Componenti delle Squadre Volanti accusate di essersi appartate in auto per dormire, durante il servizio, lasciando il territorio assegnato sguarnito di vigilanza.

…, omissis …

Sentenza

sul ricorso proposto da:

N. IL .. B.G. N. IL B.B. N. IL ….B.D. N. IL…… B. F. N. IL….. C. C. N. IL ….. D. G. M. N. IL …… E. M. N. IL …. F.. F. N. IL …. G. .S.L. N. IL ….. G. S. N. IL ….. L. S.A. N. IL …..L.G. N. IL ….. L. L. N. IL …. P. R.N. IL ….. R. S. N. IL ….. R. P. N. IL …. S. T. N. IL … T. D. N. IL ….T. A. N. IL ….. Z. F. N. IL …. Z. L.N. IL ……

avverso la sentenza n. … CORTE APPELLO di VENEZIA, del 07/11/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/11/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MAURIZIO FUMO Udito il PG in persona del sost. proc. gen. dott. G. Izzo che ha concluso chiedendo rigettarsi i ricorsi;

uditi i difensori degli imputati ricorrenti avvocati F. Pinelli per A., L. B., Z., T., R. L., C., P.F. Tofini . per B., D.G., G., L., R., S., T., F. Z. per B., G., P., Z. e per delega dell’avv. P. Malasomma per F., che hanno illustrato i rispettivi ricorsi e ne hanno chiesto l’accoglimento, nonché l’avv. M. Zuppa per B. ed E., che si è riportato ai ricorsi e ne ha chiesto l’accoglimento.

Ritenuto in fatto

1. Gli imputati A.L. R. P., T. D.i, Z. L., B.B., L. S., C. C., B. F., D.G. M., G. S., L. L., R. S., S. T., T. A., B.G., E. M., B.D., G. S. L., P. R., Z. F., F. F., tutti appartenenti alla squadra “volanti” della questura di Rovigo, giudicati con rito immediato, sono stati ritenuti colpevoli in primo grado dei reati di cui agli artt. 72 ultimo comma legge 121/81, 61 n. 2, 479 cp, 640 comma 2 cp, in quanto, comandati al servizio di perlustrazione del territorio di competenza del predetto ufficio di polizia, violavano le disposizioni impartite dal dirigente e cagionavano la interruzione del servizio stesso, lasciando sguarnita la zona loro assegnata.

Ai predetti è contestato di essersi, durante il servizio, appartati per dormire (in auto o ritornando in Questura), ovvero di essere rientrati anticipatamente e ingiustificatamente in sede, di aver sconfinato senza necessità dalla zona loro assegnata.

Il delitto di falso è loro addebitato per avere attestato nella c.d. “scheda controlli” o “scheda obiettivi”, contrariamente al vero, di avere effettuato la sorveglianza nelle zone e con riferimento agli obiettivi loro assegnati, sostenendo di aver effettuato passaggi e controlli in realtà mai effettuati e ciò allo scopo di garantirsi la impunità dal reato di abbandono di servizio, del quale si è appena detto. Il delitto di truffa è stato ritenuto consumato in quanto, abbandonando le mansioni inerenti al servizio che avrebbero dovuto svolgere e attestando il falso con la compilazione delle ricordate schede, inducevano in errore i loro superiori e, indirettamente, il Ministero dell’interno, in tal modo conseguendo l’ingiusto profitto pari alla retribuzione per il servizio in realtà non prestato.

I delitti di cui sopra sono contestati come commessi tra il 3.1.2008 e il 5.3.2008.

2. Il corredo probatorio è essenzialmente costituito dal contenuto di intercettazioni ambientali (eseguite all’interno della autovetture di servizio), del tracciato GPS, che segnalava gli spostamenti e le soste delle predette vetture (c.d. pedinamento elettronico), dall’esito delle registrazioni delle conversazioni tra la centrale operativa e i singoli equipaggi tramite le radio di bordo (registrazioni eseguite con il c.d. sistema Marathon), dalle perizie e consulenze tecniche trascrittive, dai documenti redatti dai capi pattuglia, dalle deposizioni testimoniali del capo della squadra mobile e del questore (dott. S., d.ssa Di R.).

