibili interessati a desistere dalla partecipazione alle procedure, condizione che gli avrebbe consentito di non avere concorrenti e mantenere sicuramente la gestione dei servizi che riteneva “propri”.

19.14. La ricostruzione dei fatti, per quanto di rilievo, è nei termini che seguono.

Il dirigente del Dipartimento politiche abitative aveva inviato una lettera di invito a quindici esercenti servizi di emergenza ed assistenza a persone in difficoltà, iscritti nel registro unico cittadino.

Dalla trascrizione di intercettazioni operata dalla sentenza di appello e dalle connesse verifiche risulta che: – il 14 luglio 2014 Buzzi aveva appreso dei bandi predisposti dal dirigente Barletta, considerata una persona non influenzabile, tanto da definirlo espressamente come «un osso durissimo».

Solo il giorno successivo Buzzi aveva appreso che «è una manifestazione d’interesse non è una gara» e che il Dipartimento politiche abitative aveva inviato una lettera di invito a quindici esercenti il dato tipo di servizi;

– Buzzi considerava i servizi indicati al capo 10, quelli per l’accoglienza di 580 persone, “propri”, con chiaro riferimento ad essere il loro affidamento, ovvero la loro prosecuzione, la contropartita del suo intervento in favore della Cooperativa Ferrovieri;

– i concorrenti più forti e, quindi, temibili erano stati da subito individuati dagli interlocutori nelle cooperative “un Sorriso”, “in Opera” e “il Cigno”; – Buzzi aveva inviato immediatamente un sms ai rappresentanti delle prime due con il contenuto «Ti dovrebbe essere arrivata dal dip politiche abitative una ricerca di mercato è un mio servizio dal 2010 vedi tu»;

– il responsabile di “In Opera” aveva risposto in termini di disponibilità ad assecondare Buzzi, chiarendo di volere rispettare i suoi ambiti ed invitandolo a ricambiare il favore in futuro;

– in un contatto con il responsabile di “La Cascina”, Buzzi aveva chiarito il proprio intento di mandare deserta la gara, anche in questo caso ribadendo la diversità delle attività, essendo “sua” «quello dei 580»;

– Nacamulli aveva affermato di avere avuto contatti diretti con Europe Consulting per non farla partecipare.

Il 21 luglio 2014 venivano presentate le manifestazioni di interesse; scaduto il termine alle ore 12, risultavano aver manifestato il loro interesse:

– per i servizi di accoglienza per 580 persone le cooperative Eriches 29, Un Sorriso (di Gabriella Errico) e In Opera (di Obradovic e Picarelli);

– per i servizi di via Montecarotto le cooperative Eriches 29, Un Sorriso, In Opera, Ambiente e Lavoro (di Giustozzi), Progetto Recupero (di Amore) e Osa Mayor;

– per i servizi di via Valcannuta le cooperative Eriches 29, Un Sorriso, In Opera, Ambiente e Lavoro, Progetto Recupero e Tre Fontane (del gruppo La Cascina di Ferrara e Zuccolo).

Proseguite le attività, il 13 agosto la commissione presieduta dal dirigente del dipartimento prendeva atto che unica offerente era stata la Eriches di Buzzi.

19.15. In definitiva, secondo l’accusa, Buzzi sarebbe riuscito ad evitare, mediante accordi illeciti, che altri operatori partecipassero alle procedure attivate dal Comune, in maniera tale da poter poi essere l’unico a presentare l’offerta e quindi aggiudicarsi le gare.

Tale operazione sarebbe stata posta in essere d’accordo con Carminati e con l’aiuto dei suoi collaboratori, nonché con il contributo, per alcune procedure, di Angelo Scozzafava, Pierpaolo Pedetti, Francesco Ferrara (dominus de La Cascina) e Tiziano Zuccolo, Presidente del Consorzio Casa della Solidarietà e Vice Presidente di Domus Caritatis (sempre del Gruppo La Cascina, cui facevano capo Domus Caritatis, Casa della Solidarietà, Osa Mayor, Tre Fontane).

Per questi due reati Buzzi non ha proposto appello, né ha formulato in questa sede motivi di ricorso.

Tutti gli altri imputati hanno proposto ricorso.

19.16. La decisione deve essere differenziata con riferimento alle due imputazioni in quanto, con riferimento ai due servizi oggetto della seconda, capo 11, la sentenza non offre una motivazione adeguata in ordine alla sussistenza del reato e, quindi, alla responsabilità dei singoli.

Anche per questi reati la prova dei fatti, pur in risposta alle deduzioni della difesa, è lasciata essenzialmente alla mera trascrizione di intercettazioni per le parti ritenute significative della turbativa che, in entrambi i casi, sarebbe consistita nella collusione per evitare la partecipazione di soggetti diversi dalla cooperativa di Buzzi.

In realtà, sia nella parte dedicata alla trascrizione delle intercettazioni, che in quella valutativa della posizione dei singoli imputati («5.9.2.2. Posizione di Bolla, Buzzi, Carminati, Nacamulli, Pedetti, Zuccolo»), mentre il riferimento è chiaro per quanto riguarda l’interessamento di Buzzi al servizio per la ospitalità di 580 persone, è invece generico per quanto riguarda le due gare del capo 11.

La premessa, del resto, è che l’accordo per l’acquisto degli immobili di cui al capo 9 prevedeva come contropartita per Buzzi la prosecuzione del servizio in questione al capo 10 e non quelli del capo 11: i messaggi e le conversazioni con i concorrenti avevano riguardato espressamente questo servizio, considerato “proprio” da Buzzi e dai complici, mentre i possibili riferimenti agli altri servizi erano stati solo indiretti.

Riporta la Corte di appello che, dopo il 21 luglio 2014, pervenute le manifestazioni di interesse, Buzzi si era attivato proprio perché erano state presentate le manifestazioni di interesse per l’accoglienza di cui al capo 10, ma non risulta — o non è stato indicato – un suo chiaro interessamento per quanto riguarda le altre gare; un riferimento appare rilevarsi nella conversazione tra Buzzi e Nacamulli relativa al problema della cooperativa Ambiente Lavoro di Giustozzi (“perché l’incontro è saltato, perché Ambiente e Lavoro sta alzando il livello” “Ambiente e Lavoro s’è candidato a Colombo, che è di Domus, Val Cannuta, che è nostro, Montecarotto che è nostro, Fioranello che è di Amore e basta. A tutte tranne 580”), dialogo al quale effettivamente fa seguito una richiesta a Solfanelli («Mandagli un sms e me lo ammorbidisci un po’ insomma»).

Ma, a parte che si tratta di conversazioni che non ricevono una effettiva valutazione della Corte di appello che, invece, le ha meramente trascritte nella decisione, da esse non si evincono sicuri elementi quanto alla specifica collusione per evitare la partecipazione di altri soggetti alle procedure del capo 11.

Con riferimento al capo 11, quindi, lo schema della ricostruzione della responsabilità di Buzzi e dei complici si esaurisce nel mero dato di fatto, riportato 231 Cr acriticamente, che la gara non ebbe altri partecipanti ed in una generica possibilità che vi fossero stati dei contatti.

Si tratta di elementi che sono, anche se posti in collegamento, del tutto generici per due ordini di ragioni. Innanzitutto, la stessa sentenza dimostra che le pressioni concrete riguardarono la diversa gara della emergenza dei 580 persone e non anche gli altri servizi, se non indirettamente.

In secondo luogo, la mancata partecipazione di altre imprese è un dato che da solo non può considerarsi determinante, senza la valutazione diretta delle ragioni di tale mancata partecipazione. In particolare, si deve tenere conto che proprio la sentenza ha rappresentato, mediante le trascrizioni delle conversazioni, che vi era una sorta di regola di rispetto reciproco da parte di alcuni operatori economici delle aree di attività di ciascuna di esse; questo rende il loro comportamento del tutto equivoco, potendo esservi stata una adesione spontanea di ciascun operatore a tale “regola”, al di fuori di una specifica collusione nel caso di specie.

19.17. Allo stato, quindi, concludendo prima per il capo 11, la motivazione è carente e si rende necessario il rinvio per nuovo giudizio perché, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata sostanzialmente descrittiva delle prove senza tuttavia una valutazione della loro portata, sia chiarito se sia possibile giustificare che anche per queste diverse gare vi fosse stata una collusione effettivamente idonea a produrre la turbativa.

Ai rilievi sulla configurabilità del reato vanno aggiunte anche le valutazioni dei motivi riferiti alla responsabilità individuale per il capo 11.

Qualora il giudice di rinvio dovesse ritenere di poter ricostruire la sussistenza del reato, ritenendo esservi stata una condotta di collusione tra Buzzi e le imprese concorrenti per alterare il risultato della assegnazione dei servizi, andrà valutata anche la responsabilità individuale di Nacamulli e Bolla.

Dalla esposizione del materiale probatorio risulta, con riferimento a Nacamulli, come i Giudici di merito abbiano sostanzialmente posto sullo stesso piano le attività di per sé non illecite di acquisizione di informazioni, e quelle, invece, di maggiore utilità nella necessaria valutazione ai fini del reato contestato, di contatto con i possibili concorrenti per indurli a desistere; si è poi valorizzata la consapevolezza dell’imputato della vicenda della Cooperativa Ferrovieri ma ciò, in realtà, attiene alla conoscenza della questione delle modalità di prosecuzione della gestione dei servizi del capo 10.

Dunque, per la specifica posizione del ricorrente, la sentenza non sembra indicare prove diverse da quelle relative al servizio per l’assistenza di 580 persone.

Anche per quanto riguarda Bolla, le conversazioni trascritte ed utilizzate a suo carico hanno immediata riferibilità alla vicenda del capo 10; in particolare, nel contatto tra Bolla con Europe Consulting – caso nel quale sicuramente l’imputato si era attivato personalmente per ottenere la desistenza del concorrente («io gli ho detto, per i 580 quello è nostro!»); si tratta di una attività riferibile alla turbativa del capo 10.

Ed ancora, lo stesso si desume con immediatezza dalla trascrizione della conversazione tra Bolla e Buzzi in presenza di Zuccolo. Quindi, in caso di conferma della sussistenza del reato di cui al capo 11, andrà individuato e fatto oggetto di specifica motivazione il ruolo in tale contesto svolto da Nacannulli e Bolla.

La stessa questione in ordine al ruolo specifico, invece, non si pone per quanto riguarda Carminati poiché la Corte di appello lo ha ritenuto responsabile per tale reato non per avere commesso singoli atti finalizzati alla turbativa, bensì per avere condiviso la strategia complessiva iniziata con la corruzione del capo 9.

In particolare, è stato correttamente interpretato in tale senso il rendiconto compiuto da Buzzi al Carminati delle attività in corso di svolgimento.

L’annullamento, in quanto riferito alla sussistenza del reato contestato al capo 11, comporta l’operatività dell’effetto estensivo ex art. 587 cod. proc. pen. e, quindi, giova anche a Buzzi.

19.18. Diversa, invece, la conclusione per il capo 10, per quanto riguarda la configurabilità del reato, potendosi sotto questo profilo generale considerare unitariamente le doglianze dei ricorsi.

È un dato di fatto acclarato, con riferimento al capo di imputazione numero 9, il forte interesse, anche per la notevole resa economica, di Buzzi per il servizio alloggiativo in favore delle 580 persone e, quindi, il forte allarme per la possibilità che, sulla scorta della attività del dirigente Barletta (definito «osso durissimo»), potesse arrivarsi ad una assegnazione di tale servizio secondo una regolare competizione.

I riferimenti alle pressioni nei confronti dei concorrenti perché desistessero dal partecipare ovvero confermassero la loro intenzione di non partecipare per non violare i rispettivi ambiti di operatività (in tal senso, assume rilievo il comportamento del responsabile di “In Opera” che ritiene di dover essere “ringraziato” con analoghi comportamenti nelle aree di proprio interesse) consentono di ritenere adeguata la motivazione.

19.18.1. Per quanto riguarda la posizione di Pedetti, la difesa ha reiterato l’argomento, già sottoposto alla Corte di appello, fondato sull’avere l’imputato esaurito la propria attività prima della indizione della gara, il 29 luglio 2014.

Il motivo è infondato.

Non può che rinviarsi alle ragioni già esposte dalla Corte di appello che ha spiegato come il meccanismo della procedura negoziata, per come gestito nel caso concreto, comportasse che anche la fase finalizzata alla manifestazione di interesse su invito della Amministrazione rientrasse nella attività di scelta del contraente.

Il reato di cui all’art. 353 cod. pen. ben risulta commesso già prima della fase di procedura negoziata sulla scorta delle manifestazioni di interesse.

La condotta, infatti, era già tale da incidere sul meccanismo utilizzato per la scelta del contraente in condizioni di competizione fra più imprese.

Che, poi, si sia in presenza di accordi clandestini idonei ad incidere, sulla scorta della ricostruzione dei fatti da parte della sentenza impugnata, sulla scelta del contraente è della massima evidenza.

Quanto alla contestazione di avere il ricorrente, in base alle prove esposte, in realtà inciso sull’affidamento di servizi diversi da quelli oggetto del capo di imputazione 10, la stessa è chiaramente riferita alla ricostruzione in fatto sulla quale, come si è detto, vi è congrua motivazione, coerente con i presupposti riportati nella sentenza e, quindi, non vi sono margini di intervento per il giudice di legittimità.

Infine, sulla proposta di qualificazione della condotta in termini di astensione dagli incanti, vale la risposta data dalla Corte di appello in adesione alla corrente interpretazione degli artt. 353 e 354 cod. pen. da parte della giurisprudenza di legittimità.

Quando infatti, come nel caso di specie, il destinatario della promessa o dell’offerta non si limiti ad astenersi dal concorrere agli incanti o alle licitazioni private in cambio della utilità, ma partecipi all’intesa illecita finalizzata ad impedire o turbare la gara ovvero ad allontanare gli offerenti, ricorre il reato previsto dall’art. 353 cod. pen. (Sez. 6„ n. 1934 del 20/10/2009, Busoni, Rv. 258831).

19.18.2. Nacamulli propone una diversa ricostruzione della vicenda, fondandola anche sulla pretesa inidoneità delle varie imprese invitate dal dirigente Barletta a svolgere i dati servizi. Resta, invece, determinante il dato, accertato nel corso delle intercettazioni, dell’interessamento dell’indagato ai contatti con le altre imprese cui si chiedeva di desistere.

Quindi l’evidenza dei fatti rappresentati smentisce la difesa.

19.18.3. Il quarto motivo di Bolla è parimenti infondato perché contesta una ricostruzione in fatto sulla cui correttezza vale quanto già detto.

19.18.4. Infine, è infondata la difesa di Carnninati sia quanto alla dedotta non configurabilità del reato alle date condizioni, argomento cui si è già data risposta, che quanto alla pretesa assenza di una propria condotta significativa rispetto al reato.

Anche sul punto vale quanto considerato dalla Corte di appello, che ha valutato in modo non illogico il materiale probatorio per considerare che il ricorrente, a prescindere dalla commissione delle singole condotte finalizzate alla turbativa, aveva condiviso la strategia complessiva in esecuzione del programma criminale generale.

In tal senso è stato correttamente interpretato il rendiconto compiuto da Buzzi al Carminati delle attività in corso di svolgimento. Così adeguatamente e logicamente ricostruiti i fatti, non residuano ambiti di valutazione per il giudice di legittimità.

Per Nacamulli, Carminati e Buzzi va definitivamente esclusa, per le ragioni indicate e che saranno ulteriormente specificate in prosieguo, l’aggravante dell’agevolazione mafiosa; ne deriva l’annullamento con rinvio per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

20. Corruzione di Cola Mario in relazione agli immobili di via Pomona e di via del Frantoio (capo 12 del secondo decreto).

20.1. Con il capo 12 è stata contestato a Cola, dipendente del dipartimento patrimonio del comune di Roma, di avere, in concorso con Buzzi, Carminati, Caldarelli e Garrone, dapprima segnalato a Buzzi e Caldarelli un immobile di proprietà del Comune in via Frantoio al fine di occuparlo, e, successivamente, di aver tenuto condotte intese alla legittimazione ex post della occupazione compiuta; in tal senso sarebbe stato stipulato un contratto di locazione con la Eriches, sfruttando le condizioni che il Comune riconosceva alle cooperative che operavano per conto dell’ente pubblico (essenzialmente un canone ridotto sino all’80%); dunque un canone di affitto per un immobile di circa 1.000 mq. a prezzi irrisori, di 6-700 euro al mese; in cambio, Cola avrebbe ricevuto da Buzzi utilità a contenuto economico, consistenti nella stipula il 14.6.2012 di un contratto di locazione per un immobile di proprietà della di lui moglie ad un valore superiore a quello di mercato.

Secondo i giudici di merito, Cola, in quanto inserito stabilmente nell’ufficio di staff dell’assessore, con contratti a tempo determinato rinnovati di anno in anno, avrebbe rivestito la qualifica di pubblico ufficiale.

La sentenza di primo grado, in maggiore adesione al testo della imputazione, aveva individuato il prezzo della corruzione nella maggiorazione dell’importo del canone di locazione, sostenendo come « (…) a fronte dei servigi di Mario Cola l’utilità era costituita dal pagamento di un canone d’affitto da parte della Eriches 29 nei confronti di Olga Montanari, moglie di Cola, per l’utilizzo di un appartamento di 3 vani ad uso casa-famiglia in via Accademia degli Agiati 79.

La Eriches 29 prendeva in affitto degli appartamenti per soddisfare le proprie esigenze connesse all’emergenza alloggiativa, utilizzandoli per i servizi offerti dalla cooperativa al Comune. Nel caso de quo il canone mensile corrispondeva a 1.500 euro, prezzo ritenuto eccessivo rispetto al canone di locazione per immobili analoghi».

Hanno proposto ricorso Buzzi e Cola. Caldarelli, che pure aveva svolto in sede di appello ampie difese sulla sussistenza e sulla propria responsabilità per la corruzione di Cola, non ha proposto al riguardo alcun motivo di ricorso.

Invero appare probabile un errore di redazione materiale dell’atto poiché l’undicesimo motivo, che seguendo la sequenza degli altri motivi avrebbe dovuto riguardare il capo 12 del secondo decreto, è invero la mera duplicazione del settimo motivo, con differenze insignificanti; un tale errore, se vi è, comunque non risulta in alcun modo emendabile. In ragione del tenore favorevole, opera comunque in favore di Caldarelli l’estensione degli effetti degli altri ricorsi ex art. 587 cod. proc. pen.

20.2. I motivi proposti da Buzzi e Cola sono fondati per quanto riguarda la configurabilità di un rapporto causale tra la presunta attività svolta da Cola ed il “prezzo” corrispostogli, collegato alla locazione dell’appartamento del coniuge.

La decisione sul punto, che comporta la insussistenza del fatto contestato e l’annullamento senza rinvio, è una soluzione immediata ed assorbente che rende superfluo valutare gli altri temi relativi alla qualifica pubblicistica, al collegamento tra la stessa e la presunta attività in favore di Buzzi, alla identità tra fatto contestato e fatto ritenuto dalla sentenza di primo grado – sia quanto agli immobili cui sarebbe riferito il “favore” per Buzzi, che quanto al prezzo, se consistente nel mero fatto della stipula del contratto di locazione della unità immobiliare del coniuge o nella entità del canone.

A fronte di una conversazione intercettata, dalla quale sarebbe emerso il “suggerimento” da parte del Cola “sin dal novembre del 2012”, si è cercato un vantaggio qualificabile come prezzo di una corruzione; in tal senso, si è fatto riferimento in termini generici al preesistente rapporto contrattuale tra la moglie del Cola e la cooperativa di Buzzi.

La genericità risulta proprio dal diverso modo in cui è stato qualificato “vantaggioso” il contratto stipulato in epoca, ictu oculi, decisamente lontana dal “favore”.

Il capo di imputazione risulta formulato nel senso di essere stato previsto un “vantaggio” immediato per l’informazione e la “assistenza contrattuale” fornita da Cola: la stipula del contratto di locazione con un canone superiore a quello di mercato.

La sentenza di primo grado, giudicando su tale contestazione, ha ricostruito il prezzo della corruzione in modo alquanto confuso. Il primo giudice (pag. 2365) ha riportato innanzitutto l’informazione dell’essere il canone previsto per l’immobile del coniuge superiore a quello di mercato, ritenendo di desumerlo dalle intercettazioni di Buzzi e di Cola; il ricorso a tale generica informazione, invero, dimostra che sul punto non vi è stata alcuna acquisizione di prove di accusa sull’effettiva congruità di tale canone.

A parte la estrema sintesi con la quale il primo giudice ha ritenuto che gli imputati avrebbero “confessato” tale peculiare misura del canone, si valorizza in termini negativi la giustificazione data da Cola alla quantificazione del canone stesso, ovvero il non essere stata prevista alcuna “caparra” (presumibilmente di tratta del deposito cauzionale).

Sempre nell’ottica di trarre dalle dichiarazioni degli stessi imputati la prova dello scambio di favori, da un lato, vi è una non chiara valutazione basata su appunti manoscritti – sembra che il Tribunale voglia negare che vi sia stata una “caparra” – e dall’altro vi è una presunta individuazione di versamenti di somme ulteriori: «Dagli estratti conti risultava infatti che Cola otteneva la somma complessiva di 46.000 euro: 1.000 euro in più rispetto al periodo di locazione luglio 2012-dicembre 2014 al prezzo pattuito di 1.500 euro al mese, così lucrando ancor più rispetto ai 300 euro mensili dei canoni di mercato».

Invero la sentenza di primo grado ha eluso – come dimostra la particolare brevità di trattazione del tema centrale per ricostruire la responsabilità, nonostante la prolissità complessiva della motivazione su tale vicenda – un serio accertamento della corrispondenza fra la stipula del contratto di locazione del coniuge del Cola e la disponibilità manifestata da quest’ultimo per il Buzzi; si è risolto il pur ragionevole dubbio su tale relazione con la asserzione che il fatto che il contratto sia di molto antecedente, semplicemente, non rileverebbe.

Tale evidente totale assenza di motivazione sulla correlazione tra “do” e “des”, unita alla motivazione altrettanto generica sulla entità dei canoni, dimostra che la affermazione di sussistenza di tale reato, nella decisione del primo giudice, fosse priva di concreto supporto probatorio.

20.3. La sentenza di secondo grado non risolve le incertezze relative al collegamento tra l’attività a favore e la presunta utilità, a parte le altre questioni poste dalla difesa.

La sentenza riporta in sintesi quanto già esposto dal primo giudice, e mantiene innanzitutto una scarsa chiarezza sul quale sarebbe il “plus” che renderebbe prezzo di corruzione la locazione: da un lato, difatti, la Corte ha continuato a fare riferimento ad un valore superi re ai valori di mercato 237 (« (desunto sempre da una selezione di una parte delle dichiarazioni degli imputati, escludendo la parte – che pur è trascritta nelle sentenze – in cui costoro avevano giustificato un tale eventuale maggior valore), seppure «non era di molto superiore», dall’altro ha individuato un “nuovo” vantaggio economico, rilevando che «l’imputato si era assicurato un contratto costante e un reddito sicuro, che di per sé rappresenta un valore».

Ed a tale fine, si è valorizzato infine anche il dato (tale sembrerebbe essere il senso del “versamento ogni anno della caparra”) del pagamento anticipato delle mensilità.

Ciò che continua obiettivamente a non essere stato chiarito è il dato essenziale, ovvero il collegamento tra il contratto, stipulato nel giugno del 2012, e le attività di informazione ed assistenza da parte del Cola, compiute, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, sostanzialmente nel corso del 2013 e del 2014.

Ciò che non è stato spiegato, in particolare, è perché il contratto in favore del coniuge di Cola, stipulato nel giugno del 2012, avrebbe un rapporto sinallagmatico con un’attività, obiettivamente non significativa, compiuta da Cola dopo molti mesi, atteso che, al di là di un riferimento ad un precedente contatto avuto nel novembre del 2012, la richiesta di Buzzi di poter occupare l’immobile è del 26.3.2013 (cfr., pag. 254 sentenza impugnata).

La Corte di appello, pur osservando che era stato dedotto che «comunque il contratto di locazione risaliva a luglio 2012, quindi mesi prima della presunta segnalazione da parte del Cola» non offre alcuna risposta sul punto.

20.4. La valutazione finale è che, sulla scorta degli stessi fatti esposti dai giudici di merito vi è la evidente impossibilità di collegare il risalente contratto al “favore” che Cola avrebbe compiuto e, inoltre, non risulta sia stato acquisito alcun elemento che possa dimostrare che il contratto sia stato originariamente stipulato a condizioni non corrispondenti a quelle di mercato o sia stato successivamente mutato in corrispondenza dei presunti atti di ufficio in favore di Buzzi.

In definitiva, l’attività di ricerca di un possibile “prezzo” per valutare se informazioni e suggerimenti dati da Cola nelle conversazioni intercettate fossero indice di una corruzione, non ha dato alcun esito in termini.

A fronte della completa ostensione degli elementi di fatto ritenuti utili, l’unica conclusione possibile è la non sussistenza del fatto come contestato.

La decisione va perciò adottata senza rinvio non prospettandosi alcuna possibilità di una diversa conclusione, annullamento che riguarda non solo le posizioni di Buzzi e Cola, ma si estende, come anticipato, anche a Caldarelli, ex art. 587 cod. proc. pen.