3. La corte di appello di Venezia, con la sentenza in epigrafe indicata, in parziale riforma della pronunzia di primo grado (tribunale di Rovigo 26.10.2011), ha escluso l’aggravante di cui all’art. 72 comma 3 legge 121/81 quanto all’episodio del capo D5) nei confronti di B.D., ha escluso la medesima aggravante nei confronti di B. F. con riferimento agli episodi di cui ai capi E3) ed E4), nei confronti di F.F., con riferimento agli episodi dei capi 13) e 14), nei confronti di G.S. con riferimento agli episodi dei capi M1), M2), nei confronti di T.A. con riferimento ai capi V6), V7), nei confronti di Z.F. con riferimento al capo Z4), ha assolto D.G.M. dal reato di cui al capo G2), limitatamente all’episodio del rientro in Questura alle ore 2.17 del 17.1.2008 perché il fatto non sussiste, ha assolto R. S. dal reato di cui al capo R2), 2 limitatamente all’episodio del rientro in Questura nelle medesime circostanze, ha riconosciuto attenuanti generiche prevalenti a B. D.G., E. M. F. G.S.L., P. R., R., S. T., T. D., T., Z., rideterminando per costoro in melius il trattamento sanzionatorio, ha rideterminato in maniera più favorevole la pena per B.i e G., ha revocato la interdizione dai pubblici uffici per Z., ha confermato nel resto la sentenza di primo grado.

4. Ricorrono per cassazione, tramite i rispettivi difensori, gli imputati, articolando censure in parte comuni.

4.1. Ricorsi A., R., T., Z., B., L., L. C. (avv. Pinelli). Con tali atti (fisicamente separati, ma contenutisticamente identici) si impugnano anche le ordinanze 17.10.2014 della corte veneziana e del 20.4.2009 del tribunale rodigino.

Si deduce:

a) violazione di legge processuale per mancato interrogatorio da parte del PM degli indagati entro il termine di 90 giorni e conseguente nullità delle sentenze ai sensi degli artt. 178 lett. c) e 180 cpp per violazione del diritto di difesa in relazione alla omessa celebrazione della udienza preliminare. I ricorrenti furono iscritti nel registro ex art. 335 del codice di rito nelle date 23.1.2008 e 4.2.2008; il 31.3.2008 il PM comunicò al questore la chiusura della fase delle indagini (al fine, evidentemente, di consentirgli di assumere i necessari provvedimenti organizzativi e disciplinari); il 31.7.2008 fu avanzata richiesta di giudizio immediato, che il GIP dispose il successivo 26.9.2008.

Orbene, è pur vero che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il termine di 90 giorni è ordinatorio, tuttavia la evidenza della prova deve e può risultare anche a seguito dell’interrogatorio degli indagati, all’esito dei quali è certamente possibile che il PM si convinca della impraticabilità del giudizio immediato o, addirittura della innocenza degli indagati stessi.

È ovvio allora che l’interrogatorio non può intervenire dopo il novantesimo giorno, costituendo anzi “il banco di prova dell’evidenza”. In sintesi: l’indagato non può essere privato del diritto alla udienza preliminare. In merito la corte territoriale ha fornito risposte evasive e sostanzialmente errate, sostenendo che l’interrogatorio ben può avere luogo dopo il termine di 90 giorni, anche perché, opinare diversamente significherebbe, considerati i termini per gli avvisi e le comparizioni, ridurre eccessivamente il periodo per l’espletamento delle indagini.

In ogni caso, la corte di merito ha ricordato che il giudice del dibattimento non può sindacare la sussistenza delle condizioni in base alle quali il GIP ha assunto la sua decisione.

Tale assunto, tuttavia, non tiene conto della recente pronunzia delle SS.UU. sul punto (26.6.2014, ric. Squicciarino), che ha stabilito che il GIP ben può rilevare la mancanza dei presupposti per la instaurazione del giudizio immediato.

Nel caso in esame, i difensori eccepirono tempestivamente il vulnus procedimentale, vulnus che comportò violazione delle regole sull’intervento e la difesa dell’imputato;

b) Violazione di legge processuale e specificamente degli artt. 267-271 cpp, conseguenti profili di carenza dell’apparato motivazionale.

Le intercettazioni furono disposte “per evitare la commissione di altri delitti”, dunque per reati non commessi (o non commessi ancora). In realtà, le intercettazioni, come mezzo di ricerca della prova, possono essere volte solo ad accertare reati già consumati.

Nel caso in scrutinio, quindi si è assistito a una violazione dei principi che regolano i presupposti della predetta attività di indagine. Le notizie acquisite potevano, al più, essere poste alla base di un nuovo procedimento da istaurare. La relativa eccezione fu sollevata tempestivamente, ma il giudice ebbe a rispondere con provvedimento motivato in maniera incongrua;

c) Violazione di legge processuale e carenza dell’apparato motivazionale in ordine all’utilizzo del tracciato GPS. Gli arrt. 244 e 247 cpp prescrivono l’adozione di misure tecniche per 3 garantire la conservazione dei dati.

Nulla di ciò è stato fatto in sede di indagini.

Ebbene, è evidente che, se l’acquisizione non è corretta, il dato non è utilizzabile. Il dott. C., pur ammettendo che, in più riprese, il GPS aveva dato prova di malfunzionamento, ha sostenuto che, in tali casi, egli aveva supplito con l’ascolto delle intercettazioni, riuscendo a comprendere, dai rumori di fondo, se le aiuto fossero in sosta, ovvero in movimento.

Ciò non è né possibile, né concludente. Innanzitutto, le auto della Polizia sono insonorizzate, in secondo luogo un’auto che procede a bassa velocità non produce rumori percepibili da parte di chi ascolta una registrazione.

È da notare poi che far procedere la vettura a bassa velocità è circostanza del tutto compatibile con l’attento controllo del territorio.

In terzo luogo, i cc.dd. mod. 106, vale dire i fogli sui quali si annotava il consumo di carburante, smentiscono gli erronei risultati forniti dal sistema GPS.

La corte territoriale replica sostenendo a priori la falsità di dette annotazione come conseguenza della diffusa omertà che avrebbe regnato tra gli appartenenti all’ufficio. Si tratta di affermazione meramente congetturale.

D’altra parte, l’equipaggio montante non poteva non verificare (pena la sua stessa responsabilità) la veridicità del residuo di carburante come attestato dall’equipaggio smontante;

d) Violazione di legge penale sostanziale in relazione alla circostanza aggravante di cui all’ultimo comma art. 72 legge 121/81 e manifesta illogicità della motivazione, atteso che, escluso qualsiasi parallelismo con le fattispecie di cui agli artt. 118, 119, 120 cpmp, non può certo affermarsi che la ipotizzata momentanea carenza di vigilanza abbia costituito interruzione di pubblico servizio, né che ciò ricorra in caso di momentaneo sconfinamento dalla zona di competenza.

In realtà il servizio di vigilanza va considerato unitariamente e le divisioni territoriali assumono valore meramente interno.

e) Violazione di legge penale sostanziale con particolare riferimento al delitto di truffa (art. 640 comma 2 cp).

Invero le schede di controllo non sono certamente assimilabili ai cc. dd. cartellini marcatempo, in base ai quali vengono liquidate le competenze di un impiegato; non vi è quindi legame diretto tra la prestazione professionale e il versamento della stipendio che è conseguenza della esistenza del rapporto di servizio.

Si tratterebbe comunque di un danno non economicamente valutabile (anche per la sua modestia) e dunque penalmente non apprezzabile.

Si tratterebbe di un banale episodio di inoperosità sul luogo di lavoro. 4.2. Ricorsi B., G., P., Z. (avv. Zarbo) e ricorso F.(avv. Malasomma).

Benché sottoscritti da diversi difensori, essi hanno contenuto identico Con essi si deduce;

f) Omessa assunzione di prova decisiva in tema di intercettazioni, prova necessaria per valutare la regolarità del ricorso a impianti esterni alla procura della Repubblica e dunque per accertare la utilizzabilità delle intercettazioni stesse, con specifico riferimento alla inadeguatezza degli impianti esistenti nel predetto ufficio giudiziario e della indispensabilità delle operazioni.

A tale scopo era stata richiesta l’audizione in dibattimento del funzionario responsabile dell’ufficio intercettazioni nell’ambito della procura di Rovigo, del rappresentante della società che aveva concesso in noleggio le apparecchiature, di un funzionario comunale.

Ledendo il diritto degli imputati a difendersi provando, il tribunale, prima, e la corte territoriale, poi, non hanno aderito alla predetta richiesta;

g) Violazione di legge processuale e conseguente inutilizzabilità delle apparecchiature installate presso la questura di Rovigo per la esecuzione delle operazioni di intercettazione.

Detta indisponibilità, del tutto irritualmente, fu attestata dal capo della squadra mobile cui il PM si rivolse per conoscere se all’interno del suo stesso ufficio (la procura della Repubblica) esistessero 7 linee disponibili per le contemporanee operazioni di intercettazione.

È evidente che il PM avrebbe dovuto rivolgersi al funzionario responsabile 4 et- dell’ufficio intercettazioni che è l’unico a conoscenza dei dati e in possesso del relativo registro (da custodire in cassaforte).