21. Corruzione di Ozzimo Daniele (capo 13 del secondo decreto).

21.1 Buzzi è stato condannato per avere erogato a Ozzimo, vice presidente della Commissione Politiche Sociali e membro di Commissione Lavori Pubblici Scuola e Sanità e poi Assessore, utilità economiche consistite nell’assunzione di Tatiana Tomasetti e nell’erogazione di euro 20.000 in cambio degli atti compiuti da Ozzimo in violazione dei suoi doveri di ufficio per favorire le cooperative di Buzzi. Nella ricostruzione delle sentenze di merito tali favori sono stati individuati nella presentazione di mozioni che impegnavano il Comune a prorogare l’affidamento alle cooperative di Buzzi dei servizi di manutenzione del verde pubblico, nell’aver preso parte alle delibere consiliari relative ai riconoscimenti del debito fuori bilancio dal 2012 e nel 2014, nella preliminare attività volta a creare il consenso politico e istituzionale necessario all’adozione delle delibere per il riconoscimento del debito fuori bilancio e, infine, nella sua stessa partecipazione alla riunione di giunta del luglio 2014, finalizzata alla riconferma di Fiscon nella posizione di direttore generale di A.m.a. S.p.A., che il sindaco voleva sostituire. Per quanto riguarda le utilità, Tatiana Tomassetti venne in effetti assunta e Buzzi effettuò in favore di Ozzimo il versamento della somma di 20.000 euro a titolo di contributo elettorale, erogato in due tranches di euro 10.000 ciascuna. Buzzi ha dedotto la violazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen. per essere stata valutata la sentenza emessa nei confronti del solo Ozzimo in sede di giudizio abbreviato, non rispettando le regole di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. e per la mancata risposta ai motivi di appello. Il ricorso è infondato. Per quanto riguarda la questione della violazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen., il ricorso si limita a richiamare il contenuto della norma stessa, senza altro aggiungere, assumendo che la sua violazione sia evidente. Invero, la Corte di appello fornisce una motivazione del tutto autonoma sulla responsabilità di Buzzi per il reato in questione, rispetto alla quale il ricorrente nulla deduce: la Corte riporta e valuta le conversazioni rilevanti, spiegando perché dalle stesse risulti che Ozzimo manifestò la disponibilità ad attivarsi nell’interesse di Buzzi, nei termini sopra detti; allo stesso modo considera le prove, ovvero i pagamenti formalmente registrati a titolo di contributi elettorali e le intercettazioni in cui viene espressa la loro effettiva causale (Buzzi afferma testualmente che Ozzinno “si è guadagnato lo stipendio”) di prezzo della corruzione. Solo alla fine, la Corte di appello menziona la sentenza che ha condannato Ozzimo, affermando di condividerne la motivazione in quanto conforme alla propria. Quindi, la sentenza di condanna di Ozzimo è stata utilizzata sostanzialmente per mera conferma della validità delle valutazioni del tutto autonome della Corte di appello, non risultando alcuna violazione della norma invocata. Per il resto, il motivo è del tutto generico: tale è innanzitutto la doglianza di non aver la Corte di appello spiegato «le ragioni giuridiche per le quali l’appello non debba essere accolto», non tenendo conto della completa rivisitazione del materiale probatorio; quanto all’unica deduzione specifica, ovvero di essere in sé lecita la erogazione di euro 20.000 per il contributo elettorale, va considerato che la Corte di appello ha convincentemente spiegato come nelle intercettazioni fosse chiaramente detto che tale pagamento era il prezzo dei favori garantiti da Ozzimo. Per quanto riguarda la doglianza in ordine alla mancata risposta ai motivi di appello, la stessa è stata formulata in termini solo generici e, comunque, la decisione della Corte di Appello risulta completa ed esaustiva nella considerazione degli argomenti contrari della difesa. Va, quindi, soltanto esclusa la aggravante della agevolazione mafiosa con conseguente rideterminazione della pena. 22. Corruzione di Paone Brigidina (Capo 14 secondo decreto). 22.1. Secondo le sentenze, Buzzi in cambio di vantaggi consistiti nell’acquisire sconti e legittimazioni all’acquisto in sede di dismissione del patrimonio immobiliare del Comune di Roma, avrebbe conferito a Brigidina Paone, collaboratrice di Pedetti, consigliere comunale e presidente della Commissione Patrimonio e Politiche Abitative e vice-presidente della Commissione Urbanistica, utilità consistenti nell’assunzione della figlia Francesca D’Arie, effettivamente assunta presso la cooperativa 29 Giugno per un periodo di 8 mesi prorogato. Buzzi non ha impugnato la condanna in primo grado in punto di responsabilità, né ha proposto ricorso al riguardo. Ha però impugnato la sentenza di appello per la parte in cui accoglieva l’impugnazione dei pubblici ministeri, riconoscendo l’aggravante della agevolazione mafiosa. Quindi va esclusa tale ultima aggravante per le ragioni già dette e, comunque, si riporta tale vicenda per le successive valutazioni in ordine al reato associativo. 23. Offerta di corruzione di Pedetti Pierpaolo (capo 15 secondo decreto). 23.1. Al capo 15 del secondo decreto è contestato a Pedetti il delitto di istigazione alla corruzione; l’imputato, nella sua veste di consigliere della assemblea capitolina e Presidente della VII Commissione patrimonio e Politiche abitative del Comune di Roma, avrebbe chiesto a Buzzi di acquistare due appartamenti intestati ad una società a lui riconducibile e ciò avrebbe fatto per il compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio, consistenti nel promuovere in assemblea capitolina deliberazioni intese a garantire consistenti sconti e legittimazioni all’acquisto alle Onlus – tra cui rientravano le cooperative dello stresso Buzzi – in sede di dismissione del patrimonio immobiliare del comune di Roma. In punto di fatto, secondo i giudici di merito: a) Pedetti, in cambio del suo interessamento in favore di Buzzi, propose la vendita a questi di due appartamenti di proprietà della società “Segni di qualità”, poi non portata a compimento; b) l’imputato era stato socio fino al 24/10/2012 della società indicata, insieme ad Andrea Carlini, ma, anche dopo la cessione delle sue quote allo stesso Carlini, aveva mantenuto interessenze nell’impresa; c) Pedetti presiedeva la Commissione patrimonio del Comune di Roma, istituita, con delibera n. 59 del 9/10/2013, al fine di reperire risorse per incidere su un rilevante debito di bilancio; con la delibera in questione erano stati individuati una serie di immobili per i quali si prevedeva la vendita ad un prezzo di mercato diminuito, con diritto di preferenza ai conduttori; d) al numero 197 e 299 dell’elenco erano stati inseriti gli immobili di via Pomona e di via del Frantoio, ai quali Buzzi era interessato; e) il 13/01/2014 la delibera fu emendata dalla Commissione presieduta da Pedetti e fu inserita la previsione di uno sconto del 40% rispetto al prezzo di mercato e l’estensione del diritto di preferenza anche ai custodi, oltre che ai conduttori. 23.2. Il terzo motivo del ricorso proposto nell’interesse di Pedetti, con cui si deduce violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza in relazione alla ritenuta responsabilità penale per il capo di imputazione in esame, è infondato ma il fatto deve essere giuridicamente riqualificato. Si è già detto di come, secondo il ricorrente, la contestazione sarebbe collegata a quella di cui al capo 14, avente ad oggetto la condotta agevolatrice prestata da Brigidina Paone per consentire l’applicazione alle cooperative di Buzzi di una scontistica vantaggiosa sia per il canone di locazione, che per il prezzo di acquisto di immobili di proprietà del comune di Roma; la Paone, si assume, si sarebbe adoperata a fare “da tramite” tra Alessandra Garrone e Mirella Di Giovine – capo del dipartimento patrimonio sviluppo e valorizzazione dell’assessorato di Luigi Nieri – per “scrivere gli emendamenti al meglio”. In tale contesto la Corte non avrebbe adeguatamente considerato l’opera dell’assessore al patrimonio Luigi Nieri (si richiama una conversazione intercettata) e della stessa Di Giovine, che sarebbero stati gli artefici degli emendamenti alla proposta di dismissione di parte del patrimonio immobiliare, in relazione ai quali era stata proposta una percentuale di sconto maggiore; sulla base di tali presupposti, il contributo offerto da Pedetti sarebbe stato irrilevante avendo l’organo collegiale (cioè la commissione VII presieduta dallo stesso Pedetti) adottato all’unanimità gli emendamenti proposti da Nieri. Per quel che riguarda l’utilità che Pedetti avrebbe conseguito (l’acquisto di due immobili da parte di Buzzi dalla società “Segni di qualità”), il rapporto precontrattuale si sarebbe svolto direttamente tra Buzzi e Carlini, soggetto indagato la cui posizione è stata successivamente archiviata; Pedetti, al più, avrebbe solo anticipato l’offerta di acquisto dei due appartamenti a Buzzi, ma poi sarebbe rimasto estraneo allo sviluppo della trattativa, che sarebbe stata portata avanti solo da Carlini. 23.3. Con riferimento al giudizio di penale responsabilità, basato essenzialmente sul contenuto di conversazioni intercettate, la Corte di appello, riprendendo solo in parte la più puntuale ricostruzione del Tribunale, ha chiarito che: a) Buzzi, incontrato Pedetti il 19.11.2013, disse subito a Garrone di recarsi dalla Di Giovine “per scrivere gli emendamenti”, in quanto Pedetti aveva detto di concordare “tutto” con questa; b) quello stesso giorno, Buzzi, parlando con i suoi collaboratori, spiegò il contenuto dell’incontro avuto con Pedetti, ritenuto funzionale alla necessità di fare approvare due emendamenti, uno sulla quantistica dello sconto per l’immobile di via Pomona, che Buzzi voleva dell’80% del prezzo, e, l’altro, relativo all’immobile di Via Frantoio, per il quale Buzzi pretendeva che il diritto di prelazione fosse esteso anche ai custodi e quindi a sè stesso, che di quell’immobile era in qualche modo “custode”, riferendo anche della telefonata fatta da Pedetti alla Di Giovine per “prendere un appuntamento”; c) il 7.1.2014 Pedetti rassicurò Buzzi sull’emendamento e sulla sua approvazione; d) il 13.1.2014, Pedetti presentò un emendamento corrispondente a quello predisposto dalla Garrone ed inviato via mali da questa alla Paone il 19.11.2013; l’emendamento fu poi approvato dalla Commissione; e) il 5.2.2014, Pedetti, con riferimento all’immobile di via Pomona, assicurò Buzzi che il lunedì successivo sarebbe stata approvata la delibera;f) il 10.2.2014, la Commissione, su richiesta di Pedetti, espresse parere favorevole alla concessione in favore della Cooperativa 29 giugno dell’immobile di proprietà del Comune di Roma di via Pomona; g) il canone fu confermato con la delibera n. 312 del 24.10.2014 della Giunta del Comune di Roma. Tali elementi sono stati posti in connessione dalla Corte di appello con le ulteriori evidenze probatorie, relative al tema della offerta dei due immobili della Società “Segni di qualità” a Buzzi. In tal senso, si sono evidenziati: 1) i contatti intercorsi tra la fine di gennaio ed il 4 febbraio 2014 tra Carlini e Buzzi, riguardanti la vendita di un appartamento della società “Segni di qualità” a quest’ultimo; 2) le spiegazioni fornite il 5.2.2014 da Buzzi a Carminati sull’acquisto dell’immobile in questione e come fosse a costoro chiaro che la richiesta, al di là del riferimento formale a Carlini, fosse in realtà proveniente da Pedetti (“Il Presidente della Commissione patrimonio … se gli compro il patrimonio, lui se l’è comprato da Marronaro, Marronaro gli ha fatto il prezzo di favore e non riesce più a pagà”); 3) le informazioni che il 12.2.2014 Buzzi dette a Nacamulli, Garrone e Di Ninno, chiarendo che la richiesta avesse ad oggetto due appartamenti e ponendo in modo inequivoco in connessione la richiesta in questione con l’attività di Pedetti (progressivo n. 8416 del 2013); 4) i colloqui tra Buzzi e Carminati del 19.4.2014 relativi alla convenienza dell’acquisto di quei due immobili che “l’uomo di Maroni” – cioè Pedetti – continuava a proporre, al coinvolgimento diretto di Maroni, al come la possibilità di acquistare quegli immobili dovesse essere legato da parte di Buzzi ad una possibile incidenza sull’attività amministrativa futura a lui favorevole; 5) le ragioni per cui la proposta di acquisto non ebbe seguito per l’intervento dello stesso Maroni, che attribuiva la provenienza soggettiva della proposta a Carlini e Pedetti e non certo al solo Carlini. 23.4. Sulla base di tale ricostruzione, la Corte di appello, in modo logico e privo di contraddizioni, ha ritenuto raggiunta la prova sia della riferibilità a Pedetti della iniziativa relativa alla vendita a Buzzi dei due appartamenti della società amministrata da Carlinii, sia della incidenza diretta dell’imputato rispetto all’attività compiuta dalla settima commissione del comune di Roma in ordine agli immobili cui era interessato Buzzi. Il motivo di ricorso rivela, innanzitutto, una evidente genericità estrinseca in quanto scisso dalla motivazione della sentenza Si ripropongono i temi riguardanti il ruolo avuto dalla Di Giovine nel procedimento che portò all’approvazione degli emendamenti a cui Buzzi era interessato, il rapporto tra questa e l’assessore Nieri e, dunque, alla irrilevanza del contributo di Pedetti rispetto alla formazione della volontà dell’organo collegiale, al ruolo avuto da Carlini nella trattativa per l’acquisto dei due immobili, al contenuto della offerta di acquisto dei due immobili. Si tratta di questioni che, da una parte, tendono a sollecitare una rivisitazione della ricostruzione fattuale compiuta dai giudici di merito e, dall’altra, che perdono di valenza alla luce della motivazione delle sentenze di merito. Si omette, di considerare il ruolo avuto dall’imputato nella predisposizione di quegli emendamenti, l’indirizzo che Pedetti dette a Buzzi di recarsi dalla Di Giovine, la telefonata tra l’imputato e quest’ultima, le rassicurazioni fornite dal ricorrente – non da altri- a Buzzi sul buon esito di quegli emendamenti concordati, la chiara riferibilità da parte di Buzzi e Carminati a Pedetti della “vicenda” relativa alla proposta di acquisto dei due immobili, le aspettative di utilità che Buzzi e Carminati avevano da Pedetti -e non certo da Carlini- nel caso in cui avessero deciso di recepire quella proposta di acquisto dei due immobili. Ne discende l’infondatezza del motivo di ricorso. 23.5. I fatti ricostruiti devono essere tuttavia riqualificati giuridicamente. Non è in contestazione, in punto di fatto, che l’attività con la quale Pedetti sollecitò l’acquisto dei due appartamenti a Buzzi fu compiuta in ragione della sua qualità di Presidente della settima Commissione, ma in un momento sostanzialmente successivo alla data in cui furono approvati gli emendamenti che Buzzi aveva richiesto e ottenuto. La Corte di appello ha altresì evidenziato come, al momento in cui Pedetti propose l’acquisto dei due immobili, Buzzi avesse inteso quella proposta come proiettata verso il futuro, cioè in relazione a ciò che di favorevole lo stesso Buzzi avrebbe potuto ottenere in futuro da Pedetti, se solo avesse acquistato gli immobili che questi proponeva: Buzzi era interessato a definire il rinnovo della convenzione a condizioni vantaggiose ovvero ad altra iniziativa (conversazione del 19.2.2014 tra Buzzi e Carnninati, riportata a pag. 262 della sentenza: «Buzzi: ” io non ho debiti con te – riferito a Pedetti – (…) ho chiamato Pedetti, gli ho detto, famo il campo nomadi, c’è Marronaro che ha i terreni, noi c’avevamo il NOA – il nulla osta ambientale – facciamo il campo nomadi»). Dunque, una condotta di sollecitazione da parte di Pedetti, concreta e seria in ragione delle circostanze di tempo e di luogo in cui fu formulata, perché posta in essere subito dopo aver dato prova della propria capacità di essere efficace e 244 r di assecondare i voleri di Buzzi, ma, tuttavia, proiettata per il futuro (in giurisprudenza, sulla serietà dell’offerta, Sez. 6, n. 1935 del 04/11/2015, Shirman, Rv. 266498; Sez. 6, n. 3176 dell’11/01/2012, Stabile, Rv. 251577). La Corte di cassazione ha in più occasioni chiarito che la condotta di sollecitazione da parte del pubblico ufficiale, punita dall’art. 322 cod. pen., copre uno spazio autonomo, che si distingue sia da quello della costrizione – cui fa riferimento l’art. 317 cod. pen. nel testo come modificato dalla legge n. 190 del 2012 – che da quello dell’induzione – che caratterizza la nuova ipotesi delittuosa dell’ art. 319-quater cod. pen., introdotta dalla medesima legge n. 190 – in quanto si qualifica come una richiesta formulata dal pubblico agente senza esercitare pressioni o suggestioni e che tuttavia tenda a piegare ovvero a persuadere, sia pure allusivamente, il soggetto privato, alla cui libertà di scelta viene prospettato, su basi paritarie, un semplice scambio di favori, connotato dall’assenza di ogni tipo di minaccia diretta o indiretta e, soprattutto, di ogni ulteriore abuso della qualità o dei poteri (Sez. 6, n. 23004 del 04/02/2014, Pigozzo, Rv. 259951; Sez. 6, n.19190 del 25/01/2013, Rv. 255074). I fatti, anche in ragione dei principi già esposti in ordine ai rapporti tra le fattispecie di corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione, devono essere ricondotti alla fattispecie prevista dall’art. 322, comma 3, cod. pen.: Pedetti, sulla base di quanto accaduto e della serietà ed affidabilità da lui mostrata, sollecitò Buzzi a dargli una utilità – l’acquisto dei due appartamenti – per l’esercizio futuro delle sue funzioni, senza specificare null’altro, senza fare riferimento ad un atto da compiere o compiuto. Una sollecitazione non accolta da Buzzi, atteso che, diversamente, sarebbe stato realizzato il delitto di corruzione. Dunque la sentenza, in ragione della diversa qualificazione dei fatti, deve essere annullata con rinvio quanto al capo 15) del secondo decreto di giudizio immediato, limitatamente al trattamento sanzionatorio. 24. Turbativa della gara per il servizio Centro Unico di Prenotazione e violazione del segreto di ufficio (capo 16 del secondo decreto). 24.1. Il capo 16 del secondo decreto riguarda il reato di turbativa di gara (art. 353 cod. pen.) ed una ipotesi di violazione del segreto di ufficio (art. 326 cod. pen.), strumentale a tale turbativa. Si tratta della gara finalizzata all’acquisizione del servizio Centro Unico di Prenotazione (Cup) che gestisce tutte le prenotazioni delle prestazioni sanitarie delle Aziende sanitarie della Regione Lazio, indetta nel 2014, per un importo superiore ai 90 milioni di euro (per tre anni di servizio). Il bando prevedeva quattro lotti. N 245 v Secondo l’imputazione, Buzzi, assieme ai suoi collaboratori, con l’aiuto di Luca Gramazio, nella qualità di consigliere regionale PDL, e di Angelo Scozzafava, nella qualità di componente la commissione aggiudicatrice della gara CUP, mediante intese, collusioni e accordi fraudolenti tra i partecipanti alla gara e con lo stesso Angelo Scozzafava, che avrebbe comunicato a Buzzi e a Testa lo sviluppo delle decisioni della commissione medesima, le offerte degli altri concorrenti e ogni altra notizia utile al raggiungimento dello scopo – ossia favorire l’aggiudicazione di uno dei lotti alla RTI Sol.Co.- avrebbero turbato la gara comunitaria centralizzata a procedura aperta finalizzata all’acquisizione del servizio CUP occorrente alle Aziende Sanitarie della Regione Lazio. I giudici di merito in più parti della motivazione hanno fatto riferimento ad irregolarità “a monte” della gara, non collegate agli illeciti commessi da Buzzi e dai suoi sodali. La gara, peraltro, fu poi annullata in autotutela a seguito di verifiche amministrative, giustificate dalla adozione dei provvedimenti cautelari emessi in questo processo con le connesse attività di acquisizione di atti della gara. Secondo la ricostruzione della Corte di appello, il bando di gara sarebbe stato regolare e, soprattutto, non alterato in favore di Buzzi; anche lo svolgimento della gara sarebbe risultato del tutto regolare sul piano formale. Si è tuttavia chiarito che: – appresa la notizia del bando di gara in questione, particolarmente appetibile per il valore, il 5 Aprile 2014 si riunivano in via Pomona Buzzi, Testa, Carnninati, Guarany e Caldarelli, decidendo di partecipare insieme alla cooperativa II SolCo, dal momento che si riteneva che la 29 Giugno non potesse vincere la gara da sola; – in questa occasione, per l’importanza dell’affare, i soggetti indicati avrebbero deciso di rivolgersi al consigliere regionale Luca Gramazio per ottenere il suo appoggio per concorrere nell’area che ritenevano riservata alla “destra”; – l’appoggio offerto da Gramazio sarebbe consistito nel “chiedere spazio” a Venafro, che doveva “gestire la partita” per conto dell’allora governatore della Regione Lazio, e nel caldeggiare a tal fine la nomina di Angelo Scozzafava, persona in rapporti con Buzzi, quale componente della commissione di gara, nomina che in un primo momento non andò in porto, in quanto solo successivamente Scozzafava, per ragioni legate alla incompatibilità di altro componente della commissione, sarebbe subentrato nella commissione in questione; – il collegamento personale di Scozzafava con Buzzi sarebbe dimostrato, oltre che dai numerosi contatti tra i due, anche da favori che nel corso del tempo vennero garantiti al funzionario, quali, in particolare, la pulizia di una sua palestra, l’interessamento per sostenerlo presso gli organi competenti per una futura nomina in un importante incarico nell’amministrazione ad Ostia ed il procacciamento di un incontro, avvenuto il 13.9.2014, con una prostituta all’esito di una serata conviviale, favore quest’ultimo che si intreccia con il tema della rivelazione di notizie di ufficio riservate che, secondo l’impostazione d’accusa- recepita dalla Corte di appello- Scozzafava avrebbe compiuto al fine di inquinare la gara; – Scozzafava, nel corso dei lavori della commissione di gara, avrebbe procurato a Buzzi (proprio il 13.9.2014) l’informazione che la concorrente Manutencoop, benché riammessa, non avrebbe vinto la gara per errori formali, informazione ritenuta fondamentale in quanto consentiva a Buzzi di attivarsi per sfruttare la possibilità di aggiudicarsi anche un secondo lotto («aver avuto l’informazione ha consentito a Buzzi di andare “dall’uomo dei conti di Zingaretti” per cercare di ottenere quel risultato insperato»); – in definitiva, si rese possibile l’aggiudicazione in ATI di un terzo lotto, grazie alle intese garantite dalle informazioni indebite. Dunque, secondo la ricostruzione della Corte di appello, un duplice modo di incidenza sull’esito della gara: un inquinamento “a monte”, attraverso la nomina “pilotata” di Scozzafava, ed un inquinamento successivo, compiuto attraverso la ipotizzata rivelazione di segreti di ufficio da parte dello stesso Scozzafava. La sentenza impugnata ha confermato le condanne per il reato di cui all’art.353 cod. pen. nei confronti di Buzzi, Caldarelli, Carminati Guarany, Testa , Garrone, Gramazioe e Scozzafava. Buzzi, Gramazio e Caldarelli sono stati condannati anche per la rivelazione del segreto di ufficio ex art. 326 cod. pen. in concorso con Scozzafava. Buzzi non ha presentato appello e nemmeno il ricorso. Il ricorso è stato presentato dagli altri imputati. 24.2. I ricorsi sono fondati. Con riferimento a tale vicenda, come e più che per altre imputazioni, le motivazioni delle sentenze di merito sono particolarmente ampie, caratterizzate soprattutto dalla trascrizione di intercettazioni, anche non strettamente utili; tale ampiezza senza una adeguata selezione del materiale effettivamente rilevante per la decisione rende anche difficile – in presenza di attività in sé non illecite quali la partecipazione alla gara, le scelte strategiche di Buzzi e dei concorrenti di accorpamento delle imprese per partecipare in associazione etc. – comprendere quali siano i fatti concreti ritenuti integrare il reato. Si anticipa, quindi, che il vizio di motivazione per cui per tale capo di imputazione va disposto l’annullamento con rinvio consiste, innanzitutto, nella sua grave carenza nella stessa indicazione del fatto per il quale è stata disposta la condanna. La Corte di appello, rifacendosi alla motivazione contenuta nella sentenza di primo grado, ha riferito dell’interessamento di Grannazio che, appositamente contattato, avrebbe costruito un accordo politico finalizzato ad assicurare uno dei lotti alle cooperative vicine ai partiti dell’area della destra politica, ottenendo altresì la nomina di Scozzafava nella commissione di gara, per consentire a Buzzi, che da Scozzafava, secondo la ricostruzione d’accusa, avrebbe ricevuto costantemente informazioni, di influire sui meccanismi di gara compromettendone regolarità e trasparenza. Si tratta di condotte che integrano altresì la fattispecie della turbativa d’asta ex art. 353 cod. pen., essendo evidente, secondo i giudici di merito, come gli imputati, nel cercare di aggiudicarsi uno dei lotti attraverso contatti politici, avrebbero influito sui meccanismi di gara previsti dalla normativa e, dunque, compromesso le regole che presiedono ad una regolare e trasparente procedura basata sulla valutazione esclusivamente tecnica del migliore offerente. Dalla motivazione della sentenza, però, sebbene più volte la Corte di appello abbia fatto riferimento alla possibile divisione per aree politiche dei lotti della gara – divisione che in vario modo avrebbe poi interessato il gruppo di Buzzi – non risulta affatto la “predisposizione” di una turbativa della gara ad opera della commissione aggiudicatrice, anche in considerazione dell’esito del processo nel quale è stata disposta l’assoluzione di Maurizio Venafro, capo di gabinetto della Regione Lazio. L’ipotesi della presunta partecipazione di Buzzi ad un accordo spartitorio con assegnazione (irregolare) di un lotto destinato alla “destra”, pur se utilizzata in alcune parti della motivazione anche per riconoscere la responsabilità individuale di alcuni degli imputati, è restata confinata nell’ambito del sospetto, proprio sulla scorta delle motivazioni dei giudici di merito che hanno del tutto escluso che fosse stato predisposto un “bando su misura” per Buzzi e che, anzi, hanno attestato la piena regolarità formale della gara. In definitiva, la sentenza impugnata ha escluso che la turbativa sia consistita nella alterazione dei risultati della gara ad opera dei componenti della commissione di aggiudicazione. 24.3. La condotta integrante reato si colloca, quindi, in un altro momento, all’esterno, cioè, dall’ambito delle attività proprie della commissione aggiudicatrice. La Corte di appello ha riportato una conversazione ambientale tra Buzzi e Gammuto del 17 settembre 2014, da cui emergerebbe espressamente la 248 T condotta di turbativa e la violazione del segreto di ufficio che l’avrebbe resa possibile: «Risulta molto chiaro da questa conversazione che grazie alla cena organizzata da Caldarelli, Buzzi aveva ricevuto da Scozzafava la fondamentale informazione che Manutencoop, benchè riammessa, non avrebbe vinto la gara, congiuntura questa che dava a Buzzi la possibilità di aggiudicarsi anche un secondo lotto. Scozzafava aveva anche precisato che il secondo lotto al quale Buzzi avrebbe potuto ambire era quello di riferimento della sinistra (Zingaretti) e non della destra (Gramazio). Aver avuto l’informazione ha consentito a Buzzi di andare “dall’uomo dei conti di Zingaretti” per cercare di ottenere quel risultato insperato. La conversazione rende chiaro anche il ruolo fondamentale avuto da Carminati in questa vicenda: era stato Carminati, infatti, a suggerire di contattare Gramazio per consentire a Buzzi di “inserirsi” nella gara in quota opposizione (“ho chiamato Massimo, e Massimo… è andato da Gramazio”)». In definitiva, la condotta posta a fondamento della condanna per il capo 16 sarebbe consistita nell’avere gli imputati colluso, attraverso informazioni riservate indebitamente ottenute (da Scozzafava), per alterare il risultato dalla gara. La motivazione, però, non è specifica né nell’indicare quale sarebbe stato il segreto violato (da parte di Scozzafava), né quale idoneità avrebbe avuto, almeno potenzialmente, l’informazione ricevuta rispetto all’esito della gara. La sentenza ricostruisce, come detto, i rapporti tra Buzzi con il commissario di gara Angelo Scozzafava. L’oggetto della violazione del segreto da parte di Scozzafava consisterebbe nell’avere riferito in occasione della cena del 13 settembre che (come diceva Buzzi a Gamnnuto nel colloquio citato) «Guarda che… questi hanno… hanno sbajato, quindi non possiamo fargli vince il lotto …. Li abbiamo ammessi per… (incompr.) solo non possono vincere». In realtà, è la stessa sentenza che riporta come il 9 settembre Buzzi avesse già questa “informazione”: Buzzi, difatti, in una riunione intercettata in via Pomona spiegava ai soci «il terzo o il quarto più il secondo, perché il secondo, la Manutencoop ha sbagliato documentazione, l’hanno ammessa senza riserva per evità problemi, ricorsi eccetera, però oggettivamente c’hanno difficoltà … insomma stiamo optando per il secondo e il quarto, se va male abbiamo preso già (mc) abbiamo preso il terzo” ». (pag. 2372 sentenza Tribunale). Buzzi, dunque, sapeva già che l’ammissione con riserva della Manutencoop era stata fatta “per evitare problemi” e che, in sostanza, la società in questione fosse fuori gioco. Quindi, in base a quanto riferito nella sentenza impugnata, non è dato comprendere quale notizia riservata ulteriore Scozzafava avrebbe fornito nel corso dell’incontro conviviale del 13 settembre; Buzzi già sapeva, come era possibile trattandosi di informazioni pubbliche (così riporta la stessa sentenza di appello), dell’ammissione con riserva di Manuntencoop -dovuta alla riscontrata irregolarità della documentazione prodotta da tale cooperativa- e, soprattutto, sapeva che quella ammissione con riserva aveva in qualche modo inficiato le prospettive di aggiudicazione di quella impresa, che l’ammissione era stata fatta solo “per evitare problemi”. Dunque, non è chiaro quale sarebbe stata la notizia indebitamente rivelata che avrebbe poi consentito la condotta di turbativa. Nè è stata indicata, a fronte della presunta violazione del segreto o, comunque, della comunicazione di informazione sull’andamento della gara, quale sarebbe stata la capacità inquinante concreta della notizia rivelata. 24.4. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio previsto dall’art. 326 cod. pen. importa, per la sua configurabilità sotto il profilo materiale, che sia portata a conoscenza di una persona non autorizzata una notizia destinata a rimanere segreta e si configura come un reato di pericolo, nel senso che sussiste il reato se dalla rivelazione del segreto possa derivare un danno alla pubblica amministrazione o a un terzo. Si tratta, in particolare, di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto, atteso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé, ma in quanto suscettibile di produrre un qualche nocumento agli interessi tutelati a mezzo della notizia da tenere segreta. Di conseguenza, il reato non sussiste, non solo nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, ma anche nel caso in cui, trattandosi di notizie di ufficio ancora segrete, le stesse siano rivelate a persone autorizzate a riceverle e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta, ovvero, come nel caso di specie, a persone che, ancorché estranee ai meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute: fermo restando per tali ultime persone il limite della non conoscibilità dell’evoluzione della notizia oltre i termini dell’apporto da esse fornito (Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251271). 24.5. Sotto altro profilo, la motivazione è gravemente carente nell’indicare quale fu in concreto la condotta di turbativa, già descritta in modo alquanto vago nel capo di imputazione.Nel caso di specie, la sentenza sostiene che «aver avuto l’informazione ha consentito a Buzzi di andare “dall’uomo dei conti di Zingaretti” per cercare di ottenere quel risultato insperato»; si tratta di un’affermazione non chiara. La Corte presumibilmente si affida al contenuto del dialogo di Buzzi e Gannmuto del 17 settembre, quando Buzzi, dopo avere fatto riferimento all’inevitabile rigetto della richiesta di Manutencoop, avrebbe acquisito consapevolezza circa la possibilità di avere una ulteriore chances. La sentenza si è limitata a riportare il dato probatorio, senza sviluppare alcuna valutazione – lasciata al lettore- mentre si comprende che il consiglio di Scozzafava (che non sembra un segreto di ufficio) fosse stato solo quello di fare “pressione” sul “gestore” politico della gara. E tuttavia, anche a volere ritenere adeguata una motivazione limitata alla trascrizione del dato probatorio, quest’ultimo avrebbe potuto avere rilievo solo a fronte della obiettiva individuazione di una situazione di pericolo concreto, non delineata dalla Corte di appello, rispetto al procedimento di assegnazione ed all’esito della gara (secondo le regole in tema di configurabilità del reato di cui all’art. 353 cod. pen.). 24.6. Esclusa dunque la stabilità della motivazione della sentenza impugnata quanto al collegamento di strumentalità necessaria tra la contestata rivelazione di segreto d’ufficio e la prospettata turbata libertà degli incanti, nel senso che la rivelazione sarebbe stata lo strumento con cui la gara sarebbe stata turbata, il ragionamento probatorio della Corte di appello è viziato anche nella parte in cui, al fine della configurazione del reato di cui all’art. 353 cod. pen., si è ritenuto di valorizzare la nomina di Scozzafava di componente della commissione per affermare che in tal modo Buzzi avrebbe inquinato sin dall’inizio la procedura. Sul punto, la stessa Corte ha chiarito che Scozzafava non fu nominato sin dall’origine come membro della Commissione aggiudicatrice di gara, ma subentrò a seguito della sostituzione di Ilena Fusco, che era in una situazione di incompatibilità e che aveva rinunciato all’incarico; come si è anticipato, Scozzafava venne nominato successivamente da Elisabetta Longo, presidente della Commissione, dopo che quest’ultima interpellò Venafro, ricordandosi della precedente segnalazione. Sicché fu la congiuntura della incompatibilità della Fusco a permettere la nomina dell’imputato. Né al riguardo, sono stati indicati elementi concreti volti a dimostrare che la sostituzione della Fusco fu “pilotata” dall’esterno per riparare al precedente errore, quello, cioè, di non avere nominato sin dall’inizio Scozzafava.Ne consegue che, rispetto alla ricostruzione fattuale indicata, la tesi accusatoria, secondo cui Buzzi avrebbe inquinato già “a monte” la gara attraverso la nomina di Scozzafava, perde di capacità persuasiva. 24.7. Si impone quindi l’annullamento con rinvio perché il giudice di appello proceda ad una nuova valutazione, indicando quale sia stata la condotta di effettiva turbativa della gara, in forma di “condizionamento” della gara dall’esterno, avendo la sentenza impugnata escluso, come già detto, che quella gara fu formalmente viziata dall’attività della commissione aggiudicatrice; nonché indicando quale sia stato il segreto di ufficio violato ed il suo carattere strumentale alla turbativa; escludendo, ovviamente, l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Tale decisione riguarda tutti i condannati per questo reato, ivi compreso, per l’effetto estensivo, Buzzi, non ricorrente sul punto. La decisione in tale senso assorbe i temi posti con i motivi relativi alla responsabilità individuale. 25. Turbativa della gara della Prefettura di Roma per la individuazione di centri di accoglienza per migranti (capo 18 del secondo decreto). 25.1. Buzzi, in concorso con Ferrara, vice presidente della coop La Cascina, è stato condannato per aver turbato la gara indetta dalla Prefettura di Roma con bando del 30.6.2014, del valore di 10 milioni di euro, per l’individuazione di centri presso i quali assicurare l’accoglienza di 1.278 migranti già presenti sul territorio e almeno altri 800 richiedenti protezione internazionale. Secondo i giudici di merito, le conversazioni intercettate, anche in questo caso, provano che Buzzi, dopo aver stretto un’Associazione Temporanea di imprese (ATI) con la cooperativa Auxilium di Chiorazzo, si accordò con Ferrara, addirittura formalizzando l’intesa per iscritto il 10 agosto 2014, per mantenere alto il prezzo e spartirsi i posti per l’accoglienza migranti con l’appoggio politico. Buzzi non ha impugnato la condanna in primo grado in punto di responsabilità nè ha proposto ricorso al riguardo. In base alle ragioni generali, va esclusa la aggravante della agevolazione mafiosa e, comunque, si riporta tale vicenda per le successive valutazioni in ordine al reato associativo. 26. Corruzione di Gramazio Luca, consigliere comunale e consigliere regionale (capo 23 del secondo decreto). \ 26.1. Per il reato di corruzione sono stati condannati Gramazio, Buzzi, Carminati e Testa. Buzzi non aveva proposto impugnazione contro la sentenza di primo grado e non ha presentato ricorso in riferimento a tale reato.t’/\ La Corte di appello ha ritenuto la responsabilità penale di Gramazio, quale consigliere comunale e consigliere regionale, per aver posto le sue funzioni al servizio di Buzzi e Carminati e per avere compiuto specifici atti contrari ai suoi doveri di ufficio, ricevendo in cambio dagli imputati, che agivano di concerto con Testa, una serie di utilità, tra cui l’assunzione di alcune persone da lui segnalate, la promessa di 80.000 per il tipografo, un bonifico di 15.000 euro conferito al suo comitato elettorale, la somma di 50.000 euro come risulta da una conversazione intercettata, una somma complessiva di 98.00 euro conferita tramite la Immobile Business srl di Testa, società con un solo dipendente assunto part- time. Si è valorizzata una conversazione ambientale del 28 marzo 2014 (Rit 8416/13 progr. 3294) in cui Buzzi riferirebbe in termini espliciti che Carnninati aveva consegnato denaro a Gramazio nel loro comune interesse («50.000 euro a Gramazio, cioè glieli ha dati Massimo e Massimo sta a metà con noi»); tale dazione sarebbe stata collegata al finanziamento per pagare le attività svolte dalle cooperative per piste ciclabili e verde; l’interesse diretto di Carminati sarebbe stato dovuto alla sua partecipazione ai medesimi servizi con la propria cooperativa Cosma. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’intervento di Gramazio sarebbe stato di tipo “politico” per l’approvazione dell’emendamento di bilancio e, poi, di assistenza agli interessi di Buzzi, in quanto il ricorrente avrebbe seguito la gestione della relativa pratica presso la Ragioneria tenendo informato lo stesso Buzzi. Ha osservato in definitiva la Corte di Appello che Gramazio fu retribuito «perché intervenisse in favore degli interessi dell’associazione». Un’altra delle attività espressamente contestate attiene al sostegno politico dato con il proprio voto favorevole alla mozione dell’assessore Ozzimo relativa alla proroga dell’affidamento dei lavori sul verde pubblico alle cooperative sociali e, quindi, di interesse di Buzzi. La Corte di appello, valutato il complesso delle attività collegate alla approvazione di tale mozione di indirizzo politico ed alle successive problematiche relative ai fondi necessari, ha rilevato che Gramazio «continuò a seguire la questione e in un passaggio molto delicato prese l’iniziativa di organizzare presso di sé una riunione nel corso della quale fu avviata la soluzione del problema che poi fu effettivamente risolto da Lucarelli». Gramazio aveva contribuito nell’interesse di Buzzi «anche all’assestamento di bilancio di previsione 2012 e pluriennale 2012-2014 che riguardava il pagamento dei debiti per i lavori del campo nomadi e dei debiti fuori bilancio per interventi urgenti in relazione all’emergenza dei Misna (minori stranieri non accompagnati), e di essersi pure attivato perché 1’8-10 aprile 2013 all’ultima seduta della consiliatura Alemanno fossero riconosciuti i debiti fuori bilancio per l’emergenza dei bambini del Nord Africa non accompagnati». Buzzi, preoccupato della carenza di fondi per i minori, il 14 novembre 2012, come da intercettazione, interessò Gramazio per la risoluzione del problema. Nella stessa data fu intercettata un’altra telefonata in cui, in particolare, Gramazio riferiva «per i nomadi ho già parlato, perdonami, questa volta con Salvi, su questo col prelevamento di fondo di riserva in una settimana ce la leviamo», impegnandosi poi a raccogliere ulteriori informazioni, rendendone conto il successivo 15 novembre. Da un’ulteriore conversazione del 21 novembre 2012 emerge l’interessamento di Gramazio, in particolare le sue sollecitazioni rivolte ai soggetti competenti, per la predisposizione dell’assestamento di bilancio che riguardava campo nomadi e minori non accompagnati. Il 10 aprile 2013 «Buzzi sollecitò Grannazio anche perché fosse apposto il parere favorevole dei revisori così da consentirne l’approvazione finale nell’ultima seduta della giunta Alemanno». La Corte di appello ha affermato che, pur non risultando prova di una specifica attivazione di Gramazio per sollecitare il parere dei revisori, certamente questi si interessò della intera vicenda amministrativa. La sua mancata partecipazione al voto finale, avendo egli un diverso impegno, non avrebbe avuto rilievo perché l’imputato aveva la certezza della approvazione anche in sua assenza. Infine, è contestato a Gramazio, nella qualità di consigliere regionale, di aver favorito la destinazione di fondi regionali al Comune di Roma poi orientati verso il X Municipio ed altri, in modo da favorire le attività cui partecipava Buzzi. L’interessamento di Gramazio, si è affermato dalla Corte, sarebbe risultato da conversazioni a partire dal 14 marzo 2014, nel corso delle quali Buzzi aveva riferito chiaramente di un intervento del predetto per la assegnazione dei fondi al Municipio di Ostia. Nell’ampia serie di circostanze riportate in sentenza, intercettazioni, pedinamenti, etc., risulta anche l’interessamento diretto di Carminati. Inoltre, nelle predette vicende sarebbe stato costantemente coinvolto Testa, anche quale intermediario con Gramazio, risultando utilizzata la sua società Immobile Business s.r.l. per fare pervenire al politico le somme sopra indicate. Gramazio ha contestato con i suoi motivi la qualificazione giuridica del fatto, ritenendo configurabile il diverso reato di cui all’ art. 318 cod. peri., non risultando deviazioni dai suoi doveri istituzionali, nonché non essendovi elementi a sostegno della assenta percezione di utilità, trattandosi di millanterie di Testa.Carminati ribadisce di avere dimostrato l’inconsistenza delle singole accuse, negando di avere ottenuto favori da Gramazio, sostenendo inoltre che la sentenza non avrebbe valutato i suoi argomenti. Testa ritiene che non siano stati individuati suoi comportamenti rilevanti. I ricorsi sono infondati. 26.2. Vanno considerati, innanzitutto, i motivi di Gramazio che, in modo più ampio, contesta sia la adeguatezza dei presupposti in fatto per giustificare il giudizio di sussistenza del reato, che la qualificazione giuridica dei fatti. Per la decisione, vanno rammentate le regole in tema di distinzione tra corruzione per la funzione e corruzione propria (artt. 318 e 319 cod. proc. pen.). Come si è già detto, la Corte di appello ha aderito ad una interpretazione dell’art. 319 cod. pen. secondo la quale in esso rientra sempre la “vendita della funzione”. Si è invece chiarito, nei paragrafi precedenti, che una condotta di corruzione mediante messa a disposizione della propria attività di pubblico ufficiale, senza una chiara individuazione, anche solo per genere, di atti contrari ai doveri di ufficio, rientra nella previsione di cui all’art. 318 cod. pen. Nel caso, invece, in cui risulti dimostrato che l’accordo fosse finalizzato (anche) alla commissione di atti contrari ovvero dallo svolgimento del rapporto stesso risulti che atti di tal genere siano stati compiuti, risulterà integrato il reato di “corruzione propria”, che, quindi, si pone quale ipotesi speciale rispetto a quella di cui all’art. 318 cod. pen. Questa Sezione ha già avuto modo di sostenere che nell’ipotesi di stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d’ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri si realizza un fenomeno unitario, una forma di progressione criminosa, che, in forza del principio dell’assorbimento, consente un uni -3 inquadramento giuridico sotto la fattispecie più grave della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (così, Sez. 6, n. 4486 dell’ 11/12/2018, dep. 2019, Palozzi, Rv. 274984). Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta, quindi, segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione), ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato, con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio. La base della condotta incriminabile consiste di per sé nel creare la “situazione di pericolo” con il “generico asservimento della funzione” e l’eventuale individuazione anche di specifici atti contrari ai doveri di ufficio consente di ritenere realizzato il danno richiesto dalla più grave ipotesi dell’art.319 cod. pen.26.3. Quanto detto consente di ritenere infondati il nono ed il decimo motivo per la parte in cui discutono della apparente regolarità degli atti compiuti dal ricorrente. Tale regolarità, come già si è spiegato nella parte generale, non è tuttavia determinante perché ciò che è in discussione è il comportamento dell’imputato e, in particolare, se e come egli esercitò in concreto il pubblico potere, se rinunciò o meno in modo pregiudiziale ad ogni comparazione di interesse, se il suo agire fu condizionato dall’interesse privato preso in carico. Si è detto che il tema attiene alla ricostruzione dell’oggetto del patto corruttivo e di come in questo senso possano assumere rilievo una serie di circostanze. Si è detto di come, al di là delle infedeltà in quanto tali del pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria rilevi la violazione dei doveri che attengono al modo, al contenuto, ai tempi degli atti da compiere e delle decisioni da adottare, alla violazione, cioè, della regola “giusta” nel concreto operare della discrezionalità amministrativa. È necessario fare riferimento alle regole sottese all’esercizio dell’attività discrezionale e si tratta di verificare se l’interesse pubblico sia stato in concreto condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore; nel caso in cui l’interesse pubblico non sia stato condizionato, il fatto integrerà la fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. Quello che deve essere verificato, cioè, è se l’interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, se questo sia stato soddisfatto, ovvero se esso sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l’accordo corruttivo. E’ necessario esaminare la struttura del patto corruttivo, da una parte, per accertare se sia o meno identificabile “a monte” un atto contrario ai doveri di ufficio; nel caso in cui ciò non sia possibile, occorre verificare la condotta del pubblico agente nei settori che interferiscono con gli interessi del corruttore, per comprendere se il predetto funzionario, al di là del caso di manifeste violazioni di discipline cogenti, di elusione della causa fondativa del potere attribuito, abbia, nonostante ed in conseguenza del patto, fatto o meno buon governo del potere assegnatogli, tenendo conto di tutti i profili valutabili, o se abbia pregiudizialmente inteso realizzare l’interesse del privato corruttore, a fronte di ragionevolmente possibili esiti diversi. Innanzitutto, va considerato che la Corte di appello ha ricostruito una serie di flussi di denaro destinati al Gramazio, per cifre che certamente non appaiono indifferenti. Con il decimo motivo il ricorrente formula osservazioni sulla correttezza della motivazione al riguardo, ma non individua profili di carenza della motivazione o suoi errori logici, proponendo invece la ricostruzione alternativa della millanteria di Testa che, ponendosi quale mediatore, avrebbe in realtà incassato le somme in questione. Poiché la Corte di appello ha affrontato anche tale ipotesi alternativa, motivando correttamente sulla sua infondatezza, non residuano ambiti di valutazione, esclusa ovviamente la possibilità di procedere in questa sede a nuovo apprezzamento delle prove. Non è, inoltre, concretamente smentita la correttezza della motivazione che ha individuato per tutti i singoli casi l’evidente intervento del Gramazio, anche solo nel seguire l’andamento delle pratiche di Buzzi, condotta indicativa della esecuzione concreta della “messa a disposizione” quale contropartita dei rilevanti pagamenti in suo favore. 26.4. È però necessario in questa sede individuare in termini chiari se vi siano anche degli atti contrari ai doveri di ufficio nell’ambito della più ampia condotta di messa a disposizione, per potere giustificare la condanna per il più grave reato di cui all’art. 319 cod. pen. Tale tema viene in questione sulla scorta del nono motivo, e non è stato risolto espressamente dalla Corte di merito per la quale, come detto, il tema non appariva rilevante dal proprio punto di vista di interpretazione della norma. Nel considerare se nel testo della sentenza, tra le condotte in favore di Buzzi, risultino chiaramente descritti atti contrari ai doveri di ufficio, senza necessità di apprezzare il materiale probatorio, va precisato che basta che si tratti di atti “promessi”, senza necessità di accertarne l’effettivo compimento. Difatti, in tema di corruzione propria, il reato è perfezionato con l’impegno a compiere atti contrari ai doveri di ufficio sufficientemente individuati, senza necessità che siano realizzati. Nel caso di specie, va considerato che Gramazio, per quanto accertato e motivato dalla Corte di appello, per il suo ruolo essenzialmente politico, era “utilizzato” per fare uso dei suoi poteri al fine di incidere nell’ambito delle specifiche competenze dei dirigenti del Comune. La Corte territoriale ha individuato nelle conversazioni intercettate alcune direttive inviate da Buzzi a Gramazio in relazione alle due questioni del Campo Nomadi e del Misna (“Mi dicono che la giunta nel maxi emendamento abbia previsto 15 milioni per i minori e O per i nomadi. Vedi tu, è urgente intervenire” e aggiungeva “Per chiudere bene dovrebbe essere 10 ai minori e 5 ai nomadi. Senti Scozzafava. Decidono oggi e la Giunta approva domani” – cfr. Rit 6100/13 progr. 624 ore 15.17″), cui corrisponde il tent tivo di Lucarelli, sollecitato proprio da Scozzafava, di modificare l’atto già predisposto con contenuto vincolato agli interessi del Buzzi. In questo caso, con una operazione di mera “constatazione”, si rileva nel testo del provvedimento impugnato la chiara indicazione di un atto contrario ai doveri di ufficio che il Gramazio si era impegnato a compiere: modificare le scelte già operate sulla destinazione e distribuzione dei fondi disponibili “spostando” tre milioni di euro per il campo nomadi («… stanno mettendo quindici milioni per l’emergenza dei minori. Ma scusa santa pupa, ma togli tre, tre mijoni e mettili sui campi nomadi no?! … ma inventate ‘na cosa, leva tre mijoni e li metti sui campi nomadi cazzarola la… Io già c’ho parlato co’ Salvi e Salvi je va bene e insomma.., ho parlato pure co’ Gramazio adesso, l’ho visto qui a Via delle Vergini”»). Dunque, una diversa distribuzione dei fondi legata non ad una valutazione dell’interesse pubblico, quanto, piuttosto, al perseguimento dell’interesse del privato corruttore. In tale modo risulta che nel programma concreto della vendita dei poteri connessi alla funzione di Gramazio è rientrato l’impegno ad atti contrari ai doveri ufficio, così realizzandosi quella progressione criminosa che specializza il fatto facendolo rientrare nella ipotesi di corruzione propria. Risulta sufficiente per tale conclusione la valutazione di tale unica vicenda, non potendosi qui affermare se per le altre condotte tenute da Gramazio vi sia stato un impegno o meno a condotte contrarie ai doveri d’ufficio, perché sarebbe comunque necessario un approfondimento in merito che non può essere fatto in questa sede. 26.5. Risolti nel senso della infondatezza i motivi di Grannazio, vanno valutate le posizioni degli altri due ricorrenti che, oltre a porre questioni già affrontate con le risposte ora date, affrontano fondamentalmente il tema del proprio ruolo nella corruzione. 