Al proposito, furono esperite indagini difensive volte ad accertare natura e funzionalità di tali apparecchiature (quelle esistenti in procura).

Ebbene, mentre il Ministero di giustizia, per la parte di sua competenza, ha fornito esauriente risposta, il PM ha fornito una risposta del tutto evasiva.

Va notato che la procura della Repubblica, in quanto autorità amministrativa, è tenuta – ex art. 391 quater cpp – a fornire le notizie richieste.

Non è stata poi nemmeno disposta la c.d. remotizzazione degli ascolti, operazione che avrebbe, quantomeno, consentito di registrare nell’ufficio di procura le conversazione e, al contempo, di renderle ascoltabili in Questura. La remotizzazione era tecnicamente possibile, quindi giuridicamente doverosa.

Sul punto il PM non ha fornito alcuna giustificazione;

h) Violazione di legge processuale (art. 266 cpp) e conseguente inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali, atteso che l’autovettura di servizio è luogo di svolgimento di funzioni lavorative con carattere di continuità e dunque le intercettazioni non sono consentite;

i) Violazione di legge processuale per mancanza del requisito della assoluta indispensabilità delle intercettazioni ambientali.

L’utilizzo del monitoraggio tramite GPS rendeva ultronee e superflue le intercettazioni, che, in quanto strumento gravemente invasivo, devono costituire la extrema ratio investigativa;

j) Violazione di legge processuale in relazione all’utilizzo della tecnologia GPS.

Si svolgono considerazioni analoghe a quelle sopra sintetizzate sub c (ricorso A. e altri), aggiungendo che risulta violato anche l’art. 360 cpp, trattandosi di atto di indagine non ripetibile.

Ebbene, non si sa dove sia il supporto originale del tracciato GPS, che dunque è andato disperso. Il teste C. ha sostenuto che detto supporto sarebbe stato depositato negli uffici di procura, ma il PM, interpellato al proposito, ha risposto di non essere più in possesso delle “bobine” perché esse sarebbero state versate al tribunale.

Lo stesso uso del termine “bobine”, invero, rende evidente che gli inquirenti non avevano la minima idea delle precauzioni tecniche da adottare (cc.dd. best practices)per garantire la genuinità della registrazione.

Detto supporto comunque non è stato mai prodotto;

k) Violazione di legge processuale per erronea utilizzazione delle dichiarazioni dei testi C. e D. R.. Costoro andavano ascoltati come persone da indagare in procedimento connesso e per il medesimo reato, in quanto, essendo a conoscenza che i loro sottoposti stavano commettendo una serie di reati, non sono intervenuti e dunque, con la loro omissione, hanno concorso alla realizzazione della condotta contra jus;

I) Violazione dell’art. 72 legge 121/81.

Il reato non sussiste. Invero i giudici del merito hanno ragionato come se fosse stato contestato l’art. 118 cpmp, dimenticando che il corpo della polizia di Stato è, da decenni, smilitarizzato. Invero il servizio di “volanti” non può considerarsi una operazione di polizia, né la relativa attività dei poliziotti integra gli estremi di impiego in reparti organici;

m) Violazione dell’art. 479 cp, dal momento che la scheda-obiettivo (o scheda-controllo) non è atto pubblico.

Essa non è prevista dalla legge, né dal regolamento, né da alcuna circolare. La sua instaurazione fu dovuta a una iniziativa del questore.

Detta scheda non costituisce certamente rapporto di servizio, ma è assimilabile al cartellino marcatempo nel rapporto di lavoro privatistico. n) Violazione dell’art. 640 cp in quanto non vi fu nessun soggetto ingannato.

Invero, il capo della squadra mobile e il questore erano perfettamente a conoscenza di quel che accadeva e, di riflesso, lo era anche il competente Ministero. Gli stipendi sono stati regolarmente versati per non interrompere le indagini.

4.3. Ricorsi B., D. G., G., L., R., S., T. (avv.Tosini).

Si deduce 5 Lz o) Violazione degli artt. 178, 184, 185, 453 cpp. Invero se in udienza si è fatto luogo a integrazione probatoria ex art. 430 del codice di rito, evidentemente non poteva essere adottato il rito immediato, perché non ricorreva il requisito della evidenza della prova.

Inoltre, la tardività degli interrogatori in fase di indagine ha inficiato l’intero procedimento, atteso che detto interrogatorio costituisce anche atto di indagine da valutarsi ex art. 358 cpp, vale a dire per eventuale presenza di elementi favorevoli all’indagato.

Si è dunque verificata una nullità a regime intermedio tempestivamente eccepita con conseguente necessità di disporre la regressione del procedimento.

Al proposito si formulano altre considerazioni già illustrate sub a) (ricorsi A. e altri);

p) Violazione degli artt. 491 comma 2 e 431 cpp per la irregolare formazione del fascicolo del dibattimento e carenza sul punto dell’apparato motivazionale. Invero le cc.dd. schede- obiettivo, non sono presenti in atti, né in originale, né in copia autenticata. In quanto corpo di reato, esse dovevano essere a disposizione del giudicante. Dette schede per altro non sempre risultano allegate alla relazione di servizio;

q) Violazione degli artt. 268 comma 3 e 271 cpp per inutilizzabilità delle effettuate intercettazioni ambientali.

Non è stato dato adeguatamente atto della ricorrenza di eccezionali ragioni di urgenza, non è stata provata la indisponibilità delle attrezzature presenti nella procura della Repubblica, dove erano viceversa disponibili numerose “linee”.

Quanto alla remotizzazione e alla natura invasiva della attività di intercettazione, si espongono concetti già illustrati sub g) (ricorsi B. e altri).

Si rileva per altro che C. era, a un tempo, superiore gerarchico degli indagati/imputati e delegato alle indagini.

Va poi rilevato che la sentenza ricorsa utilizza solo stralci delle conversazioni intercettate, la cui inattendibilità appare conclamata;

r) Violazione dell’art. 360 cpp e carenza dell’apparato motivazionale quanto all’utilizzo dei tracciati GPS, in violazione della convenzione di Budapest resa esecutiva in Italia con la legge 48/2008.

Al proposito si sviluppano argomentazioni simili a quelle esposte sub c) (ricorsi A. e altri), sottolineando che il CT della difesa ha chiarito che non bastano 4 satelliti per avere la certezza assoluta di una rilevazione GPS. Per altro lo C. ha ammesso periodi di malfunzionamento degli apparati.

I dati furono raccolti ed esaminati da personale non specializzato. E dunque tutto si riduce alla testimonianza del capo della squadra mobile, testimonianza che deve però essere depurata dai suoi contenuti valutativi e che va esaminata congiuntamente al contenuto dei mod. 106.

Invero, la sosta delle autovetture è circostanza irrilevante in quanto non incompatibile con lo svolgimento del servizio. s) Violazione dell’art. 430 cpp in relazione alla acquisizione delle registrazioni del sistema Marathon (conversazioni tra centrale operativa e agenti nelle auto “volanti”.

Sono stati indebitamente acquisti elementi probatori, non raccolti dal PM dopo la chiusura delle indagini, ma preesistenti.

Di essi il PM aveva tentato la introduzione in una udienza precedente, ma il giudice ne aveva dichiarato la inutilizzabilità. Grazie all’escamotage del ricorso al dettato dell’art. 430 del codice di rito, detti elementi sono stati illecitamente recuperati.

Si tratta comunque di dati irrilevanti in quanto l’assenza di comunicazioni radio è un elemento di assoluta neutralità;

t) Violazione dell’art. 72 legge 121/81 e dell’art. 51 cp.

La corte non chiarisce perché, a tutto concedere, non possa ricorrere la semplice ipotesi di cui all’art. 340 cp.

Essa poi non tiene conto delle prassi consolidate e delle consuetudini istauratesi prima della gestione da parte del questore d.ssa D. R..

Gli sconfinamenti, i temporanei rientri in Questura per rifocillarsi, riposare o per soddisfare bisogni fisiologici, devono ritenersi comportamenti ammissibili.

l reato in questione sarebbe integrato solo se si provasse che gli agenti si erano abbandonati al sonno; ebbene non per tutti tale prova è stata raggiunta.

Né alcun valore può attribuirsi alle schede-obiettivo, costituenti meri promemoria. u) Violazione degli artt. 110, 479 cp.

Per i giudici di merito, le predette schede costituiscono atti pubblici se allegate alla relazione di servizio. Ciò non si è sempre verificato.

I relativi fascicoli furono formati da C. che vi inserì anche suoi appunti. Ebbene , tali schede non sono previste dalla legge, non sono in alcun modo obbligatorie e sono state istituite solo dopo il 7.12.2007. Esse non possono ritenersi integrative della relazione di servizio.