26.5.1. Il motivo di Carminati è infondato. Il ricorrente sostiene, innanzitutto, che non vi sarebbe stata una adeguata risposta ai suoi motivi di appello, enumerando tutti gli argomenti specifici con i quali aveva escluso il rilievo delle singole condotte attribuite al Gramazio. Poi, afferma che la Corte di appello avrebbe adottato la decisione nei suoi confronti considerando solo la intercettazione in cui si parla di una somma da lui versata al Gramazio, elemento che ritiene insufficiente. Invero il motivo non tiene affatto conto del contenuto della sentenza di appello che, invece, considera espressamente i punti citati dal ricorrente: la Corte di appello ha tenuto conto del fatto che Grannazio non fosse responsabile della procedura di approvazione dell’emendamento alle piste ciclabili, ma ha ampiamente spiegato che egli fu responsabile della iniziativa politica che portò a tale approvazione, sulla scorta sia delle dichiarazioni del proponente l’emendamento (Lamanda), sia, soprattutto, di una conversazione intercettata in cui Gramazio vanta la paternità dell’emendamento (con la significativa affermazione “è l’unico emendamento che ho fatto in cinque anni che mi vorrei rivendere politicamente”). Tale determinante iniziativa politica, spiega la Corte, era condizionata dall’interesse di Buzzi nei termini detti. I giudici considerano come nella conversazione del 28.3.2014 Buzzi riferisse espressamente ai suoi collaboratori che Carminati (che aveva un interesse personale per una quota di lavori assegnata ad una sua cooperativa) aveva pagato Gramazio anche per loro conto. Il ricorso, in modo peraltro alquanto confuso, obietta che tale conversazione era di un anno successivo al fatto, lasciando intendere che il pagamento in questione fosse stato effettuato in epoca corrispondente alla data della conversazione, quindi non poteva essere il prezzo per la data attività di Grannazio, troppo remota. In realtà, il motivo fonda su una lettura erronea della sentenza. Questa non ritiene affatto che il pagamento fosse stato effettuato nei tempi indicati dalla difesa e, invece, con argomentazioni logiche chiarisce come il dialogo intercettato avesse un significato univoco: Carminati aveva pagato Gramazio per ottenere il suo diretto interessamento nei lavori per le piste ciclabili. Infine, il ricorso sostiene che Gramazio non avrebbe avuto alcun ruolo nella “mozione Ozzimo”, sottoscritta da altri consiglieri comunali ed approvata all’unanimità; e che non avrebbe avuto alcun ruolo risolutore per la delibera di assestamento di bilancio del 23.11.2014 per i debiti del Campo Nomadi. Anche per tale parte, si tratta di argomenti che non tengono conto che la sentenza ha ampiamente motivato sui corrispondenti motivi di appello: – per quanto riguarda la mozione Ozzimo, all’esito di un’ampia rivisitazione del materiale probatorio (essenzialmente intercettazioni), la Corte ha spiegato che è certo che Grannazio si impegnò a seguire la questione per conto dei Buzzi. Perciò organizzò lui la riunione per arrivare a sbloccare i finanziamenti e prorogare gli incarichi per la gestione del verde in favore delle cooperative di Buzzi. Non è rilevante che, come rileva la difesa, la riunione avesse veste ufficiale, rilevando che Gramazio l’aveva finalizzata alla gestione degli interessi del privato; – per quanto riguarda l’assestamento di bilancio, la motivazione risponde ai motivi di appello dimostrando l’intervento di Gramazio per giungere alla sua approvazione, così manifestando in concreto la sua “messa a disposizione”; il suo intervento risulta inefficace solo per la resistenza opposta dalla dirigente Santarelli, come si è già detto.26.5.2. Anche il motivo proposto nell’interesse di Testa è infondato. In termini generali, il ricorso parte dal presupposto di una carenza di motivazione sui propri motivi di appello ma poi sviluppa argomenti mirati essenzialmente ad una nuova valutazione sulla scorta di un esame frazionato della sua complessiva condotta e degli elementi a carico. In tale modo, il motivo non tiene conto innanzitutto degli argomenti con i quali la sentenza ha espressamente risposto sulle stesse questioni esaminate nel ricorso di Carminati, quanto alla effettività delle attività svolte da Gramazio, Peraltro, tenuto conto che la contestazione è essenzialmente relativa, come detto, alla “messa a disposizione”, non è neanche rilevante opporre che non fossero individuati specifici risultati in relazione all’interessamento del politico nelle varie occasioni, essendo in questione il fatto in sé dell’intervento a favore delle cooperative in esecuzione del patto corruttivo. Infine, è del tutto generico ed elusivo l’argomento sul vizio di motivazione della sentenza quanto al ruolo proprio del Testa; il ricorso non tiene conto di come questi sia stato chiaramente individuato sia per la pluralità di interlocuzioni dei correi con lui per la gestione delle singole vicende che, soprattutto, per la sua diretta mediazione al fine di consentire il passaggio di denaro in favore del soggetto corrotto. 26.6. Va, quindi, soltanto esclusa la aggravante della agevolazione mafiosa con conseguente rideterminazione della pena, anche nei confronti di Buzzi per quanto già detto. 27. Intestazione fittizia della villa di Sacro fano acquistata da Carmínati (capo 9 del primo decreto). 27.1. Il Tribunale ha accertato che nel maggio 2014 Carminati completò l’operazione di acquisto di una villa in Sacrofano per l’importo di euro 500.000, intestando tale immobile alla convivente Alessia Marini. La ragione di tale intestazione apparente era la necessità per Carminati di sottrarsi al rischio delle misure di prevenzione la cui applicazione temeva in ragione dei suoi precedenti penali. Per tale condotta Carminati è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 12-quinquies decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 (reato oggi previsto dall’art. 512-bis cod. pen.), con il concorso di Agostino Gaglianone, che si sarebbe occupato delle trattative con la venditrice, Cristina De Cataldo, custodendo parte del denaro utilizzato per il pagamento.La Corte di appello, nel confermare la sentenza di primo grado, in risposta ai motivi di impugnazione, ha rilevato che la trattativa per l’acquisto con la venditrice era stata condotta dal Gaglianone e che parte del prezzo era stata pagata per contanti ed un’altra parte con apertura di credito e mutuo a carico della Marini e della madre, ma con previsione del pagamento delle rate da parte di Carminati; solo una piccola quota fu pagata in contanti della stessa Marini. Il fatto è stato ritenuto aggravato «dalla finalità di agevolare l’associazione di tipo mafioso, perché essa ha consentito il reimpiego, per la parte consegnata in contanti, di somme provenienti dalle attività riconducibili all’associazione stessa». Carminati, nei suoi motivi – come sopra riassunti -, contesta tale decisione affermando che effettivamente il costo dell’immobile fece carico essenzialmente alla Marini ed alla madre, e che, comunque, non vi erano ragioni per le quali il ricorrente dovesse temere una misura di prevenzione. Gaglianone con il settimo motivo del suo ricorso contesta che risulti accertato un suo concorso nel reato. 27.2. Il ricorso di Carminati va rigettato per quanto riguarda la sussistenza del reato. I suoi argomenti, difatti, sono tesi a contestare le premesse in fatto che, invece, risultano chiaramente motivate dai giudici di merito che ne hanno tratto conseguenze logiche. I giudici di merito hanno ricostruito sulla scorta del contenuto di una pluralità di conversazioni intercettate la disponibilità di denaro occultato dal Carminati e provento di pregressi reati, come lui stesso ha riferito in più colloqui intercettati. Si è dato atto di come, sempre nel corso di colloqui intercettati, l’imputato abbia manifestato espressamente il timore per possibili provvedimenti giudiziari conseguenti alla individuazione di tali sue disponibilità di fonte illecita; ed indicava questo timore quale espressa ragione per la quale non voleva risultare nella veste di diretto acquirente di immobili ancorché ad uso abitativo proprio. Quindi il presupposto della volontà di sottrarsi di misure di prevenzione è stato chiaramente dimostrato. La Corte di appello ha anche affrontato il tema della eventuale partecipazione della convivente e della di lei madre all’acquisto ed ha motivato sulle ragioni per le quali l’investimento è stato pressoché completamente a carico del Carminati; oltre alla quota in contanti, di cui si riferisce in modo chiarissimo nelle intercettazioni, anche la quota apparentemente versata dalla fittizia intestataria e dalla madre, ovvero il provento di mutuo a carico della madre, sono state riportate in modo non manifestamente illogico e, quindi, con motivazione non sindacabile alle disponibilità di Carminati. In particolare, nella sentenza di primo grado, dalle pagine 626 e ss., viene dato atto della sostanziale irrilevanza della documentazione a sostegno della diversa provenienza di parte dei fondi ed è risultato come fosse stato stabilito sin dalla stipula che le rate di mutuo dovessero essere pagate dallo stesso Carminati. A fronte della chiara esposizione degli elementi di fatto e della logica motivazione che ne è conseguita non residuano ambiti di valutazione del giudice di legittimità. Va, comunque, esclusa la aggravante in contestazione, in questo caso non solo per la inesistenza della associazione mafiosa da agevolare, come si dirà, ma anche perché è comunque testuale, secondo le stesse premesse in fatto poste dai giudici di merito, che il denaro impiegato da Carminati non era neanche in ipotesi appartenente alla associazione, bensì suo personale e, inoltre, certamente proveniente da precedenti delitti commessi in un diverso contesto. 27.3. Deve essere accolto, invece, il ricorso di Gaglianone. A parte il rilievo della diversa valutazione del suo rapporto con Carminati, come si dirà a proposito della esclusione della sua responsabilità per il reato associativo, i giudici di merito hanno certamente esposto con chiarezza il suo coinvolgimento nella vicenda, avendo Gaglianone condotto per conto di Carminati le trattative con la venditrice, essendo già previsto che con la sua impresa avrebbe poi proceduto ai lavori di ristrutturazione dell’immobile; hanno inoltre accertato che lo stesso Gaglianone era detentore per conto del Carminati di parte almeno del suo denaro, nascosto in contanti. Non è stato, però, considerato se e quale sia stato lo specifico apporto di Gaglianone alla realizzazione della condotta tipica, che non può esaurirsi nella conservazione del denaro o nella conduzione di trattative senza fare il nome dell’interessato, attività in sé neutrali ai fini del reato in contestazione. Rinviando in generale alle considerazioni che saranno formulate in ordine alle imputazione contestate ai capi 20 e 21, ciò che è stato omesso nella sentenza impugnata, a fronte delle deduzioni della difesa, è la specifica valutazione dell’apporto dato da Gaglianone alla condotta specifica di attribuire ad altri la proprietà apparente del bene e del dolo di concorso. Le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che il contributo causale del concorrente morale può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazion o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso) e tuttavia ciò non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 cod. pen., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà (Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101). L’atipicità del contributo causale del complice, benché positivamente stabilita dal modello codicistico dell’art. 110 cod. pen. non coincide con l’indeterminatezza (o meglio con l’indifferenza) probatoria dell’opzione causale, circa le concrete forme del manifestarsi della condotta criminosa concorsuale come fenomeno della realtà. Il contributo atipico del concorrente, di natura materiale o morale, deve avere una reale efficienza causale, deve essere cioè condizione “necessaria” – secondo un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della “condicio sine qua non” proprio delle fattispecie a forma libera e causalmente orientate – per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto (Così, testualmente, Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671; sul tema, per tutti, Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese). Il criterio di imputazione causale dell’evento cagionato dalla condotta concorsuale costituisce il presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato e la fonte ascrittiva della responsabilità del singolo concorrente. Non diversamente, quanto alla prova del dolo di concorrere nel medesimo reato, la Corte di cassazione è consolidata nel ritenere che la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, in quanto l’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune fasi di ideazione, organizzazione od esecuzione, alla realizzazione dell’altrui proposito criminoso. E tuttavia ciò che rileva è l’unitarietà del “fatto collettivo” realizzato che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino, alla fine, con giudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo, perseguito in varia e diversa misura dagli imputati, sicché è sufficiente che ciascun agente abbia conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui (per tutte, Sez. 5, n. 25894 del 15/05/2009, Catanzaro, Rv. 243901). Tali considerazioni assumono ulteriore valenza ove si consideri che per il reato in esame è richiesto il dolo specifico. Il delitto previsto dall’art. 12-quinquies cit. richiede che tutti i concorrenti nel reato abbiano agito con il dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, per la cui prova in giudizio non è sufficiente dar conto della fittizia attribuzione della titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità (Sez. 6, n. 34667 del 05/05/2016, Arduino, Rv. 267705 in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di assoluzione dell’intestatario fittizio dei beni, ritenendo insufficiente la prova della sua consapevolezza circa l’appartenenza del titolare effettivo ad un sodalizio criminoso e della conseguente finalità di eludere le disposizioni in materia di prevenzione patrimoniale). Ciò che avrebbe dovuto essere chiarito, dunque, è se ed in che misura Gaglianone pose in essere un contributo necessario alla realizzazione del reato, se l’imputato sapeva ciò che Carminati aveva pianificato in relazione a quell’immobile e se, recepì il dolo specifico richiesto dalla fattispecie. Sul punto la motivazione è silente. Per tale reato, quindi, va disposto l’annullamento con rinvio della sentenza in riferimento al solo Gaglianone per nuovo giudizio sull’esservi un effettivo e volontario apporto causale alla fittizia intestazione, tenuto anche conto della sua diversa posizione rispetto ai fatti alla luce della decisione per le altre imputazioni. 28. Frodi fiscali e trasferimento fraudolento di valori contestati a Massimo Carminati e Antonio Esposito (capi 22 del primo decreto, 20 e 21 del secondo decreto). 28.1. Massimo Carminati e Antonio Esposito, quest’ultimo nella sua qualità di amministratore unico e socio della Coperativa sociale onlus a responsabilità limitata Cosma, sono stati ritenuti responsabili di frodi fiscali e trasferimento fraudolento di valori. Esposito, in concorso con Carminati, nel suo ruolo di amministratore di fatto, anche al fine di consentire alla Cooperativa 29 giugno di evadere le imposte dirette ed indirette, avrebbe emesso una serie di fatture per operazioni inesistenti (le fatture sono indicate nella imputazione). Carminati, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, avrebbe attribuito fittiziamente a soggetti di sua fiducia ed a cooperative a lui riconducibili “la titolarità delle quote e della carica sociale di amministratore unico della Cooperativa Cosma”; in tale contesto ad Esposito sarebbe stata fittiziamente intestata una quota di capitale di 100 euro, dopo avergli attribuito il ruolo di amministratore unico, il 30 giugno 2012 (così testualmente l’imputazione). 28.2. I ricorsi in ordine ai reati in questione sono fondati e la sentenza deve essere annullata senza rinvio quanto al capo 21 del secondo decreto perché il fatto non sussiste e con rinvio quanto ai capi 22 del primo decreto e 20 del secondo decreto. Sono fondati, infatti, il primo motivo di ricorso di Esposito e il sedicesimo motivo di ricorso di Carminati. Questa Corte di cassazione ha chiarito in molteplici occasioni che il delitto di trasferimento fraudolento di valori previsto dall’art. 12-quinquies decreto legge cit., attualmente previsto dall’art 512-bis cod. pen., integra un’ipotesi di reato a forma libera, la cui caratteristica fondamentale è la consapevole determinazione di una situazione di difformità tra titolarità formale dei beni, soltanto apparente, e titolarità di fatto, qualificata dalla specifica finalizzazione descritta dalla norma incriminatrice, precisando che il delitto si perfeziona al momento in cui è realizzata l’attribuzione fittizia (Sez. 1, n. 14373 del 28/02/2013, Perdichizzi, Rv. 255405; Sez. 1, n. 17064 del 02/04/2012, Ficara, Rv. 253340; Sez. 1, n. 4703 del 09/11/2012, Lo Giudice, Rv. 254528; Sez. 5, n. 25568 del 02/04/2007, Tunneo, Rv. 237703). Il reato si realizza attraverso l’attribuzione ad altri di denaro, beni o altre utilità, in base ad una vicenda negoziale con effetti traslativi che soltanto all’apparenza faccia acquisire a terzi la titolarità o la disponibilità del bene, in realtà rimasto nel patrimonio e sotto il controllo del soggetto apparente cedente e il delitto può sussistere anche in relazione ad un’attività economica in corso. Si è infatti affermato che, quando è riferito ad un’attività imprenditoriale, il reato si può configurare, non solo con riferimento al momento iniziale dell’impresa, ma anche in una fase successiva, allorquando in un’impresa o società, sorta in modo lecito, si inserisca un terzo quale socio occulto, che, attraverso lo schema della interposizione fittizia, persegua le finalità illecite previste dall’art. 12-quinquies cit. (Sez. 2, n. 5647 del 15/01/2014, Gobbi, Rv. 258343). In tal senso si è puntualizzato che l’interposizione fittizia ricorre anche quando sia riferibile solo ad una quota del bene in oggetto (Sez. 2, n. 23131 del 08/03/2011, Castaldo, Rv. 250561), occorrendo tuttavia che si tratti pur sempre di operazione volta ad attribuire fittiziamente nuove utilità e diretta ad uno scopo elusivo (Sez. 2, n. 23197 del 20/04/2012, Modica, Rv. 252835). Inoltre, per la configurabilità del delitto è necessario che l’operazione negoziale attenga a soggetti ed a beni suscettibili di confisca a titolo di misura di prevenzione patrimoniale: è necessario cioè che la fittizia intestazione sia oggettivamente idonea ad eludere la normativa in misura di prevenzione e deve essere, inoltre, sorretta dal dolo specifico descritto dalla fattispecie, cioè dalla finalità di elusione delle misure di prevenzione patrimoniale (Sez. 1, n. 29526 del 27/06/2013, Maviglia, Rv. 256112; Sez. 1, n. 28458 del 26/03/2013, Esposito, Rv. 256782; Sez. 5, n. 18852 del 12/02/2013, Ferrigno, Rv. 256242; Sez. 1, n. 4703 del 9/11/2012, Lo Giudice, Rv. 254528; Sez. 1, n. 17064 del 02/04/2012, Ficara, Rv. 253340). 28.3. La Corte di appello di Roma non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati. Infatti, secondo i giudici di secondo grado, la responsabilità degli imputati deriverebbe dalle risultanze di molteplici fonti di prova (intercettazioni, dichiarazioni) da cui emergerebbero le seguenti circostanze: Esposito sarebbe stato messo “alla testa” della cooperativa da Carminati, in quanto persona di sua fiducia; detta nomina sarebbe servita a Carminati per svolgere un’attività di impresa senza “comparire ufficialmente” (così la sentenza a pag. 309), in quanto questi temeva aggressioni al suo patrimonio illecitamente accumulato; la cooperativa non avrebbe disposto di mezzi e personale e non avrebbe mai effettuato lavori, sicché sarebbe stata utilizzata solo per “dirottare somme di denaro a Carminati…in forza della fatturazione (soggettivamente inesistente perché pronnanante da soggetto che non aveva eseguito i lavori” (così la sentenza impugnata a pag. 313); Esposito avrebbe avuto piena consapevolezza che la Cosma fosse uno strumento “per far pervenire liquidità a Carminati che così poteva eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione” (pag. 311 sentenza impugnata). Si tratta di elementi che rivelano una frattura evidente tra l’ipotesi accusatoria, posta a fondamento della imputazione, e le concrete risultanze probatorie: l’imputazione non attiene alla effettiva destinazione delle somme che – direttamente o indirettamente – giungevano nel patrimonio della cooperativa, ovvero alla finalità che, attraverso la Cosma, Carminati o altri intendevano perseguire, ovvero, ancora, alla “copertura” che Esposito potè fornire a Carminati nel consentire a questi di svolgere attività di impresa, quanto, piuttosto, alla intestazione fittizia della quota di 100 euro del capitale sociale. Ciò che doveva essere provato era il fatto che la intestazione di quella quota di 100 euro del capitale sociale della Cosma ad Esposito fosse frutto di un negozio fiduciario ovvero fosse soggettivamente simulata e che detta simulazione o detta intestazione fiduciaria fossero state compiute al fine specifico di eludere su quel bene – cioè sulla quota di cento euro – il rischio di applicazione della normativa in tema di misure di prevenzione patrimoniale. È possibile, cioè, che Esposito fosse un fedele strumento di Carminati, fosse un mero esecutore della volontà di Carminati, che cioè avesse un riferimento soggettivo a cui “rispondere”, ma tutto ciò non consente di per sé di ritenere provata la simulazione della intestazione della quota di 100 euro ad Esposito, peraltro avvenuta a distanza di mesi dalla assunzione dello stesso Esposito nella carica di amministratore unico della società; né è stato in nessun modo provato che Carminati avesse un potere di disposizione su quella quota di capitale, cioè che quella quota non appartenesse davvero ad Esposito. Né è obiettivamente chiaro perché Carminati dovesse creare una situazione di difformità tra titolarità formale dei beni (soltanto apparente) e titolarità di fatto in relazione ad un bene – la quota – del valore di soli cento euro. Sotto altro profilo, pur volendo prescindere dal tema della intestazione fittizia della quota, la Corte di cassazione ha chiarito che, ai fini dell’integrazione del reato ipotizzato, non è sufficiente l’accertamento della mera disponibilità del bene da parte di chi non ne risulti formalmente titolare, ma occorre la prova, sia pur indiziaria, della provenienza delle risorse economiche impiegate per il suo acquisto da parte del soggetto che intenda eludere l’applicazione di misure di prevenzione (Sez. 1, n. 42530 del 13/06/2018, C., Rv. 274024; Sez. 6, n. 26931 del 29/05/2018, Cardamone, Rv. 273419). Sul punto, la sentenza è silente, non avendo in nessun modo spiegato se ed in che misura “l’acquisto” della quota di cento euro sarebbe stato compiuto con denaro di Carminati. 28.4. La sentenza impugnata è silente anche sotto il profilo del dolo specifico dell’ipotizzato reato. Occorreva cioè provare che l’acquisto di quella quota di capitale di 100 euro – e non dei beni che direttamente o indirettamente “entravano” nel patrimonio della cooperativa – fosse finalizzata ad eludere, rispetto a quel bene – cioè alla quota- l’applicazione della normativa in tema di misure di prevenzione patrimoniale. Si è sostenuto autorevolmente che lo scopo richiesto dai reati a dolo specifico assume un duplice significato: da un lato, si riferisce all’intenzione dell’agente di provocare un evento lesivo, dall’altro, all’oggettiva idoneità dell’azione a produrre a tale risultato. Secondo l’impostazione in parola, un reato a dolo specifico non può essere integrato se non attraverso atti idonei a conseguire lo scopo verso il quale si rivolge l’intenzione dell’agente; detta interpretazione sarebbe imposta dal principio costituzionale di offensività, in quanto solo attribuendo una rilevanza anche oggettiva allo scopo caratteristico dei reati a dolo specifico si potrebbe sottrarre questa categoria di reati da sospetti di illegittimità costituzionale. Si è proposto, da una parte, di collegare il dolo specifico al fatto obiettivo, esigendo l’idoneità di questo rispetto al raggiungimento del risultato finale e, dall’altra, di utilizzare la disposizione sul reato impossibile quando tale obiettivo non possa essere concretamente realizzato. Lo scopo, si è detto, nei reati a dolo specifico deve avere un ruolo causale rispetto all’azione esterna che deve configurarsi come parziale realizzazione di quel fine: in conseguenza, la condotta può dirsi tipica solo se si pone in connessione condizionante con il contenuto finalistico descritto dalla norma penale. La giurisprudenza di legittimità richiede che il finalismo proprio del dolo specifico svolga un ruolo dominante, polarizzante nell’esplicazione della condotta volontaria (così, ad esempio in tema di abuso d’ufficio, ma anche quanto al reato di strage). Dunque, un dolo che svolge un ruolo centrale nella manifestazione della condotta, che deve essere oggetto di rigorosa prova; un accertamento che deve prescindere da comode presunzioni, da sbrigative scorciatoie, che non coincide di per sé con il fatto oggettivo della intestazione fittizia, e, soprattutto, un accertamento del quale il giudice deve dare conto in motivazione. Occorre la prova che l’intestazione fittizia sia compiuta al fine di eludere la normativa in tema di prevenzione patrimoniale (Sez. 6, n. 49832 del 19/034/2018, Matarrelli, Rv. 274286). In tal senso,come detto, si giustifica l’affermazione secondo cui il delitto previsto dall’art. 12 -quinquies cit. richiede che tutti i concorrenti nel reato abbiano agito con il dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, per la cui prova in giudizio non è sufficiente dar conto della fittizia attribuzione della titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità (Sez. 6, n. 34667 del 05/05/2016, Arduino, Rv. 267705 in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di assoluzione dell’intestatario fittizio dei beni, ritenendo insufficiente la prova della sua consapevolezza circa l’appartenenza del titolare effettivo ad un sodalizio criminoso e della conseguente finalità di eludere le disposizioni in materia di prevenzione patrimoniale). Nel caso di specie, a fronte di una condotta (l’intestazione fittizia di una quota di cento euro) già non provata in sé ed oggettivamente inidonea a conseguire lo scopo verso il quale si sarebbe rivolto l’intenzione dell’agente, la Corte di appello, per giungere ad affermare la responsabilità dell’imputato, ha finito per sovrapporre distinti profili e fare coincidere la prova del fatto oggetto della imputazione – cioè la fittizia intestazio e della quota di capitale di quella cooperativa ad Esposito al fine di eludere su quel bene l’applicazione delle norme in tema di prevenzione patrimoniale – con quella del fatto che, attraverso Esposito, Carminati “gestisse” quella cooperativa ed attraverso essa conseguisse denaro. Ne deriva che sul capo in esame la sentenza deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste. 28.5. Sono fondati anche il secondo motivo di ricorso di Esposito ed il diciassettesimo motivo di ricorso di Carminati, relativi alla contestazione di frode fiscale in concorso, ascritta loro nei due separati capi di imputazione, 22 del primo decreto e 20 del secondo decreto. La Corte di appello ha posto a fondamento del giudizio di penale responsabilità una serie di elementi di prova (risultanze di intercettazioni, documenti provenienti dallo stesso ricorrente, dichiarazioni di Fabrizio Testa, in quanto soggetto cui era riconducibile la società Immobile Business s.r.l.), per ritenere che le fatture indicate nella imputazione furono emesse per operazioni inesistenti, anche solo in parte, attesa la genericità della documentazione quanto alla data in cui sarebbero state compiute le prestazioni ed i servizi resi. La tesi recepita dalla Corte è che quelle fatture furono emesse dalla Cosnna in favore della cooperativa 29 Giugno per consentire l’uscita contabile di denaro da quest’ultima verso Carminati, cioè il soggetto cui sostanzialmente era riferibile la cooperativa Cosma. Si è già detto di come la Cosma fosse stata utilizzata per «dirottare somme di denaro a Carminati…in forza della fatturazione (soggettivamente inesistente perché promanante da soggetto che non aveva eseguito i lavori», così testualmente la sentenza impugnata a pag. 313). In tale quadro di riferimento, i motivi di ricorso sono estrinsecamente generici, e quindi inammissibili, nella parte in cui ripropongono le stesse argomentazioni già portate alla cognizione della Corte di appello in ordine alla inesistenza delle operazioni sottostanti a quelle fatture, senza tuttavia confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata. Sono invece fondati i motivi di ricorso nella parte relativa alla valutazione della finalità specifica sottesa alla condotta contestata. Nella giurisprudenza della Corte di cassazione è consolidato il principio secondo cui, in tema di reati tributari, il dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte, che concorre ad integrare il reato di cui all’art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extra evasiva, non perseguita dall’agente in via esclusiva, e il relativo accertamento, riservato al giudice di merito, se adeguatamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità (Sez. 3, n. 39316 del 24/05/2019, Tosi, Rv. 277162; Sez. 3, n. 44449 del 17/09/2015, Colloca, Rv. 265442; Sez. 3, n. 27112 del 19/02/2015, Forlani, Rv. 264390). Si sostiene, in modo condivisibile, che quando lo specifico dolo di evasione della condotta tipica si coniughi con una distinta e autonoma finalità extra tributaria, sempre che quest’ultima non sia perseguita dall’agente in via esclusiva, non vi sono serie ragioni giuridiche per dubitare della compatibilità del dolo specifico di evasione fiscale rispetto alla concorrente finalità extra evasiva (che, nella specie, sarebbe consistita, secondo la stessa ricostruzione della Corte di appello, nella esigenza di “portare” denaro a Carminati). Tuttavia, il dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, ancorché non esclusivo, deve essere accertato sul piano probatorio: il carattere concorrente della finalità di evasione fiscale non equivale a ritenere sussistente detta finalità attraverso una semplificazione probatoria che, sostanzialmente, finisce per presumerla, ovvero facendo ricorso ad espressioni per cui, accertata la finalità extra evasiva principale, si ritenga provata “anche” la finalità evasiva. Nel caso di specie, i giudici di appello, provata la finalità principale sottesa alla emissione di quelle fatture da parte della Cosma, cioè quella di consentire di dirottare somme di denaro dalla Cooperativa 29 giugno a Carminati, hanno poi apoditticamente affermato che detta operazione fu compiuta “anche” per permettere a quest’ultima cooperativa, destinataria delle fatture, di detrarre un costo inesistente. Occorreva invece provare che Esposito emise quelle fatture per operazioni inesistenti anche al fine specifico di consentire alla Cooperativa 29 giugno di evadere le imposte e non solo per consentire di far affluire nei conti della Cosma denaro da destinare a Carminati. 28.6. Ne discende che sul capo in esame, la sentenza deve essere annullata con rinvio; la Corte di appello, applicando i principi indicati, verificherà se ed in che termini sia configurabile il dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice in capo all’imputato. 29. Frode fiscale contestata a Massimo Carminati e Agostino Gaglianone (capo 23 del primo decreto). 29.1. Con il capo 23 del primo decreto era stato contestato a Carminati e Gaglianone il reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 in quanto “Gaglianone nella qualità di legale rappresentante della Imeg s.r.I., anche al fine di consentire alla Eriches l’evasione delle imposte dirette e indirette, avrebbe emesso verso la società medesima fatture relative a operazioni inesistenti ” per oltre 200.000 euro nonché una fattura di 36.000 euro per una ulteriore operazione inesistente al fine di consentire alla Cesas s.r.l. l’evasione di imposte. La Corte di appello ha ritenuto che l’ipotesi iniziale fosse stata smentita in quanto si sarebbe trattato di fatture relative a lavori effettivamente svolti dalla impresa di Gaglianone per l’ampliamento del campo nomadi di Castel Romano: pur avendo la committente Eriches formalmente appaltato i lavori alla ditta Cesas s.r.l. di Giuseppe Mogliani con direzione lavori affidata all’architetto Mario Ciotti, le opere sarebbero state compiute dalla Imeg s.r.l. di Gaglianone. I giudici di merito, però, hanno accertato che dietro lo schermo di tali lavori, effettivamente svolti, fosse stata emessa anche una fattura, la n. 3/2014, indicata in imputazione per euro 20.000, ma di importo di euro 38.430, in realtà non riferibile ad alcun lavoro bensì, come risultato dalle intercettazioni, «strumentale alla restituzione a Carminati di denaro di cui egli era creditore verso Buzzi (…) e Gaglianone intese favorire Carminati». La Corte, in definitiva, dopo aver argomentato sulla finalità principale dell’operazione – il trasferimento di denaro in favore di Carminati -, ha ritenuto che comunque Gaglianone avesse tratto da tale operazione una propria utilità, consistente nella possibilità di evadere le imposte. Come sopra riportato, sia Carminati che Gaglianone ritengono invece di avere dimostrato l’effettività delle operazioni portate dalle fatture e comunque che non vi era alcun fine di evasione fiscale. 29.2. I motivi sono fondati. Vanno premesse le regole in diritto già sopra richiamate in relazione alla analoga imputazione di cui ai capi 22 del primo decreto e 20 del secondo decreto. Innanzitutto, non è chiaro quale sia il fatto, e la relativa qualificazione giuridica, per cui è stata disposta la condanna. Secondo la originaria contestazione, Gaglianone avrebbe emesso una falsa fattura per consentire a terzi (Eriches) l’evasione fiscale. Il Tribunale (pag. 1014) era giunto alla conclusione che «In definitiva Carnninati e Gaglianone vanno dichiarati colpevoli in relazione alla sola fattura n.3/14 contestata al capo 23, invero emessa al fine di far conseguire al primo l’utile coincidente con l’importo riportato nella fattura stessa (e senza che in contrario si possa obiettare che l’art.8 del d.lgs.74/2000 richiede a sua volta il dolo specifico dell’evasione fiscale, sussistendo il reato anche nell’ipotesi di finalità concorrente». Non si era precisato quale fosse il soggetto alla cui evasione fiscale era stata (anche) finalizzata l’operazione ma, in base al destinatario della fattura ed a quanto riportato nella imputazione, presumibilmente si sarebbe trattato della Eriches. La Corte di appello è giunta tuttavia ad una ben diversa conclusione, rilevando che Gaglianone « (…) aveva piena consapevolezza della necessità che Carminati rientrasse di somme a lui spettanti ed egli, traendo il proprio tornaconto consistente nella possibilità di evadere le imposte, mise a disposizione la Imeg per favorire la finalità dell’associazione di regolare i rapporti economici con uno dei due capi». Ovvero, l’operazione sarebbe finalizzata (anche) alla evasione fiscale di Gaglianone e non più della Eriches. In tal modo, il fatto ricostruito non è più quello di emissione di una fattura per consentire a terzi l’evasione fiscale, ma quello sanzionato dall’art. 2 del d.lgs. 74/2000 di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti. In ogni caso, secondo entrambe le ricostruzioni del fatto, sussistono i vizi denunciati. Nel caso in cui la Corte di appello abbia ritenuto l’operazione finalizzata (anche) all’evasione fiscale da parte di Gaglianone, avrebbe dovuto accertare la condizione fissata dal comma 2 del citato art. 2, ovvero l’effettiva utilizzazione della fattura nelle dichiarazioni della società emittente. Ove invece la Corte di appello abbia inteso confermare la decisione di primo grado, facendo riferimento implicito al contenuto del capo di imputazione per ritenere che il soggetto beneficiario dell’evasione fosse la Eriches, non sarebbe stata data la prova del dolo specifico del reato di cui al citato art. 8. E’ vero che in comuni operazioni commerciali anche la sola inesistenza della operazione, quando l’emittente la fattura sia un soggetto Iva, può costituire una prova adeguata e che il fine di favorire l’evasione fiscale di terzi può anche non essere esclusivo, ma gli stessi giudici di merito hanno descritto l’assoluta peculiarità dell’operazione. Nel caso in esame, difatti, la vicenda è tutta incentrata sulla ritenuta esigenza di coprire i flussi di denaro in favore di Carminati, tanto che la possibile finalità di evasione di terzi non è stata considerata in termini espliciti, con la conseguenza di avere nei due gradi di giudizio conclusioni apparentemente del tutto difformi sull’effettivo evasore; per tale ragione non poteva essere sufficiente per dimostrare il dolo del reato di cui all’art. 8 cit. il fatto stesso della falsità dell’operazione. 29.3. Si impone, quindi, l’annullamento con rinvio perché, esclusa comunque la aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., ritenuto definitivamente comprovato il dato dell’inesistenza dell’operazione, venga innanzitutto precisato quale sia il reato che si ritiene commesso; nel primo dei casi indicati, andrà dimostrata la effettiva utilizzazione della fattura in dichiarazione/i fiscali e, nell’altro, la finalità di evasione nei termini già rappresentati quanto alla contestazione dei capi 22 del primo decreto e 21 del secondo decreto, nonché le modalità di concorso del “beneficiario” Carminati. 30. Trasferimento fraudolento di valori contestati a Buzzi Salvatore, Carminati Massimo e Di Ninno Paolo (capo 24 del primo decreto). 30.1. Buzzi, Carminati e Di Ninno sono stati condannati per la fittizia attribuzione al consorzio Eriches e alla Cosma di somme pari, rispettivamente, a 1.000.000 euro e 141.000 euro, in realtà spettanti a Carminati. I giudici di merito hanno ritenuto provato anche in questo caso la finalità di elusione delle misure di prevenzione patrimoniali. Dalle intercettazioni è risultato che la Cooperativa Cosma sarebbe stata utilizzata per dirottare somme di denaro a Carminati, in particolare le somme dovute all’appaltatrice 29 Giugno (quale reale esecutrice dei lavori) e “dirottate”, in forza della fatturazione (soggettivamente inesistente perché pronnanante da soggetto che non aveva eseguito i lavori) effettuata dalla Cosma a quest’ultima società (e, quindi, al suo dominus Carminati). La Corte di appello ha valutato gli argomenti difensivi, sostanzialmente fondati sull’assunto secondo cui i lavori svolti dalla Cosma sarebbero stati effettivi e che Carminati non avesse motivi di temere una misura di prevenzione, ed ha invece ritenuto provata l’inesistenza dei lavori da parte della Cosma, la quale si sarebbe limitata solo ad incassare gli importi per i lavori svolti dalla cooperativa di Buzzi. Buzzi non ha proposto appello né ricorso per cassazione in ordine a tale reato. Carminati con il ricorso ha sostenuto l’evidente effettività dei lavori effettuati e la assenza di ragioni per un intento fraudolento di omissione non avendo alcun intento di elusione delle misure di prevenzione. Di Ninno, come sopra riportato, afferma che risulta come non abbia né partecipato alla intestazione, né ne sia stato consapevole. 30.2. I motivi sono infondati. Il motivo di Carminati è del tutto generico e, comunque, mirato alla rivalutazione del fatto. La parte si è limitata ad una generica doglianza in ordine ad una insoddisfacente risposta da parte della Corte di appello, senza tuttavia considerare l’effettivo contenuto della motivazione che, invece, ha ampiamente argomentato sulla conduzione dei lavori e sulla assenza di interventi della Cosma; in tale contesto, si è inoltre, confermato come la condotta di Carnninati fosse tesa ad occultare le sue disponibilità economiche proprio per evitare misure ablative. Il motivo, pur apparentemente più ampio, di Di Ninno è parimenti infondato poiché diretto ad una autonoma rivalutazione delle prove per potere affermare un suo ruolo di mero contabile non consapevole della finalità della intestazione soggettiva e del contrasto con la reale esecuzione dei lavori; in realtà la Corte ha scrupolosamente motivato, rilevando, sulla scorta delle intercettazioni, come «proprio Di Ninno spiegava che la Cosma era uno strumento per regolare i rapporti economici tra Buzzi e Carminati», risultando quindi proprio il ricorrente avere un ruolo di ideatore dei meccanismi fraudolenti in questione. Anche in questo caso, deve essere soltanto esclusa l’aggravante della agevolazione mafiosa, esclusione che vale anche nei confronti di Buzzi per le ragioni dette, con rinvio al fine della rideternninazione della pena. 31. Favoreggiamento personale commesso da De Carlo Giovanni (capo 28 del primo decreto). 31.1. A De Carlo è contestato di avere contribuito all’accertamento della presenza di una microspia collocata dagli inquirenti presso lo studio degli avvocati Pierpaolo Dell’Anno, Domenico Leto e Michelangelo Curti; in tal modo l’imputato avrebbe confermato i sospetti dei titolari dello studio, che all’epoca sarebbero stati destinatari di indagine per il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (posizioni poi archiviate); De Carlo avrebbe individuato la microspia, che tuttavia sarebbe stata lasciata nel posto in cui era stata collocata. Il ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. 31.2. Con i primi tre motivi di ricorso è stata posta la questione del se il decreto di giudizio immediato debba contenere l’avviso riguardante la facoltà di chiedere la sospensione del procedimento per la messa alla prova. Sostiene il ricorrente che: a) il Tribunale, all’udienza del 24/11/2015, avrebbe rigettato la richiesta di sospensione del procedimento per l’ammissione alla messa alla prova assumendo che il reato per il quale si procedeva fosse punito con una pena superiore a quella prevista dall’art. 168-bis cod. pen.; ciò sarebbe stato affermato perché – aderendo all’opzione interpretativa secondo cui ai fini della individuazione della pena indicata nell’art. 168-bis cod. pen. si sarebbe dovuto tenere conto anche alle circostanze aggravanti – in quel momento si procedeva per un reato che, in quanto aggravato ai sensi dell’art. 7 del d. Igs n. 152 del 1991, era punito con una pena superiore al limite consentito; b) il principio appena indicato fu successivamente non condiviso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione secondo cui, invece, ai fini dell’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, il richiamo contenuto all’art. 168-bis cod. pen. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie- base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato (Sez. U, n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238); c) il Tribunale, investito nuovamente della questione dopo l’intervento delle Sezioni unite, non avrebbe fornito risposta; d) la Corte di appello, a sua volta, avrebbe rigettato il motivo di impugnazione sul presupposto dell’assenza di una previsione normativa impositiva dell’obbligo di inserire nel decreto di giudizio immediato l’avviso della facoltà di accedere alla messa alla prova, non potendo, per l’eccezionalità della norma, farsi riferimento ad applicazioni analogiche di altre disposizioni contenute nel codice di rito. A parere del ricorrente, invece, la norma a cui dovrebbe farsi riferimento sarebbe quella prevista dall’art. 464-bis cod. proc. pen. e del diritto di ricevere avviso della facoltà di chiedere la messa alla prova si avrebbe conferma, secondo l’imputato, dalla sentenza n. 201 del 2016 della Corte costituzionale che – dichiarando la illegittimità dell’art. 460 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga detto avviso – ha chiarito, da una parte, come il procedimento di sospensione con messa alla prova debba essere equiparato ai riti alternativi con conseguente funzione di garanzia dell’avviso della facoltà di richiederne l’accesso, e, dall’altra, che, là dove il termine di accesso al rito sia previsto a pena di decadenza in una fase antecedente all’udienza, l’imputato deve essere posto nella condizioni di avere conoscenza di tale facoltà. Dunque, si sostiene, l’ordinanza emessa dal Tribunale doveva essere annullata con conseguente declaratoria di nullità del decreto di giudizio immediato e restituzione degli atti al Giudice per le indagini preliminari. Si tratta di una ricostruzione fattuale – sostanzialmente recepita dalla Corte di appello – che pone due distinte questioni. La prima attiene, sul piano oggettivo, al se il decreto che dispone il giudizio immediato debba contenere l’avviso della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento per l’ammissione alla messa alla prova; la seconda è se siano contemplati rimedi restitutori nei casi, come quello in esame, in cui la parte, deducendo tempestivamente l’omesso avviso, richieda la messa alla prova e questa venga rigettata sull’assunto, successivamente rivelatosi infondato, dell’assenza dei presupposti per l’ammissione. 31.3. Quanto al primo dei profili indicati, si tratta di una questione su cui la Corte costituzionale è stata già in passato chiamata a pronunciarsi. Assume rilievo la sentenza n. 201 del 2016 con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 460, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., per contrasto con l’art. 24 Cost., «nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova». Secondo la Corte costituzionale, l’istituto della messa alla prova, introdotto con gli artt. 168-bis, 168-ter e 168 -quater cod. pen., «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova». Sulla base di tale dato di presupposizione, è stato chiarito che «il complesso dei principi, elaborati da questa Corte, sulle facoltà difensive per la richiesta dei riti speciali non può non valere anche per il nuovo procedimento di messa alla prova. Per consentirgli di determinarsi correttamente nelle sue scelte difensive occorre pertanto che all’imputato, come avviene per gli altri riti speciali, sia dato avviso della facoltà di richiederlo. Poiché nel procedimento per decreto il termine entro il quale chiedere la messa alla prova è anticipato rispetto al giudizio, e corrisponde a quello per proporre opposizione, la mancata previsione tra i requisiti del decreto penale di condanna di un avviso, come quello previsto dall’art. 460, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. per i riti speciali, della facoltà dell’imputato di chiedere la messa alla prova comporta una lesione del diritto di difesa e la violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost. L’omissione di questo avvertimento può infatti determinare un pregiudizio irreparabile, come quello verificatosi nel giudizio a quo, in cui l’imputato nel fare opposizione al decreto, non essendo stato avvisato, ha formulato la richiesta in questione solo nel corso dell’udienza dibattimentale, e quindi tardivamente». In tale contesto è intervenuta la sentenza n. 14 del 2020 con cui la Corte costituzionale, manipolando l’art. 456 cod. proc. pen., ha incluso la procedura di cui all’art. 168-bis tra quelle che, afferendo alla piena esplicazione del diritto di difesa da parte dell’imputato, devono essere l’oggetto di una comunicazione specifica e dedicata in caso di notifica del decreto di giudizio immediato. Dunque, una nullità che, nella specie, da una parte, era stata dedotta dalla parte, ma, dall’altra, era stata sanata, in quanto la parte, chiedendo la sospensione del procedimento per l’ammissione alla messa alla prova, si era avvalsa, ai sensi dell’art. 183, lett. b) cod. proc. pen, della facoltà al cui esercizio l’atto omesso era preordinato. Davanti alla richiesta della parte, il Tribunale rispose affermando che non vi fossero le condizioni concrete per accedere al rito, in ragione della imputazione formulata che, secondo una determinata interpretazione, prevedeva per il reato per cui si procedeva una pena superiore a quella indicata nell’art. 168-bis cod. proc. pen. a causa della contestazione della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991; lo stesso Tribunale, dopo l’intervento delle Sezioni Unite, che avevano chiarito come nella specie l’elemento ostativo per procedere alla sospensione del processo non vi fosse, non fornì adeguata risposta. A sua volta la Corte di appello ha ritenuto inammissibile la richiesta sulla base dell’assunto, inconferente, che il decreto di giudizio immediato non dovesse contenere l’avviso di richiedere la messa alla prova. 31.4. Ciò che avrebbe dovuto essere valutato dai giudici di merito è la seconda questione in precedenza indicata e cioè se – ed entro quali limiti – fossero ammissibili rimedi restitutori nei casi, come quello in esame, in cui la parte, dedotto tempestivamente l’omesso avviso, chieda nondimeno di essere ammesso alla messa alla prova e la richiesta venga rigettata sull’assunto, successivamente rivelatosi infondato, dell’assenza dei presupposti per l’ammissione (sul tema, Sez. U, n. 32351 del 26/06/2014, Tamborrino, Rv. 259925). Costituisce principio di diritto acquisito che – come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte regolatrice – l’ordinanza di rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non è immediatamente impugnabile, ma è appellabile unitamente alla sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 586 cod. proc. pen., in quanto l’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., nel prevedere il ricorso per cassazione, si riferisce unicamente al provvedimento con cui il giudice, in accoglimento della richiesta dell’imputato, abbia disposto la sospensione del procedimento con la messa alla prova (Sez. U, n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, Rv. 267237; Sez. 3, n. 6046 del 27/09/2016, dep. 2017, Tortorelli, Rv. 268828).Il tema su cui la Corte di appello avrebbe dovuto rispondere non era dunque quello del se il decreto che dispone il giudizio immediato dovesse o meno contenere l’avviso di chiedere la messa alla prova, atteso che l’imputato aveva comunque chiesto l’amissione al rito, quanto, piuttosto, se, a seguito dell’intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione, all’imputato fossero riconoscibili rimedi restitutori, in considerazione del fatto che dapprima gli era stata rigettata la richiesta di sospensione del procedimento per l’accesso alla messa alla prova sulla base di un presupposto poi rivelatosi infondato, e, successivamente, preclusa la possibilità di accedere al rito, nuovamente richiesto. La Corte di appello sul punto è rimasta silente, limitandosi a ritenere inammissibile la richiesta di messa alla prova. 31.5. La questione perde di concreta rilevanza in ragione della fondatezza dei motivi di ricorso (quarto, quinto e sesto) relativi al giudizio di penale responsabilità. In punto di fatto, secondo la Corte di appello: a) il 10.6.2013, Massimo Carminati giunse alle ore 15.10 presso lo studio degli avvocati Leto, Curti e Dell’Anno e si allontanò a parlare con questi; b) alle 15,12 Curti riferì a Leto di avere appreso il giorno precedente da tale Massimo – che la Corte di appello ha escluso essere Carnninati – “che la stanza è sotto intercettazione” e Leto dichiarò che occorreva fare accertare ciò; c) 1’11.6.2013 De Carlo, in quel momento indagato per gravi reati, si incontrò con gli avvocati Leto e Curti presso un bar e successivamente si recò all’interno dello studio con i due professionisti; d) De Carlo, su richiesta dell’avvocato Leto, si trattenne nella stanza di questi e “dietro le sue indicazioni, individuò la microspia, portandola alla luce, per poi decidere insieme all’avvocato di lasciarla lì dov’era” (così la sentenza impugnata a pag. 331); e) l’intervento di De Carlo nella stanza sarebbe durato circa cinque minuti e consistette nella “verifica della effettiva collocazione” della microspia. Si tratta di una ricostruzione argomentativa che, anche in questo caso recependo la decisione emessa da questa Corte in sede cautelare, non tiene conto di una serie di dati fattuali che pure erano stati specificamente indicati nei motivi di appello e che attengono: a) alla circostanza che, al momento in cui il fatto sarebbe stato commesso, il solo soggetto indagato era l’avvocato Dell’Anno, cioè un soggetto con cui l’imputato non ebbe formalmente contatti;b) al fatto che gli avvocati Leto e Curti, cioè i soggetti con cui De Carlo ebbe contatti, sapessero già della esistenza delle microspia all’interno dello studio; c) alla circostanza che l’avvocato Leto, cioè il soggetto che portò De Carlo nella sua stanza, sapesse non solo della presenza della microspia, ma anche di luogo in cui questa si trovava; d) al contenuto della deposizione dell’ufficiale di polizia giudiziaria che, nel corso del dibattimento, aveva circoscritto la presenza di De Carlo all’interno di quella stanza non in alcuni minuti, come sostenuto dalla Corte di appello, ma in quindici secondi. Tali dati, su cui la Corte di appello ha fornito una motivazione obiettivamente sbrigativa, assumono rilevante valenza perché potenzialmente in grado di disarticolare il ragionamento probatorio da cui si è fatta conseguire la prova della condotta oggettiva di favoreggiamento che, secondo i giudici di merito, sarebbe consistita nella individuazione della microspia e del posto in cui questa era collocata. La motivazione della sentenza è instabile perché, al fine di attribuire rilievo penale alla condotta in concreto posta in essere dall’imputato, valorizza un dato, quello del tempo in cui De Carlo si sarebbe fermato nella stanza dell’avvocato, che, a sua volta, è instabile, perché affermato senza tenere conto dei rilievi difensivi ancorati a solidi profili fattuali. La giurisprudenza di legittimità ha in molteplici occasioni evidenziato come la condotta del reato di favoreggiamento personale, che è un reato di pericolo, deve consistere in un’attività che frapponga un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento delle indagini, che abbia cioè provocato una negativa alterazione – quale che sia – del contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche erano in corso o si sarebbero comunque potute svolgere (Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani, Rv. 264125, intervenuta in sede cautelare proprio sui fatti oggetto del processo; Sez. 6, n. 9415 del 10/02/2016, Sorrentino, Rv. 267276; Sez. 6, n.709 del 24/10/2003, dep. 2004, Brugellis, Rv. 228257; Sez. 6, n. 9989 del 05/02/2015, Paladino, Rv.262799). Ai fini della configurazione del reato e della idoneità della condotta è necessario verificare la consistenza dell’aiuto fornito, il senso della condotta rispetto alla sua capacità di sviare l’attività investigativa ovvero di turbare quella di ricerca e acquisizione della prova. Il reato può essere integrato da qualunque condotta, positiva o negativa, diretta o indiretta (Sez. 6, n. 2936 del 01/12/1999, dep. 2000, Rv. 217108), mentre non è necessaria la dimostrazione dell’effettivo vantaggio conseguito dal soggetto favorito, occorrendo solo la prova della oggettiva idoneità della condotta favoreggiatrice ad intralciare il corso della giustizia (Sez. 6, n. 3523 del 07/11/2011, dep. 2012, Rv. 251649). 31.6. Nel caso in esame, le risultanze dibattimentali avevano modificato in modo significativo la piattaforma indiziaria presa in considerazione in sede cautelare dalla Corte di cassazione, e prospettavano rilevanti questioni che imponevano di considerare, innanzitutto, come De Carlo non avesse compiuto “una minuziosa e ripetuta ispezione effettuata all’interno degli uffici dello studio legale per “bonificarlo” da un congegno elettronico idoneo alla registrazione delle conversazioni che vi erano” (questo il dato fattuale preso in considerazione dalla Corte di cassazione in sede cautelare e richiamato testualmente ed in modo acritico dalla Corte di appello), essendo stato il suo intervento limitato a pochi secondi. Andava inoltre considerato che l’imputato non aveva affatto provocato una negativa alterazione del contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche erano in corso, essendosi invece limitato a confermare un fatto già noto, senza modificare lo stato dei luoghi né “bonificare” alcunchè e non avesse neppure compiuto alcuna attività di individuazione del posto in cui era collocata la microspia, perché detto luogo era già noto all’avvocato Leto, che lo indicò al ricorrente. 31.7. La Corte di appello ha argomentato ignorando tali temi, limitandosi a riproporre la trama argomentativa che aveva ricevuto in sede cautelare l’avallo della Corte di cassazione ed ad affermare in maniera assertiva che la condotta avesse una “indubbia ed oggettiva finalità elusiva delle indagini”, senza tuttavia nemmeno spiegare perché De Carlo, che in quel momento era sottoposto ad indagini per concorso esterno in associazione mafiosa e per altri gravi reati, dovesse necessariamente sapere che quella microspia non fosse funzionale ad accertare fatti che potessero direttamente interessarlo; sul punto la Corte di appello si è limitata a ritenere che De Carlo, in ragione del suo spessore criminale, dovesse “certamente” essere informato che “il giudice non può ricercare le tracce di reati presso gli studi dei difensori degli indagati” (così a pag. 332 la sentenza impugnata). Il vizio della sentenza attiene a temi fondanti che svuotano di valenza – anche in senso prospettico – il quadro accusatorio; ne deriva che sul capo in questione la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. IV. I reati associativi I. La questione dell’associazione mafiosa nella giurisprudenza. 1. Premessa. Le questioni poste nelle sentenze di merito e nei motivi di ricorso rendono opportuno premettere quali siano i principi applicabili nella vicenda in esame. Il tema è quello del se ed a quali condizioni sia configurabile il reato di associazione di tipo mafioso in realtà territoriali sempre più distanti da quelle che hanno storicamente ispirato l’introduzione della fattispecie criminosa. La scelta del legislatore del 1982 di costruire il reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen. facendo riferimento ad un modello specifico (quello della c.d. mafia tradizionale, radicata in determinate zone geograficamente note) non consente, naturalmente, di ritenere che il reato sia configurabile solo nelle realtà criminali prese in considerazione dal legislatore nella descrizione del modello. Il dato letterale della norma è chiaro: da una parte, viene descritta una tipicità già nota perché derivante da contesti criminali conosciuti – la mafia siciliana -, dall’altra, è tratteggiato un modello fluido a cui è possibile attingere ogni qual volta si sia in presenza di una criminalità organizzata che, per caratteristiche strutturali e, come si dirà, per il metodo impiegato nel suo agire, sia in grado di sprigionare qualitativamente una carica offensiva del tipo di quella caratterizzante i contesti già noti. L’ultimo comma dell’art. 416-bis cod. pen. consente di applicare le disposizioni contenute nei commi precedenti oltre che alla camorra ed alla ‘ndrangheta, anche «alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso». La esportabilità del modello a realtà criminali diverse rispetto a quelle che hanno ispirato l’introduzione del reato presuppone anche la consapevolezza della evoluzione delle modalità operative delle associazioni criminali e, dunque, in tal senso si è avvertita l’esigenza di interpretare non in senso statico gli elementi di struttura della fattispecie ed, in particolare, quelli del c.d. “metodo mafioso” e dell’assoggettamento omertoso, tipizzati dall’art. 416-bis, comma 3, cod. pen.: una situazione dialettica, inevitabilmente in movimento, fra “diritto legislativo” e “diritto giurisprudenziale”, che, tuttavia, è utile evidenziarlo subito, non può giungere a piegare le esigenze di tassatività della fattispecie e la prevedibilità delle decisioni ad esigenze di semplificazioni probatorie ed a necessità di andare al “cuore” sostanziale di intricate vicende.2. L’associazione mafiosa come reato associativo. L’associazione mafiosa non è un reato associativo “puro”, che si perfeziona sin dal momento della costituzione di una organizzazione illecita che si limiti a programmare di utilizzare la propria forza di intimidazione e di sfruttare le conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà per la realizzazione degli obiettivi indicati dalla norma. La questione, come è noto, attiene alla interpretazione del dato normativo «si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo». Si tratta di una espressione che rende esplicita la necessità che il gruppo faccia un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione, non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso; occorre che il sodalizio “dimostri” di possedere detta forza e di essersene avvalso. Non è in discussione la natura di reato di pericolo del delitto in esame, in qualche occasione utilizzata per piegare il dato letterale della norma ad opzioni interpretative diverse. Tuttavia, affermare che il reato di associazione di stampo mafioso sia un reato di pericolo, non significa che «per l’integrazione del delitto di associazione di tipo mafioso, configurato dal legislatore quale “reato di pericolo” è sufficiente che il gruppo criminale sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento e omertà» (così, in giurisprudenza, Sez. 6, n. 3027 del 20/10/2015, dep. 2016, Ferminio; nello stesso senso, Sez. 5, n. 38412 del 25/06/2003, Di Donna, Rv. 227361; Sez. 5, n. 45711 del 02/10/2003, Peluso, Rv. 227994). Il reato di associazione di tipo mafioso è un reato di pericolo perché la esistenza dell’associazione pone in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico, la libera partecipazione dei cittadini alla vita politica ed altri interessi ancora ma, come è stato rilevato, ciò non consente affatto di ritenere che gli elementi costitutivi della fattispecie possano anche eventualmente manifestarsi, ovvero che, probabilmente, potrebbero manifestarsi, forse, se necessario, in futuro. In tal senso devono essere riviste le affermazioni secondo cui con l’art. 416- bis cod. pen. si incriminerebbero le mere potenzialità, per quanto serie, di un futuro uso del metodo mafioso. Si è osservato che, diversamente dall’associazione per delinquere semplice, l’associazione mafiosa non è strutturata sulle “intenzioni”, ma su una rete di effettive derivazioni causali. Dunque, non un’associazione per delinquere, ma un’associazione che delinque; il metodo mafioso costituisce il mezzo, lo strumento, il modo con cui l’associazione persegue gli scopi indicati dalla norma e per tale ragione è necessaria, sempre, la sua concreta manifestazione esterna. Si è sottolineato che l’associazione mafiosa esiste se il sodalizio possiede – e i sodali sfruttano – un “prestigio criminale” derivante dal vincolo associativo e “da una pregressa consuetudine di violenza, che consente di infiltrarsi, sfruttando una succubanza “diffusa” e limitandosi se del caso a “lanciare avvertimenti anche simbolici o indiretti”, in ambiti politici, amministrativi, imprenditoriali: in tutti quei luoghi e contesti, insomma, dove è possibile trarre e moltiplicare profitti economici agendo in maniera “organizzata”. Si tratta di un’opzione interpretativa coerente, da una parte, con lo sviluppo dei lavori parlamentari, che, partendo da una originaria proposta che prevedeva un reato meramente associativo, giunsero all’attuale norma, incentrata sull’uso dell’indicativo “si avvalgono”, e, dall’altra, con i principi costituzionali di materialità e tassatività della fattispecie di cui all’art. 25 Cost. In tal senso si pone la giurisprudenza maggioritaria, secondo cui, ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., occorre che l’associazione abbia conseguito in concreto, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione che deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione, quale forma di condotta positiva (tra le altre, Sez. 6, n. 50064 del 16/09/2015, Barba, Rv. 265656; Sez. 2, n. 24/04/2012, Barbaro, Rv. 254031; Sez. 6, n.44667 del 12/05/2016, Camarda, Rv. 268676; Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, 269043; Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264623). La capacità intimidatrice del metodo mafioso «deve essere attuale, effettiva, deve avere necessariamente un riscontro esterno. Non può essere limitata ad una mera potenzialità astratta; deve, piuttosto, trovare conforto in elementi oggettivi che possano consentire all’interprete di affermare che l’azione riferibile ad un determinato gruppo organizzato di persone, strutturato secondo le connotazioni tipiche degli organismi di matrice mafiosa, sia anche effettivamente in grado di permeare – per l’assoggettamento e l’omertà provocate e correlate alle concrete iniziative illecite poste in essere – l’ambiente territoriale economico, sociale, politico di riferimento, deviandone le dinamiche e piegandone ai propri scopi l’ordinato assetto (…). Il c.d. metodo mafioso deve necessariamente avere una sua “esteriorizzazione” quale forma di condotta positiva richiesta dalla norma con il termine “avvalersi”; esteriorizzazione che può avere le più diverse manifestazioni purché si concreti in atti concreti, riferibili ad uno o più soggetti, suscettibili di valutazione, al fine dell’affermazione, anche in unione con altri elementi che li corroborino, dell’esistenza della prova del metodo mafioso» (così, Sez. 6, n. 50064 del 16/09/2015, Barba, cit.).Ciò che è essenziale è che la fonte della forza di intimidazione derivi dall’associazione, cioè dal gruppo, dal suo prestigio criminale, dalla sua fama, dal vincolo associativo e non dal prestigio criminale del singolo associato. La fama criminale è quella impersonale del gruppo; un’associazione per delinquere che tra i suoi partecipi o tra i suoi capi annoveri un soggetto di riconosciuta fama criminale non diventa, per ciò solo, un’associazione di tipo mafioso. La Corte di cassazione ha in più occasioni affermato che «a qualificare o ad escludere la configurabilità di un’associazione di tipo mafioso è essenziale anzitutto che questa si avvalga o meno della forza di pressione derivante dal vincolo associativo in se stesso nel senso che, anche se venissero individuati, perseguiti ed isolati gli autori delle singole manifestazioni di minaccia o di danno, resterebbe pur sempre l’incombente pericolo del permanere della società criminale costituita anche da altri affiliati rimasti liberi» (Sez. 1, n. 6330 del 11/10/1986, Musacco, Rv. 176087; nello stesso senso, tra le altre, Sez. 1, n. 9604 del 12/12/2003, dep. 2004, Marnaro, Rv. 228479 secondo cui «è l’associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, ad esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione»; nello stesso senso, Sez. 6, n. 2812 del 12/10/2017, dep. 2018, Barallo, Rv. 273537; Sez. 5, n. 56596 del 03/09/2018, Balsebre, Rv. 274753; Sez. 1, n. 22242 del 16/05/2011, Baratto, Rv. 250704). L’associazione è mafiosa se il suo prestigio criminale del gruppo resta intatto anche nel caso in cui siano isolati e sterilizzati i personaggi dotati di fama criminale personale. La “forza d’intimidazione del vincolo associativo” determina come proiezione esterna “assoggettamento e omertà” nei contesti ove opera il sodalizio. Secondo l’ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale, la condizione di assoggettamento e di omertà correlata in rapporto di causa a effetto alla forza di intimidazione dell’associazione di tipo mafioso deve essere, come si dirà, sufficientemente diffusa, anche se non generale, e può derivare non solo dalla paura di danni alla propria persona, ma anche dall’attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti, di modo che sia comune la convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria non impedirà ritorsioni dannose per la persona del denunciante, in considerazione della ramificazione dell’organizzazione, della sua efficienza, della sussistenza di altri soggetti non identificabili forniti del potere di danneggiare chi ha osato contrapporsi. (Sez. F, n. 44315 del 12/09/2013, Cicero, Rv. 258637; Sez. 6 del 13 dicembre 1995, Abo El Nga Mohamed).Il profilo relativo alla necessità che la capacità intimidatrice sia esternata, obiettivamente percepita ed attuale si distingue da quello relativo alle modalità con cui tale capacità si manifesta. Non è condivisibile la tesi secondo cui sarebbe sempre necessario il compimento di atti associativi integranti gli estremi della violenza o minaccia, almeno in forma tentata, quale riflesso empirico dell’avvalimento del metodo mafioso. Si tratta di una impostazione che, come ha evidenziato anche la dottrina, per un verso, “chiede troppo” perché mal si adatta a tutti i casi in cui il sodalizio è riconosciuto «all’esterno come talmente potente da consentire ai suoi membri di avvalersi della sua forza di intimidazione senza neanche ricorrere alla soglia minima della minaccia penalmente rilevante», e, dall’altra, chiede “troppo poco” perché rischia di ritenere configurabile un’associazione mafiosa e la necessaria capacità di intimidazione anche «nei casi in cui perfino ripetuti atti di violenza e minaccia possono ben costituire, al contrario, il sintomo di una forza di intimidazione ancora non sufficientemente collaudata, ossia di per sé non ancora in grado di piegare la volontà dei terzi». La necessità di esteriorizzazione della capacità di intimidazione non presuppone necessariamente il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell’associazione e dei singoli partecipi; la violenza e la minaccia, rivestendo natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione, costituiscono solo un modo, uno strumento – eventuale, possibile, come altri – con cui quella forza di intimidazione può manifestarsi, ben potendo quest’ultima esternarsi anche con il compimento di atti non violenti, ma pur sempre espressione della esistenza attuale, della fama criminale e della notorietà del vincolo associativo. In tal senso, si afferma in giurisprudenza, che il ricorso alla violenza o alla minaccia non costituisce una modalità con cui puntualmente debba manifestarsi all’esterno la condotta degli agenti, dal momento che la condizione di assoggettamento e gli atteggiamenti omertosi, indotti nella popolazione e negli associati stessi, costituiscono, «più che l’effetto di singoli atti di sopraffazione, la conseguenza del prestigio criminale dell’associazione che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti, anche simbolici ed indiretti, si accredita come temibile, effettivo e autorevole centro di potere» (in tal senso, Sez. 5, n. 4893 del 16/03/2000, Frasca, Rv. 215965; Sez. 6, n. 31461 del 07/06/2004, Foriglio, Rv. 230019; Sez. 1, n. 34974 del 10/07/2007, Brusca, Rv. 237619; Sez. 6, n. 34874 del 15/07/2015, Paletta, Rv. 264647). In mancanza della prova di specifici atti di intimidazione e di violenza, la forza intimidatrice può essere desunta da circostanze obiettive idonee a dimostrare la capacità attuale dell’associazione di inc ere timore ovvero dalla generale percezione che la collettività, o parte di essa – come si dirà – abbia della efficienza del gruppo criminale nell’esercizio della coercizione fisica (Sez. 1, n. 25242 del 16/05/2011 Baratto, Rv. 250704; Sez. 1, n. 9604 del 12/12/2003, dep. 2004, Marinaro, Rv. 228479; nell’enunciare questo principio la Corte ha precisato che le condizioni di assoggettamento della popolazione e gli atteggiamenti omertosi conseguono, più che a singoli atti di sopraffazione, al c.d. prestigio criminale dell’associazione che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti, anche simbolici ed indiretti, si è accreditata come un centro di potere malavitoso temibile ed effettivo). La forza di intimidazione però deve essere manifestata e percepita. Il tema ha una dimensione fattuale e probatoria. Si tratta di profili che devono essere accertati sul piano processuale “caso per caso”: la forza di intimidazione può essere manifestata, come detto, in qualunque modo, e quindi anche con una richiesta, che, per circostanze soggettive od oggettive, riveli una forma di minaccia proveniente dall’associazione, con un comportamento con cui un soggetto, noto per essere riferibile ad un gruppo mafioso, “si fa avanti”, anche con il semplice silenzio o con un gesto solo apparentemente amichevole. Una fattispecie, quella prevista dall’art. 416-bis cod. pen., che si pone tra diritto e prova, tra requisiti di struttura, riscontro empirico ed accertamento probatorio, tra tipicità e contesti mutevoli; una fattispecie in movimento, in divenire, che pone questioni “nuove” ed esigenze di conformazione di consolidati schemi interpretativi, che, senza cedere a semplificazioni incontrollate, siano capaci di “studiare” le nuove forme di criminalità organizzata, formate, rispettivamente, da stranieri ovvero da associazioni che si sono manifestate nel nord Italia come emanazione, spesso “silente”, di sodalizi fortemente radicati nelle regioni meridionali, di “nuove mafie”. 3. La c.d. ‘riduzione di scala” dell’operatività e dell’accertamento della fattispecie. In tale contesto, la giurisprudenza sulle c.d. mafie straniere ha svolto un ruolo importante sotto uno specifico profilo: si è chiarito infatti che l’associazione mafiosa non deve necessariamente avere un’organizzazione tentacolare, in grado di controllare un determinato territorio, inteso nella sua dimensione spaziale totalitaria, nella dimensione soggettiva sistemica. Si è compreso che l’associazione di stampo mafioso può sussistere anche se si è in presenza di realtà strutturalmente modeste (le “mafie piccole”), che esercitano la propria forza di intimidazione in modo oggettivamente limitato cioè in zone territorialmente circoscritte ed in ambiti di quote di attività – ovvero soggettivamente parziale – cioè solo su alcune categorie di soggetti. Si tratta di un tema e di una giurisprudenza che si sono prestati alla elaborazione di “sottotipi applicati” della norma incriminatrice. Così, in tema di c.d. mafia cinese, si è detto che «il reato previsto dall’art.416-bis cod. pen. è integrato anche da organizzazioni le quali, pur senza avere il controllo di tutti coloro che vivono o lavorano in un determinato territorio, hanno la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone immigrate o fatte immigrare clandestinamente, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione del vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione e di omertà delle vittime» (Sez. 6, n. 35914 del 04/10/2001, Hsiang, Rv. 221245); con riferimento alla c.d. “mafia nigeriana” e alla “Brigada romena” si è affermato che il reato di associazione di tipo mafioso, configurabile anche con riferimento a sodalizi criminosi a matrice straniera, è integrato quando la “mafia straniera”, pur senza avere il controllo di tutti coloro che lavorano o vivono in un determinato territorio, ha la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone appartenenti ad una determinata comunità, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione ed omertà delle vittime (così, Sez. 2, n. 18773 del 31/03/2017, Lee, Rv. 269747 e Sez. 6, n. 43898 dell’8/06/2018, R., Rv. 274231; in senso analogo, Sez. 2, n. 50949 del 10/10/2017, Bivol, Rv. 271376, con riferimento alla “Vor v’zacone” di origine moldava attiva tra il Veneto e l’Emilia). Dette sentenze non hanno posto in discussione la necessità che la forza di intimidazione sia manifestata in concreto, e non solo in via “potenziale”, ma hanno conformato ed adeguato la elaborazione giurisprudenziale consolidata al “nuovo” fenomeno, “lavorando” sull’oggetto del controllo, sulla dimensione soggettiva dei controllati, sulla possibilità di controllare una porzione dello spazio territoriale ovvero solo di alcune delle attività, anche lecite. Da un controllo completo del territorio, delle attività e dei soggetti che su di esso operano, ad un «assoggettamento intimidatorio di ben più delimitate proporzioni, riservato per solito agli appartenenti alla stessa comunità etnica di provenienza o comunque a determinati ambiti di attività (…) in specifiche aree urbane o rotte illegali». Si è trattato di una elaborazione che ha contestualizzato e relativizzato la nozione stessa di mafiosità, che, superando il contesto della c.d. “mafia storica”, è capace di porsi in relazione con le peculiarietà dello specifico fenomeno criminale, con le condizioni socio-culturali dei destinatari, con le peculiarità dei territori, delle attività controllate ed in ragione delle quali la forza di intimidazione si manifesta. Ciò che conta non è la dimensione del radicamento, la sua estensione, ma il “fatto” che il gruppo abbia comunque “raggiunto” una evoluzione ed una reputazione criminale, propria o per derivazione; ciò che conta – ripetono le sentenze – non è tanto il numero delle persone assoggettate, quanto, piuttosto, la “diffusività” del fenomeno, cioè la capacità dell’associazione di condizionare, attraverso il metodo, un numero non determinato di soggetti, pur nei limiti in cui il sodalizio si muove. Non basta che il sodalizio criminale si fondi su precise regole interne, su rigidi e anche violenti protocolli interni, tali da esporre a pericolo chi se ne voglia allontanare, ma occorre un elemento ulteriore costituito dal metodo mafioso, seguito dall’associazione per la realizzazione del programma associativo nei confronti dei soggetti nei riguardi dei quali si dirige l’attività delittuosa (cfr. Sez. 6, n. 1612 del 11/01/2000, Ferone, Rv. 216633). In senso simmetrico si pone il principio espresso in sede cautelare nel presente procedimento secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale» (Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani, Rv. 264126). La legalità delle operazioni di “riduzione della scala” del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., derivanti dalla necessità di adeguamento dei requisiti strutturali “storici” del reato al fine di “legare” ed “esportare” il modello in contesti diversi da quelli in cui si sono sviluppate le c.d. mafie tradizionali, si correla tuttavia con la dimensione probatoria e di rigoroso accertamento dei fatti che, soli, possono scongiurare il rischio di una “bagatellizzazione” del reato di associazione di tipo mafioso e di una non consentita valorizzazione di un “metodo anticipato”, ridotto, presunto. La c.d. “riduzione della scala”, di cui si è detto, non esonera e non consente scorciatoie probatorie. 4. Le mafie delocalizzate e le “nuove” mafie. Le considerazioni formulate assumono rilievo in relazione al tema delle c.d. mafie delocalizzate e, come nel caso di specie, alle “nuove mafie”; la questione attiene al se e come i requisiti di tipicità della fattispecie debbano conformarsi davanti a fenomeni criminali come quelli indicati. Il tema è stato sviluppato innanzitutto per le organizzazioni criminali formate da soggetti, emigrati nelle regioni settentrionali o in altri Stati, ma comunque “legate” alle associazioni mafiose tradizionali. Come evidenziato nel provvedimento con cui, ai sensi dell’art. 172 disp. att. cod. proc. pen., è stata disposta la restituzione degli atti alla Sezione della Corte che, ritenendo sussistente un contrasto giurisprudenziale sul tema, aveva rimesso la questione alle Sezioni unite, il problema sembra non porsi in tutti i casi in cui il nuovo aggregato costituisca una struttura autonoma ed originale che si proponga di adottare la medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”, atteso che in tali casi «è necessario accertare la sussistenza di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e, dunque, l’esternazione del metodo mafioso con le sue ricadute nell’ambiente esterno in termini di assoggettamento e di omertà» (così, decreto del 23 luglio 2019 del Presidente Aggiunto della Corte di cassazione). Più controversi sono invece i casi in cui il sodalizio è una mera articolazione territoriale di una tradizionale organizzazione mafiosa, in stretto rapporto di dipendenza da essa o, comunque, in collegamento funzionale con la “casa madre”. Si discute se la “cellula”, cioè il gruppo derivato, debba esplicitare in concreto ed in termini di attualità nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione (in tal senso Sez. 1, n. 51489 del 29/11/2019, dep. 2020, Albanese; Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269043, secondo cui ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, è necessario che l’articolazione del sodalizio sprigioni nel nuovo contesto territoriale una forza intimidatrice che sia effettiva ed obiettivamente riscontrabile, e in conseguenza ha annullato la sentenza che aveva qualificato una organizzazione operante in Germania come mafiosa – la c.d. locale di Singen -, in assenza di prova dell’esternazione in loco della metodologia mafiosa e sulla base soltanto del collegamento degli imputati con esponenti della ‘ndrangheta calabrese e dell’adozione dei rituali tipici di quest’ultima; conformi sono anche Sez. 1, n. 13143 del 09/03/2017, Nesci D.; Sez. 6, n. 22546 dell11/04/2018, Rullo; Sez. 5, n. 19141 del 13/02/2006, Bruzzaniti, Rv. 234403; Sez. 6, n. 30059 del 05/06/2014, Bertucca, Rv. 262398; Sez. 2, n. 25360 del 15/05/2015, Concas, Rv. 264120; Sez. 6, n. 6933 del 04/07/2018, dep. 2019, Audia, Rv. 275037) ovvero sia sufficiente accertare il solo collegamento tra la “cellula” delocalizzata e la “casa madre”, nonché la mutuazione da parte della prima delle caratteristiche di quest’ultima per “ritenere sussistente il pericolo presunto per l’ordine pubblico”, che connota una associazione di tipo mafioso, anche in ragione della c.d. “riserva di violenza”. Secondo una impostazione giurisprudenziale, infatti, il reato sarebbe configurabile anche nel caso in cui la c.d. cellula non manifesti sul territorio “nuovo” di insediamento il metodo mafioso e la fama criminale della casa madre da cui essa deriva; il reato sussisterebbe in presenza della sola prova “dell’essere cellula” – cioè con la sola prova di essere la cellula una diramazione di una consorteria mafiosa tradizionale – perché ciò espliciterebbe di per sé l’esistenza di una capacità potenziale di sprigionare una forza intimidatrice, idonea a porre in condizioni di assoggettamento ed omertà quanti vengano a contatto con essa (Sez. 2, n. 29850 del 18/05/2017, Barranca; Sez. 5, n. 28722 del 24/05/2018, Demasi, Rv. 273093; Sez. 5, n. 47535 del 11/07/2018, Nesci; Rv. 274138; Sez. 5, n. 31666 del 3/03/2015, Bandiera; Sez. 2, n. 24850 del 28/03/2017, Cataldo, Rv. 270290). Si tratta di una impostazione che sembra escludere la necessità della esteriorizzazione della forza intimidatrice per valorizzare il dato dalla sua “esistenza in potenza” (Sez. 2, n. 4304 dell’11/01/2012 Romeo, in cui «la forza di intimidazione e lo stesso metodo mafioso della “locale” della ‘ndrangheta sono stati tratti: a) dai rituali attraverso cui avviene l’affiliazione e la promozione dei diversi ruoli all’interno dell’associazione mafiosa, b) dalla vita sociale interna dell’associazione, caratterizzata da rigide regole, alla cui violazione è ricollegata irrogazione di sanzioni; si assume che «nel caso in cui convergano le caratteristiche organizzative sopra evidenziate deve ritenersi che la finalità della commissione di delitti, tipica della associazione mafiosa, non debba necessariamente estrinsecarsi nella effettiva precedente commissione di reati fine, essendo sufficiente la mera struttura illecita della organizzazione finalizzata alla programmazione e realizzazione di reati quale finalità della consorteria mafiosa»). Si è affermato che per qualificare come mafiosa un’organizzazione criminale è necessaria la capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati all’organismo criminale (Sez. 1, n. 5888 del 10/01/2012, Garcea, Rv. 252418). Una impostazione efficacemente esposta anche da Sez. 2, n. 24851 del 04/03/2017, Garcea, Rv. 270442 secondo cui «il tenore dell’ultimo comma dell’art. 416-bis cod. pen., con riferimento a camorra, ‘ndrangheta ed altre associazioni che perseguono scopi corrispondenti a quelli indicati dalla norma richiama l’uso della forza intimidatrice del vincolo, ma senza menzionarne gli effetti in termini di assoggettamento e omertà. L’assenza di riferimenti alle ricadute in termini di stringente condizionamento delle aree di insediamento non può ritenersi casuale e ascrivibile a un impreciso richiamo degli elementi strutturali del comma 3, giacché la portata estensiva della disposizione non solo alla camorra, alla ‘ndrangheta ma anche alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, induce ad optare per un consapevole affrancamento da un elemento di fattispecie ritagliato sulla specificità della mafia siciliana, paradigma del precipitato storico della norma. A ciò consegue che l’esternazione del metodo in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie atipiche non debba essere parannetrata in termini giuridicamente necessitati alla valutazione dell’impatto ambientale determinato dal radicamento territoriale. Né simile interpretazione si presta ad essere tacciata di irragionevolezza, giacché la condizione di assoggettamento e di omertà costituisce il riflesso sociologico della metodologia associativa (storicamente ricorrente ma non causalmente obbligato) e la permeabilità del contesto sociale all’uso strumentale dell’intimidazione mafiosa è una variabile fortemente condizionata – in tempi recenti anche nelle stesse aree originarie del fenomeno – dai settori d’interesse malavitoso, dal più o meno spiccato senso civico e dallo sviluppo di un adeguato senso della legalità che portano ad un inevitabile scollamento tra l’obiettiva espressione intimidatoria dell’associazione e la concreta penetrazione sociale sicché il postulato di una necessaria incisione della realtà in termini macroscopici non appare rispondente ai parametri di concreta offensività della fattispecie». Dunque, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 416-bis cod. pen., per le c.d. locali, ma anche per le “nuove mafie”, non sarebbe richiesta una concreta manifestazione della capacità di intimidazione del sodalizio – cioè del metodo mafioso – tale da produrre assoggettamento omertoso. 4.1. Si tratta di opzioni interpretative che non possono essere condivise e che, se recepite, lascerebbero sullo sfondo rilevanti questioni insolute e dubbi di legittimità costituzionale. Sotto un primo profilo, quella in esame è una questione che risente della tendenza a sovrapporre il tema relativo alla necessità che anche la c.d. “locale” manifesti, in concreto, sul territorio “conquistato”, la capacità di intimidazione del suo agire, con quello del modo, delle forme, con cui detta capacità possa essere manifestata ed avvertita. In tal senso, assumono rilievo paradigmatico le considerazioni di Sez. F, n. 56596 del 03/09/2018, Balsebre, Rv. 274753, in cui la Corte ha affermato, nell’ambito di una articolata motivazione, che, in forza del collegamento con la sede centrale, la struttura delocalizzata si a apprezzare per intrinseca, e non implicita, forza di intimidazione che, appunto, non può essere presunta in forza di dati meramente esteriori, fossero anche i medesimi moduli organizzativi sul territorio, dovendo piuttosto essere inverata «dall’avvalimento della fama criminale conseguita, nel corso di decenni, nei territori di storico ed originario insediamento». In forza di questa caratteristica – si è detto – le articolazioni delocalizzate rientrano nell’ambito operativo dell’art. 416-bis cod. pen. perché «sono capaci di avvalersi» (così testualmente la motivazione) – di una forza di intimidazione intrinseca «senza necessità di forme di esteriorizzazione eclatante del metodo mafioso e della forza di intimidazione». In realtà, anche per le c.d. diramazioni locali, cioè per le cellule di derivazione da mafie storiche, vale il principio per cui, in tanto il reato previsto dall’art. 416- bis cod. pen. è configurabile, in quanto la “cellula” abbia già conseguito, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, una fama criminale riconosciuta che produce un assoggettamento e che, tuttavia, può essere manifestata anche con il compimento di atti non violenti e non di minaccia, che però richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio e che in quanto tali siano avvertiti. La manifestazione della capacità di intimidazione deve esserci; può essere provata sul piano processuale da ogni circostanza obiettiva idonea a dimostrare la capacità attuale dell’associazione di incutere timore e la generale percezione della efficienza del gruppo criminale. Non è sufficiente che la c.d. locale abbia moduli organizzativi, regole e rituali uguali a quelli della associazione da cui deriva (ad esempio la ‘ndrangheta), ma è necessario che il “nuovo territorio”, ovvero i soggetti del nuovo territorio che con il gruppo si relazionano, capiscano che il proprio “interlocutore” è l’associazione mafiosa; è necessario che la cellula spenda, con qualunque forma, la fama criminale del gruppo di derivazione, faccia cioè capire, con qualunque modo, di essere l’associazione mafiosa, non essendo sufficiente che “possa farlo capire” e che ciò possa, se necessario, essere avvertito. Sotto altro profilo, l’opzione interpretativa recepita da parte della giurisprudenza, che, come detto, valorizza sul piano giuridico – direttamente o implicitamente – il dato testuale dell’ultimo comma dell’art. 416-bis cod. pen. non può essere condiviso perché, a voler ragionare in tal modo, il delitto di associazione di tipo mafioso sarebbe un delitto a geometria variabile, a struttura mobile, con una tipicità mutevole a seconda che si tratti di un’associazione “storica”, ovvero una diramazione di essa che operi in un’altra parte del territorio, ovvero, ancora, una delle “altre associazioni” di cui al comma 8 dell’art. 416-bis cod. pen.; in tali ultimi due ipotesi, sostanzialmente, non sarebbe necessario che la capacità di intimidazione, manifestandosi in concreto, generi assoggettamento e omertà. In maniera condivisibile si è fatto notare che quella in esame è «una interpretazione fondata, da una parte, sull’assunto secondo cui, dimostrando il collegamento con la cellula madre si arriva a ritenere provata l’importazione della forza intimidatrice, e, dall’altra, da una tendente svalutazione del dato dell’assoggettamento omertoso, del dato del “timore percepito” dai consociati, storicamente considerato come uno dei parametri per la valutazione della effettività della carica». Un ragionamento giuridico, quello recepito dall’indirizzo giurisprudenziale descritto, che adombra una frattura, una scissione tra l’esistenza del reato e la necessaria manifestazione e percezione dell’agire mafioso; un’associazione mafiosa che, in alcuni casi, a determinate condizioni e latitudini, può prescindere: a) dal fatto che il suo agire, la sua capacità intimidatoria, il suo metodo sia in concreto manifestato e avvertito; b) dagli effetti psicologici del metodo mafioso, ed, in buona sostanza, dall’assoggettamento omertoso nel contesto, anche soggettivamente o oggettivamente ridotto, in cui l’associazione opera. Una impostazione secondo cui alle c.d. locali dovrebbe applicarsi una norma, quella di cui all’ultimo comma 416-bis cod. pen., dettata in realtà per le “altre associazioni, comunque localmente denominate” e non anche per le “cellule locali” di un’unica associazione mafiosa. A voler ragione diversamente si dovrebbe ipotizzare che, rispetto ad associazioni mafiose come la camorra e la ‘ndrangheta, la struttura dello stesso reato sarebbe mutevole a seconda che l’associazione operi solo nel territorio in cui si è costituita ovvero in un’altra regione o, comunque, in un’altra parte del territorio o in un’altra nazione. Una tipicità più robusta in alcuni casi e meno in altri rispetto alla stessa associazione mafiosa. 4.2. Considerazioni simili valgono anche per le nuove “altre” associazioni, come quella contestata nel presente processo, per le quali pure è necessario, ai fini della esistenza del delitto, che il gruppo manifesti la propria capacita di intimidazione, la propria fama criminale – non quella di un singolo associato – e che detta capacità produca assoggettamento omertoso, seppur nel senso in precedenza indicato. Diversamente ragionando, non sarebbero chiari innanzitutto i criteri con cui dovrebbero essere individuate le “altre” associazioni, in relazione alle quali sarebbe sufficiente una tipicità diversa e mi re.Esistono associazioni mafiose, accertate nel corso del tempo con numerose sentenze divenute irrevocabili, che operano in diversi territori ed in diverse regioni dello Stato (ad esempio, quella denominata “Sacra Corona Unita)”, che, tecnicamente, sono “altre associazioni” rispetto a quelle indicate nell’art. 416-bis ultimo comma, cod. pen. e rispetto alle quali, tuttavia, non si dubita della necessità che, ai fini della configurabilità del delitto in esame, debbano sussistere tutti i requisiti tipici descritti dalla norma incriminatrice. Prescindere dalla necessità che tutte le associazioni mafiose manifestino la propria capacità di intimidazione e determinino assoggettamento omertoso, significa costruire in modo dicotomico la tipicità della stessa fattispecie incriminatrice; un’opzione interpretativa che non pare esente da dubbi di legittimità costituzionale, sotto il profilo del principio di tassatività e determinatezza. Sotto ulteriore profilo, si è notato, che, ove si accogliesse l’opzione interpretativa di cui si è detto, ci si troverebbe in presenza di un’associazione mafiosa che, pur essendo “minore” – in quanto depurata da alcuni elementi di struttura – e, dunque, caratterizzata da una minore offensività, sarebbe tuttavia sanzionata con la medesima pena riservata alle mafie tradizionali. Soggetti partecipi ad associazioni mafiose diversamente tipiche e diversamente caratterizzate dovrebbero essere sottoposti allo stesso trattamento sanzionatorio. Né sarebbe chiaro, si sottolinea in modo condivisibile, come dovrebbe accertarsi sul piano probatorio la volontà di una delle “altre” associazioni mafiose di infiltrarsi un determinato settore, ove si dovesse prescindere dagli elementi in questione e, dunque, dalla verifica dell’assoggettamento omertoso e dall’impatto dell’agire mafioso sui soggetti che in quel settore operano. 5. Considerazioni conclusive. Alla luce della ricostruzione compiuta è utile riportare alcune considerazioni conclusive: L’associazione mafiosa non è un reato associativo “puro” e per la configurazione del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è necessario che il gruppo abbia fatto un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione, non essendo sufficiente un semplice “dolo” di farvi ricorso o la mera probabilità di farvi ricorso: occorre che il sodalizio dimostri di possedere detta forza e di essersene avvalso. Ai fini della esistenza del reato di associazione di stampo mafioso è necessario che la forza di intimidazione derivi dall’associazione in sé e non dal prestigio criminale del singolo associato, nel senso che, anche se venissero individuati, perseguiti ed isolati i singoli associati, anche quelli dotati di rilevante personale fama criminale, nondimeno l’associazione manterrebbe la propria fama criminale. Il profilo relativo alla necessità che la capacità di intimidazione del sodalizio sia manifestata, obiettivamente percepita ed attuale si distingue da quello riguardante le modalità con cui tale capacità è esteriorizzata; la forza di intimidazione può manifestarsi in qualunque modo, anche in assenza di atti di intimidazione, e la prova di essa deve essere accertata in concreto, potendo rilevare a tal fine qualsiasi circostanza obiettiva idonea a dimostrarla. Il delitto previsto dall’art. 416-bis cod. pen. può sussistere anche in presenza di realtà criminali strutturalmente modeste che esercitino la propria forza di intimidazione in modo oggettivamente limitato ovvero soggettivamente parziale, cioè solo su alcune categorie di soggetti; la norma incriminatrice tuttavia mantiene la sua tipicità anche in presenza di c.d. “sottotipi applicati”, nel senso che anche in dette ipotesi è necessario che la capacità di intimidazione sia in concreto manifestata all’esterno e produca assoggettamento omertoso, non essendo sufficiente che l’associazione si fondi su precise regole interne, su rigidi e anche violenti protocolli solo interni, anche se in grado da esporre a pericolo chi se ne voglia allontanare. Anche nel caso di organizzazioni criminali che costituiscono una articolazione territoriale di associazioni mafiose tradizionali, in quanto legate da un rapporto di dipendenza da esse o che, comunque, siano in collegamento funzionale con la “casa madre”, ai fini della configurabilità del reato non è sufficiente la sola prova dell’essere cellula di una associazione tradizionale, ma è necessario anche in tal caso che l’articolazione manifesti sul “nuovo” territorio la propria capacità di intimidazione e che da essa derivi assoggettamento onnertoso. Anche per le c.d. “nuove mafie”, è necessario che il gruppo manifesti la propria capacità di intimidazione, la propria — non quella del singolo associato — fama criminale e che da detta capacità produca assoggettamento omertoso , seppur nel senso in precedenza indicato. La tipicità della fattispecie associativa mafiosa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie, di cui all’art. 416-bis, ultimo comma, cod. pen., piccole o grandi che siano. II. L’associazione contestata nel presente procedimento. 1. L’ipotesi dell’unica associazione mafiosa. La Corte di appello non ha fatto corretta applic 2ione dei principi indicati.Come si è già detto, a fronte della contestazione nel primo decreto di giudizio immediato del reato di associazione mafiosa di cui al capo 1 (con identica contestazione al capo 22 del secondo decreto per un ulteriore concorrente) il Tribunale aveva riqualificato tali reati ai sensi dell’art. 416 cod. pen. e ritenuto la sussistenza di due diverse associazioni, escludendo sia l’aggravante prevista dall’art. 7 decreto legge 152/1991, convertito nella legge 203/1991, sia quella di cui agli artt. 629-628, comma terzo, n. 3 cod. pen., in relazione ai reati contestati ai capi da 2 a 7 del primo decreto. La Corte di Appello, invece, in accoglimento degli appelli del Procuratore presso il Tribunale e del Procuratore Generale presso la Corte di Appello, ha ritenuto che l’associazione fosse unica e di stampo mafioso, ritenendo sussistere per vari dei reati fine le aggravanti di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. ed agli artt. 629 e 628, comma terzo, n. 3, cod. pen. Tale conclusione è stata raggiunta valutando diversamente una parte delle prove; altre prove, invece, sono state valutate di per sé in modo conforme al primo giudice, ma, in ragione di un apprezzamento congiunto ed unitario con altri elementi, sono state diversamente apprezzate quanto alla capacità dimostrativa dei fatti; nell’ambito della quantità di materiale acquisito, è stata inoltre compiuta una diversa selezione delle prove ritenute utili. Contro tale decisione hanno proposto ricorso Bolla, Brugia, Calvio, Carminati, Lacopo, Buzzi, Caldarelli, Di Ninno, Gaglianone, Garrone, Gramazio, Guarany, Guarnera, Panzironi, Pucci e Testa. Tutti i ricorrenti hanno contestato l’accoglimento degli appelli dei pubblici ministeri con la conseguente diversa qualificazione dei fatti, e non anche l’originaria decisione del Tribunale sulla esistenza delle due associazioni semplici. Questo comporta che oggetto della presente decisione è soltanto la correttezza della decisione di riforma in peius della prima condanna, quanto alla sussistenza di una unica associazione ed al suo carattere mafioso, con quanto ne consegue in termini di aggravamento dei reati fine. Oltre al tema della unicità/diversità di associazioni e mafiosità, va valutata, per molti dei ricorrenti che sviluppano motivi specifici al riguardo, la questione della partecipazione individuale. Preliminarmente, va detto che, risultando fondati i motivi di ricorso relativi all’errore di qualificazione della associazione per delinquere quale unica e di stampo mafioso, non verranno considerati i motivi che pongono questioni formali, che dovranno considerarsi assorbiti. Inoltre, atteso che l’accoglimento tiene conto degli argomenti principali presenti in tutti i motivi di ricorso, non si farà riferimento analitico agli stessi se non per quanto riguarda la partecipazione di ci scun ricorrente alla associazione.1.1. La decisione della Corte di appello di riformare in senso peggiorativo la sentenza del Tribunale e di ritenere esistente un’unica associazione mafiosa richiedeva innanzitutto una motivazione “rafforzata”, in modo non dissimile dalla motivazione richiesta per la sentenza di appello che modifichi una decisione di assoluzione in primo grado. L’obbligo della motivazione rinforzata si impone per il giudice di appello tutte le volte in cui ritenga di ribaltare in senso peggiorativo la decisione del giudice di primo grado, sia assolutoria, che di condanna. E’ nota la risalente e consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui per la riforma della sentenza di primo grado, caratterizzata come nella specie da un solido impianto argomentativo, vi è l’obbligo non solo di delineare con chiarezza le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio ma anche di confutare specificamente e adeguatamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza e, soprattutto quando all’assoluzione si sostituisca la decisione di colpevolezza dell’imputato, di dimostrarne con rigorosa analisi critica l’incompletezza o l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. 