Infine per quel che riguarda l’autista, lo stesso, al più, può concorrere col capo pattuglia nel reato ex art. 72 legge 121/81, ma non certo in quello di falso, posto che la scheda è compilata dal solo capo pattuglia. Perché tale concorso sia ipotizzabile è necessario un quid pluris oltre la mera presenza nella vettura. v) Violazione dell’art. 640 cp e carenze dell’apparato motivazionale.

Nessun artifizio o raggiro è stato posto in essere, nessun inganno è stato imbastito.

La sosta dell’auto della polizia è certamente consentita quando le esigenze di servizio lo richiedono.

4.4. Ricorsi B. ed E. (avv. Zuppa).

Si deduce:

w) Violazione degli artt. 453, 454 e 179 comma 2 cpp in relazione alla instaurazione del giudizio immediato. Si sviluppano censure analoghe a quelle sub a) (ricorsi A. e altri).

Al proposito il difensore lamenta che la corte veneziana ha dato risposta ai rilievi degli avv. Zorba e Malasomma, ma non a quello, identico, da lui formulato;

x) Violazione dell’art. 268 comma 3 cpp, anche per omessa motivazione sulla non disposta remotizzazione.

Al proposito, si sviluppano considerazioni analoghe a quelle sub g) (ricorsi B. e altri).

Le operazioni furono effettuate in Questura per meri motivi di opportunità, ma furono falsamente giustificate con insussistenti motivi di urgenza. y) Violazione degli artt. 493 e 430 cpp.

Al proposito, vengono sviluppate considerazioni analoghe a quella sub s) (ricorsi B. e altri), aggiungendosi che i dati furono trascritti da periti in udienza.

Perlatro, alla udienza del 20.7.2008, la difesa chiese la acquisizione di tutti i dati di Marathon dal gennaio al marzo 2008 per verificarne la integrità, così come fu chiesta perizia per verificare la corretta acquisizione del dato originario. Nessuna risposta si è avuta;

z) Violazione di norme processuali e carenze dell’apparato motivazionale, con riferimento alla acquisizione dei tracciati GPS; al proposito si sviluppano considerazioni analoghe a quelle sub c) (ricorsi A. e altri).

Il pedinamento elettronico non fu integrato dalla presenza fisica di inquirenti. Il principio di conservazione dei dati informatici (esplicitato negli artt. 244, 247 cpp) ha carattere generale. Inoltre le schede mod. 106 (carburante) non possono essere ritenute false per la buona ragione che gli agenti del turno di giorno non sono coimputati con quelli del turno di notte e quindi non avevano nessuna ragione di “coprirli”;

aa) Violazione dell’art. 72 legge 121/81 e carenza dell’apparato motivazionale, atteso che gli obiettivi sensibili vanno distinti in generali e particolari, tra i primi rientrano quelli istituzionali, tra i quali la stessa Questura.

Il rientro in Questura quindi non può integrare violazione di ordine di servizio, atteso che i meri schemi organizzativi non sono vincolanti. Invero, anche con i rientri anticipati, il servizio è stato sempre garantito.

Oltretutto detto rientro non può avvenire clandestinamente, atteso che il cancello della questura non si apre 7 se la cellula non riconosce l’auto di servizio.

Manca poi qualsiasi motivazione sul dolo e sulla ritenuta aggravante della interruzione del pubblico servizio;

bb) Violazione dell’art. 479 cp e carenze dell’apparato motivazionale.

La scheda-obiettivo non è atto pubblico fidefacente; esso non è collegato alla relazione di servizio. Ciò che rileva è l’ordine di servizio che prescrive la annotazione dei soli obiettivi istituzionali.

La scheda per altro ben può essere compilata dopo la fine del servizio, con evidenti possibilità di omissioni ed errori.

In relazione poi all’allegato 21, risulta evidente la mancanza di motivazione con riferimento ai capi BB1) (B.) ed HH1) (E.).

Con riferimento a tale vicenda, risulta che alle ore 4.25 fu effettuato il controllo di un obiettivo e che alle ore 4.17 (dunque prima) l’autovettura era rientrata in Questura.

È però da dire che l’obiettivo dista solo 5 km dalla questura. Orbene, se lo stesso PM ha ritenuto tollerabile una sosta di 30 minuti e se l’apparato GPS può avere, nella registrazione, uno “scarto” di ben 20 minuti, è evidente che la condotta risulta immune da censure (o comunque non possono probatoriamente essere attribuite condotte contra jus) per un intervallo di 50 minuti.