2, 12/12/2002, Contrada, Rv. 225564). Una linea interpretativa che è stata sviluppata e completata dalla giurisprudenza più recente che ha chiarito come la Corte di appello non può riformare in chiave di condanna la sentenza assolutoria impugnata di pubblico ministero, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale ed a risentire quindi i soggetti che abbiano reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785). Si nota correttamente che una motivazione rafforzata è quella che ha una “forza persuasiva superiore”, in grado cioè di conferire alla decisione la maggior solidità possibile, che presuppone ed impone al giudice una cautela decisionale, cioè un’attenzione valutativa e una prudenza deliberativa – per così dire – maggiorate nella disamina di quel dato istituto di diritto sostanziale o processuale, ovvero per quel determinato aspetto della vicenda giuridica. Fare riferimento ad una “motivazione rafforzata” significa attendersi un apparato giustificativo nel quale siano esposte quelle tappe non eludibili del percorso che il giudice è tenuto a compiere nell’attività di giudizio: tappe segnate direttamente dalla legge oppure ricavabili da indicazioni giurisprudenziali espresse e consolidate.Dunque, una motivazione “sempre più vincolata nelle sue cadenze”. Si pone in particolare il tema del se la stessa garanzia debba essere assicurata anche nei casi in cui il pubblico ministero chieda con l’appello una riforma peggiorativa- sotto il profilo della qualificazione giuridica del fatto – non di una sentenza di assoluzione o, più latamente, di proscioglimento, ma di una decisione di condanna, nel senso che chieda la riqualificazione del fatto in un reato più grave rispetto a quello ritenuto dal primo giudice. In senso positivo sembra orientarsi parte della giurisprudenza della Corte di cassazione almeno nei casi in cui la diversa qualificazione giuridica del fatto derivi da una diversa valutazione delle risultanze probatorie, anche dichiarative (Sez. 6, n. 10584 del 30/01/2018, De Rubeis, Rv. 273742, in cui la Corte ha evidenziato che la denunciata reformatio in peius era scaturita unicamente dal difforme indirizzo adottato dai giudici di appello in punto qualificazione giuridica del fatto, rimasto assolutamente immutato nelle sue coordinate storiche e, dunque, in forza di identica valutazione delle risultanze probatorie, anche di tipo orale). Nello stesso senso, si è affermato che la necessità, per il giudice di appello, di redigere una motivazione “rafforzata” sussiste soltanto nel caso in cui la riforma della decisione di primo grado si fondi su una mutata valutazione delle prove acquisite e non anche quando essa sia legittimata da una diversa valutazione in diritto, operata sul presupposto dell’erroneità di quella formulata del primo giudice; in tale ipotesi, alla Corte di cassazione spetta il compito di verificare se la questione giuridica difformemente decisa dai giudici del merito sia stata correttamente esaminata e risolta dall’uno o dall’altro, ed il vizio a tal fine denunciabile è solo quello di violazione di legge, penale o processuale (Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Nuzzi, Rv. 276954). In senso estensivo pare invece porsi Sez. 2, n. 38823 del 25/06/2019 Esposito, Rv. 277094, che, riprendendo il percorso motivazionale della sentenza delle Sezioni unite “Troise”, ha affermato il principio secondo cui, anche nel caso di riqualificazione in peius del fatto contestato in base ad una differente valutazione della prova dichiarativa, il giudice di appello sarebbe tenuto ad una motivazione rafforzata che, tenendo conto delle valutazioni del primo giudice, sia in grado di superarle persuasivamente. Al di là dell’ultimo precedente richiamato, che, come detto, estende ulteriormente la garanzia, un obbligo di motivazione rafforzata si pone almeno in tutti i casi in cui nel giudizio di appello i fatti siano diversamente riqualificati a seguito di una mutazione della loro struttura conseguente ad un diverso apprezzamento delle prove.Sul tema si è fatto peraltro autorevolmente rilevare come, pur essendo articolato l’intero sistema processuale penale sulla distinzione tra «l’ordine dei fatti e l’ordine del diritto», si sia tuttavia progressivamente giunti a riconoscere la sostanziale impossibilità di separare, nella conoscenza umana, la componente valoristica da quella fattuale: «tutte le verità sono tali sia in forza del linguaggio che le esprime, sia in forza dei fatti». Con specifico riferimento alla valutazione giuridica, si è rilevato che l’accertamento che consegue al giudizio in diritto (la condotta di cui all’imputazione è sussunnibile o meno nella fattispecie giuridica contestata) non si concreta solo in un’operazione di raffronto semantico tra entità linguistiche, in quanto, anche in detta attività di raffronto, il giudizio giuridico è intriso di valutazioni in fatto. In realtà, pur volendo prescindere dal tema, nella specie non decisivo, del se l’obbligo di motivazione rafforzata si ponga anche nel caso in cui la diversa qualificazione giuridica del fatto non consegua ad una diversa valutazione delle prove e dunque ad una diversa ricostruzione dei fatti, non vi è dubbio che, nella specie, per potere affermare che vi fossero connessioni tra i due contesti criminali, tali da configurare un’unica associazione, che vi fosse un prestigio criminale “del gruppo”, che vi fosse l’utilizzazione di metodiche mafiose (negate dal primo giudice per la inesistenza di dati fattuali dimostrativi), con conseguente assoggettamento omertoso nel senso indicato, la Corte di appello ha rivisto e ricostruito strutturalmente i fatti attraverso una diversa valutazione delle prove, rispetto a quella compiuta dal Tribunale. Dunque, vi era la necessità da parte della Corte di appello di una motivazione in termini di assoluta persuasività, che rispettasse la regola della certezza (“oltre ogni ragionevole dubbio”) di responsabilità per il reato in questione. La sentenza di appello, quindi, avrebbe dovuto confrontarsi con quella di primo grado e individuare i possibili errori di valutazione, gli eventuali elementi pretermessi o travisati, le valutazioni poco convincenti, per poter poi sostenere in termini di certezza la non sostenibilità della tesi del Tribunale e la piena fondatezza, invece, della propria. 1.2. La Corte di appello, riformando in senso peggiorativo la sentenza di primo grado, non ha osservato, sul piano del metodo, le regole appena indicate, ed ha costruito una diversa “regola” di motivazione, facendo una non corretta applicazione della legge. Nella fase di indagine di questo processo, furono emesse misure cautelari per le quali furono proposte impugnazioni e vi furono decisioni di questa Corte di cassazione che confermarono sostanzialmente le accuse.In particolare, la Corte di appello ha fatto riferimento, per la maggiore completezza delle questioni trattate, alla sentenza n. 24535 del 2015 di questa stessa Sezione. La decisione oggi in esame presenta un aspetto del tutto peculiare: la Corte di appello non ha articolato il proprio ragionamento probatorio prendendo spunto dal contenuto della sentenza di segno contrario di primo grado, rispetto alla quale avrebbe dovuto motivare in termini “rafforzati”, ma da quello della sentenza della Corte di cassazione emessa nella fase cautelare, che aveva confermato le tesi dell’accusa, cui la Corte aderisce, ritenendo rispetto alla stessa non persuasiva la decisione di merito del Tribunale. Si anticipa che, delle varie questioni che una simile impostazione pone, la più rilevante è che, persino se fosse corretto un tale metodo, è di massima evidenza che la decisione di questa Corte in fase cautelare era intervenuta sulla scorta di fatti ben diversi, quanto alla consistenza della presunta banda mafiosa, essendo state prospettate circostanze di fatto che, nel processo, non sono state dimostrate. La stessa sentenza impugnata, del resto, offre una ricostruzione diversa dalla Corte di cassazione in sede cautelare. La Corte di appello ha fatto frequenti richiami nella propria motivazione alle decisioni di questa Corte, senza però richiamare le vicende fattuali descritte in tali sentenze ed affermando apoditticamente la identità dei fatti con espressioni quali «la forza dei principi di diritto espressi dalla Corte di Cassazione non può essere ignorata quando la Corte, pur nella fase cautelare e dunque a livello di indizi, si è pronunciata sui medesimi fatti che sono oggetto del successivo giudizio di merito» (pag. 355), fino ad operare un immotivato recepimento delle decisioni riguardanti la fase cautelare, ad esempio valorizzando le strette relazioni con altri gruppi mafiosi ovvero affermando «che la Cassazione con le sentenze n. 24535/2015 e n. 24536/2015 ha ritenuto coerenti e adeguatamente motivate le ordinanze emesse il 17 e il 23 dicembre 2014 dal Tribunale del Riesame di Roma (a conferma dell’ordinanza del Gip in data 28.11.2014)», per poi concludere che «gli indizi di fatto vagliati dalla Cassazione sono del tutto coincidenti (tranne la disponibilità di armi da parte degli associati, che questa Corte ha escluso) con i fatti accertati in questo processo e in questo grado e danno concordemente la prova che gli associati facevano leva sulla forza di intimidazione del vincolo associativo e approfittavano della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivava, prevaricando le imprese aspiranti agli appalti delle quali veniva annullata la libertà di concorrenza (…). La completa corrispondenza dei fatti su cui si è basata la Cassazione nella fase cautelare e di quelli accertati da questa Corte fa ritenere pe certo che, nel controllo da parte dell’associazione sulla gestione dei servizi comunali che interessavano le cooperative, e per effetto di sistematiche attività corruttive nei confronti di funzionari infedeli, nonché di una incombente capacità di intimidazione delle imprese concorrenti derivante dal vincolo associativo, la libertà di queste ultime nelle gare di appalto veniva condizionata dalle decisioni di Buzzi che le stesse imprese subivano». 2. I limiti della ricostruzione operata dalla Corte di appello. Invero, tale valutazione si rivela gravemente erronea. E’ di palmare evidenza che non solo non risulta la «disponibilità di armi», ma neanche sono state dimostrate nel giudizio le «strette relazioni con altri gruppi mafiosi» (la stessa motivazione della sentenza di appello le esclude); mentre lo «sfruttamento della forza di intimidazione» è circostanza che questa Corte di cassazione, nelle sentenze citate, basava su di un determinato materiale indiziario, ma che il Tribunale, sulla scorta dell’istruttoria dibattimentale, che certo non è stata di mero completamento di prove formate in fase di indagine, ha smentito. Quanto detto è già sufficiente per affermare che le decisioni di questa Corte di cassazione sono certamente determinanti per individuare le regole di diritto applicabili là dove determinati fatti siano accertati, conformemente, del resto, al ruolo del giudice di legittimità. Non possono, invece, valere per ritenere di per sé accertati tali stessi fatti addirittura smentendo la successiva istruttoria dibattimentale. Tenuto però conto del particolare uso fatto dalla Corte di appello delle decisioni “cautelari” di questa Corte, è necessario un ulteriore approfondimento. Al di là della erroneità della operazione semplicistica di attribuire a quanto accertato in indagine una valenza presuntiva di stabilità e, dunque, di parametro condizionante della valutazione dell’esito della istruttoria dibattimentale, è bene considerare in dettaglio che, sulla scorta della lettura dei provvedimenti, è indiscusso che questa Corte in sede cautelare abbia deciso su fatti diversi da quelli che la stessa Corte di appello ha ricostruito. L’imputazione originaria, capo 1, che, per quanto risulta dalle decisioni di questa Corte, risultava sostanzialmente accolta in tutta la sua ampiezza in fase cautelare, prevedeva: – un ambito territoriale ben più ampio; – il ruolo di Carminati quale «capo e organizzatore», con il ruolo di sovrintendere e coordinare tutte le attività dell’associazione, in grado di impartire direttive agli altri partecipi e di reclutare imprenditori, fornendo loro protezione e inoltre mantenendo «rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma, nonché con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti»; – l’esistenza di armi «in dotazione al sodalizio»; – il ruolo di Buzzi quale organizzatore, ma a livello subordinato, destinato a gestire le attività economiche dell’associazione; – l’esistenza di una relazione diretta soprattutto con la associazione mafiosa denominata “ndrangheta”; – le attività economiche accertate erano finanziate con i proventi dei delitti dell’associazione. Le sentenze pronunciate in sede cautelare da questa Corte di cassazione sono effettivamente intervenute su tale perimetro d’accusa, che in fase cautelare appariva sufficientemente dimostrato. Ed infatti si legge testualmente, quanto al ruolo di vertice di Carminati, in un contesto in cui compariva come esponente di una rete interconnessa di bande mafiose, che questi «avvalendosi dei suoi più stretti collaboratori, esercitava un controllo totale sulle multiformi attività di tale prima associazione, rapportandosi di volta in volta, quale riconosciuto punto di riferimento degli altri suoi membri, anche con esponenti dell’amministrazione capitolina, con funzionari delle forze dell’Ordine, con i capi di altre organizzazioni criminali insediatesi nella Capitale, oltre che con criminali comuni […] Secondo la ricostruzione compiuta dai Giudici di merito, infatti, il gruppo del Carminati risulta aver avuto contatti significativi, fra l’altro, con il “clan” dei fratelli Senese, con il “clan Casamonica, con Diotallevi Ernesto – esponente della cd. “banda della Magliana” e tramite del sodalizio con la mafia siciliana di Calò Pippo – nonché con l’organizzazione facente capo ai fratelli Esposito e con De Carlo Giovanni, a sua volta in rapporti con gli esponenti della criminalità organizzata romana. Dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Cassia Sebastiano è emerso, inoltre, che il “clan” mafioso Santapaola si rivolgeva al gruppo del Carminati in caso di delitti da commettere sul territorio di Roma. Ulteriori rapporti di collaborazione sono stati individuati con Rotolo Rocco e Ruggiero Salvatore, esponenti di famiglie della “‘ndrangheta” operanti in Roma – nei cui confronti è stata parimenti applicata la misura della custodia cautelare in carcere – ed entrambi ritenuti inseriti a pieno titolo nell’organizzazione romana allo scopo di mantenere le relazioni fra le due compagini criminali. Si evince altresì dall’ordinanza impugnata che il Carminati è da anni in rapporti d’affari con il “clan” Mancuso di Limbadi – radicato nel territorio vibonese e con saldi collegamenti con le cosche dei Piromalli, dei Mammoliti, dei Pesce, dei Mazzaferro e dei Rugolo – attraverso la figura di Campennì Giovanni, ritenuto imprenditore di riferimento di quel sodalizio di stampo “ndranghetista”. Al riguardo, i Giudici di merito hanno posto in rilievo la circostanza che sia il Rotolo che il Ruggiero, quali referenti della cosca Piromani, risultano essere stati accreditati, proprio a seguito di un incarico del Buzzi, presso la famiglia dei Mancuso, che ha indicato quale suo referente per le attività in Roma il Campennì, affinché venisse inserito nel sistema delle cooperative gestite dal Buzzi. Essi hanno poi evidenziato le linee operative di un accordo tra il sodalizio romano e lo stesso “clan” dei Mancuso, attraverso la costituzione di una cooperativa, la “Santo Stefano – onlus”, destinata a gestire l’appalto per la pulizia del mercato Esquilino in Roma» (sentenza n. 24535 del 2015). In questo ruolo di capo, nella fase delle indagini, come dava atto questa Corte, Carminati gestiva direttamente e personalmente i rapporti corruttivi, e la percezione esterna della forza intinnidatrice espressa dal sodalizio è stato un elemento centrale, secondo l’esito delle prime indagini, per l’acquisizione degli appalti. 2.1. Senonché i fatti posti alla base della decisione cautelare di questa Corte non sono affatto i medesimi emersi in dibattimento ed accertati dal primo giudice ovvero diversamente accertati dalla Corte di appello. Innanzitutto, appare evidente, dalla semplice lettura della sentenza di secondo grado, che non risulta affatto il ruolo di Carminati quale terminale di relazioni criminali con altri gruppi mafiosi la cui forza era in un qualsiasi modo mutuata nella associazione del capo 1. Nessun ruolo era gestito da Carminati con settori finanziari, servizi segreti o altro; la gestione delle relazioni con gli amministratori era compito quasi esclusivo di Buzzi, avendo Carminati relazioni determinanti solo con alcuni ex commilitoni nella medesima area politica di estrema destra che, in un dato periodo, erano stati inseriti nella amministrazione comunale; nel processo, peraltro, emerge la non conoscenza tra Carminati e Panzironi, pur valorizzata nella fase cautelare in relazione all’ esigenza di Buzzi, che era collegato politicamente all’area di sinistra, di ottenere entrature con l’area di destra che nel dato periodo era giunta ad amministrare la città di Roma. In definitiva, risulta evidente come questa Corte di cassazione non avesse affatto deciso in sede cautelare su un quadro fattuale sostanzialmente identico, e neanche “prossimo”, a quello emerso dal dibattimento, per come descritto nella sentenza di primo grado ed in quella di secondo grado. Quest’ultima, del resto, si è limitata ad affermare in plurime occasioni, ma in termini sempre del tutto assertivi, la identità del quadro fattuale, nonostante si fosse in presenza di una imponente istruttoria dibattimentale con raccolta di , 303 prove e nuovi temi proposti da tutte le parti. Per fare uso dei “precedenti cautelari”, la Corte di appello avrebbe dovuto affrontare il tema in concreto, spiegando in cosa consistesse tale identità. Vi è, invece, la sintesi finale in cui la Corte di appello ha descritto quale fosse la associazione mafiosa emersa dal dibattimento; ma con tale sintesi si smentisce testualmente che vi sia identità fattuale con la “consistenza” della associazione giudicata in fase cautelare come descritta nelle pagine sopra indicate. Si legge nella sentenza di appello: «Può concludersi quindi, in accoglimento degli appelli del PM e del PG, che quella costituita da Buzzi e Carnninati fu una associazione di tipo mafioso di nuova formazione, di piccole dimensioni e operante in un ambito limitato. Come si è detto, nel settore degli appalti essa agì come gruppo imprenditoriale ed era identificabile e riconoscibile all’esterno. Proprio per queste sue caratteristiche l’associazione ha cessato la sua operatività con gli arresti effettuati il 2.12.2014 che coinvolsero i capi e quasi tutti gli altri associati. Anche l’amministrazione giudiziaria dell’associazione ne ha disarticolato l’organizzazione impedendo l’ulteriore prosecuzione della sua attività. Pertanto, non può essere applicata alla fattispecie la massima secondo cui “in tema di delitto associativo di stampo mafioso, l’arresto non sempre interrompe la permanenza nel reato, giacché l’associato può ben continuare a far parte del sodalizio e mantenere i contatti con i complici in libertà anche durante lo stato di detenzione”. Per quanto la data iniziale di operatività dell’associazione, non indicata, come è stato rilevato da alcune delle difese, nel capo di imputazione, va premesso che, come si è visto trattando i paragrafi “Il peso di Carminati e il distributore di Corso Francia” e “Il mondo degli appalti di Buzzi e la sede di via Pomona”, entrambi i gruppi che facevano capo a Carminati e Buzzi operavano già da tempo, e che con il loro incontro del settembre 2011 organizzato da Mancini, i due imputati divennero i capi-organizzatori di un’unica associazione che aveva i settori di attività e le caratteristiche di cui fin qui si è detto» (pag. 468) Questa ricostruzione dimostra come la stessa Corte di appello, pur non dandone espressamente atto, sia consapevole che la associazione mafiosa emersa dal processo non corrisponda a quella prospettata nel corso delle indagini, rispetto alla quale questa Corte di cassazione aveva ritenuto esservi le caratteristiche di mafiosità. In definitiva, la sentenza di appello certamente doveva fare riferimento a quanto già affermato dalle decisioni emesse in sede cautelare da questa Corte di Cassazione per la parte in diritto, in cui si rammentavano principi fondamentali in tema di associazioni mafiose delocalizzate, ma non poteva utilizzarla per ritenere automaticamente provata la sussistenza di una associazione mafiosa nel caso di specie. 2.2. Chiarito, quindi, questo errore di impostazione, deve essere valutata l’adeguatezza della motivazione della sentenza impugnata nel rivedere la decisione di primo grado in accoglimento delle impugnazioni della parte pubblica. La questione è stata posta con specifici motivi da tutti i ricorrenti condannati per il reato associativo. La Corte di appello ha riformato la decisione del Tribunale innanzitutto nella parte in cui si era ritenuto che non fosse configurabile un’unica associazione criminale, come delineata nel capo di imputazione, ma due sodalizi, distinti tra loro, con autonomi ambiti di operatività, senza un organico e permanente collegamento, fatta eccezione dei rapporti tra Carminati e Buzzi. La Corte ha sottolineato, inoltre, come il Tribunale avesse sottovalutato la conversazione tra Brugia e Carminati in cui è contenuto il cosiddetto “manifesto programmatico” di Carminati nel quale sono descritti le sue idee e i suoi programmi. In tale contesto, si è riformata la prima decisione nella parte in cui si era escluso che l’associazione fosse di tipo mafioso. Dunque, secondo la Corte di appello, quella costituita da Buzzi e Carminati sarebbe stata un’associazione di tipo mafioso di nuova formazione, di piccole dimensioni e operante in un ambito limitato, disarticolata a seguito degli arresti effettuati il 2.12.2014 che coinvolsero i capi e quasi tutti gli altri associati. Tuttavia, in ragione dei principi generali in precedenza indicati, la Corte di appello, motivando in modo rafforzato nel senso indicato, avrebbe dovuto accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che: a) la “nuova” formazione mafiosa avesse conseguito una propria fama, un proprio prestigio criminale, autonomo e distinto da quello delle persone fisiche che la componevano; un’associazione capace di mantenere il proprio prestigio criminale anche nel caso in cui fossero stati isolati e sterilizzati i personaggi dotati di fama criminale personale; b) l’associazione, seppure in un ambito oggettivo e soggettivo determinato con una riduzione di scala, quello cioè in cui in concreto operava, avesse in concreto manifestato la sua capacità di intimidazione, seppur non necessariamente attraverso atti violenti o di minaccia; c) detta manifestazione della capacità di intimidazione fosse stata percepita e avesse prodotto assoggettamento onnertoso sul “territorio” in cui l’associazione era attiva. La sentenza del Tribunale, invero, aveva deciso nei termini detti con argomenti in sé assai lineari perché, una volta accertato (in modo incontrovertibile in quanto è la stessa conclusione cui è giunta la Corte di appello) che non si era in presenza di “derivazioni” di bande mafiose preesistenti, aveva semplicemente constatato la pressoché totale assenza di elementi di fatto che collegassero sostanzialmente le due attività associative e di elementi indicativi dell’esercizio di un metodo mafioso nell’ambito di tali stesse attività; in particolare, non erano stati individuati elementi dimostrativi di un tale metodo, sia sotto il punto di vista delle modalità delle condotte materiali degli associati, sia, soprattutto, sotto il punto di vista della percezione da parte di coloro che dovevano subire tale ipotetica intimidazione derivante dal vincolo associativo. Ciò, era stato evidenziato, soprattutto per l’ambito più rilevante dei fatti oggetto di indagine, ovvero le vicende delle cooperative e degli appalti pubblici, in cui le metodiche illecite che il Tribunale ha scoperto essere state utilizzate per raggiungere gli scopi prefissati dal gruppo di Buzzi erano ben altre. In estrema sintesi, per fondare la propria decisione di rigetto della impostazione dell’accusa, il Tribunale aveva valorizzato: a) quanto alla diversità delle attività criminali dei due gruppi: – il dato temporale della partecipazione di Carminati alla organizzazione dedita agli appalti; la nuova associazione si sarebbe costituita a seguito di un primo incontro di Buzzi e Carminati alla fine del 2011, cioè prima dell’operatività criminale del gruppo di Corso Francia, la cui prima estorsione fu compiuta nel novembre 2012. Il dato assume rilievo perché il Tribunale (pag. 3071) aveva individuato il preciso momento iniziale dell’attività criminale legata ad un momento di impedimento fisico del Lacopo («La riscossione dei crediti insoluti nell’interesse di Lacopo Roberto costituì l’occasione per l’avvio delle attività di recupero poste in essere da Carminati, Brugia e Calvio»); dunque non poteva ritenersi che l’associazione che operava in Corso Francia avesse conferito la propria carica di violenza ed intimidazione nella neo associazione, nata a seguito della fusione con quella di Buzzi; – la pressoché totale assenza di rapporti tra i due gruppi di persone. Vi sarebbe stata solo la coincidenza dell’attività nell’uno e nell’altro di Carminati e qualche sporadico contatto di Brugia. Il Tribunale (pag. 3061) aveva evidenziato che l’unico ulteriore rapporto tra persone delle due compagini, quello tra Calvio e Guarnera, era del tutto ininfluente ai fini di interesse, poiché Calvio «operava solo quale guardaspalle a pagamento, volutamente tenuto fuori dagli affari che Carminati andava intessendo con l’imprenditore». b) Quanto alla assenza delle condizioni per ritenere mafiose le due associazioni: – la circostanza che le associazioni non fossero certamente espressione delle mafie tradizionali e che quindi si doveva accertare la autonoma e concreta manifestazione della capacità di intimidazione con conseguente assoggettamento ed omertà. Ma, si era osservato, non poteva farsi riferimento al concetto di violenza potenziale (definita quale “riserva di violenza” nei contesti di mafia “percepita”), non essendovi alcuna notorietà di tale gruppo di nuova formazione tra i possibili destinatari dell’atteggiamento mafioso. Per quanto riguarda l’unico ambito nel quale atti di violenza o minaccia vi erano state, ovvero quello del “distributore”, «le accertate condotte di intimidazione furono rivolte contro un numero limitato di parti offese (undici) che avevano avuto tutte rapporti pregressi con il distributore. Per questa ragione Carminati e i suoi associati erano temuti nelle zone contigue a corso Francia ma nelle stesse zone, e tanto meno in un territorio urbano più esteso, non fu mai percepita una carica di intimidazione proveniente dalle loro condotte e nessuno si rese conto di un contesto di mafiosità per il quale fosse messo in condizione di assoggettamento»; – che nelle attività delle cooperative, dopo l’inserimento di Carminati, non fosse mai stato accertato l’effettivo utilizzo strumentale dei suoi metodi intimidatori quale apporto alla associazione; – il fatto che vi fosse già un nucleo interno alle cooperative che operasse anche con metodiche corruttive per l’assegnazione di commesse pubbliche ed un nucleo politico amministrativo asservito che, destinatario di tale corruzione, offriva garanzie di raggiungimento delle finalità delle cooperative sociali. Carminati entrava nel gruppo già così operante alla fine del 2011. Si era accertato, all’esito del processo, che le uniche sistematiche attività intimidatorie da parte di Carminati erano state solo quelle finalizzate alle attività del gruppo di Corso Francia (peraltro “non mafiose”), il Tribunale aveva rilevato che «nessuna risultanza istruttoria dimostra, però, che Buzzi ed i suoi sodali, nelle attività illecite riguardanti la pubblica amministrazione, conoscessero ed intendessero avvalersi dei metodi e dei comportamenti utilizzati dal gruppo costituitosi presso il benzinaio di Corso Francia. Era Carminati e solo Carminati – e non l’altro gruppo in cui lo stesso operava – a conferire nell’accordo economico con Buzzi le sue caratteristiche soggettive». In particolare, il Tribunale aveva sviluppato argomenti analitici per rilevare che i rapporti di collaborazione tra Carminati e Buzzi non fossero affatto fondati sul presunto apporto da parte del primo dei suoi metodi minacciosi e violenti. Inoltre, si era considerato come dalle prove raccolte dovessero essere esclusi presunti casi di intimidazione nei confronti di Lucarelli, Santarelli e Mancini da parte di Carminati. Un unico episodio significativo della carica violenta di Carminati riguardava la richiesta di pagamento di debiti pregressi della Metroservice nei confronti delle cooperative; in tale caso, secondo il Tribunale, Carnninati sarebbe intervenuto minacciand i responsabili dell’impresa, ma si sarebbe trattato di un singolo episodio in cu la condotta aveva avuto di mira il \ risultato immediato, senza alcuna finalità o, comunque, senza concreto effetto di stabile intimidazione dei destinatari delle minacce. 2.3. Su tali premesse, è chiaro che la sentenza di appello, per potere arrivare ad affermare il contrario, ribaltando la decisione del primo giudice, era tenuta, come detto, non solo ad una motivazione “rafforzata”, individuando errori della decisione da riformare ed offrendo argomentazioni in termini di certezza e non di semplice maggiore plausibilità di una propria valutazione alternativa, ma aveva soprattutto, l’obbligo di individuare correttamente, già in astratto, gli elementi costitutivi della fattispecie prevista dall’art. 416-bis cod. pen. Il tema non attiene solo alla struttura della motivazione, ma, soprattutto, alla corretta applicazione della legge penale. La sentenza di appello, esclusa la possibilità di attribuire decisiva valenza all’apodittico, e comunque erroneo, richiamo alle decisioni di legittimità in sede cautelare, da una parte, evoca concetti giuridicamente estranei alla tipicità della fattispecie e, dunque, inconferenti, quali quello di riserva di violenza, di potenziale capacità di intimidazione, di prestigio criminale della singolo componente (Carminati) e non del gruppo, e dall’altra, non offre affatto una motivazione più convincente perché, senza confrontarsi con la ricostruzione probatoria del primo giudice, propone ricostruzioni di singole circostanze che non trovano neanche conseguenzialità logica. Per quanto riguarda il profilo della unicità della associazione per delinquere, la Corte di appello argomenta dalla premessa secondo cui «il quadro che si presentò dall’ottobre 2012 (data in cui iniziano le intercettazioni nei confronti di Buzzi e sono accertati i reati-fine) sarebbe stato quello di un’unica organizzazione con una unità di azione, due capi e due rami diversi di attività, perché Carminati, oltre a mantenere l’attività di recupero crediti, avrebbe aggiunto un nuovo campo di attività coinvolgendo Brugia, gli imprenditori Gaglianone e Guarnera e utilizzando i suoi legami con Pucci e Testa. Si assume che tutti sapessero che Carnninati era uno dei due capi dell’unica associazione perché altrimenti egli non avrebbe avuto alcun titolo a partecipare alle riunioni delle cooperative a via Pomona e a decidere le strategie associative con Buzzi; ciò, si assume, “legherebbe” tutto, perché la diversità di attività e di fini non sarebbe incompatibile con l’unificazione degli associati sotto un unico centro di comando costituito dai due capi. Per di più tutti gli associati conoscevano il passato criminale di Carminati e alcuni conoscevano anche il metodo che egli utilizzava per le attività di recupero crediti al distributore».È chiaro il vizio logico, causato anche dall’erroneo uso delle decisioni cautelari; la Corte, in modo assertivo, si assume come provato proprio ciò che, invece, andava dimostrato. La Corte non poteva semplicemente limitarsi a collegare le due attività dando per scontato che l’associazione fosse unica, soprattutto a fronte della assai analitica sentenza di primo grado, che aveva del tutto escluso qualsiasi relazione. La sentenza di secondo grado assume come dimostrata la circostanza che tutti conoscessero Carminati, nonostante il primo giudice avesse, con valide argomentazioni, dimostrato come ciò non fosse vero. Del resto, la Corte di appello spesso costruisce le proprie valutazioni sulla insistente asserzione di una notoria fama criminale di Carminati senza tuttavia provare alcunchè sul punto, né, nella stessa descrizione della Corte territoriale, si fa riferimento al fatto che si trattasse di una notorietà “mafiosa”, né si argomenta sul rapporto tra la ipotizzata fama criminale del singolo e la fama criminale del gruppo. La Corte di appello non ha configurato, né individuato fra le due attività alcun rapporto diverso dalla partecipazione ad entrambe di Carminati e, pur non mettendo in dubbio che Buzzi mai si interessò delle vicende di Corso Francia, ha ritenuto di svalutare tale carenza di prova sostenendo che «il fatto poi che Buzzi non era a parte delle attività svolte al distributore non esclude infatti l’esistenza di un’unica associazione perché non è necessario che tutti gli associati sappiano tutto ed è pure possibile che uno dei vertici non si interessi di un settore dell’associazione». Anche tale affermazione deriva tuttavia da una chiara inversione logica: senza neanche tenere conto della argomentata ricostruzione del primo giudice, la Corte di appello sembra dare per assunto il presupposto che vi fosse un’unica associazione, limitandosi a cercare elementi di mero riscontro di tale tesi preconcetta o svalutando aprioristicamente elementi contrari. Per insistere sulla unicità della associazione (che nella prospettiva della stessa Corte di appello era formata soltanto da undici persone o poco più), nonostante il disinteresse di Buzzi per il “ramo” di Corso Francia, la diversità dei fini particolari perseguiti dai due gruppi originari, la mancanza di conoscenza reciproca dei componenti dei due “rami”, la sentenza, piuttosto che individuare i fatti e le prove dimostrative della tesi, richiama argomenti tratti da precedenti giudiziari nella specie inconferenti. È vero che non è certamente necessario che, in una associazione, mafiosa o meno, tutti gli associati conoscano tutti o che tutti partecipino a tutte le attività, ma questo è un argomento tradizionalmente sviluppato per gruppi di dimensioni ben maggiori e che, comunque, non risolve la questione centrale della mancanza di prove positive della esistenza di una tale associazione. 309 fr\ Invero, la Corte di appello, pregiudizialmente mossa dalla convinzione della fondatezza della impostazione dell’accusa e dalla tesi che il primo giudice non avrebbe trovato sufficienti elementi di segno contrario rispetto a tale tesi, ha conseguentemente valorizzato circostanze note che, però, non sono in grado di dimostrare alcunché ai fini in questione, sia valutate singolarmente, che globalmente. 2.4. Tra queste circostanze vi è quella relativa al ruolo di Matteo Calvio, che la Corte ha ritenuto di potere collocare anche nel contesto delle cooperative. Calvio, personaggio noto per essere violento, fu incaricato di fare il “guardaspalle” di Guarnera per ragioni di sicurezza personale. Mentre, come si è già detto, il Tribunale aveva ragionevolmente considerato, sulla scorta di specifiche acquisizioni probatorie, che si trattasse di un incarico retribuito per un soggetto che cercava lavoro in questo ambito e che tale attività non aveva comunque nulla a che fare con quella della associazione (a parte che Guarnera, come si dirà, non ne faceva parte), la Corte di appello, riprendendo il tema, e senza tenere conto di quanto affermato dal Tribunale, ha sviluppato argomenti di limitata valenza. Oltre a valorizzare il servizio per conto di Guarnera, infatti, la Corte ha ritenuto che Calvio conoscesse il rapporto associativo tra Buzzi e Carminati solo perché una volta aveva accompagnato Carminati in via Pomona (quale mero autista), e, poi, che avrebbe avuto consapevolezza «di appartenere ad un’associazione più ampia» per aver chiesto a Carminati, ritenendolo un “ammanicato” con gli organi comunali, un favore per un amico per una pratica burocratica in un ufficio comunale. Si tratta di argomenti obiettivamente inconsistenti, perché il fatto di “accompagnare” non assume significato di per sé penalmente rilevante; non diversamente, sapere che Carnninati avesse proprie relazioni non ha rilievo al fine della prova della consapevolezza di far parte di una più ampia associazione mafiosa, la cui esistenza, anche in questo caso, si dà per presupposta. Si è inoltre valorizzata la posizione dell’imprenditore Cristiano Guarnera, ma dalla lettura della sentenza non si comprende in quale modo la sua attività avrebbe unito i due gruppi. A parte gli argomenti che saranno sviluppati successivamente per chiarire che a carico di Guarnera non vi è alcun indizio di partecipazione alla associazione, la Corte di Appello ha ritenuto rilevante il semplice fatto che costui fosse stato introdotto nel circuito delle attività delle cooperative; ma anche tale semplice dato, non essendo certamente ex sé quella delle cooperative una attività criminale, nu a significa e, soprattutto, nulla significa quanto alla “unicità” di associazione.Ulteriore argomento valorizzato dalla Corte di appello è quello relativo al ruolo di Agostino Gaglianone, imprenditore incaricato di lavori edili per la realizzazione del campo nomadi di Castel Romano. Con riferimento a questi, fermo quanto si dirà anche per lui sulla esclusione della sua partecipazione alla associazione, in modo del tutto illogico si è affermato che «il Tribunale però non ha motivato perché non ha dato peso al rapporto dell’imprenditore con Carnninati, e perché ha escluso qualsiasi sua relazione con il gruppo di corso Francia». Si è dato talmente per scontato ciò che, invece, andava dimostrato, da criticare il Tribunale per non aver offerto la prova negativa dell’asserto di fondo, ovvero che Gaglianone, in quanto in rapporti (in sé non illegali) con Carminati, avrebbe dovuto essere automaticamente considerato partecipe del “ramo” di Corso Francia, contesto in cui, pacificamente, Gaglianone non risulta, dalla stessa sentenza di appello, avere svolto alcuna attività. Si noti, poi, che nel testo della sentenza impugnata emerge il chiaro travisamento del riferimento alla consapevolezza di Gaglianone dei metodi violenti del Carminati: il virgolettato dalla trascrizione di una intercettazione (progr. 17168 del 22.1.2014) riportato a pagina 376, per come “tagliato” rispetto al testo complessivo, è posto in modo da sostenere che Gaglianone avesse diretta conoscenza delle metodiche violente utilizzate da Carminati nelle sue attività, lasciando intendere che se ne avvantaggiasse. Ed invece un più ampio stralcio della trascrizione della stessa conversazione, a pagina 494, dimostra che in realtà Gaglianone, pur frequentandolo da tempo, non avesse una personale conoscenza (che, è utile rammentare, non significa condivisione) della “criminosità” del Carminati, ma riportava le notizie tratte da internet e da una trasmissione televisiva; Gaglianone, nel testo riportato, affermava che Carminati fosse persona dalla quale, comportandosi correttamente (chiaramente nei rapporti imprenditoriali), non vi era nulla da temere. Quindi, dallo stesso testo della sentenza la portata del ruolo di Gaglianone come “ponte” tra le due associazioni, che comunque non è logica conseguenza della conoscenza dei metodi di Carminati, deriva sostanzialmente dal travisamento della conversazione utilizzata. Ultimo elemento utilizzato dalla Corte di Appello è il dato occasionale di avere Brugia accompagnato Carminati alle riunioni delle cooperative senza parteciparvi (in realtà è nota una sola occasione). Tale accompagnamento, che trova facile ed ovvia giustificazione nei rapporti personali tra i due, non appare avere alcuna attitudine a dimostrare la unicità della associazione. 2.5. In definitiva, a fronte degli argomenti del Tribunale, secondo il quale non emergeva alcun collegamento tra le attività dei due gruppi, tanto che i componenti non si conoscevano tra loro e non conoscevano neanche le reciproche attività, la Corte di appello, pur confermando che non vi fosse alcuna comunanza di attività, tanto da riconoscere che Buzzi non aveva alcuna partecipazione nelle attività di Corso Francia, assume come provata la esistenza di un’unica associazione. Secondo la sentenza di appello «la conclusione del Tribunale secondo cui mancherebbero l’elemento oggettivo e quello soggettivo di un’unica associazione non ha alcun fondamento perché è provata la costituzione di un unico sodalizio destinato tra l’altro alla commissione di un numero indeterminato di reati, integrato dalla comune volontà di associarsi per contribuire a realizzare il programma dell’associazione. In definitiva la divisione in due distinte associazioni in sostanza è artificiosa e non è plausibile per questa Corte, essendo più lineare e coerente la ricostruzione secondo cui un’unica associazione ha operato con Carminati per le estorsioni e con lo stesso Carminati e Buzzi per gli appalti». Anche in detto passaggio argonnentativo, la Corte di appello ha ritenuto che il Tribunale non avesse opposto elementi adeguati per escludere la unicità della associazione, il che conferma come il ribaltamento della sentenza di primo grado sia stato fondato non sulla base di un ragionamento critico sulla motivazione recepita da primo Giudice, quanto, piuttosto, sul fatto che questi non avesse adeguatamente motivato sul perché si fosse discostato dal fatto incontrovertibilmente “accertato” in fase cautelare dalla Corte di cassazione. Invero, “depurata” la decisione dal rinvio acritico alle decisioni cautelari della Cassazione – rinvio erroneo, come si è detto, innanzitutto e soprattutto per la diversità dei fatti dalla stessa giudicati – la tesi della unicità dei due gruppi si fonda solo sulla presenza in entrambi contesti criminosi di Carminati e su occasionali contatti tra altri partecipi dell’una o dell’altra entità. E’ chiaramente fuori da ogni legittimo ambito di opinabilità che tali elementi di per sé non possano dimostrare un comune pactum sceleris. In definitiva, non solo non si è offerta una motivazione “rafforzata” e più persuasiva di quella del Tribunale, ma, in una evidente confusione generata da una prospettazione di una quantità di circostanze di scarsa rilevanza, risultano, come già affermato dalla sentenza di primo grado, del tutto assenti gli elementi di prova dimostrativi della esistenza di un’unica associazione, essendosi il giudice di appello limitato a segnalare elementi di fatto che, tutt’al più, potrebbero fungere da riscontro di prove che, però, non sono state individuate. La motivazione, quindi, già si presenta di per sé gravemente carente nella dimostrazione dei punti essenziali con frequenti errori logici nel trarre conclusioni prive di nesso con le prove acquisite. 2.6. Il tema della non unicità di associazione non esaurisce quello della “mafiosità”, che, in teoria, avrebbe potuto ipotizzarsi anche facendo riferimento a ciascuna delle due associazioni. La “mafiosità” avrebbe potuto cioè farsi discendere anche dalla figura di Carminati ove si fosse dimostrato che costui fosse stato “espressione” di una preesistente compagine mafiosa e che, cooptato all’interno delle attività delle cooperative, con la loro sovrastruttura destinata alla commissione di reati “comuni” per facilitare l’attività di impresa, avesse “inquinato” tale attività attraverso iniezioni di nnafiosità tali da far mutare la struttura del gruppo, il suo agire, il suo prestigio criminale, la sua percezione all’esterno con conseguente assoggettamento omertoso. Ma la Corte di appello, come detto, non ha riproposto la tesi della “mafiosità derivata”, che pure, è doveroso ribardirlo, non sarebbe stata di per sé sufficiente, alla luce dei principi di diritto in precedenza esposti, per dimostrare la nnafiosità del “gruppo” di Buzzi, se non fosse stata data anche la prova della concreta manifestazione della capacità di intimidazione del sodalizio e del conseguente assoggettamento omertoso. Si è invece configurata una “nuova”, autonoma, associazione mafiosa attraverso una non corretta applicazione dei principi, senza verificare la riconducibilità dei fatti all’interno dei requisiti tipici di fattispecie. E tuttavia, come meglio si dirà, ci si è limitati a valorizzare l’attività propria di Carminati, unico a cui è stata riconosciuta un’autentica carica criminale, tanto da ritenere sottesa ad essa una “riserva di violenza”, e ciò anche nei casi in cui le ipotizzate condotte di intimidazione sono state attribuite a Buzzi. La Corte di appello non ha neppure affermato che vi sia stato l’esplicito impiego di un metodo mafioso nella normalità dei rapporti del gruppo delle cooperative, avendo fatto ricorso, erroneamente, al concetto di “riserva di violenza”, cercando in essa una possibile ragione della funzione di Carminati nella organizzazione delle cooperative e nella loro sovrastruttura criminale Oltre a cercare di recuperare nel contesto dell’associazione globale la carica di violenza rilevata nello svolgimento dei reati riferibili al contesto di Corso Francia, si è inteso attribuire valenza ad alcune circostanze, ritenute indicative di possibili atteggiamenti violenti o minacciosi, utili a ricostruire il complessivo clima di intimidazione. Prima di considerare come tali singole circostanze siano state valutate nella sentenza impugnata in termini diametralmente opposti rispetto alla sentenza di primo grado, con una motivazione più spesso erronea che poco convincente, è utile premettere che, anche se fosse corretta la lettura della Corte di appello, non ne deriverebbe comunque la dimostrazione della erroneità della tesi del primo giudice e, quindi, la prova della esistenza della presunta associazione mafiosa: tali circostanze sono infatti di tale scarsa portata che, anche sommandole e procedendo ad una valutazione unitaria, non darebbero alcuna dimostrazione di un carattere mafioso delle associazioni o di almeno una di esse. Si è evidenziata innanzitutto la comune provenienza dalla destra estrema sia di Carminati, sia di alcuni soggetti inseriti nell’amministrazione romana; si tratta di affermazioni che, a prescindere dalla loro fondatezza, rivelano in realtà una valenza probatoria neutra, non essendo chiaro perché detto argomento assumerebbe valore ai fini della prova della esistenza di una intimidazione mafiosa. Sul tema, la sentenza di primo grado sviluppava ampie argomentazioni. La stessa Corte di appello ha introdotto, oltre al tema della comune militanza politica, che in realtà giustifica i rapporti tra i due principali associati in termini non di “mafiosità”, anche il dato per cui, attraverso Carminati, sarebbe stata apportata una imponente liquidità nelle attività di Buzzi; è tuttavia indiscusso che tale liquidità fosse rappresentata dal denaro proveniente da un rilevante furto commesso da Carminati (furto avvenuto il 16/17 luglio 1999, citato più volte nelle due sentenze di merito, che la Corte di appello chiarisce essere un «clamoroso furto al caveau della banca interna alla città giudiziaria con la corruzione di un pubblico ufficiale e l’asportazione del contenuto di 147 cassette di sicurezza, molte delle quali intestate a magistrati, per un valore di decine di miliardi di lire»). Sotto altro profilo, in un passaggio la Corte territoriale ha indicato chiaramente dove dovrebbe essere ricercata la “mafiosità”. E’ utile riportarlo integralmente: «Come si è già detto la nuova associazione fu la risultante di due progetti espansionistici: quello di Carminati che, utilizzando la forza criminale del gruppo di corso Francia e la sua capacità di intimidazione, voleva inserirsi anche nel settore amministrativo e imprenditoriale di cui Buzzi era espressione, e quindi accedere dai reati di strada al “mondo di sopra” (come questo settore era stato da lui denominato nel suo manifesto programmatico), e il progetto di Buzzi che voleva utilizzare la fama criminale di Carminati e i rapporti di amicizia e la comune militanza politica che quest’ultimo aveva avuto in passato con persone della destra politica, le quali avevano assunto nel Comune di Roma importanti responsabilità amministrative, per rafforzare e incrementare la sua posizione nel settore degli appalti pubblici. Nell’associazione Buzzi conferì l’organizzazione delle cooperative e il collaudato sistema di corruttela, Carminati i contatti con ambienti della destra che venivano dal suo passato (Mancini, Gramazio, Pucci e Testa) e soprattutto la sua forza di intimid zione (…). Il vantaggio di Buzzi fu quello di giovarsi della forza di intinnidazion di Carminati e dei favori di Testa, Pucci e Gramazio e di coloro che governavano il Comune di Roma e gli enti partecipati dal Comune stesso. Buzzi sapeva bene che la fama personale di Carnninati e i suoi legami con il mondo della destra erano utili per convincere i funzionari comunali a fargli accaparrare lavoro». L’associazione, dunque, sarebbe diventata mafiosa in ragione dell’arrivo di Carminati, con la sua capacità di intimidazione (con o senza la confluenza dell’associazione di Corso Francia in realtà non sembra di per sé neanche tanto rilevante) ed il suo patrimonio di contatti con la destra politica legata ai pregressi estremismi. Il tema, come già detto, attiene al rilievo attribuito dalla Corte di appello alla forza criminale del singolo nella creazione della associazione mafiosa quale prospettata dalla Corte di appello. Sul punto si è già detto. Tuttavia, pur volendo ragionare con la Corte, nondimeno la quantità di circostanze riferite con una motivazione spesso ridondante finisce per indurre alla confusione nella individuazione di quelle che potrebbero essere significative. Va premessa la irrilevanza ai fini in questione del dato che, apparentemente, viene indicato come migliore prova dell’effetto della nuova “alleanza” Buzzi- Carminati. Si tratta del riferimento al forte aumento del fatturato delle cooperative di Buzzi negli anni 2012/2013; tale dato, pur certamente coincidente nella esposizione dei fatti da parte della Corte di appello con la presenza di Carminati, non ha però alcuno sviluppo per dimostrare se ed in che in termini concreti detto aumento di fatturato fu causalmente legato all’intervento di Carminati. La stessa esposizione complessiva delle vicende fa comprendere che vi furono maggiori guadagni in ragione di alcune operazioni economiche certamente di comune interesse, ma per le quali non è risultato nessun ruolo determinante da parte di Carnninati nella relativa conclusione. Dalla esposizione della sentenza (si tratta delle vicende esaminate quali reati fine) si evince che le stesse operazioni sarebbero state poste in essere anche senza la partecipazione di Carminati. In altri casi si è dato atto che Carminati investì il proprio denaro, ma il conseguente aumento del fatturato delle cooperative non può di per sé considerarsi indicativo di mafiosità In definitiva, quello che era apoditticamente presentato quale effetto macroscopico della “mafiosità”, e che rappresentava il maggiore apporto di Carminati, è di fatto escluso dalla stessa motivazione complessiva della sentenza impugnata.2.7. La Corte di Appello, nell’ambito soprattutto nell’analisi dei singoli reati, pur non emergendo quasi mai un ruolo personale di Carminati nella gestione dei rapporti esterni delle cooperative per corruzioni, turbative etc., (come già risulta dalla esposizione dei reati fine fatta sopra), ha tuttavia individuato casi in cui «Buzzi contava sulla forza di intimidazione di Carminati». Fermo il tema di fondo dell’essere o meno nota la presenza di Carminati agli interlocutori di Buzzi e, comunque, del tipo di notorietà criminale di Carnninati (il cui passato non era di tipo “mafioso”), si tratta di vicende rilette in termini opposti a quelli del Tribunale. La prima è la presunta intimidazione nei confronti della dirigente Maria Letizia Santarelli: in questo caso Buzzi si sarebbe rivolto a Carminati per sbloccare la pratica relativa ai pagamenti dovuti alle cooperative per la realizzazione del Campo Nomadi (capo 10 del primo decreto), ferma nell’ufficio della Santarelli, dirigente della Ragioneria Generale, che avrebbe dovuto esprimere un parere in ordine alla regolarità contabile della determina di approvazione. L’ipotesi che sia stato programmato un intervento “violento” o comunque vi siano state minacce derivava in questo caso dalle seguenti parole intercettate: «Anche in questo caso un minuto dopo, alle 14.28, Carminati chiedeva a Testa (Rit. 2964/13 prgro. 5876) “…quell’altra, tocca partire dall’alto…perché lei proprio, notizie di 10 minuti fa, l’ha bocciata. Ha chiesto un altro sconto, una cosa…ecco, digli di intervenire al piano di sopra…sennò tocca intervenì pesantemente, pesantemente, pesantemente…». Il Tribunale, non arrestandosi davanti alla pur plausibile ipotesi di un semplice linguaggio violento, ha svolto ampia istruttoria sulla vicenda e, sentiti gli interessati, tra i quali la Santarelli, della quale si è sottolineata l’assoluta credibilità, ha accertato che non vi furono affatto interventi gravi e diretti sulla persona della Santarelli, che la stessa mai aveva percepito indebite pressioni, né dai suoi superiori né dall’esterno, meno che mai violente. A fronte degli argomenti del Tribunale, che pure aveva argomentato sul significato di una espressione che aveva il chiaro senso di una metafora o che comunque andava collegata all’intervento (non violento) sui dirigenti della Santarelli, la Corte di appello, anche in questo caso con una motivazione ridondante, è giunta ad attribuire un significato univoco alle poche parole intercettate, affermando, da una parte, che «non è invece provato che Salvi intervenne sulla Santarelli (proprio perché ne conosceva le doti di funzionaria onesta) e il fatto che costei non si sia sentita intimidita prova soltanto che il sistema corruttivo può essere arginato se vi sono funzionari onesti», per poi, dall’altra, ritenere, senza alcuna conseguenzialità logica, che «è provato quindi l’intervento “pesante” richiesto da Buzzi aarnninati e l’utilizzo da parte ( .0 dell’associazione della sua forza di intimidazione esercitata attraverso Gramazio e Testa disponibili ad adeguarsi alle richieste di intervento da parte di Carminati». Un travisamento di quanto peraltro esposto dalla stessa Corte di appello che dà per provato un intervento “pesante”, che essa stessa esclude essere stato dimostrato. La Corte di appello ha fatto inoltre riferimento ad una disponibilità di Carminati nell’intervenire in modo intimidatorio nei rapporti con Cancelli, nei termini seguenti: «nella gestione di una fase della gara 30/13 cd. multimateriale risulta che Carminati propose un suo intervento mentre era in macchina con Buzzi il 20.1.14 (Rit 3240/13 progr. 6649), dopo aver partecipato ad una riunione a via Pomona in cui era stata discussa la strategia da tenere nei rapporti con Cancelli (capo 16 I decreto). Carnninati infatti disse a Buzzi “E no, andiamoci a parla’, mo basta, te faccio compagnia”». Sarebbe quest’ultima espressione (“… basta, te faccio compagnia”) la dimostrazione dell’intento di Carminati di intimidire la controparte. La Corte di appello sembra sostenere, soffermandosi con attenzione su alcuni passaggi della sentenza di primo grado, che, secondo lo stesso Tribunale, vi sarebbe nel caso di specie la prova di un atteggiamento intimidatorio; si tratta di un assunto che in realtà non corrisponde al ragionamento del Tribunale, secondo cui, invece, «la conversazione in esame dimostra proprio l’estraneità di Carminati alla asserita precedente intimidazione di Cancelli in quanto certamente Carminati non aveva avuto un ruolo con riferimento alla nota frase inerente al fatto che Cancelli “si era messo paura”» (pag. 1486 ss.). Si è fatto inoltre riferimento, in tema di gare per l’emergenza alloggiativa (capi 10 ed 11 del secondo decreto), all’idea di andare a parlare insieme a Carminati per gli accordi da prendere, ma non vi è nulla che alluda ad atteggiamenti di intimidazione. Sempre nell’ottica della ricerca nelle conversazioni di qualsiasi parola “sopra le righe” – effettivamente, come dice la difesa, non rare per il gergo di un conclamato criminale quale è Carminati – si è richiamata la conversazione in cui il predetto, facendo riferimento ad un contrasto insorto con chi aveva costruito alcune palazzine nuove, usa la espressione tipo “te do fuoco” e “spianare” ed altro. Al di là della diversità delle trascrizioni riportate nelle due sentenze (secondo la difesa anche in questo caso la sentenza di appello avrebbe utilizzato le trascrizioni della polizia giudiziaria in fase di indagini, recuperate dal testo della misura cautelare, e non le trascrizioni peritali), risulta chiaramente come siano espressioni metaforiche, senza nessun col gamento con minacce o pressioni di alcun genere, come del resto dà atto la più precisa sentenza di primo grado (pag. 2746 ss.). La partecipazione di Carminati alle trattative per gli acquisti di appartamenti in Nerola, quindi, non sono affatto indicative di un atteggiamento intimidatorio e, del resto, è del tutto congetturale l’affermazione «e l’accenno di Buzzi all’eventualità di “spianare le palazzine” confermano che l’intervento di Carminati era inteso come un intervento intimidatorio». La sentenza, evidentemente, non si confronta con le logiche ed ovvie conclusioni del Tribunale a pag. 2763 della propria decisione. La Corte evidenzia ancora una presunta utilizzazione di metodi intimidatori nella vicenda di cui al capo 19 del primo decreto, valorizzando la dichiarazione di Ciambella, pur dando atto che questi era stato ritenuto inattendibile dal Tribunale tanto da avere disposto l’assoluzione per il reato in questione. Pur superando il tema della utilizzabilità di tali prove, comunque si è in presenza, anche in questo caso, di generiche asserzioni in cui, peraltro, neanche si intravede, dal testo della sentenza, quale sia la intimidazione e quale il suo carattere, se del caso, mafioso. Ha carattere assertivo e privo di alcuna consistenza anche la affermazione riferita alla vicenda del capo 16 del secondo decreto, ove si legge «e Gramazio non accondiscese certamente al patto corruttivo semplicemente perché era amico di Carminati ma piuttosto perché sapeva bene chi era Carnninati e subiva la sua influenza». È da considerare che si tratta di un elemento del tutto irrilevante, perché si utilizza una asserzione basata sul presupposto da provare come prova di quest’ultimo. Invero, non si comprende perché sia stato indicato. Lo stesso vale per le vicende relative al timore manifestato per le conseguenze dell’arresto di Mancini. La Corte di appello ha contestato fortemente la valutazione del Tribunale affermando «vanno accolte quindi le censure del PM alle vaghe motivazioni del Tribunale il quale, dopo avere trovato singolare che interventi di Carminati e Buzzi non vi siano stati quando gli inquirenti avevano perquisito l’abitazione di Mancini, muove inconsistenti considerazioni, prive di riscontri concreti, sulla loro preoccupazione per il possibile coinvolgimento del sindaco Alemanno o per ripercussioni su una vicenda che interessava la società Finmeccanica ma esclude una preoccupazione di Buzzi e Carnninati per un possibile suo arresto ed esclude che nei confronti di Mancini vi siano stati loro atti di intimidazione riconducibili alla nnafiosità del loro gruppo. Invece il PM ha correttamente fatto leva sulle indicate intercettazioni che dimostrano l’assoggettamento di Mancini finalizzato a ottenerne il silenzio. E in effetti Mancini, proprio perché intimidito, non fece al giudice dichiarazioni compromettenti per l’associazione».E tuttavia, anche nella occasione, la motivazione della sentenza di primo grado è smentita da parte della Corte senza alcun serio confronto con la stessa, sulla scorta di mere asserzioni volte ad affermare, con il medesimo ragionamento probatorio circolare, che la vicenda rivelerebbe l’uso di un metodo mafioso: le parole indicate dovrebbero essere intese come esercizio di intimidazione mafiosa sul presupposto che sarebbe esistita a monte la data associazione mafiosa e, a tale punto, tali stesse parole diventerebbero prova della esistenza della associazione mafiosa. La decisione del Tribunale, basata su tutt’altro che «vaghe motivazioni» e «inconsistenti considerazioni», è quindi risultata insuperabile. 2.8. Con riferimento alla lunga esposizione della «esteriorizzazione della forza di intimidazione», la Corte ha valorizzato ulteriori poche circostanze per ritenerle confermative di un clima di intimidazione mafiosa, sul presupposto errato che questo fosse già provato. Si tratta, comunque, di argomentazioni del tutto generiche e che si smentiscono con la stessa lettura. In particolare: – sulla vicenda relativa alla partecipazione della cooperativa “il Solco” di Monge alla gara per la manutenzione delle aree verdi, si travisa, come già si è detto, l’accondiscendenza di Monge, nel parlare con Buzzi, a non partecipare ad una gara in cui appariva favorito. La vicenda era stata ampiamente e correttamente ricostruita dal Tribunale come adesione volontaria ad un contesto di accordi (un vero e proprio cartello) fra cooperative che si riconoscevano reciproci spazi di interesse. Sul tema, la Corte di appello offre una diversa lettura in termini del tutto apodittici, nonostante il palese tono confidenziale ed amichevole delle conversazioni tra Buzzi e Monge, prima facie incompatibile con il clima di intimidazione. La conclusione cui approda la sentenza impugnata, secondo cui non è la «consapevolezza di aver violato un accordo spartitorio a spiegare la reazione di Monge, come ha ritenuto il Tribunale, quanto piuttosto il timore di aver toccato un settore (manutenzione del verde delle ville storiche) che doveva rimanere appannaggio di Buzzi» risulta, quindi, sulla scorta delle premesse in fatto, del tutto incomprensibile e illogica; – lo stesso avviene in riferimento alle gare relative all’emergenza abitativa. Come si è detto sopra, discutendo dei ricorsi per i reati di cui ai capi 10 ed 11 del secondo decreto, l’accertamento contenuto nelle sentenze di merito è nel senso che Buzzi si attivò per ottenere che i possibili concorrenti rispettassero il suo ambito di attività e, da quanto risultato nei casi in cui sono state intercettate le reazioni di alcuni di tali concorrenti, è stato ben chiaro che si discuteva di accordi fra di loro. Qui la Corte di appello, senz alcun aggancio fattuale, smentisce acriticamente la decisione di primo grado sostenendo che i concorrenti contattati «si sentirono subito intimiditi». In realtà, la stessa motivazione è ambigua perché riporta innanzitutto il materiale probatorio, riferito, come rilevato dal Tribunale, espressamente al reciproco rispetto degli spazi di manovra fra le cooperative del settore, per poi desumerne apoditticamente, senza alcuna ragione anche implicita, che i dialoghi intercettati siano indice di una qualche forma di intimidazione; – un altro indice della assoluta inconsistenza delle argomentazioni di contrasto alla ricostruzione del primo giudice, si ha nel caso della gara della raccolta delle foglie, capo 13 del primo decreto, per il quale si è già rilevato come la condanna fosse priva di qualsiasi base fattuale là dove si è discusso di turbativa di gara attribuendo a Buzzi una non specificata capacità di fare escludere due concorrenti nonostante la inammissibilità delle loro domande fosse dovuta a difetti formali. In questo caso nella sentenza impugnata si formula una congettura su di una congettura nel punto in cui si afferma «ma nessuna delle due imprese produsse i necessari documenti, pur avendone facilmente la possibilità, ed è da ritenere che probabilmente questa remissività sia stata determinata dal clima di intimidazione creato dall’associazione». Peraltro, per una delle due imprese la inammissibilità della domanda era dovuta alla mancanza del prerequisito di iscrizione all’albo pertinente e, quindi, la correzione della domanda era semplicemente impossibile (ne parla chiaramente la sentenza di primo grado a pag. 1536). Anche qui, con il rilievo di una ipotetica “remissività”, si dimostra che la sentenza è mirata non a dimostrare le condizioni della “mafiosità”, bensì a cercare indizi di conferma di una tesi preconcetta; – ed ancora, la Corte di appello ha valutato la gara di cui al capo 3 del secondo decreto, sostenendo che vi fosse stato un atteggiamento intimidatorio nei confronti di Cancelli della cooperativa Edera. Anche in questo caso, la Corte, pur preso atto che il Tribunale aveva escluso, con motivazione financo ridondante, che nei rapporti con Cancelli vi fossero stati atteggiamenti di intimidazione, ha offerto una diversa interpretazione della vicenda del tutto acritica e, comunque, non certamente più convincente, sostenendo che «Cancelli aveva ceduto al nuovo accordo perché, come gli altri imprenditori, aveva avuto paura che fosse messa a rischio la propria possibilità di partecipare agli appalti anche nelle future gare e quindi di poter continuare a lavorare». Tale succinta conclusione, peraltro, dimostra come si confondano cose obiettivamente diverse, ossia le presunte pressioni dovute ai rapporti di forza nei contesti concorrenziali tra le cooperative – che è quanto emerge dalla stessa esposizione dei fatti della Corte di appello – e la intimidazione mafiosa che, invero, con tale Vicenda si vorrebbe dimostrare ma non è chiaro come;- lo stesso avviene nella parte in cui si è fatto riferimento ad ulteriori relazioni di Buzzi con altre imprese con cui dividere i lavori; peraltro, come si è visto a proposito dei reati specifici, sono tutte vicende in cui né vi è alcuna intimidazione manifesta, come chiarito dal Tribunale, né comunque sono attività in cui i rapporti esterni sono ascrivibili al soggetto presunto portatore della mafiosità, ovvero Carminati, che non risulta affatto noto ai soggetti che entravano in rapporti con Buzzi. Ciò è chiarito proprio dalla dichiarazione, riportata dalla Corte di appello, dell’amministratore di cooperativa Fabio Melone, che ha riferito della forza imprenditoriale di Buzzi e dell’abuso di tale forza, ma che nulla porta a sostegno del carattere mafioso. Melone, per come riportato in sentenza, avrebbe riferito del presunto «clima di prevaricazione e intimidazione nei confronti degli imprenditori del mondo delle cooperative (“se non andavi a genio a lui avevi chiuso”)»: è testuale il riferimento del teste ad un “clima” creato da Buzzi anni prima del sorgere del rapporto con Carminati (sul punto giova ricordare come, secondo la Corte di appello, la “piccola associazione mafiosa” di cui si discute sarebbe invece sorta in coincidenza dall’inizio del rapporto tra Buzzi e Carminati) e, soprattutto, ad un atteggiamento intimidatorio nel contesto di un abuso di una posizione dominante assunta nel mercato; quindi tale dichiarazione, comunque, non assume rilievo al fine della prova di metodiche “mafiose”. 2.9. Quanto alle presunte condotte intimidatorie nei confronti dei pubblici amministratori, vicende prospettate dall’accusa al primo giudice che, al riguardo, aveva tuttavia lungamente motivato per rilevarne l’assoluta inconsistenza- trattandosi generalmente di casi di forzatura nella interpretazione di espressioni gergali e di violenza verbale (senza mai individuare un caso di minaccia diretta)- la Corte di appello ha interpretato e valutato, anche in questo caso, diversamente il dato probatorio senza, tuttavia, alcun serio raffronto con la motivazione del primo giudice. Un primo caso citato in sentenza è quello delle presunte minacce a Mancini (per il pagamento dei crediti Eur S.p.A.), là dove la Corte ha affermato «contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale i messaggi intimidatori di Carminati rivolti a Mancini tramite Pucci sono chiari e riferiti a sé stesso come capo di un gruppo (“lo famo strillà come n’aquila sgozzata …entro dalla porta principale…vede io che gli combino … vengo su con gli amici no…facciamo, gli facciamo una situazione”) e Pucci, che li recapitò al destinatario, ne riferì l’effetto (“te sei sereno?”)».Invero, pur prescindendo dal dato che non vi è alcuna seria smentita della argomentata ricostruzione del Tribunale della medesima vicenda, in un contesto in cui nessuna condotta seriamente violenta o intimidatoria è stata rilevata nei dati rapporti, le indicate espressioni, considerando anche la pregressa conoscenza tra tali soggetti, hanno tutta l’evidenza di un linguaggio di strada, denso di metafore, potendo desumersi ciò dal dato obiettivo che Carminati non ha posto in essere nessuna delle minacce di cui ha parlato con il suo interlocutore. È la stessa Corte che, preso atto che l’accusa anche in questo caso aveva tentato di amplificare il riferimento a presunte violenze nei confronti del Mancini, riguardanti in realtà un lontano passato della loro frequentazione dei medesimi contesti neofascisti, ha osservato che «(…) anche se Carminati non picchiò Mancini per sollecitarlo a sbloccare i pagamenti, la conoscenza del passato criminale di Carminati, anche in questo caso, amplificò la portata del suo intervento». Quindi è la stessa motivazione che smentisce la portata “mafiosa” di tale vicenda. La intimidazione che il caso di specie rivela è, nella stessa ricostruzione della Corte di appello, quella “antica” di Carminati. L’idea che la «conoscenza del passato criminale di Carminati …. amplificò la portata del suo intervento» è solo una generica congettura, anche di scarso rilievo, per discutere di “mafia”, essendo il riferimento a crimini comuni e nel contesto delle bande neofasciste. La Corte ha citato, ancora, presunti interventi di Carminati in riferimento alla gara per la manutenzione delle piste ciclabili, caso nel quale non è neanche ben chiaro quale sarebbe l’atteggiamento intimidatorio, e la vicenda del presunto incontro tra Carminati e Lucarelli, capo della segreteria del sindaco Alemanno, vicenda quanto mai incerta e in cui, ammesso che vi sia stato l’incontro tra i due, neanche si intravede il carattere intimidatorio. Infine, si citano vari altri casi in termini del tutto generici, assertivamente indicativi di conoscenza della carica criminale di Carminati, ma che, invero, non fanno riferimento ad altro che alla figura del predetto ovvero inducono confusione per come “tagliati” ed isolati, pur avendo chiara e diversa spiegazione dal testo delle sentenze; così, ad esempio, l’espressione “mandare i miei Mandinghi” viene utilizzata per dare l’idea del boss che manda i suoi “scagnozzi” violenti a minacciare la vittima, ma, dalla lettura della complessiva motivazione, corrisponde alla condotta di fare manifestare, magari rumorosamente come di prassi, sotto la sede dell’ente moroso i lavoratori restati senza stipendio per tale morosità. Si è ancora in presenza di un palese travisamento della prova risultante dallo stesso testo della sentenza.È costante la contraddittorietà intrinseca della Corte di appello con le sue stesse premesse. Da un lato, nella nuova e piccola associazione, l’atteggiamento mafioso sarebbe “portato” da Carminati, dall’altro, secondo la stessa motivazione, quest’ultimo non sarebbe stato mai presente in queste operazioni, non sarebbe stato conosciuto dai presunti intimiditi (salvo i suoi “amici” ex militanti nei partiti di estrema destra assurti a ruoli di rilievo nella Amministrazione comunale del dato periodo) né sarebbe stata in alcun modo paventata la sua presenza. La Corte ha ripetuto più volte che la conoscenza di Carnninati non doveva essere necessariamente diretta – il che è certamente vero – ma non poteva limitarsi ad affermare, come certezza che non richiede dimostrazione, che vi fosse la consapevolezza da parte di “tutti” che, non cedendo alle lusinghe corruttive di Buzzi, sarebbe subentrata la violenza di Carminati (e di lui solo), tenuta in “riserva”. In sentenza si riporta solo l’episodio di un recupero crediti posto in essere da Carminati nei confronti della società Metroservice, in cui i responsabili «evidentemente non attinti da alcun grave e perdurante timore determinato dalla forza di intimidazione della associazione nel suo complesso, si ostinarono per lungo tempo a non pagare il dovuto a Buzzi – che intervenne con un’azione giudiziaria ottenendo un decreto ingiuntivo – e mutarono repentinamente atteggiamento solo allorché ebbero il contatto diretto con Carminati: cioè solo quando ebbero la diretta percezione di una situazione di pericolo, derivante però dalle caratteristiche criminali del solo Carminati». L’episodio è particolarmente amplificato per la peculiarità della vicenda in cui entra in gioco Carminati, ma non vi è modo (e, per vero, neanche il tentativo) di smentire la ricostruzione del Tribunale, secondo cui l’accusa «ha potuto proporre all’attenzione del Tribunale soltanto quattro episodi ritenuti significativi della mafiosità indirizzata verso gli imprenditori, senza peraltro neppure indicare gli stessi come testimoni, a chiarimento dei fatti ed a conferma delle intimidazioni subite » e che per il caso Metroservice rileva che Carnninati manifestò «il suo tono intimidatorio, da delinquente di strada, nei confronti dei debitori riottosi» senza, invece, manifestare alcuna forza di una associazione mafiosa e senza volere creare alcun clima di intimidazione, valutazione che la Corte di appello si limita a smentire in modo assertivo. Da evidenziare, poi, che, nell’ottica dell’obiettivo della motivazione, quest’unico caso di intervento diretto di Carnninati è un “recupero crediti” che nulla a che vedere con quello che sarebbe il core business della associazione mafiosa delle cooperative, ovvero l’espansione nella data area di interesse imprenditoriale.2.10. La Corte di appello dedica poi un paragrafo alla “omertà” che ritiene aver caratterizzato il contesto e che, a conferma della particolare inversione del rapporto fra indagini e processo, fonda essenzialmente sulla affermazione che le sentenze della Corte di cassazione emesse nella fase cautelare avrebbero «evidenziato la situazione di assoggettamento e di omertà promanante dall’associazione», per poi considerare che «il contenuto delle dichiarazioni rese da alcuni degli imprenditori concorrenti in dibattimento ha confermato il clima di omertà». Quindi, partendo da una tesi preconcetta, si afferma poi che nel dibattimento sarebbero state acquisiti riscontri (“confermato il clima di omertà”). In realtà si tratta di una serie di affermazioni generiche. Pur volendo prescindere dal considerare che dalla stessa motivazione della sentenza risulta l’interesse obiettivo da parte dei vari soggetti citati a tacere sulle questioni relative la gestione degli affari delle cooperative (caratterizzate, come si nota, da accordi sottobanco per pilotare gli affidamenti, anche a prescindere dagli indebiti accordi con gli amministratori), nulla in realtà viene indicato per collegare obiettivamente una tale possibile “omertà” all’ intimidazione mafiosa. Ancora una volta si fraintendono e affastellano circostanze di segno diverso che, invero, in alcun modo valgono, dalla stessa lettura della motivazione, a dimostrare (e neanche a farvi da riscontro) la tesi che nella specie si sia manifestato assoggettamento omertoso nei confronti di un sodalizio di tipo mafioso. A chiarimento della complessiva inversione del corretto ordine delle cose, è utile evidenziare come, a fronte della massima evidenza della gestione corruttiva dei rapporti, come risulta dalla esposizione delle circostanze relative ai reati fine, la Corte di appello abbia affermato in modo del tutto apodittico, senza che dal testo se ne possa intuire la base fattuale, che «l’associazione ebbe una capacità di infiltrazione nell’amministrazione, non solo attraverso la forza di intimidazione del vincolo associativo, ma anche con la corruzione e con la collusione dei corrotti che, come ha evidenziato il PM, determinarono l’assoggettamento dei funzionari e il timore degli imprenditori di essere esclusi dai provvedimenti amministrativi e dai contratti della pubblica amministrazione, nella consapevolezza di non potere competere con le cooperative la cui opera di corruzione si aggiungeva alla forza di intimidazione». La conclusione che sia stata principalmente la intimidazione mafiosa e, poi, «anche» la corruzione a determinare l’inserimento nelle attività dell’amministrazione è assolutamente contraria ai fatti accertati dalla stessa Corte di appello. Parimenti del tutto priva di basi fattuali, è la affermazione con la quale si è inteso smentire il Tribunale là dove si è sostqhuto che questi avrebbe errato «nel ritenere che il gruppo delle cooperative abbia continuato a dedicarsi agli appalti pubblici e a commettere delitti di turbativa d’asta utilizzando soltanto i suoi precedenti metodi corruttivi senza fare ricorso a metodi intimidatori. Invero la Corte, come si è già dimostrato e in accoglimento delle deduzioni espresse nei motivi di appello dal PM e dal PG, ribadisce che l’associazione si fondò sulla forza intimidatrice non solo di Carminati, che era persona violenta, ma anche di Buzzi il quale alla corruzione sistematica aggiungeva capacità di intimidazione». Una tale conclusione dimostra, anzi, come, proprio la palese irrilevanza della “individualità” di Carminati per poter costruire sulla sua sola fama criminale una associazione mafiosa, abbia reso necessario fare riferimento anche alla presunta intimidazione di Buzzi che, a parte non essere stata neanche ipotizzata nelle stesse premesse dei giudici di secondo grado, in realtà certamente non aveva alcuna connotazione di mafiosità quand’anche manifestata. 3. Esclusione del carattere di mafiosità e riaffermazione dell’esistenza di due associazioni “semplici”. Dunque, una motivazione gravemente carente, con cui la Corte di appello, piuttosto che confrontarsi con il ragionamento probatorio del Tribunale, ha invece meramente recepito la decisione adottata dalla Corte di cassazione in ambito cautelare, senza, tuttavia, considerare la diversa base probatoria nel frattempo formatasi. Una motivazione priva di quella “forza persuasiva superiore”, in grado di conferire alla decisione la maggior solidità possibile, rispetto a quella riformata in senso peggiorativo. Non è stata fornita una diversa spiegazione razionale rafforzata rispetto a quella posta a fondamento della sentenza di primo grado, né è stato chiarito, altrettanto razionalmente, perché determinate prove dovrebbero assumere una valenza dimostrativa obiettivamente opposta rispetto a quella ritenuta dal Tribunale. Una sentenza, soprattutto, in cui non si è fatta corretta applicazione dei principi di diritto, in precedenza enunciati, che riguardano gli elementi strutturali del delitto di associazione di stampo mafioso. Si è preteso di far derivare la capacità intimidatrice dell’associazione dal prestigio criminale non mafioso di uno degli associati e non da quello impersonalmente riferibile al gruppo. Si è costruita la fattispecie facendo riferimento a nozioni, quali quelle di riserva di violenza ovvero di capacità potenziale di intimidazione, senza considerare che l’associazione mafiosa esiste solo se il sodalizio abbia conseguito, nel contesto – anche ridotto – di riferimento, una capacità intimidatrice effettiva, manifestata e obiettivamente riscontrabile, che può certo esteriorizzarsi anche con atti e comportamenti non connotati necessariamente da violenza o minaccia, ma che devono essere evocativi del prestigio criminale del gruppo e come tale percepiti. Una capacità di intimidazione attuale, concreta, obiettiva che sintetizza un principio di diritto fondante, ma che è stato declinato dalla Corte di appello in modo giuridicamente errato, perché, in presenza di una chiara anemia probatoria, lo si è fatto discendere in modo automatico, e sostanzialmente presuntivo, dalla figura di Carnninati, richiamando concetti e principi inconferenti. Non diversamente, si è svuotato di valenza penale il requisito dell’assoggettamento omertoso, fatto anche questo sostanzialmente discendere dalla quantità e dalla qualità dei reati fine, e, soprattutto, dall’ampiezza del sistema corruttivo accertato. Un “sistema” gravemente inquinato, non dalla paura ma dal mercimonio della pubblica funzione. Non si è tuttavia considerato, come si è osservato in dottrina, che la criminalità organizzata mafiosa si fonda sostanzialmente sul metus che deriva dalla violenza, dall’intimidazione, dalla costrizione, laddove, invece, la corruzione è un reato che si fonda sull’accordo illecito e paritario tra due persone. L’omertà che deriva dalla manifestazione della capacità di intimidazione e che caratterizza l’associazione mafiosa è fondata sul timore; nella corruzione l’omertà è invece fondata, come nel caso di specie, sulla convenienza reciproca. Nessuna prova esiste che i pubblici ufficiali coinvolti nell’odierno processo fossero stati “collocati” dalla criminalità mafiosa all’interno della pubblica amministrazione, né che essi abbiano “venduto” la propria funzione per paura, per essere stati costretti da Carminati o da Buzzi ovvero dall’associazione criminale che a questi facevano riferimento; è stato accertato un fenomeno diverso, di collusione generalizzata, diffusa e sistemica. Una grave connpromissione della pubblica funzione conseguente ad una scelta libera e consapevole, ancorché criminale, di un elevato numero di pubblici amministratori, di politici, di pubblici funzionari; un sistema inquinato e spartitorio nella gestione degli appalti e nella nullificazione del pubblico interesse, sacrificato a logiche di indebita locupletazione. Né sono emerse nei confronti degli imprenditori forme di condizionamento prevaricatore in grado di inibire la concorrenza, perché non sono state evidenziate modalità intimidative mafiose finalizzate, ad esempio, ad allontanare soggetti economici dalla partecipazione alle gare: i fatti “raccontano” di imprenditori che hanno accettato la logica spartitoria professata da Buzzi e dai suoi sodali, basata, però, non sull’intimidazione, bensì sugli accordi corruttivi. In questo modo si è limitata la libera concorrenza, ma ciò è avvenuto, lo si ribadisce, utilizzando forme di condizionamento corruttivo che non sono state precedute da alcun metodo intinnidativo mafioso. Le risultanze probatorie del processo non consentono affatto di affermare, sul piano generale ed astratto, che sul territorio del Comune di Roma non possano esistere fenomeni criminali mafiosi, quanto, piuttosto, che, con specifico riguardo al caso in esame, si è indebitamente piegata la tipicità della fattispecie prevista dall’art. 416-bis cod. pen. per farvi confluire fenomeni ad essa estranei. Ma le strettoie del diritto e del processo non possono essere superate per andare al cuore empirico della vicenda, massificando in tal modo condotte, responsabilità individuali, principi giuridici fondanti. Volendo ricorrere ad una metafora, può dirsi che una parte del “palazzo” non è stato “conquistata” dall’esterno, dalla criminalità mafiosa, ma si è consapevolmente “consegnata” agli interessi del gruppo che faceva capo a Buzzi e Carminati; un gruppo criminale che ha trovato un terreno fertile da coltivare. La conclusione è, quindi, l’accoglimento dei ricorsi sul punto essendo dimostrata l’infondatezza della decisione della Corte di appello che ha aderito alle tesi dell’accusa in ordine alla riqualificazione dei reati associativi, ritenendo l’associazione unica e la sua qualifica di “associazione di stampo mafioso”. Si tratta di temi che svuotano di valenza – anche in senso prospettico – il quadro probatorio e minano radicalmente l’assunto accusatorio recepito dalla Corte di appello. Essendovi stato un complessivo esame di tutto il materiale probatorio disponibile ed essendo risultata insuperabile la decisione di primo grado in ordine alla inesistenza di prove della identità delle due associazioni ed alla esistenza di prove della assoluta autonomia, alla assenza di prove di esistenza di una associazione di carattere mafioso quale configurata dai capi di imputazione originari e oggetto delle decisioni in materia di misure cautelari in fase di indagine e, inoltre, alla inesistenza di prove di una associazione mafiosa pur della diversa e limitata consistenza ritenuta dalla Corte di appello, comporta che la decisione sul punto vada annullata senza rinvio, non prospettandosi alcuna possibilità di una decisione di segno diverso, sulla base dei consolidati principi di questa Corte, secondo cui nel giudizio di cassazione l’annullamento della sentenza di condanna va disposto senza rinvio allorché un eventuale giudizio di rinvio, per la natura indiziaria del processo e per la puntuale e completa disamina del materiale acquisito e utilizzato nei pregressi giudizi di merito, non potrebbe in alcun modo colmare la situazione di vuoto probatorio storicamente accertata (cfr., Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226100; Sez. 6, n. 37098 del 19/07/2012, Conti, Rv. 253380; Sez. 6, n. 26226 del 15/03/2013, Savina, Rv. 255784). La decisione comporta “automaticamente” l’annullamento della decisione impugnata anche in relazione all’applicazione della aggravante della agevolazione mafiosa ex art. 416-bis.1 cod. pen. e della aggravante di cui agli artt. 629 e 628, terzo comma, n. 3, cod. pen., che presuppongono l’effettiva esistenza della associazione mafiosa. Quanto alla aggravante del metodo mafioso ex art. 416-bis.1 cod. pen., che la Corte di appello aveva ritenuto sussistere solo per i reati di estorsione (capi 2, 3, 4, 5, 6 e 7 del primo decreto), si rinvia a quanto già detto in sede di valutazione dei ricorsi per tali imputazioni, dove si è escluso che, secondo la ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito, gli autori dei reati avessero utilizzato modalità tali da fare ritenere alle vittime che operassero per un’associazione mafiosa. Resta, quindi, ferma la decisione di primo grado quanto alla esistenza di due associazioni per delinquere “semplici”, non essendovi motivi di ricorso finalizzati alla esclusione di tali reati. III. Le singole partecipazioni. Le due associazioni. 1.1. Per quanto già detto, i ricorsi relativi alla responsabilità di ciascun ricorrente per il reato associativo vanno valutati considerando le due associazioni per delinquere ex art. 416 cod. pen., come individuate dal primo giudice. Nel più ampio contesto fattuale delineato nella imputazione, la prima delle due associazioni sarebbe stata formata nel contesto spaziale del distributore Eni di Corso Francia, luogo ove si incontravano Lacopo, nonché Carminati, Brugia e Calvio. Lacopo, oltre alla ordinaria attività commerciale, era dedito anche a piccoli prestiti usurai, mediante sconto di assegni con versamento di contanti o in forma di anticipazioni di forniture di carburanti. A partire da un’occasione in cui ebbe necessità di gestire alcune situazioni di insolvenza, il ricorrente aveva iniziato una stabile collaborazione con gli altri tre imputati cui delegava il recupero dei suoi crediti con modalità minacciose e, talora, violente. In particolare, su richiesta di Lacopo, intervenivano Carminati e Brugia i quali, a loro volta, delegavano le attività di pressione sui debitori a Calvi°, persona adatta a tale compito per la sua indole aggressiva.Tale attività fu svolta in modo continuativo, non risultando solo i casi di estorsione per i quali si procede in questa sede, ma essendo stati indicati dal Tribunale altre vicende simili, di prestiti usurari ed indebite pressioni per i relativi pagamenti, emerse dalle intercettazioni. Nella prospettiva del Tribunale, che sostanzialmente non è stata contestata perché, come già detto, non vi sono motivi di ricorso per la esclusione del reato associativo quale configurato dal primo giudice, sussistono gli elementi essenziali, per qualificare la condotta ai sensi dell’art. 416 cod. pen.: – vi sono rapporti continuativi finalizzati a tali attività criminali; – il programma di commissione di una pluralità di reati ha, nel caso di specie, le caratteristiche di indeterminatezza richieste per configurare l’associazione per delinquere, poiché risultano di volta in volta individuati i possibili destinatari delle attività del gruppo; – risulta quella minima struttura organizzativa richiesta per integrare il reato, per la divisione in ruoli tra chi effettuava i prestiti e chi si occupava di organizzare le attività finalizzate al recupero e, infine, con il ruolo di manovalanza di Calvio. 1.2. La seconda associazione criminale era composta da Brugia, Buzzi, Carminati, Caldarelli, Di Ninno, Gaglianone, Garrone, Gramazio, Guarany, Guarnera, Panzironi, Pucci e Testa. Tale associazione sostanzialmente corrispondeva alla organizzazione delle cooperative di Buzzi ed ai soggetti che con questi operavano pur non essendone soci. Sulla scorta dei numerosi reati fine accertati, l’oggetto dell’associazione è stato delineato nella commissione di reati volti alla acquisizione di servizi del Comune di Roma ed enti per essa operanti. I reati programmati erano essenzialmente di corruzione e turbativa di asta, tali da consentire l’espansione dell’attività di impresa del gruppo di cooperative di Buzzi nel settore dei servizi. I soggetti associati erano divisi tra un nucleo che gestiva le cooperative e un altro, “politico-amministrativo”, di funzionari e politici corrotti che garantivano il successo di tali cooperative nei vari settori in cui le stesse operavano. Nella ricostruzione dei giudici di merito, il dibattimento ha dimostrato la esistenza di un contesto generale di relazioni posto in essere da Buzzi e dai suoi associati cui facevano seguito le specifiche iniziative assunte di volta in volta in relazione alla possibilità di partecipare, falsandole, a singole gare. In questo modo è stata ricostruita una organizzazione con ruoli specifici per ciascun associato e con un programma criminale di reiterazione di un numero indefinito di reati. Ciò ha consentito di dare la qualificazion giuridica ex art. 416 cod. pen., di per sé non oggetto di contestazione.2. Brugia Riccardo. Quanto si è detto fino ad ora, a proposito del reato associativo, comporta l’accoglimento del secondo motivo dedotto nel ricorso di Brugia, accoglimento che assorbe il primo motivo, avente ad oggetto il diniego di rinnovazione dell’istruttoria in riferimento all’accoglimento degli appelli dei pubblici ministeri. Va precisato che il secondo motivo, nella rubrica, riferisce solo della doglianza, per violazione di legge e vizio di motivazione, sulla sussistenza del reato di associazione mafiosa; anche nello svolgimento dei relativi argomenti si comprende che Brugia abbia inteso discutere solo del tema della mafiosità e della unicità dell’associazione. Invero, nella parte finale del testo, si indica come erronea l’affermazione della Corte di appello che aveva ritenuto non contestata la sua partecipazione alla associazione operante in Corso Francia. Sul punto, però, al di là di una generica doglianza sulla inadeguatezza della risposta della Corte di appello al relativo motivo di impugnazione, non sono sviluppati motivi specifici: vi è solo l’affermazione della mancanza di prova della divisione dei profitti tra gli associati laddove, com’è noto, tale mera assenza di condivisione dei guadagni è di per sé sola irrilevante per ritenere esistente o meno una associazione per delinquere. Quindi, o, come sembra più probabile dalla rubrica del motivo, la parte non ha inteso contestare espressamente la partecipazione alla associazione, o, se del caso, ha sviluppato in ordine al tema della partecipazione alla associazione, per come ritenuta dalla sentenza di primo grado, un motivo del tutto generico. In definitiva, all’esito della presente decisione, resta ferma l’affermazione di responsabilità in ordine alla partecipazione del ricorrente alla associazione per delinquere di Corso Francia, nonché alla partecipazione anche alla seconda associazione, avendo così stabilito il Tribunale e non essendo stato dedotto alcun motivo sul punto da parte di Brugia. 3. Calvio Matteo. I primi due motivi del ricorso proposto nell’interesse di Calvio sono analoghi a quelli dedotti nel ricorso di Brugia, sicché valgono le considerazioni già esposte. In particolare, il secondo motivo, oltre a contestare la sentenza impugnata per la parte in cui ha accolto gli appelli sul tema della associazione unica e mafiosa, deduce espressamente anche il tema relativo alla partecipazione alla associazione di Corso Francia. Al riguardo, però, vi sono solo minime argomentazioni a pag. 33 del ricorso, limitate ad una generica doglianza di mancata adeguata risposta della Corte ai relativi motivi di appello con i quali si sarebbe fatto rilevare che il ricorrente si limitava ad agire per conto di chi gli dava i singoli incarichi di minacciare altre persone e non per conto della associazione. Il motivo, per tale parte, è chiaramente viziato da genericità. Quindi resta ferma la sua responsabilità ritenuta dal primo giudice per la partecipazione al gruppo di Corso Francia. 4. Lacopo Roberto. Il primo motivo del ricorso proposto da Lacopo sviluppa argomenti in ordine alla erroneità della sentenza nel ritenere la sussistenza di una unica associazione e, comunque, al carattere mafioso anche del gruppo di Corso Francia. Non svolge, invece, argomenti in contrasto alla condanna per la partecipazione alla associazione “semplice”. Quanto già detto in precedenza risponde in termini positivi al motivo e, come aveva deciso il giudice di primo grado, Lacopo va ritenuto responsabile della sola partecipazione alla associazione di Corso Francia. 5. Carminati Massimo. La presente decisione in tema di infondatezza della sentenza di riforma di quella di primo grado in relazione al carattere mafioso della associazione assorbe i temi sostanziali e le questioni processuali poste con il primo ed il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse di Carminati dall’avvocato Francesco Tagliaferri, nonché con il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso dell’avvocato Cesare Placanica. Non risultano proposti, invece, motivi riferibili alla partecipazione del ricorrente alle due associazioni. All’esito della decisione, quindi, Carminati va ritenuto responsabile di entrambi i reati associativi come stabilito dal giudice di primo grado. 6. Buzzi Salvatore. L’odierna decisione accoglie le questioni processuali e sostanziali di cui al motivo di cui al punto 1.2 ed motivo di cui al punto 2.1 del ricorso presentato nell’interesse di Buzzi. Non vi sono, invece, motivi in ordine alla sua partecipazione alla associazione delle cooperative. Ne consegue la conferma della condanna del ricorrente come disposta in primo grado. La decisione rende non più rilevante la valutazione del motivo di cui al punto 5.1 del ricorso che contestava il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 416-bis.1, comma 3, cod. pen., non applicabile essendo venuta meno I condanna per associazione mafiosa e per reati aggravati ex articolo 416-bis.1 cod. pen.7. Caldarelli Claudio. I temi posti con il terzo ed il quarto motivo del ricorso di Caldarelli devono ritenersi accolti in base alle considerazioni espresse nella presente sentenza. Vanno valutati il quinto ed il sesto motivo che deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla mancanza di materialità di una sua condotta di partecipazione alla associazione e, comunque, alla mancanza del relativo elemento psicologico, ovviamente senza considerare gli argomenti collegati al profilo mafioso della associazione. Il ricorso, in parte qua, è infondato. All’imputato era contestato di avere, quale partecipe dell’associazione, costituito il punto di collegamento tra l’organizzazione e le istituzioni politiche, di aver creato flussi finanziari illeciti e di aver contribuito alle operazioni corruttive e di alterazione delle gare pubbliche. È stato riconosciuto un suo diretto contributo nel concordare con Buzzi la strategia corruttiva, come dimostrato dal ruolo assunto nelle singole vicende che gli sono state contestate. I “flussi finanziari” riguardano il suo contributo nel muovere somme in favore di Panzironi. La motivazione risulta adeguata e priva di manifesti errori logici in quanto, accertata la partecipazione del ricorrente a vari reati fine e, soprattutto, alle valutazioni strategiche per la generalità delle operazioni delle cooperative di Buzzi, è stata coerentemente desunta da tali circostanze la sua volontà di partecipare al complessivo programma di acquisizione di commesse anche con modalità illecite. I motivi proposti sono mirati ad una valutazione frammentaria delle varie condotte e non sono in grado di smentire la complessiva logicità della ricostruzione e, peraltro, là dove si contesta la portata della accertata partecipazione alla strategia corruttiva, si formulano argomenti riferibili solo alla non consapevolezza del carattere mafioso della organizzazione, tema non più attuale. All’esito della decisione, quindi, Caldarelli va ritenuto responsabile del reato associativo relativo alle attività delle cooperative, come stabilito dal giudice di primo grado. 8. Di Ninno Paolo e Garrone Alessandra. Il loro ricorso comune, con riferimento al reato associativo, deduce i motivi di cui ai punti 1.2 e 2.2. Quanto sopra esposto risolve le questioni processuali nonché in ordine alla loro estraneità al gruppo di Corso Francia ed al carattere mafioso della associazione. Il motivo del punto 2.2 sembra, invero, contestare anche la lor partecipazione alla associazione semplice, ma nello sviluppo delle relativ argomentazioni è del tutto generico. Quindi, a parte il dubbio sulla estensione del motivo anche a tale profilo, lo stesso va rigettato comunque per la evidente assenza di argomentazioni specifiche, limitate alla doglianza sulla inadeguata risposta ai motivi di appello, che, invece, hanno avuto di per sé risposta dalla complessiva motivazione. All’esito della presente decisione, quindi, resta ferma la loro condanna per il reato associativo “semplice” collegato alle attività delle cooperative. 9. Gramazio Luca. La decisione di annullamento della sentenza in ordine al carattere mafioso dell’associazione risolve i temi proposti dalla difesa di Gramazio con il secondo ed il terzo motivo di ricorso. Va valutato il quarto motivo, con il quale si deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla affermazione della sua partecipazione alla associazione, motivi rilevanti anche sotto il profilo della associazione semplice. Tale motivo è infondato. All’imputato, quanto al reato associativo, è contestato di avere, prima, come consigliere al Comune di Roma e, poi, come consigliere della Regione Lazio, posto «al servizio dell’organizzazione le sue qualità istituzionali» e di aver svolto «una funzione di collegamento tra l’organizzazione, la politica e le istituzioni», elaborando «insieme a Testa, Buzzi e Carnninati, le strategie di penetrazione della Pubblica Amministrazione» e intervenendo «direttamente e indirettamente nei diversi settori della Pubblica Amministrazione di interesse dell’associazione». L’esclusione del carattere mafioso della associazione consente di prescindere dal trattare quelle parti della motivazione della Corte di Appello mirate a dimostrare la sua consapevolezza dell’agire mafioso e, invece, di limitare la valutazione della medesima decisione ai profili relativi alla sussistenza della condotta di partecipazione all’associazione collegata alle cooperative, quindi mirata solo agli illeciti per la acquisizione della gestione dei servizi. La motivazione, invero, risulta adeguata. Per quanto ampia parte delle circostanze valorizzate dai giudici di merito risultino indicative della esecuzione del reato contestato al capo 23 del secondo decreto, consistente, del resto, non nella singola programmazione di una corruzione, ma nella complessiva “vendita della funzione” in un ampio arco temporale, i giudici di merito hanno correttamente ricostruito anche una costanza dei rapporti con la “piccola” associazione, tale da dimostrare la contemporanea volontà di Gramazio di contribuire alla realizzazione/ del complessivo programma criminale.Sono state così correttamente valorizzate le numerose richieste di intervento di vario genere considerati nel capo 23, osservandosi come la disponibilità di Gramazio fosse costante; i plurimi incontri nel periodo di interesse con Carminati, Testa e Buzzi che, pur non essendo dimostrativi della partecipazione alle attività di gestione delle cooperative (come sembra affermare la Corte di Appello), sono, tuttavia, certamente indicativi dell’essere il politico uno dei punti di riferimento di Buzzi e Carminati; la stessa varietà degli interventi; l’attivismo nell’intervenire per favorire nomine di funzionari che l’associazione riteneva corruttibili o orientati verso scelte di fatto più favorevoli per la propria espansione. La Corte, del resto, ha riportato varie conversazioni (13.12.2012, Rit 7974/12, progr. 39; 5.5.2014, Rit 8416/13, progr. 4200; 6.8.2014, Rit 8416/13, progr. 6432) in cui Gramazio è indicato espressamente come persona di riferimento dell’associazione all’interno delle due istituzioni di cui ha fatto parte. Rileva anche la condotta tenuta nell’ambito del capo 16: a prescindere dalla decisione in tema di carenza della motivazione sulla sussistenza della turbativa, che impone una nuova valutazione di quella vicenda, la sentenza evidenzia nei fatti accertati un particolarmente evidente impegno di Gramazio per la nomina di un commissario di gara gradito a Buzzi e soci, elemento ritenuto indicativo di una chiara volontà di sostegno delle attività della organizzazione e non solo di facilitare l’accesso al dato appalto. A fronte di questa motivazione, in sé completa e priva di errori logici, esclusa ovviamente ogni possibilità di sindacato sull’apprezzamento delle prove, è agevole rilevare la infondatezza del pur articolato motivo in quanto: – la motivazione non è certamente carente, avendo la decisione risposto in termini complessivi alle questioni dedotte con l’appello; – in particolare, in essa si è affrontato, in modo completo e non illogico, il tema della “millanteria” di Testa e, per il resto, vi è stata adeguata motivazione sulla portata probatoria delle intercettazioni; – è stata motivata la consapevolezza del contribuire alla associazione; il motivo, invero, pone legittimi dubbi sul tema in riferimento alla diversa consistenza dell’associazione di cui alla sentenza di appello, ma su tale profilo si è già deciso in senso favorevole; – per il resto, con il ricorso si contestano in modo frammentario le singole circostanze valorizzate dai giudici di merito (partecipazione ai reati fine, rapporti continuativi con i correi in corrispondenza dei momenti di utilità del suo intervento etc.), ma non si inficia la logicità della decisione, che utilizza il complesso di tali circostanze per dimostrare la consapevole a esione al programma del gruppo di Buzzi e la volontà di dare il proprio contribu All’esito, quindi, resta ferma la sua condanna per il reato associativo “semplice” collegato alle attività delle cooperative. 