Nessuna motivazione poi sull’elemento psicologico che avrebbe dovuto tener presente la incidenza di ricordi cattivi o approssimativi quando le schede sono state compilate ex post. Si è dunque in presenza di un falso superfluo o, se si vuole, irrilevante.

Quanto al concorso di persone nel delitto ex art. 479 cp, vengono svolte considerazioni analoghe a quella sub u (ricorsi B. e altri);

cc) Violazione dell’art. 640 cp e carenze dell’apparato motivazionale.

Non è stata fornita la prova che gli imputati, in Questura, dormissero; invero essi ben potevano avere ragioni per un rientro anticipato.

In mancanza di intercettazioni probanti del fatto che dormissero, non si può affermare che B. ed E. abbiano ingannato chicchessia e abbiano tenuto una condotta diversa da quella loro imposta da leggi, regolamenti e ordini di servizio.

Considerato in diritto

1. Tutti i ricorsi sono infondati. Essi vanno – pertanto – rigettati. Ciascun ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

2. Le censure sub a, o) (in parte qua) e w) sono infondate. Invero, la sentenza delle SS.UU. di questa corte, citata dai ricorrenti (n. 42979 del 26.6.2014) se, da un lato, ha affermato che l’inosservanza dei termini di novanta e centottanta giorni, assegnati al PM per la richiesta, rispettivamente, di giudizio immediato ordinario e cautelare, è rilevabile dal GIP (RV 260017), ha anche chiarito che la decisione con la quale il predetto giudice dispone il giudizio immediato non può essere oggetto di ulteriore sindacato (RV 260018).

È stato infatti osservato che il provvedimento adottato dal GIP chiude una fase di carattere endoprocessuale, priva di conseguenze rilevanti sui diritti di difesa dell’imputato, salva l’ipotesi in cui il giudice rilevi che la richiesta del rito non è stata preceduta da un valido interrogatorio o dall’invito a presentarsi, integrandosi – in tal caso – la violazione di una norma procedimentale concernente l’intervento dell’imputato, sanzionata di nullità a norma degli artt. 178, comma primo, lett. c) e 180 cpp.

È dunque necessario, perché non sia leso il diritto di difesa, che l’interrogatorio (o comunque l’invito a presentarsi) sia stato precedente alla richiesta. È stato poi (condivisibilmente) ritenuto che il predetto termine deve ritenersi perentorio per quel che riguarda il completamento delle indagini dalle quali deve risultare la evidenza della prova (ASN 200332722- RV 226179; ASN 200426305-RV 228130); l’interrogatorio dell’imputato, tuttavia, come è noto, non è atto di indagine.

Tale poteva essere considerato in un sistema di tipo inquisitorio, non nell’attuale, di stampo accusatorio, nel quale esso viene ad assumere la natura (e certamente la funzione) di eventuale strumento di difesa, che, a seconda delle 8 opzioni strategiche adottate, potrà essere utilizzato oppure no.

Tanto ciò è vero che ad esso è equiparato, come si è visto, il mero invito a presentarsi, vale a dire che all’interessato deve essere resa nota la piattaforma indiziaria raccolta a suo carico e deve essere consentito di contrastarne (se ritiene) il contenuto, rendendo, appunto, interrogatorio.

Il fatto poi che detto “strumento di difesa” venga dispiegato oltre il termine di 90 giorni, non si vede, invero, quale compressione sull’esercizio di tale diritto possa esercitare, se comunque all’imputato è data la possibilità di interloquire sugli addebiti che gli sono mossi e se tale interlocuzione preceda – appunto – la determinazione del PM di attivare il rito in questione.

D’altra parte, la giurisprudenza di questa corte è costante (da ultimo ASN 201331728-RV 256733) nell’affermare che, una volta disposto il rito, il giudice del dibattimento non può sindacare la sussistenza delle condizioni necessarie all’adozione del decreto ex art. 456 cpp, non essendo previsto dalla disciplina processuale un controllo ulteriore rispetto a quello attribuito al GIP al momento della decisione sulla richiesta avanzata dal PM. L’espressione, dunque, “diritto all’udienza preliminare” è certamente suggestiva, ma priva di contenuto.

3. La censura sub b) è manifestamente infondata.

Secondo il ricorrente, le intercettazioni non possono essere disposte per accertare la commissione di reati “futuribili” [così testualmente]. Ebbene, è agevole replicare che, ai sensi dell’art. 267 cpp, l’intercettazione è consentita quando emergano gravi indizi di reato (di quei reati di cui all’art. 266) e quando essa sia assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Altro non è richiesto.