10. Guarany Carlo Maria. Gli argomenti sopra svolti risolvono le questioni processuali poste con il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse di Guarany nonché quelle sostanziali di cui al secondo ed al quarto motivo. Il terzo motivo, invece, deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge quanto alla ritenuta partecipazione di Guarany alla associazione che, fermo restante il superamento dei temi relativi al profilo di mafiosità ed alla responsabilità anche per le vicende di Corso Francia, riguarda comunque anche la partecipazione alla associazione semplice come configurata dal giudice di primo grado. Innanzitutto, va considerato che, con la presente decisione, per Guarany è stata definitivamente confermata la responsabilità per la turbativa della gara di appalto 30/2013 di Ama S.p.A. per la raccolta differenziata multimateriale. La turbativa è stata resa possibile dalla corruzione di cui ai capi 14 del primo decreto e 3 del secondo decreto, vicende in cui i giudici di merito avevano accertato la sua partecipazione alla attività di collusione per alterare la gara. È stato, invece, disposto annullamento con rinvio per quanto riguarda la condanna per il reato di turbativa della gara Cup, capo 16 del secondo decreto; in questo caso l’annullamento riguarda il tema principale della effettiva sussistenza del reato, senza considerare gli argomenti relativi al ruolo del Guarany nella vicenda. Va quindi osservato che la Corte di Appello ha affrontato espressamente il tema della partecipazione dell’imputato alla associazione con argomenti che sono chiaramente riferibili anche alla ipotesi, che qui residua, della partecipazione alla associazione semplice relativa al gruppo delle cooperative. Nel confermare le valutazioni del primo giudice, la sentenza impugnata ha spiegato come il ricorrente fosse uno stabile collaboratore di Buzzi, elencando una serie di conversazioni intercettate nel corso delle riunioni in cui costui interloquiva anche con riferimento alle attività certamente non riconducibili alla mera gestione lecita delle cooperative, ovvero in riferimento ai rapporti di corruzione e alle connesse turbative delle gare; si è attribuita rilevanza inoltre ai rapporti diretti che il ricorrente aveva avuto con Fiscon, nel periodo in cui costui ricoprì uno specifico ruolo in Ama S.p.A. ed operò nei termini di cui sopra si è detto, sintetizzando i fatti accertati dai giudici di merito. Nel terzo motivo, a parte quanto riferibile al tema della maggior ampiezza e mafiosità della associazione, ovviamente non più in discussione, la difesa deduce: – il ricorrente non avrebbe avuto conoscenza della contabilità in nero riferibile alle corruzioni; – le intercettazioni sulle sue utenze non avrebbero dato alcun risultato utile; – nel corso delle riunioni l’imputato avrebbe manifestato sempre un atteggiamento semplicemente passivo, non essendo mai stato neanche interpellato da Buzzi sul da farsi; – Guarany sarebbe stato interessato solo e soltanto degli interessi della cooperativa. Il motivo, per tale parte, è infondato. La Corte di Appello ha risposto ai motivi di impugnazione e con una motivazione in sé completa e logica ha spiegato come la partecipazione alla gestione della cooperativa principale di Buzzi, con piena conoscenza delle modalità con le quali dovevano essere “attuati” i vari interventi, e con il ruolo diretto in taluni rapporti con soggetti esterni ed asserviti alla associazione, ben dimostri la piena partecipazione del ricorrente anche alla parte illecita delle attività economiche in oggetto. La difesa, invero, si è limitata ad affermare un ruolo meramente passivo di Guarany nel ricevere le informazioni del Buzzi; ma una condotta apparentemente solo passiva va collocata nel contesto accertato, ovvero che Buzzi, nel corso delle riunioni “istituzionali” delle cooperative, era solito indicare le strategie cui si sarebbero dovuti poi attenere gli altri collaboratori, ivi comprese corruzione e condizionamento delle gare. Attesa la sede di legittimità, ovviamente, non è compito di questa Corte alcun approfondimento sulla reale portata di tale materiale probatorio. In conseguenza, resta confermata la decisione di primo grado che ha ritenuto Guarany concorrente nella associazione operante nell’ambito delle cooperative. 11. Pucci Carlo. Il secondo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo del ricorso di Pucci riguardano questioni sostanzialmente già sopra accolte. Il settimo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla partecipazione del ricorrente all’associazione delineata in sentenza. Tale motivo, però, da una parte, attiene all’appartenenza all’associazione in quanto mafiosa, di cui si è detto, e, dall’altra, al dubbio sulla esistenza della associazione e sulla partecipazione alla stessa di Pucci, anche come ritenuto dal Tribunale. Si tratta di un motivo del tutto generico. Il ricorrente, difatti, dato semplicemente atto di aver proposto un motivo di appello su tale tema, si è poi limitato all’affermazione, in sé neanche corretta, che «la unicità di condotte cristallizzate nei capi 1) e 17) avrebbero imposto di motivare sul quid pluris della condotta associativa rispetto al reato fine atteso che da sempre è negata la possibilità di desumere la partecipazione al sodalizio dalla commissione dei reati fine e viceversa». In conseguenza, resta confermata la decisione di primo grado che riteneva Pucci concorrente nella associazione operante nell’ambito delle cooperative. 12. Testa Fabrizio Franco. Quanto considerato sopra in ordine al reato associativo risolve le questioni processuali e sostanziali posti con il primo ed il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di Testa nonché con i motivi aggiunti. Il ricorrente, invece, non ha formulato motivi specifici in ordine alla sua partecipazione alla associazione, come già ritenuta dal tribunale. In conseguenza, resta confermata la decisione di primo grado che ha ritenuto Testa concorrente nella associazione operante nell’ambito delle cooperative. 13. Guarnera Cristiano. È fondato il primo motivo del ricorso di Guarnera, che contesta la sua partecipazione al reato associativo, risultando dallo stesso testo delle sentenze di primo e secondo grado l’irrilevanza delle condotte a lui contestate a tale fine. La Corte di Appello ricorda che «gli è contestato di avere partecipato all’associazione mettendo a disposizione le proprie imprese e attività economiche nel settore dell’edilizia per la gestione degli appalti di opere e servizi conseguiti dall’associazione anche con metodo corruttivo», che il Tribunale «ha ritenuto Guarnera partecipe dell’associazione dedita alla commissione dei delitti di corruzione e turbativa d’asta, dalla quale trasse vantaggi economici, pur non riconoscendogli la qualifica di imprenditore colluso». La Corte di Appello, oltre a osservare che «Guarnera fu uno dei collegamenti intersoggettivi tra i due gruppi», circostanza che, in concreto, era, tuttavia, priva di alcuna consistenza come già detto, è giunta alla conclusione che «il rapporto sinallagmatico tra Guarnera e l’associazione prova che egli era un imprenditore colluso, come ha indicato la Cassazione nella menzionata sentenza. La condotta di Guarnera, però, andò oltre il conseguimento di un vantaggio sinallagmatico, che di per sé lo collocherebbe all’interno della categoria del concorso esterno (…), perché l’appellante godette della protezione dell’associazione, mise i suoi beni a disposizione per il raggiungimento dei fini della medesima, e ne condivise la forza di intimidazione, sicché la sua condotta deve essere qualificata quale partecipazione». Oltre al consueto acritico rinvio alla decisione cautelare di questa Corte, vizio ricorrente nella decisione impugnata per superare le situazioni di carenza probatoria, la motivazione anche in questo caso è fondata sulla somma di circostanze eterogenee ma tutte inconsistenti, sia se lette singolarmente che complessivamente. A fronte delle affermazioni generali, nel dettaglio la stessa sentenza ha di fatto escluso che il ricorrente fosse a conoscenza delle vicende di corruzione e turbativa delle gare. L’unica attività individuata dalla Corte di Appello (che non ne ipotizza altre) in cui si sarebbe manifestata la “collusione” quale imprenditore, sarebbe consisterebbe nell’avere il ricorrente concesso «in locazione quattordici appartamenti (situati in Roma, via di Selva Candida n. 197) alle cooperative di Buzzi, che li destinò al piano di emergenza abitativa nel Comune di Roma». Per quanto la motivazione si diffonda sulle ragioni, palesemente qui irrilevanti, per cui il ricorrente preferì locare gli immobili anziché venderli (era difficile “piazzarli” sul mercato per la eccessiva quota del mutuo originario sull’edificio di nuova costruzione, restata poi a carico di parte dei singoli appartamenti, nonché per la difficolta di locarli, affermazione quest’ultima che non sembra neanche giustificata da alcun elemento concreto), ciò che emerge chiaramente è la omessa indicazione delle ragioni per le quali tale locazione in favore di una cooperativa per le sue attività evidentemente lecite dovesse considerarsi indizio di “collusione”. La Corte di Appello ha valorizzato inoltre varie circostanze: – si è ritenuto che Guarnera fosse consapevole della esistenza della associazione di Corso Francia in base all’incarico dato a Calvio di fargli da guardaspalle (elemento travisato rispetto alla chiara esposizione da parte del Tribunale, come già detto, della inconcludenza di tale dato) e dall’incarico ricevuto da Brugia di «consegnare a Lacopo documenti riservati per Carminati». Pur prescindendo dalla diversità di lettura rispetto a quella del Tribunale che, con riguardo alla stessa intercettazione (non trascritta in alcuna delle sentenze), ha letto che «Guarnera diceva a Brugia che avrebbe lasciato a lui, Roberto una busta contenente documenti da consegnare a Carminati» – quindi nessun “incarico” e nessuna riservatezza particolare dei documenti -, non vi è alcuna connessione logica tra tale circostanza e la conoscenza del rapporto associativo del gruppo di Corso Francia. – una generica indicazione di Carminati al Guarnera, quanto all’essere “buona regola” quella di “parlare poco e rispondere solo alle domande”, interpretata, sul presupposto dell’avvenuta adesione all’associazione, come un’affermazione di una «regola del silenzio»; – avere manifestato la convinzione che Carminati intrattenesse rapporti personali che gli potevano facilitare la gestione delle pratiche con il Comune; – aver fornito materiali edili per lavori di costruzione svolti da Gaglianone. La sentenza, invero, non pone in dubbio che si trattasse di una vendita in rsé lecita – per oggetto e modalità – e che tale attività edilizia fosse, come si dirà, anch’essa di per sé lecita; – una intermediazione di Carminati per le difficoltà incontrate da Guarnera nel farsi pagare quanto dovuto per la locazione di alcuni appartamenti da parte di Coltellacci. Sono tutte circostanze che non hanno alcun rilievo, anche in una valutazione unitaria, atteso che nessuna attiene, neanche indirettamente, ad una partecipazione alla attività associativa. Si è voluto sostenere che le circostanze in questione siano, almeno in parte, indicative dell’essere il ricorrente a conoscenza della esistenza della associazione di Corso Francia; ma questo non è sufficiente ai fini dell’affermazione del giudizio di responsabilità, non comprendendosi la ragione – che la sentenza neanche spiega – per la quale la conoscenza del rapporto associativo tra altri soggetti dovrebbe essere di per sé sufficiente ai fini della prova del concorso nella associazione. In definitiva, tali circostanze sono indicative della totale carenza di qualsiasi ragione per ritenere il concorso del ricorrente nel reato associativo, rappresentando l’affastellamento di qualsiasi dato emergente dalle conversazioni riferibili al ricorrente. Lo dimostra ulteriormente la valutazione di quale sarebbe stato l’apporto del ricorrente all’associazione, con la affermazione che «l’associazione dal rapporto con Guarnera trasse a sua volta enormi vantaggi reperendo gli alloggi per l’emergenza alloggiativa, rafforzando la sua capacità di influenzare detto settore», non essendo in discussione che il riferimento sia a quelle attività delle cooperative di per sé del tutto lecite. La conclusione è l’annullamento senza rinvio non emergendo alcun indizio della partecipazione al reato associativo né, a fronte della completa ostensione degli elementi probatori, residuando alcuna diversa possibilità di diversa decisione in un giudizio di rinvio. 14. Gaglianone Agostino. Risulta fondato ed assorbente, rispetto agli altri, il quinto motivo del ricorso proposto nell’interesse di Gaglianone, relativo alla prova della partecipazione alla associazione. La Corte di Appello ha ricordato che a costui è stato contestato di aver messo a disposizione le proprie imprese e attività economiche nel settore dell’edilizia e del movimento terra per la gestione degli appalti di opere e servizi conseguiti dall’associazione anche con metodo corruttivo, di aver costituito flussi finanziari illegali al fine della loro veicolazione ai componenti apicali del sodalizio e di aver custodito per conto dell’associazione denaro contante provento delle attività illecite. Si è detto come le sentenze di merito abbiano accertato che il denaro contante, custodito da Gaglianone, fosse proprio di Carminati, in quanto provento dei reati “comuni” da lui commessi in diverso contesto, e che anche i presunti «flussi finanziari illegali» attenevano al solo personale interesse del Carminati. Per il resto la Corte di appello ha valorizzato la partecipazione dell’imputato ai lavori di costruzione del campo nomadi di cui si è detto, non considerando, tuttavia, che si trattava di attività in sé lecita, non risultando che il ricorrente sia stato in alcun modo coinvolto nelle irregolarità commesse da Buzzi. Vi sono invero sparsi riferimenti a contatti con altri membri della associazione che, essendo anche soggetti operanti in sé lecitamente per le cooperative, non possono certamente confondersi con l’inserimento in una banda criminale “tradizionale”. Vi è anche un riferimento specifico che, oltre ad essere di per sé poco rilevante se non nel confermare un rapporto diretto con il solo Carminati, è stato chiaramente travisato come emerge dallo stesso testo della sentenza. La Corte ha ritenuto significativo che «quando Carminati temeva di essere tratto in arresto, Gaglianone lo ospitò in casa sua», lasciando intendere che si trattasse di una disponibilità al favoreggiamento personale. La conversazione di riferimento, trascritta nella sentenza, è quella in cui «Gaglianone si rivolgeva alla compagna Giulia Ghinassi “…hai problemi che Massimo viene a dormire un paio di sere a casa nostra ?… …ha detto, i problemi suoi….tu lo capisci, dico, finchè stai così posso invità chi me pare. Quando sei latitante no, perché cioè te mettono in galera…”». Si tratta perciò di un travisamento, dimostrato dalla semplice “constatazione” del testo della sentenza. Da questa conversazione si è fatta discendere la prova della volontà di Gaglianone di impedire la cattura di Carnninati per il caso di adozione nei suoi confronti di un provvedimento restrittivo. Ma proprio la conversazione trascritta rivela un significato opposto: Gaglianone, infatti, era disposto ad ospitare Carminati per i «problemi suoi», ma non anche nel caso in cui questi fosse stato destinatario di un provvedimento restrittivo («quando sei latitante no …»). Dunque, la volontà di Gaglianone era quella di non favorire la eventuale latitanza di Carminati. La conclusione, quindi, non può che essere l’annullamento senza rinvio non emergendo alcun indizio della partecipazione al reato associativo né, a fronte della completa ostensione degli elementi probatori, residuando alcun diversa possibilità di decisione in un eventuale giudizio di rinvio. Nulla, difatti, dimostra che il ricorrente avesse consapevolezza reale delle metodiche corruttive per partecipare a quelle gare per cui tale metodo è stato accertato o per le turbative e che in qualche modo abbia contribuito al programma associativo per tali reati poiché, per quanto accertato dai giudici di merito, si è limitato a rapporti leciti con il dato soggetto economico. 15. Panzironi Franco. La Corte di appello ha ritenuto Panzironi Franco responsabile del reato di concorso esterno nella associazione mafiosa. I ricorsi, con riferimento alla sua partecipazione al reato associativo, sono fondati. All’imputato, quanto al reato associativo, è contestato di avere, quale pubblico ufficiale a “libro paga”, partecipato «all’associazione fornendo uno stabile contributo per l’aggiudicazione di appalti pubblici, per lo sblocco di pagamenti in favore delle imprese riconducibili all’associazione» e di essersi fatto «garante dei rapporti dell’associazione con l’amministrazione comunale negli anni 2008/2013». Innanzitutto, va considerata la esclusione del carattere mafioso della associazione e quale sia risultato, all’esito della decisione di questa Corte in materia di reati fine, il ruolo del Panzironi. Invero, la stessa Corte di appello ha ridimensionato il ruolo dell’imputato nella associazione sostenendo che la sua posizione fosse quella di concorrente esterno, sia per non avere condiviso il programma dell’associazione, sia per la sporadicità del suo intervento: «l’indubbia compresenza del perseguimento di interessi pubblici e di interessi personali di Panzironi stesso e la richiesta dell’apporto di Panzironi solo nelle circostanze in cui esso era “vitale” per la sopravvivenza stessa del gruppo di Buzzi (come dimostrano l’acquisizione delle strategiche commesse da parte di AMA, e la soluzione delle gravi difficoltà sopravvenute per i pagamenti di crediti di rilevante valore vantati dal gruppo del Buzzi), autorizzano a qualificare l’apporto di Panzironi come quello di un concorrente esterno». L’intervento del ricorrente, quindi, sarebbe stato coincidente con le presunte corruzioni (ovvero traffico di influenze, come sopra chiarito): «avendo voluto Panzironi solo assicurare a Buzzi, dopo specifica contrattazione del corrispettivo dell’apporto che gli si chiedeva, contributi concreti e decisivi per la conservazione e il rafforzamento dell’associazione, tenuto conto dell’importanza che rivestivano per le cooperative l’acquisizione degli appalti nel settore dei rifiuti e il pagamento degli ingenti crediti da esse vantati».La Corte, pertanto, avrebbero dovuto individuate in modo chiaro le ragioni per le quali l’accettazione di uno specifico corrispettivo per una attività di corruzione/esercizio di influenza dovesse essere, nella previsione dello stesso Panzironi, funzionale a garantire la conservazione e il rafforzamento dell’associazione. Invero, nell’ampia motivazione, non è dedicato alcuno spazio per dimostrare che vi fosse una tale consapevolezza e volontà di contribuire alla associazione. Manca, inoltre, la necessaria motivazione sulla consapevolezza di Panzironi che il suo interlocutore non fosse soltanto il vertice di una cooperativa in sé legale che cercava facilitazioni per gare ovvero cercava scorciatoie per superare lo scoglio di ritardi nei pagamenti. La Corte di appello si è limitata – oltre che fondare la propria decisione su quella assunta in sede cautelare da questa Corte, non considerando la valutazione della non minima incidenza della elefantiaca istruttoria dibattimentale – a poche affermazioni generiche ovvero del tutto congetturali: si veda, ad esempio, l’affermazione che «Panzironi, al di là della responsabilità per le condotte specifiche contestate ai capi 11 e 12 del primo decreto, profondo conoscitore del mercato e addentro dei meccanismi di profitto di A.nn.a. s.p.a., fu senz’altro consapevole di aver contribuito, con gli accordi corruttivi, a creare questa forza economica che consentì all’associazione di fare un salto di qualità assumendo condotte prevaricatorie e intimidatorie che allontanarono i concorrenti da una rilevantissima fetta del mercato degli appalti come è accaduto nei confronti di Cancelli della cooperativa Edera o alla Serviplus in relazione alla gara 30/13». Dallo stesso testo della sentenza tali premesse risultano non essere state dimostrate e non risulta oggetto di valutazione il dato certamente essenziale, anch’esso riconosciuto dalla stessa Corte di appello, ovvero che il ricorrente avesse contatti e conoscenza esclusivamente con Buzzi; dalla lettura di entrambe le sentenze di merito, particolarmente analitiche nell’esporre anche l’esito di pedinamenti e servizi di osservazione, risulta che in occasione degli incontri tra i due predetti, Carminati e Testa attendevano nei paraggi, ricongiungendosi con Buzzi appena questi lasciava Panzironi. La Corte di appello risolve il tema in modo semplicistico, affermando la non necessità della reciproca conoscenza tra tutti gli associati; una tale regola non esclude che vada dapprima dimostrata la consapevolezza della esistenza della associazione e della volontà di parteciparvi. I pochi argomenti trattati in sentenza per affermare una tale consapevolezza della associazione sono di scarso peso. Una volta esclusa dalla stessa Corte di appello la prova della conoscenza di Carminati e Panzironi, rischia di essere del tutto congetturale affermare che «il dato temporale conser4te, in definitiva, di dedurre che Panzironi si determinò a favorire Buzzi quando Carminati iniziò a collaborare con lui». Il fatto che la presunta corruzione di Panzironi abbia dato il via libera a nuove commesse dell’Ama s.p.a. in favore di Buzzi, dato certamente plausibile, non è però ragione per ritenere che vi sia un diretto rapporto causale (e consapevole) con l’ingresso di Carminati in affari con Buzzi. In definitiva, la motivazione della sentenza si limita a valorizzare le singole condotte di cui ai capi 11 e 12 del primo decreto ed altre condotte non meglio accertate ma, comunque, sempre nell’ambito dello schema di singola corruzione/mediazione illecita e del rapporto esclusivo con Buzzi, per desumere automaticamente la volontà di partecipare alla attività della associazione. Si manifesta, quindi, allo stato, una carenza di motivazione che impone un nuovo giudizio. Va precisato quale debba essere l’ambito di valutazione del giudizio di rinvio in riferimento alla qualificazione del fatto. Resta ferma l’esclusione da parte della Corte di Appello della ipotesi di responsabilità per il reato associativo essendo stato escluso il ruolo “tipico” di associato di Panzironi, in particolare quanto alla assenza di un suo ruolo nell’organizzazione e al non avere condiviso il programma dell’associazione. I fatti, quindi, andranno valutati, nei limiti già delineati dalla Corte di appello, nell’ambito del concorso eventuale ex art. 110 cod. pen. nel reato associativo. Seguendo i principi affermati in riferimento al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., validi, mutatis mutandis anche per il reato associativo “semplice”, per integrare tale tipo di concorso è innanzitutto necessario che il contributo del concorrente esterno «si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione» (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671). Ciò significa che si deve accertare che la condotta atipica del concorrente esterno abbia svolto una reale efficacia condizionante rispetto all’effetto di conservazione delle capacità operative ed il rafforzamento dell’associazione. Su tale profilo, la Corte di appello si era espressa in termini del tutto apodittici ritendendo sufficiente dare atto del concorso nei reati fine. È poi necessario individuare un dolo diretto che deve investire «sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, agendo l’interessato nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio» (Sez. U Mannino, già citata). Un tale dolo non può identificarsi semplicemente in quello lei reati fine che, in vicende specifiche come quella in oggetto, rappresentano nche la condotta finalizzata al concorso ex 110 cod. pen.; deve, invece, essere espressamente individuata una volontà di arrecare tale contributo esterno. Il giudice di rinvio, quindi, nell’ambito della qualificazione del fatto contestato al Panzironi quale concorso ex artt. 110 cod. pen. nel reato di associazione per delinquere ex art. 416 cod. pen., nella cornice delle regole da ultimo indicate, dovrà procedere a nuova valutazione che risolva le carenze della motivazione quanto alla concreta consapevolezza da parte di Panzironi della esistenza della associazione per delinquere, come delineata, con la sua eventuale specifica volontà di contribuire al migliore funzionamento dell’associazione stessa nei termini detti. V. Conclusioni I. Questioni sulle parti civili e altri motivi proposti nei ricorsi. 1. Tassone Andrea. 1.1. Con il primo motivo Tassone ha censurato la Corte d’appello per aver respinto la richiesta di esclusione delle parti civili. Il motivo è infondato con riferimento alla denunciata incompatibilità delle Amministrazioni giudiziarie delle varie Cooperative riconducibili a Buzzi a costituirsi come parti civili una volta assunta la veste processuale di civilmente obbligata per la pena pecuniaria; va infatti considerato che l’Amministrazione giudiziaria ha assunto tale veste a seguito della citazione dei soli imputati Buzzi, Bugitti e Garrone (pagg. 544 sentenza impugnata) e non anche in relazione alle posizioni di Tassone, rispetto alla quale, dunque, non si pone alcuna questione di incompatibilità con il loro ruolo di parti civili. Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria assume una obbligazione sussidiaria che si differenzia da quella del responsabile civile, in quanto mentre la responsabilità di quest’ultimo è solidale con quella dell’imputato ed ha per oggetto il risarcimento del danno da reato, quella del civilmente obbligato è invece una responsabilità sottoposta alla condizione sospensiva, consistente nella impossibilità dell’imputato – nella specie di Buzzi, Bugitti e Garrone – di pagare la pena pecuniaria. L’interesse del singolo imputato a citare il soggetto obbligato per la pena pecuniaria risiede cioè nella possibilità di evitare che la pena pecuniaria inflitta possa convertirsi in pena detentiva ai sensi dell’art. 136 cod. pen. Dunque, nessuna incompatibilità con la posizione di parte civile nei confronti di Tassone; né è irrilevante la circostanza che nei confronti del civilmente obbligato non sia stata emessa nessuna condanna.Sotto altro profilo, il motivo è inammissibile nella parte in cui si è sostenuto che la domanda risarcitoria, azionata dall’Amministrazione giudiziaria mediante la costituzione di parte civile, non riguardasse anche Tassone. Il motivo è aspecifico avendo fatto riferimento l’imputato non al contenuto dell’atto di costituzione civile, ma al contenuto della istanza inviata al giudice delegato con la quale si era richiesta “la necessaria autorizzazione per la costituzione”. 1.2. Il motivo è altresì infondato quanto alle costituzioni civili delle associazioni Cittadinanza attiva Onlus e Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica: rispetto all’affermazione della Corte, con cui si è chiarito in punto di fatto che le due associazioni conferirono, con un unico atto, sia la procura speciale sostanziale sia il potere di rappresentanza processuale (desunto anche dal conferimento del potere di nominare sostituti processuali e dal riferimento a tutti i gradi di giudizio), nulla di specifico è stato dedotto, essendosi il ricorrente limitato a reiterare la questione senza confrontarsi con la motivazione della sentenza. 1.3. Non diversamente il motivo è infondato, con riferimento alla costituzione di parte civile dell’Associazione Vittime di Usura, Estorsione e Racket (A.N.V.U.): la Corte sul punto ha innanzitutto chiarito come, diversamente dagli assunti difensivi, i capi di imputazione siano stati richiamati nell’atto di costituzione di parte civile, seppur “per relationem”. Quanto al profilo della lamentata assenza della causa petendi, il motivo è inammissibile, avendo la Corte spiegato la ragione giustificativa dell’azione risarcitoria, richiamando l’art. 3 dello Statuto dell’associazione e la finalità “di liberare gli imprenditori e i cittadini dalla morsa del crimine organizzato” e non avendo in realtà il ricorrente dedotto la distinta questione riguardante la prova della effettiva esistenza di un danno risarcibile in favore della associazione in questione. 1.4. È infondato il motivo anche per quel che concerne il Consorzio Castelporziano ’98 ed altri: la Corte ha richiamato e recepito la non illogica motivazione adottata dal Tribunale che, correttamente, anche in ragione della complessità della vicenda, aveva evidenziato come una serie di rilevanti questioni attengano alla esatta configurazione del diritto risarcitorio e, dunque, potranno essere affrontate e risolte nella competente sede civile. 1.5. Il motivo è invece fondato relativamente alla costituzione di parte civile del Partito Democratico, atteso che la procura speciale fu conferita all’avvocato Antonio Olivieri, cioè dal Tesoriere del Partito, che non aveva la veste di rappresentante legale dello stesso, essendo questa attribuita per Statuto al segretario regionale.1.6. Ed è fondato anche in relazione alla costituzione di parte civile dell’Associazione Antimafie e Antiracket – La Verita’ Vive Onlus (già denominata Associazione Antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino” Onlus), essendo stati esclusi il carattere mafioso dell’associazione per cui si procede e la circostanza aggravante prevista dall’art. 416-bis. 1 cod. pen. Il rigetto della questione dedotta già in appello era stato infatti motivato proprio facendo riferimento al fatto che la Corte di appello avesse ritenuto la sussistenza dell’associazione mafiosa e della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 della legge n. 203 del 1991; sulla base di tale presupposto era stato riconosciuto correttamente il diritto al risarcimento nei confronti dell’associazione in esame che si propone il fine di “promuovere azioni di legalità volte alla tutela dei cittadini vittime dei delitti di cui agli artt. 416 bis- 629 e 644 cod. pen.”. L’intervenuto annullamento della sentenza impugnata quanto alla sussistenza dell’associazione di stampo mafioso e della circostanza aggravante, supera ed assorbe anche la ulteriore questione dedotta dal ricorrente, relativa al se la costituzione potesse avere effetti anche nei confronti degli imputati solo di reati connessi a quello associativo ma non anche per quest’ultimo. 2. Coratti Mirko 2.1. Per quanto riguarda il ricorso proposto da Coratti, è fondato il dodicesimo motivo, limitatamente alla questione delle costituzioni di parte civile dell’ Associazione Antimafie e Antiracket – La Verita’ Vive Onlus (già denominata Associazione Antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino’) e del Partito Democratico, per le stesse considerazioni ragioni esposte a propositi dei ricorso di Tassone, alle quali si rinvia. 2.2. Quanto, invece, alla costituzione di parte civile della Regione Lazio, al di là della genericità della parte del motivo riguardante la contraddittorietà della motivazione, ciò che si contesta è che la procura speciale per la costituzione fu, almeno in un primo momento, rilasciata dal Presidente della Giunta, cioè, si assume, da un soggetto diverso dalla Giunta regionale, cui, invece, sarebbe attribuito lo specifico potere, ai sensi dell’art. 31 della legge 3 marzo 1953, n. 62, che disciplina il contenuto dello statuto regionale. Non è in contestazione la circostanza che all’udienza del 26.1.2016, cioè subito dopo l’apertura del dibattimento, la già costituita parte civile produsse la delibera della Giunta regionale con cui la costituzione fu confermata, ma assume il ricorrente che tale produzione, in quanto tardiva rispetto al termine indicato dall’art. 79 cod. proc. pen., non avrebbe potuto sanare la illegittimità del precedente atto di costituzione di parte civile. La tesi non può essere condivisa.L’art. 25 della legge indicata attribuisce al Presidente della Giunta regionale la rappresentanza in giudizio della Regione e, salvo riferirne alla Giunta nella prima adunanza, anche il potere di promuovere davanti alle autorità giudiziarie i provvedimenti cautelativi e le azioni possessorie (alla norma è stata data attuazione attraverso l’art. 21 dello Statuto della Regione Lazio). Dunque, un potere ampio di azione davanti all’autorità giudiziaria, cautelativo in senso lato, destinato poi ad essere condiviso dalla Giunta regionale a cui il Presidente deve riferire. Ne deriva che la legge richiamata dal ricorrente non precludeva al Presidente, che ha la rappresentanza legale dell’ente ed il potere di promuovere “provvedimenti cautelativi”, di adottare tempestivamente un atto – il conferimento della procura speciale per la costituzione in giudizio – destinato successivamente non ad essere ratificato in funzione sanante di una irregolarità, ma confermato nella sua portata dall’organo competente – la Giunta dell’ente. Il motivo è infondato anche in relazione all’assunto, obiettivamente generico, secondo cui la costituzione di parte civile della Regione non sarebbe giustificata per non essersi adoperato Coratti per evitare “la rimozione di Fiscon dalla sua posizione”, avendo invece la Corte di appello chiarito le condotte che l’imputato pose in essere, nell’ambito di un generale asservimento inquinato delle sue funzioni. 2.3. Inammissibile è anche il tredicesimo motivo di ricorso: la Corte di cassazione ha affermato in più occasioni che non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, Tuccio, Rv. 277773). 3. Magrini Guido. 3.1. Il quinto motivo di ricorso proposto nell’interesse di Magrini è fondato con riferimento alla costituzione come parte civile dell’Associazione Antimafie e Antiracket – La Verita’ Vive Onlus (già denominata Associazione Antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino’) una volta che è stato escluso il carattere mafioso dell’associazione per cui si procede e la circostanza aggravante prevista dall’art. 416-bis. 1 cod. pen. In sostanza, valgono anche in questo caso le considerazioni fatte nell’esame dei precedenti ricorsi di Tassone e di Coratti. 3.2. È invece infondato il motivo per la parte resid Si è dedotta la nullità della sentenza quanto alla condanna al risarcimento del danno nei riguardi della parti civili (indicate nel ricorso) per violazione dell’art. 74 cod. proc. pen.; si assume che in nessuna delle costituzioni di parte civile dei soggetti in questione vi sarebbe la prospettazione di un danno di diretta conseguenza della condotta di Magrini e “diverso” rispetto a quello per il quale hanno agito in giudizio Roma Capitale e la Regione Lazio, ottenendo la condanna dell’imputato. A Magrini, si aggiunge, non sono contestati né il reato associativo, né la circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, né i reati di estorsione e di usura o di turbativa d’asta e dunque le costituzioni di parte civile di associazioni antimafia, antiusura e antiracket, che pure hanno spiegato domanda risarcitoria anche per il capo sub 9), non sarebbero ammissibili. Si sostiene in particolare: – quanto alla parte civile Amministratori giudiziari delle cooperative riconducibili a Buzzi, che dette amministrazioni avrebbero assunto nel processo la qualifica di civilmente obbligati per la pena pecuniaria e dunque non avrebbero potuto costituirsi parte civile, tenuto conto, peraltro, che a Magrini è contestato il solo capo 9), in relazione al quale sarebbe coinvolta unicamente la Eriches 29; né sarebbe enunciato nell’atto di costituzione il pregiudizio diretto ed immediato “che avrebbe conseguito tale Consorzio”; – quanto all’Associazione Nazionale Vittime dell’Usura, estorsione e racket, che non vi sarebbe aderenza dei fini statutari dell’associazione in questione rispetto ai fatti contestati all’imputato; – quanto al Centro di iniziativa per la legalità democratica, che l’atto di costituzione sarebbe generico; – quanto alla costituzione di Cittadinanzattiva Onlus – ente che opera per la promozione e la tutela dei diritti dei cittadini e dei consumatori in Italia – che, per quel che concerne la prima categoria di diritti, detta costituzione sarebbe assorbita da quella degli enti territoriali, e, quanto ai consumatori, che non vi sarebbe nessun attinenza con i fatti di cui al capo 9). In realtà, quanto alla costituzione di parte civile dell’Amministrazione giudiziaria delle Cooperative riconducibili a Buzzi, si rinvia, in parte, a quanto spiegato in relazione all’imputato Tassone; il motivo è nondimeno generico anche quanto alla enunciazione del pregiudizio ed profilo del nesso di derivazione del danno rispetto al fatto reato, avendo la Corte di cassazione in più occasioni spiegato come la responsabilità per il danno derivante da reato comprende anche i danni mediati ed indiretti che costituiscano effetti normali dell’illecito secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale (Sez. 5, n. 4701 del 21/12/2016, dep.7N 2017, Pota, Rv. 269721; Sez. 2. N. 23046 del 14/05/2010, Cesarini, Rv. 247294). Quanto all’Associazione Nazionale Vittime dell’usura, estorsione e racket, al Centro di iniziativa per la legalità democratica, ed all’Associazione Cittadinanza attiva Onlus il motivo è inammissibile perché aspecifico, non confrontandosi il ricorrente con la motivazione della sentenza ed essendosi limitato a riprodurre testualmente il motivo di appello. 4. Tredicine Giordano. È inammissibile, perché generico, l’ottavo motivo di ricorso proposto nell’interesse di Tredicine. Il ricorrente ha riproposto il contenuto di un motivo di appello a sua volta inammissibile per genericità, in cui, tra l’altro, il riferimento alla costituzione della Regione Lazio era indicato a titolo esemplificativo; sotto altro profilo, il motivo è comunque inammissibile, quanto al nesso di derivazione del danno dalla “fonte produttiva” (così il ricorso), sulla base delle considerazioni già esposte per la posizione di Coratti. 5. Guarany Carlo Maria. Nel suo ricorso, con il sesto motivo, deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio con argomentazioni generiche, è comunque assorbito dalla decisione che comporta la necessaria rideterminazione della pena. 5.1. È inammissibile il settimo motivo di ricorso di Guarany, che sostiene una «incompatibilità ontologica tra i due diversi ruoli di parte civile e soggetto civilmente obbligato per il pagamento della pena pecuniaria in quanto soggetto avvantaggiatore dell’attività delittuosa per cui viene emessa condanna». La questione, già posta in termini identici in sede di appello, risulta priva di qualsivoglia argomentazione a supporto, limitandosi la parte ad affermare atecnicamente che la costituzione di parte civile «appare davvero incredibile». Alla genericità della deduzione va aggiunto il rilievo della sua manifesta infondatezza. Va infatti considerato che le amministrazioni giudiziarie hanno fatto valere il diritto al risarcimento del danno nei confronti del dipendente per i danni causati dalla violazione di obblighi contrattuali mentre la “obbligazione civile delle persone giuridiche” ex art. 197 cod. pen. è una obbligazione sussidiaria corrispondente alla multa o all’ammenda, che sorge a carico dell’ente nei confronti dell’Amministrazione della giustizia. Si tratta, quindi, di obbligazioni del tutto diverse, in particolare quanto ai soggetti ed al contenuto, senza alcuna interdipend nza. Per tale ragione, in assenza di norme specifiche, non può ritenersi che la obbligazione ex art. 197 cod. pen. impedisca lo stesso sorgere del diritto al risarcimento del danno della persona giuridica nei confronti del dipendente infedele o, comunque, che ne rappresenti una causa estintiva. 6. Pucci Carlo. Oltre ai motivi già considerati, Pucci ha dedotto, con l’undicesimo motivo, la violazione di legge ed il vizio di motivazione per il diniego delle attenuanti ex art. 62 -bis cod. pen., motivo di evidente inammissibilità perché limitato alla generica doglianza sul mancato accoglimento della richiesta fatta in sede di merito, a fronte peraltro di una motivazione espressa della Corte di appello per non riconoscere tali attenuanti. Inoltre, con il tredicesimo motivo ha denunciato la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla entità della confisca disposta, ritenendo che non vi sia riscontro alle intercettazioni in cui Buzzi indicava le cifre corrisposte al ricorrente. Anche tale motivo è inammissibile in quanto, essendovi stata una motivazione congrua e priva di manifesti errori logici sulla ricostruzione dei flussi finanziari in favore di Pucci, il motivo si risolve nella richiesta di una nuova valutazione in fatto, non consentita in sede di legittimità. 6.1. Riguardo alle statuizioni civili, deve ritenersi infondato il dodicesimo motivo di ricorso in cui nella prima parte si deduce la violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta regolarità della costituzione della parte civile Eur s.p.a. e nella seconda l’assenza di prova del danno subito dalla medesima parte civile. Su tale motivo vale la risposta già data dalla Corte di appello. Quanto al primo profilo, la Corte di merito ha chiarito che, con l’atto di nomina del difensore, «la procura speciale è stata rilasciata anche al sostituto, avvocato Dall’Agata, che ha depositato l’atto di costituzione, che nella procura speciale il rappresentante di Eur spa ha conferito i poteri sostanziali e processuali sia al difensore che al sostituto e che la procura è stata sottoscritta per autentica da entrambi i difensori». L’argomento della difesa è nel senso che la disposizione dell’art. 122 cod. proc. pen. consente al difensore di autenticare la procura speciale solo in riferimento al conferimento di poteri a lui stesso; non vi rientrerebbe, quindi, il conferimento di poteri al sostituto (il quale, non essendo il difensore ex art. 100 cod. proc. pen., non avrebbe un potere di autentica della firma).La situazione, però, è diversa da come rappresentata nel ricorso e, in conseguenza, la deduzione è manifestamente infondata, come già chiarito nella sentenza impugnata: secondo Sez. U, n. 12213 del 21/12/2017, dep. 2018, Zucchi, Rv. 2721690, il danneggiato può conferire espressamente nella procura al difensore la facoltà del sostituto di quest’ultimo di costituirsi parte civile: «Affinché, dunque, il potere di “sostituzione” sia legittimamente conferito appare necessario e sufficiente che il danneggiato preveda una tale possibilità in capo al difensore-procuratore speciale all’interno della procura di cui agli artt. 76 e 122 cod. proc. pen.: “necessario”, perché solo tale ambito formale garantisce che al sostituto venga delegato il diritto sostanziale di cui il mandante è titolare, e “sufficiente” perché non può pretendersi, all’estremo opposto, che il danneggiato conferisca una ulteriore apposita procura speciale direttamente in capo al sostituto». Quindi non si è in presenza di un atto di conferimento di poteri in capo al sostituto, caso nel quale si sarebbe potuta porre la questione dedotta dalla difesa, ma di una maggiore ampiezza dei poteri conferiti al difensore. Vale, quindi, il potere di quest’ultimo di autenticare la firma dell’assistito sia ai sensi dell’art. 100 che dell’art. 122 cod. proc. pen. 6.2. È manifestamente infondata anche l’ulteriore questione posta dalla difesa, essendo certamente sufficiente una succinta motivazione a giustificare ran” del diritto al risarcimento, poiché è del tutto pacifico che vi sia danno da reato per l’ente il cui rappresentante si sia fatto corrompere per perseguire interessi propri del privato corruttore e, comunque, ledendo l’immagine dell’ente stesso. 7. Brugia Riccardo Per Brugia residua il quinto motivo che deduce la violazione di legge e vizio di motivazione per il diniego di applicazione delle attenuanti generiche, gli aumenti operati per la continuazione e la quantificazione della pena base. Si tratta di motivo dal contenuto generico e, comunque, inammissibile in quanto richiede una valutazione in fatto sulla configurabilità delle attenuanti e la determinazione della pena. 8. Bugitti Emanuela Per Bugitti residuano i motivi di cui ai punti 5.3 e 5.5 del suo ricorso, con i quali si duole del diniego dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. e dei criteri di determinazione delle pene; si tratta di motivi inammissibili per la palese genericità e, comunque, in quanto richiedono valutazioni di merito. La sola questione della determinazione delle pene sarà, in ogni caso, oggetto della valutazione del giudice di rinvio, restando invece definitivo il diniego della attenuante della partecipazione di “minima importanza”. 9. Buzzi Salvatore Per Buzzi residuano tre motivi da valutare, tutti infondati. 9.1. Con il motivo di cui al punto 1.1 del ricorso la difesa di Buzzi ha dedotto la nullità per violazione dell’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. in relazione alla partecipazione a distanza al dibattimento. Sono state ribadite questioni già poste durante il processo. In particolare, si è sostenuto che il provvedimento che disponeva per Buzzi la partecipazione al procedimento a distanza era stato disposto in via irrituale dal presidente della Corte di appello, in quanto la norma di riferimento non gli riconosceva tale potere, essendo irrilevante che tale provvedimento sia stato comunque ribadito dal collegio alla prima udienza utile; difatti, il ricorrente non vi aveva partecipato proprio per eccepire la nullità in questione. In ogni caso, quindi, quantomeno l’udienza del 6 marzo 2018 è stata tenuta invalidamente. Inoltre, è stata dedotto il vizio di motivazione della ordinanza che disponeva la partecipazione a distanza in ordine alla ritenuta complessità del procedimento, che tale non era ed alla sussistenza di ragioni di sicurezza. Sulla questione la Corte di appello ha già ampiamente risposto (paragrafo “2.1. Partecipazione a distanza degli imputati Buzzi e Carminati”). Il motivo è infondato. Il ricorrente pone due questioni che riguardano l’ordinanza collegiale del 6 marzo 2018, la prima con riferimento alla parte in cui ha deciso sulla sua eccezione di nullità del provvedimento del presidente della Corte di appello che disponeva il collegamento a distanza per Buzzi per la stessa udienza del 6 marzo 2018, la seconda riferita alla parte in cui ha disposto la partecipazione di Buzzi al dibattimento a distanza per le successive udienze. Per quanto riguarda la prima questione, va considerato innanzitutto che il ricorso non indica quali siano le conseguenze di una eventuale nullità della sola udienza del 6 marzo 2018. Va comunque considerata la manifesta infondatezza della eccezione. Pur se testualmente l’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. non fa mai riferimento al giudizio di appello e, in particolare, nel prevedere che “La partecipazione al dibattimento a distanza è disposta … dal presidente del tribunale o della corte di assise con decreto motivato emesso nella fase degli atti preliminari, ovvero dal giudice con ordinanza nel corso del dibattimento”, non indica il presidente della r\ Corte di Appello, è comunque applicabile la disposizione dell’art. 598 cod. proc.pen. che estende al giudizio di appello le disposizioni relative al giudizio di primo grado. Con riferimento alla norma in esame, del resto, non si apprezzano ragioni che la rendano non applicabile. Per quanto riguarda la seconda questione, va considerato che con il ricorso è stata contestata per la prima volta la decisione del collegio di procedere per le udienze successive al 6 marzo 2018 con il collegamento dell’imputato Buzzi a distanza. Per quanto riguarda l’argomento mirato ad escludere che ricorressero le condizioni per utilizzare la modalità di partecipazione a distanza, basta rammentare che secondo la norma vigente alla data dell’ordinanza contestata, non essendo ancora applicabile la riforma della legge 103 del 2017, era sufficiente che si procedesse per taluno dei delitti indicati nell’articolo 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen. “nei confronti di persona che si trova, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere”. Era quindi irrilevante che vi fosse stata diversa qualificazione del reato di associazione mafiosa in primo grado, procedendosi comunque per tale reato a seguito dell’appello dei pubblici ministeri. Inoltre, la disposizione vigente richiedeva semplicemente lo stato di detenzione, “a qualsiasi titolo”, per cui anche sotto tale aspetto non era determinante che la detenzione non fosse al momento giustificata da reati di cui all’art. 51, comma 3- bis, cod. proc. pen. Quanto alle ragioni che la Corte ha utilizzato per giustificare l’utilizzazione della videoconferenza, ovvero sia la complessità del procedimento che le gravi ragioni di sicurezza, contrariamente a quanto apoditticamente e genericamente sostenuto nel ricorso (che definisce semplicemente la motivazione “apparente”) la motivazione sulla partecipazione a distanza risulta adeguata; la Corte, difatti, fa ampie e logiche considerazioni in ordine al numero di parti, di reati, di motivi da esaminare, etc., ed al relativo impatto sulla durata del procedimento nonché alle «gravi ragioni di sicurezza connesse alla necessità di effettuare la traduzione per un elevato numero di udienze da sedi di detenzioni lontane». Ovviamente, in questa sede non può essere sindacato il merito della decisione; peraltro, che il processo fosse “complesso”, risulta ictu ()culi, contrariamente alla generica affermazione in contrario della difesa. 9.2. Con il motivo di cui al punto 1.3 del ricorso, è stato dedotta la nullità del decreto di giudizio immediato per violazione dell’art. 453, comma 2, cod. proc. pen., poiché il giudizio è stato disposto anche in riferimento alla contestazione del ruolo di emissari del clan Mancuso per il quale non era stata disposta la custodia cautelare. Per tali fatti si doveva procedere con rito ordinario.Anche tale motivo è infondato: a prescindere dall’essere posta la questione rispetto ad un profilo della contestazione del reato associativo per il quale non vi è stata condanna (né in primo né in secondo grado è stata ritenuta fondata la parte della contestazione riferita al “clan Mancuso”), non si è in presenza di un reato per il quale non vi era stata emissione di misura, ma di una specificazione del medesimo fatto che, certamente, non lo ha modificato in modo da renderlo diverso. Lo stesso ricorso, del resto, si limita ad una generica doglianza e non rappresenta affatto una diversità sostanziale del reato contestato nell’una e nell’altra fase. Si rinvia, sul tema del giudizio immediato cautelare, agli argomenti sopra svolti in risposta al primo motivo del coimputato Figurelli. 9.3. Infine, è inammissibile il motivo di cui al punto 5.2 del ricorso, con il quale Buzzi si duole del mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’ art. 323-bis cod. pen. La Corte di appello, con motivazione ampia e priva di manifesti errori logici, ha concluso che «(…) le dichiarazioni di Buzzi hanno in realtà assicurato un mero rafforzamento del quadro probatorio già sostanzialmente acquisito (…)» e le sue dichiarazioni non hanno portato alcun “valore aggiunto” sia quanto alla responsabilità degli altri imputati che ali’ individuazione ed apprensione di utilità derivanti dai reati. Il motivo, a fronte di tali argomenti, si risolve in una non consentita doglianza sul merito di tale decisione ed in una richiesta di una autonoma valutazione da parte di questa Corte del materiale probatorio che dimostrerebbe la tesi della difesa, valutazione preclusa in sede di legittimità. 10. Caldarelli Claudio Per Caldarelli restano da valutare due motivi. 10.1. Con il quattordicesimo motivo è stato dedotto il vizio di motivazione per il diniego delle attenuanti generiche. Tale motivo è inammissibile in quanto invoca una valutazione di merito per l’applicazione di tali attenuanti, contestando il diverso apprezzamento fatto dalla Corte di Appello.

10.2. Con il quindicesimo motivo si è denunciata la violazione di legge ed il vizio di motivazione nel ritenere la presunzione di pericolosità ai fini di applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata; si tratta di motivo assorbito a seguito della decisione favorevole al ricorrente che impone la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio.

11. Carminati Massimo.

Per Carminati va considerata la inammissibilità del ventesimo motivo del ricorso dell’avvocato Placanica, che deduce la mancanza della motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen. ma che, però, si risolve in una non ammessa richiesta di diversa valutazione nel merito, e l’assorbimento del ventunesimo motivo, che contesta la applicazione di una presunzione assoluta di pericolosità sociale, questione che andrà valutata dal giudice di rinvio nell’ambito della complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio e della esclusione del carattere “mafioso” delle associazioni criminali di appartenenza di Carminati.

12. Di Ninno Paolo.

Per Di Ninno residuano i motivi di cui ai punti 5.3 e 5.5 del suo ricorso, con i quali si duole del diniego dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. e dei criteri di determinazione della pena; si tratta di motivi inammissibili per la palese genericità e, comunque, in quanto richiedono valutazioni di merito. La sola questione della determinazione della pena sarà, in ogni caso, oggetto della valutazione del giudice di rinvio, restando invece definitivo il diniego della attenuante della partecipazione di “minima importanza”.

13. Gaglianone Agostino Per Gaglianone resta da valutare il primo motivo con il quale è stata dedotta la violazione di legge in riferimento alla nullità del giudizio immediato ed alla illegittimità costituzionale delle relative norme sotto vari profili, in definitiva contestando la possibilità che il provvedimento di giudizio immediato “custodiale” possa essere emesso dallo stesso giudice che ha disposto la misura cautelare.

Va confermata la manifesta infondatezza della questione come ritenuta in fase di merito: la incompatibilità del giudice integra una ragione di ricusazione, ma non la nullità della sentenza e, nel caso di specie, tale ricusazione non è stata proposta. Quindi la questione di presunta incompatibilità non è rilevante in concreto.

14. Garrone Alessandra. Per Garrone residuano i motivi di cui ai punti 5.3 e 5.5 del suo ricorso, con i quali si duole del diniego dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. e dei criteri di determinazione della pena; si tratta di motivi inammissibili per la palese genericità e, comunque, in quanto richiedono valutazioni di merito.

La sola questione della determinazione delle pene sarà, in ogni caso, oggetto della valutazione del giudice di rinvio, restando invece definitivo il diniego della attenuante della partecipazione di “minima importanza”.

15. Gramazio Luca Per Gramazio residua il dodicesimo motivo di ricorso con il quale si duole del diniego delle attenuanti generiche e dei criteri di aumento delle pene; si tratta di motivi inammissibili per la palese genericità e, comunque, in quanto richiedono valutazioni di merito (peraltro di dati generici e di scarsa consistenza quali “corretto contegno processuale” ed “incensuratezza”).

La sola questione della determinazione della pena sarà, in ogni caso, oggetto della valutazione del giudice di rinvio.

16. Panziron Franco. Oltre ai motivi già valutati, nell’interesse di Panzironi risulta proposto con il ricorso dell’avvocato Pasquale Bartolo il quindicesimo motivo, in cui si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al diniego delle attenuanti generiche e della attenuante di cui all’articolo 323-bis, comma secondo, cod. pen, all’ applicazione della libertà vigilata, alla continuazione, alle statuizioni civili.

Quanto alle attenuanti generiche ed all’attenuante speciale il motivo è inammissibile, perché richiede valutazioni di merito e, quanto, alla continuazione, il tema è solo enunciato ma non è sviluppato alcun argomento.

16.1. In relazione alle statuizioni civili Panzironi, nell’ambito del quindicesimo motivo, ha rilevato che la condanna è stata disposta anche nei confronti di Associazioni a tutela da attività di estorsione ed usura, sebbene il ricorrente non sia stato condannato per alcuna di tali attività.

Il motivo risulta assorbito dalla decisione di annullamento in relazione alla partecipazione alla associazione per delinquere, dipendendo dalla decisione di merito in sede di rinvio la sussistenza di un danno nei confronti delle associazioni aventi finalità di tutela da tali tipologie di reati.

17. Placidi Marco. Oltre al motivo già valutato, Placidi ha articolato un secondo motivo con il quale ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio, ritenuto molto severo in ragione dell’accertamento di un unico episodio di corruzione, peraltro non aggravato ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche nonostante lo stato di incensuratezza.

Si tratta di un motivo inammissibile.

Rispetto ad una motivazione in cui la Corte di appello ha giustificato il diniego delle circostanze attenuanti generiche e l’entità della pena inflitta – di poco superiore al minimo edittale – facendo riferimento ad elementi concreti riguardanti la gravità dei fatti, il dolo e la pervicacia mostrata, nulla di specifico è stato dedotto.

18. Franco Testa con il sesto motivo deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge in ordine al diniego delle attenuanti generiche, all’applicazione della recidiva ed agli aumenti per la continuazione; si tratta di un motivo inammissibile in quanto del tutto generico, privo di qualsivoglia argomentazione a sostegno. II. Posizioni definitive dei ricorrenti.

Bolla Claudio. Nei confronti di Bolla è definitivamente accertata la responsabilità per i reati contestati ai capi 2, 9 e 10 del secondo decreto. Il giudice del rinvio procederà ad un nuovo giudizio quanto al capo 11 del secondo decreto ed alla conseguente rideterminazione della pena.

Brugia Riccardo. Nei confronti di Brugia è definitivamente accertata la responsabilità per i due reati associativi “semplici” nonché per i reati di estorsione con esclusione delle citate aggravati, reati per i quali è già stato ritenuto il vincolo della continuazione. Il giudice del rinvio dovrà solo rideterminare la pena, anche quanto alla misura di sicurezza.

Bugitti Emanuela. Per Bugitti resta confermata la condanna per i reati di cui ai capi 16 e 25 del primo decreto, con esclusione della aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., sicché il rinvio è finalizzato alla sola rideterminazione della pena.

Buzzi Salvatore. Per Buzzi con l’odierna decisione risulta:

– definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale;

– esclusa l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. in tutti i casi in cui è stata contestata;

– disposta l’assoluzione per il reato di cui al capo 13 del primo decreto e per il reato di cui al capo 12 del secondo decreto;

– confermata la responsabilità per il fatto di cui al capo 11 del primo decreto, qualificato quale reato di cui all’art. 346-bis cod. pen.;

– confermata la responsabilità per il fatto di cui al capo 17 del primo decreto, qualificato quale reato di cui agli artt. 320 e 321 cod. pen.;

– disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 11 del secondo decreto;

– disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 16 del secondo decreto.

Il rinvio, quindi, è disposto sia per la valutazione in ordine alla responsabilità per i capi 11 e 16 del secondo decreto, sia per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capi 1, 11 e 17 del primo decreto, come riqualificati, nonché capi 10, 15, 16, 18, 19, 24, 25, 26 e 29 del primo decreto e capi 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 13, 14, 18 e 23 del secondo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito.

Caldarelli Claudio. In definitiva per Caldarelli risulta:

– definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale;

– esclusa in tutti i casi in cui era stata contestata la aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.;

– confermata la responsabilità per il fatto di cui al capo 11 del primo decreto, qualificato quale reato di cui all’art. 346 bis cod. pen.;

– disposta l’assoluzione per il reato di cui al capo 12 del secondo decreto;

– disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 9 del secondo decreto;

– disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 16 del secondo decreto.

Il rinvio, quindi, è disposto sia per la valutazione in ordine alla responsabilità per i capi 9 e 16 del secondo decreto che per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capi 1 e 11 del primo decreto, come riqualificati, nonché capi 10 e 25 del primo dcereto e capo 12 del secondo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito.

Calvio Matteo. Per Calvio, a seguito di questa decisione, risulta:- definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale; – esclusa in tutti i casi in cui era stata contestata la aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. Il rinvio, quindi, è disposto solo la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capo 1 del primo decreto, come riqualificato, nonché capi 3 e 4 del primo dcereto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Carminati Massimo Con l’odierna decisione, per Carminati risulta: – definitiva la condanna per i reati associativi “semplici”, come già configurati dal Tribunale; – esclusa in tutti i casi in cui era stata contestata la aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.; – confermata la responsabilità per il fatto di cui al capo 11 del primo decreto, qualificato quale reato di cui all’art. 346-bis cod. pen.; – confermata la responsabilità per il fatto di cui al capo 17 del primo decreto, qualificato quale reato di cui agli artt. 320 e 321 cod. pen.; – disposto l’annullamento senza rinvio, perché il fatto non sussiste, per il reato di cui al capo 21 del secondo decreto; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità in relazione al reato di cui al capo 22 del primo decreto; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 23 del primo decreto; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 9 del secondo decreto; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 11 del secondo decreto; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 16 del secondo decreto. Il rinvio, quindi, è disposto sia per la valutazione in ordine alla responsabilità per i capi 22, 23 del primo decreto, 9, 11 e 16 (limitatamente alla condotta ex art. 353 cod. pen.) del secondo decreto, che per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capi 1, 11 e 17 del primo decreto, come riqualificati, nonché capi 6, 9, 24, 25 del primo decreto e capi 2, 7, 10, e 23 del secondo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito.Cola Mario Con riguardo a Cola Mario è disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza quanto al capo 12 del secondo decreto perché il fatto non sussiste. Coltellacci Sandro Quanto a Coltellacci, il ricorso è rigettato. È dunque definitivamente accertata la responsabilità dell’imputato per i reati contestati ai capi 29 del primo decreto e 9 del secondo decreto. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali. Coratti Mirko Con riguardo a Coratti, la sentenza è definitiva quanto alla responsabilità penale per il capo 2 del secondo decreto, mentre è annullata senza rinvio limitatamente alla statuizioni civili nei confronti delle parti civili Partito Democratico e Associazione Antimafie e Antiracket – La Verita’ Vive Onlus (già denominata Associazione Antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino” Onlus); è definitivo l’accertamento della responsabilità penale anche agli effetti civili per le parti diverse da quelle indicate e, dunque, per Roma Capitale, Regione Lazio, Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa SociaOnlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale 3, in persona degli amministratori giudiziari, Ama s.p.a., Cittadinanza attiva Onlus e Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica, Associazione Nazionale Vittime di Usura, Estorsione e Racket, Libera. Associazioni, Nomi, e Numeri contro le Mafie, Associazione Nazionale per la Lotta contro la Illegalità e le Mafie “Antonino Caponnetto”. De Carlo Giovanni Quanto a De Carlo Giovanni, la sentenza è annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste (capo 28 del primo decreto). Di Ninno Paolo In conclusione, per Di Ninno risulta: – definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale; – esclusa in tutti i casi in cui era stata contestata la aggravante di cui 416-bis.1 cod. pen.- disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 9 del secondo decreto. Il rinvio, quindi, è disposto per la valutazione di responsabilità per tale ultimo capo e per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capo 1 del primo decreto, come riqualificato, nonché capi 24 e 25 del primo dcereto e capo 2 del secondo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Esposito Antonio Per quanto riguarda Esposito, la sentenza è annullata senza rinvio per il capo 21 del secondo decreto perché il fatto non sussiste e con rinvio in relazione al capo 20 del secondo decreto. Figure!!! Franco Il ricorso proposto nell’interesse di Figurelli è rigettato. È definitivo l’accertamento della responsabilità penale per il reato contestato al capo 2 del secondo decreto, nel quale è stato ritenuto assorbito dalla Corte d’appello quello contestato al capo 1 del secondo decreto). E’ definitivo l’accertamento della responsabilità anche agli effetti civili nei confronti di Regione Lazio, Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale 3, in persona degli amministratori giudiziari, Ama s.p.a., Cittadinanza attiva Onlus e Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica, Associazione Nazionale Vittime di Usura, Estorsione e Racket, Libera. Associazioni, Nomi, e Numeri contro le Mafie, Associazione Antimafie e Antiracket – La Verita’ Vive Onlus (già denominata Associazione Antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino” Onlus). Al rigetto del ricorso consegue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali. Gaglianone Agostino Per Gaglianone, annullata senza rinvio la sentenza quanto alla condanna per il reato associativo, è disposto annullamento con rinvio per la valutazione di responsabilità in ordine ai reati di cui ai capi 9 e 23, esclusa, comunque, l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. Garrone Alessandra Con l’odierna decisione per Garrone risulta:- definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale; – esclusa in tutti i casi in cui era stata contestata la aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 9 del secondo decreto; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 16 del secondo decreto. Il rinvio, quindi, è disposto sia per la valutazione in ordine alla responsabilità per i capi 9 e 16 (limitatamente alla condotta ex art. 353 cod. pen.) del secondo decreto che per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capo 1 del primo dcereto, come riqualificato, nonché capi 16, 18 en 25 del primo dcereto e capo 2 del secondo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Gramazio Luca Nei confronti di Gramazio risulta: – definitiva la condanna per il reato associativo “semplice” (nel suo caso rubricato al capo 22 del secondo decreto), come già configurato dal Tribunale; – esclusa la aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 16 del secondo decreto. Il rinvio, quindi, è disposto sia per la valutazione in ordine alla responsabilità per il capo 16 del secondo decreto che per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capo 22, come riqualificato, e capo 23 entrambi del secondo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Guarany Carlo Maria Nei confronti di Guarany risulta: – definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale; – esclusa la aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. per il reato di cui al capo 16 del primo decreto; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 16 del secondo decreto. Il rinvio, quindi, è disposto sia per la valutazione in ordine alla responsabilità per il capo 16 (limitatamente alla condotta ex art. 353 cod. pen.) del secondo decreto, che per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capo 1, come riqualificato, e capo 16 entrambi del primo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Guarnera Cristiano Per Guarnera Cristiano alla decisione di annullamento senza rinvio per l’unico reato contestato (capo 1) consegue la definitiva assoluzione. Lacopo Roberto Per Lacopo risulta definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale, con l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. in tutti i casi in cui è stata contestata. Il rinvio, quindi, è disposto solo la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capo 1, come riqualifcato, nonché capi 2, 3 e 4 tutti del primo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Magrini Guido Per Magrini, è definitivo l’accertamento relativo alla responsabilità penale quanto al capo 9 del secondo decreto che dispone il giudizio. La sentenza è annullata limitatamente alle statuizioni civili, che sono revocate, con riguardo alla parte civile Associazione Antimafie e Antiracket – La Verita’ Vive Onlus (già denominata Associazione Antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino” Onlus). È definitivo l’accertamento anche agli effetti civili nei confronti di Roma Capitale, Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale 3, in persona degli amministratori giudiziari, Cittadinanza attiva Onlus e Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica, Associazione Nazionale Vittime di Usura, Estorsione e Racket, Libera. Associazioni, Nomi, e Numeri contro le Mafie. Nacamulli Michele Quanto a Nacamulli, la sentenza è: a) irrevocabile in relazione al capo di imputazione contestato al capo 10 del secondo decreto; b) annullata senza rinvio quanto al capo 9 del secondo decreto indicato per non aver commesso il fatto; c) annullata con rinvio quanto al capo 11 del secondo decreto.Il rinvio è disposto per la valutazione della responsabilità penale per il capo 11 del secondo decreto e per la rivalutazione del trattamento sanzionatorio. Panzironi Franco In definitiva, per Panzironi risulta: – disposto annullamento con rinvio per valutazione della sussistenza del concorso esterno nella associazione delle cooperative di Buzzi; – confermata la responsabilità per il reato di cui all’art. 353 cod. pen. (capo 12 del primo decreto) con esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.; – confermata la responsabilità per il fatto di cui al capo 11 del primo decreto, riqualificato ai sensi dell’art. 346-bis cod. pen., con esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. Il rinvio, quindi, è disposto per la nuova valutazione quanto alla responsabilità per il reato associativo e per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio, ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Pedetti Pierpaolo Per Pedetti, la sentenza è annullata con rinvio limitatamente al capo 9 del secondo decreto; il ricorso è rigettato quanto al capo 10 del secondo decreto in questione ed al capo 15 del detto decreto, in relazione al quale però il fatto deve essere ricondotto alla fattispecie prevista dall’art. 322, comma 3, cod. pen. Il giudice del rinvio procederà in ordine alla valutazione sulla responsabilità per il reato di cui al capo 9 del secondo decreto e, quindi, alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio Placidi Marco Per Placidi il ricorso è rigettato ed è definitivo l’accertamento della responsabilità penale quanto al reato contestato al capo 19 del primo decreto. Al rigetto consegue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese del processo. È definitivo l’accertamento della responsabilità anche agli effetti civili nei confronti di Roma Capitale, Regione Lazio, Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale 3, in persona degli amministratori giudiziari, Cittadinan attiva Onlus, Associazione Nazionale Vittime di Usura, Estorsione e Racke , Libera. Associazioni, Nomi, e Numeri contro le Mafie, Associazione Nazionale per la Lotta contro la Illegalità e le Mafie “Antonino Caponnetto. Pucci Carlo In sintesi, con l’odierna decisione per Pucci risulta: – definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale; – confermata la responsabilità per il fatto di cui al capo 17 del primo decreto, qualificato quale reato di cui agli artt. 320 e 321 cod. pen., con esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. Il rinvio, quindi, è disposto per la sola rivalutazione del trattamento sanzionatorio, ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Schina Mario Il ricorso presentato nell’interesse di Schina Mario è rigettato. È definitivo l’accertamento della responsabilità penale quanto al reato contestato al capo 29 del primo decreto. Al rigetto consegue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali. È definitivo l’accertamento della responsabilità anche agli effetti civili nei confronti di Roma Capitale, Ministero degli Interni, Regione Lazio, Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale 3, in persona degli amministratori giudiziari, Cittadinanza attiva Onlus, Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica, Associazione Nazionale Vittime di Usura, Estorsione e Racket, Libera. Associazioni, Nomi, e Numeri contro le Mafie, Associazione Nazionale per la Lotta contro la Illegalità e le Mafie “Antonino Caponnetto Scozzafava Angelo Quanto a Scozzafava Angelo, imputato del reato contestato al capo 16) del secondo decreto, la sentenza è annullata con rinvio per nuovo esame. Tassone Andrea Per quel che riguarda Tassone Andrea la sentenza è annullata senza rinvio limitatamente alle statuizioni civili nei confronti delle parti civili Partito Democratico e Associazione Antimafie e Antiracket – La Verita’ Vive Onlus (gi denominata Associazione Antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino” Onlus);definitivo l’accertamento della responsabilità penale quanto al capo 8 del secondo decreto; E’ definitivo l’accertamento anche agli effetti civili per le parti diverse da quelle su indicate e, dunque, per Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale 3, in persona degli amministratori giudiziari, Cittadinanza attiva Onlus e Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica, Associazione Nazionale Vittime di Usura, Estorsione e Racket, Libera. Associazioni, Nomi, e Numeri contro le Mafie, Consorzio Castel Porziano 98, in persona del Presidente p.t., nonché dei consorziati personalmente Gastaldi Maria Rita, Frisoni Anna Maria, Contu Mara, Colazíngheri Umberto, Franzolin Mauro. Testa Fabrizio Franco In definitiva, con l’odierna decisione per Testa risulta: – definitiva la condanna per il reato associativo “semplice”, come già configurato dal Tribunale; – esclusa in tutti i casi in cui era stata contestata la aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.; – disposto annullamento con rinvio per valutazione della responsabilità quanto al capo 16 del secondo decreto; Il rinvio, quindi, è disposto sia per la valutazione in ordine alla responsabilità per il capo 16 (limitatamente alla condotta ex art. 353 cod. pen.) del secondo decreto che per la complessiva rivalutazione del trattamento sanzionatorio (capo 1 del primo decreto, come riqualificato, nonché capi 8 e 23 del secondo decreto), ferma restante la continuazione già ritenuta dai giudici di merito. Tredicine Giordano Il ricorso proposto nell’interesse di Tredicine è rigettato. Per effetto del rigetto, l’imputato deve essere condannato al pagamento delle spese del processo. È definitivo l’accertamento della responsabilità penale quanto al reato contestato al capo 6 del secondo decreto, anche agli effetti civili per Roma Capitale, Regione Lazio, Associazione Antimafie e Antiracket – La Verita’ Vive Onlus (già denominata Associazione Antimafie e Antiracket “Paolo Borsellino” Onlus), Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale 3, in persona degli amministratori giudiziari, Cittadinanza attiva Onlus e Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica, Associazione Nazionale Vittime di Usura, Estorsione e Racket, Libera. Associazioni, Nomi, e Numeri contro le Mafie, Turella Claudio Il ricorso proposto nell’interesse di Turella Claudio è inammissibile. L’imputato deve essere dunque condannato al pagamento delle spese del processo e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende. III. Le condanne alle spese in favore delle parti civili. 1. In applicazione della regola della soccombenza, vanno liquidate le spese di costituzione del grado in favore delle sole parti civili per le quali la sentenza impugnata non é stata annullata quanto al giudizio di penale responsabilità; a tal fine occorre tenere conto che l’accoglimento dell’impugnazione proposta da uno dei coimputati con riguardo alla condanna al risarcimento dei danni non giova ai coobbligati in solido, atteso che l’effetto estensivo dell’impugnazione concerne i soli casi in cui questa investa, sia pure con eventuali ricadute civilistiche, il profilo della responsabilità penale e non anche quelli in cui attenga ad aspetti esclusivamente risarcitori (Cfr., tra la altre, Sez. 5, n. 34116 del 06/05/2019, Ferri, Rv. 277300). 2. Al fine di individuare le parti civili in favore delle quali deve essere disposta la condanna alle spese, si deve fare riferimento al dispositivo della sentenza del Tribunale, che ha espressamente indicato i reati in relazione ai quali gli imputati sono stati rispettivamente condannati in favore di ciascuna delle parti civili costituite (il dispositivo è riportato, ai fogli LI e LII della sentenza impugnata), nonchè al contenuto della decisione della Corte di appello.

Sono dunque condannati:

– Mirko Coratti, Marco Placidi, Mario Schina, Guido Magrini e Giordano Tredicine a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa, liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge, sostenute nel presente grado dalla parte civile Roma Capitale, in persona del sindaco p.t (in favore della quale già il Tribunale aveva riconosciuto il diritto al risarcimento pei capi da 1 a 7, da t 9 a 13, da 15 a 7, da 22 a 29 (I decreto) ed ai capi da 1 a 23 (II decreto) ad eccezione di quelli da 17 a 19, e, quindi, anche per i reati attribuiti ai ricorrenti);

– Mario Schina a pagare le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile Ministero dell’Interno, in persona del ministro p.t., liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge (capo 29 primo decreto);

– Mirko Coratti, Franco Figurelli, Marco Placidi, Mario Schina e Giordano Tredicine a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa, liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge, sostenute nel presente grado dalla parte civile Regione Lazio in persona del legale rappresentante p.t., (in favore della quale già il Tribunale aveva riconosciuto il diritto al risarcimento in relazione ai capi da 1 a 29 (I decreto) ad eccezione di quelli ai numeri 8, 20, 21, ed ai capi da 2 a 23 (II decreto), esclusi i capi 15, 17, 19, e, dunque, aveva ricompreso i reati attribuiti ai ricorrenti);

– Franco Figurelli e Giordano Tredicine a pagare in solido, le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile Associazione Antimafie e Antiracket – La Veríta’ Vive! Onlus (già denominata Associazione Antimafie e Antiracket Paolo Borsellino), in persona del legale rappresentante p.t., liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge (in relazione a detta parte civile, già il Tribunale aveva riconosciuto il diritto al risarcimento in relazione a tutti i capi del primo decreto con esclusione di quelli ai numeri 8, 14, 20 e 21, e per tutti i capi del secondo decreto ad eccezione di quello contestato al n. 19, e, dunque, anche per i reati attribuiti ai ricorrenti);

– Mirko Coratti, Franco Figurelli, Guido Magrini, Marco Placidi, Mario Schina, Andrea Tassone e Giordano Tredicine a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalle parti civili Cooperativa 29 giugno Società Cooperativa Sociale Onlus, Eriches 29 Consorzio Cooperative Sociali – Società Cooperativa Sociale a.r.I., 29 giugno Servizi Società Cooperativa di Produzione e Lavoro, Formula Sociale Società Cooperativa Sociale Onlus, A.B.C. Società Cooperativa Sociale 3, in persona degli amministratori giudiziari Claudia Capuano, Davide Franco e Paolo Lupi, liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge;

– Mirko Coratti e Franco Figurelli a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile A.M.A. s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge (in relazione a detta parte civile, già il Tribunale aveva condannato limitatamente ai capi 1,2, 3, 13, 22 del secondo decreto, e, quindi, per i reati attribuiti ai ricorrenti);

– Mirko Coratti, Franco Figurelli, Guido Magrini, Mario Schina, Andrea Tassone e Giordano Tredicine a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile Centro di Iniziativa per la Legalità Democratica, in persona del legale rappresentante p.t., liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge (in relazione a detta parte civile, già il Tribunale aveva condannato al risarcimento dei danni per i capi da 2 a 11, 13, 14, da 16 a 18 e 23 (II decreto), dunque anche per i reati attribuiti agli imputati);

– Mirko Coratti, Franco Figurelli, Guido Magrini, Marco Placidi, Mario Schina, Andrea Tassone e Giordano Tredicine a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile Cittadinanzattiva Onlus, in persona del legale rappresentante p.t., liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge (in relazione a detta parte civile, già il Tribunale aveva condannato per i capi da 1 a 18 e da 21 a 23 del secondo decreto e dunque per i reati attribuiti ai ricorrenti);

– Mirko Coratti, Franco Figurelli, Guido Magrini, Marco Placidi, Mario Schina, Andrea Tassone e Giordano Tredicine a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile Associazione Nazionale Vittime di Usura Estorsione e Racket (A.N.V.U.), in persona del legale rappresentante p.t., liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge (in relazione a detta parte civile, già il Tribunale aveva condannato al risarcimento dei danni per tutti i capi del secondo decreto ad eccezione del capo 19, e, dunque, anche per quelli attribuiti agli imputati);

– Mirko Coratti, Franco Figurelli, Guido Magrini, Marco Placidi, Mario Schina e Giordano Tredicine a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile Libera. Associazioni, Nomi, e Numeri contro le Mafie, in persona del legale rappresentante p.t., liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge (in relazione a detta parte civile, già il Tribunale aveva riconosciuto il diritto al risarcimento per tutti i capi del secondo decreto ad eccezione delle imputazione sub 15- 17- 19, e, dunque, anche per quelli attribuiti agli imputati);

– Andrea Tassone a pagare le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile Consorzio Caste! Porziano 98, in persona del Presidente p.t., nonché dei consorziati personalmente Gastaldi Maria Rita, Frisoni Anna Maria, Contu Mara, Colazingheri Umberto, Franzolin Mauro, liquidate in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge, con distrazione in favore dell’avvocato Pierluigi Pernisco, antistatario;

– Mirko Coratti, Marco Placici e Mario Schina a pagare in solido le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile Associazione Nazionale per la Lotta contro la Illegalità e le Mafie “Antonino Caponnetto”, in persona del legale rappresentante p.t., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà separatamente liquidata dal giudice di appello e ne dispone il pagamento a favore dello Stato (in relazione a detta parte civile, già il Tribunale aveva riconosciuto il diritto al risarcimento per tutte le imputazioni oggetto del secondo decreto, ad eccezione di quelle di cui ai numeri 1, 15, 17).

3. Allo stato, non sono state prese in considerazione le seguenti parti civili:

a) Partito Democratico-Unione Regionale Lazio per le posizioni giuridiche diverse da quelle di Coratti e Tassone in quanto non definite;

b) Legacoopsociali – Associazione Nazionali delle Cooperative sociali, costituitasi solo nei confronti dell’imputato Buzzi, la cui posizione non è definita;

c) Ambulatorio Antiusura onlus, in favore della quale il diritto al risarcimento del danno è stato riconosciuto per i capi da 1 a 7 del primo decreto e, dunque, per posizioni giuridiche diverse da quelle dei ricorrenti per i quali l’accertamento della responsabilità è definitivo;

d) SOS Impresa, le cui conclusioni non sono riferite agli imputati per i quali l’accertamento di responsabilità è definitivo;

E.U.R. sp.a., costituitasi solo nei confronti di Pucci, la cui posizione non è ancora definita.

P. Q. M.

Riqualificati i reati di cui ai capi 1 (primo decreto) e 22 (secondo decreto) ai sensi dell’art. 416 cod. pen. e ritenuta la sussistenza di due associazioni, annulla la sentenza impugnata senza rinvio nei confronti di Guarnera Cristiano e Gaglianone Agostino per non avere commesso il fatto;

annulla, inoltre, la stessa sentenza nei confronti di Brugia Riccardo, Buzzi Salvatore, Caldarelli Claudio, Calvio Matteo, Carminati Massimo, Di Ninno Paolo, Garrone Alessandra, Gramazio Luca, Guarany Carlo Maria, Lacopo Roberto, Pucci Carlo e Testa Fabrizio Franco limitatamente al trattamento sanzionatorio per i reati associativi come riqualificati, nonché nei confronti di Panzironi Franco quanto al ritenuto concorso esterno nel reato associativo; escluse le aggravanti di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. nonché quella di cui agli artt. 629 e 628, terzo comma, n. 3 cod. pen.;

annulla la medesima sentenza nei confronti di Bolla Claudio, Brugia Riccardo, Bugitti Emanuela, Buzzi Salvatore, Caldarelli Claudio, Calvio Matteo, Carminati Massimo, Di Ninno Paolo, Garrone Alessandra, Gramazio Luca, Guarany Carlo Maria, Lacopo Roberto, Nacamulli Michele, Panzironi Franco e Testa Fabrizio Franco con riferimento ai reati di cui ai capi 2, 3, 4, 5, 6, 7, 9, 10, 12, 16, 18, 19, 24, 25, 26, 29 (primo decreto), 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 13, 14, 23 (secondo decreto), loro rispettivamente ascritti, limitatamente al trattamento sanzionatorio;

annulla, inoltre, la medesima sentenza:

– nei confronti di Bolla Claudio, Buzzi Salvatore, Caldarelli Claudio, Carminati Massimo, Esposito Antonio, Garrone Alessandra, Gramazio Luca, Guarany Carlo Maria, Nacamulli Michele, Pedetti Pier Paolo, Scozzafava Angelo, Testa Fabrizio Franco con riferimento ai reati di cui ai capi 22 e 23 (primo decreto), 9, 11, 16 e 20 (secondo decreto), nonché nei confronti di Gaglianone quanto al reato di chi al capo 9 (primo decreto), loro rispettivamente ascritti, in punto di responsabilità;

– nonché nei confronti di Buzzi Salvatore, Carminati Massimo, Panzironi Franco in relazione al reato di cui al capo 11 (primo decreto) riqualificato ai sensi dell’art. 346-bis cod. pen.;

– nei confronti di Buzzi Salvatore, Carminati Massimo e Pucci Carlo in relazione al reato di cui al capo 17 (primo decreto) riqualificato ai sensi degli artt. 320 e 321 cod. pen.;

– nonché nei confronti di Pedetti Pier Paolo in relazione al reato di cui al capo 15 (secondo decreto), riqualificato ai sensi dell’art. 322, terzo comma, cod. pen., limitatamente al trattamento sanzionatorio;

rinvia per nuovo giudizio sui predetti capi e punti ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata:

– quanto al reato di cui al capo 13 (primo decreto) nei confronti di Buzzi Salvatore perché il fatto non sussiste;

– quanto al reato di cui al capo 28 (primo decreto) nei confronti di De Carlo Giovanni perché il fatto non sussiste;

– quanto al reato di cui al capo 9 (secondo decreto) nei confronti di Nacamulli Michele per non avere commesso il fatto;

– quanto al reato di cui al capo 12 (secondo decreto) nei confronti di Buzzi Salvatore, Caldarelli Claudio e Cola Mario perché il fatto non sussiste;

– quanto al reato di cui al capo 21 (secondo decreto) nei confronti di Carminati Massimo ed Esposito Antonio perché il fatto non sussiste.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Coratti Mirko e Tassone Andrea limitatamente alle statuizioni in favore delle parti civili Partito Democratico Unione Regionale Lazio ed Associazione Antimafie ed Antiracket La Verità Vive Onlus e nei confronti di Magrini Guido limitatamente alle statuizioni in favore della parte civile Associazione Antimafie ed Antiracket La Verità Vive Onlus, statuizioni civili che revoca.

Rigetta nel resto i ricorsi dei predetti ricorrenti.

Dichiara inammissibile il ricorso di Turella Claudio che condanna al pagamento delle spese processuali ed al pagamento della somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Rigetta i ricorsi di Figurelli Franco, Coltellacci Sandro, Placidi Marco, Schina Mario e Tredicine Giordano che condanna al pagamento delle spese processuali.

*il restante dispositivo della sentenza, è consultabile nel file, sotto, allegato*

SENTENZA – copia non ufficiale -.

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