Nel caso in esame, non è contestato che tali due presupposti sussistessero e, poiché l’attività criminosa era ancora in atto, le intercettazioni effettuate hanno consentito, non solo, di raccogliere elementi in relazione alla pregressa condotta contra jus, ma anche di accertare “in tempo reale” la consumazione di reati; reati, dunque, tutt’altro che “futuribili” o potenziali, ma certamente “in atto”.

Nessun rilievo poi può avere la errata giustificazione motivazionale. Trattandosi di questione processuale, quel che rileva è la corretta soluzione in diritto, quale che sia la motivazione che la sorregga.

4. Manifestamente infondate sono anche le censure sub c), j), r) e z), che possono essere analizzate insieme.

Gli artt. 244 e 247 del codice di rito sono relativi alle ispezioni e alle perquisizioni. Quando queste attività ricadono su “materiale informatico”, allora vanno adottate “misure tecniche atte ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione”.

Ebbene, quella che è stata definita una attività di pedinamento elettronico (ASN 201321644-RV 255542) nulla ha a che fare con gli istituti sopra ricordati (ispezioni e perquisizioni), meno che mai con l’attività di intercettazione (cfr. ASN 200424715-RV 228731).

Si tratta di una ordinaria attività di polizia giudiziaria, posta in essere con l’ausilio di strumenti tecnici e accompagnata, nel caso in scrutinio, da attività di intercettazione ambientale. Essa non è regolata da norme cogenti in riferimento ai dati raccolti.

I suoi risultati, per altro, sono veicolati nella istruttoria dibattimentale attraverso le dichiarazioni di chi ha effettuato e/o coordinato l’operazione di “pedinamento”.

Si tratta, pertanto, di un problema di attendibilità, non certo di utilizzabilità, né doveva essere attivata la procedura ex art. 360 cpp.

Sotto altro aspetto, sembra poco credibile che le autovetture della polizia siano insonorizzate, atteso che le intercettazioni ambientali sono state regolarmente espletate all’interno delle stesse, mentre, per quel che riguarda il consumo di carburante, la sentenza (pag. 6) afferma, non smentita, l’alterabilità della scheda stessa; peraltro, non è stato affermato (e tanto meno provato) che al momento del “passaggio di consegne” l’equipaggio smontante non fosse tenuto a riconsegnare il veicolo con “il pieno”.

In ogni caso, gli stessi ricorrenti affermano che il capo della squadra mobile (dott. C.) ha sostenuto che il supporto informatico (che sia indicato col termine corretto o con quello errato di “bobine”, non si vede quale rilievo possa avere) fu depositato presso l’Ufficio di Procura.

Per sostenere il contrario (ammesso che ciò possa avere incidenza), i ricorrenti avrebbero dovuto fornirsi della dichiarazione negativa della Segreteria del PM 9 procedente. La sentenza di appello, poi, parla di prova “complessa” (rectius avrebbe potuto dire “integrata”), nel senso che gli esiti di quanto accertato tramite le intercettazioni, il sistema GPS e il sistema Marathon devono essere (come sono stati) valutati globalmente e nel loro reciproco completarsi.

5. Le censure sub d) ed I) sono infondate.

Il comma 1 dell’art. 72 della legge 1.4.1981 n. 121 punisce l’appartenete alla polizia di Stato che, nel corso di operazioni di polizia o durante l’impiego in reparti organici, abbandoni il posto o il servizio o violi l’ordine e le disposizioni generali o particolari a lui impartite.

Sussiste poi l’aggravante di cui al comma 3 se dal fatto deriva la interruzione del servizio, ovvero grave danno.

Ebbene, la giurisprudenza di questa corte ha avuto modo di chiarire (ASN 201340613-RV 256977) che la fattispecie di cui al comma primo sanziona anche il semplice abbandono del posto di servizio nel corso dell’espletamento di specifici compiti di sorveglianza e che, per altro, rientra nella nozione di abbandono, non solo il materiale allontanamento dalla “porzione di territorio” nella quale il servizio avrebbe dovuto essere prestato, ma anche la mancata effettiva prestazione del servizio da parte del soggetto a ciò tenuto, anche se costui sia rimasto presente (ma inerte o assorbito da altra attività) in loco (ASN 201043412-RV 248673).

E poiché si ha interruzione del servizio quando esso viene a cessare o sia gravemente turbato nel suo regolare svolgimento, consegue che anche una parziale (ma significativa) discontinuità della attività configura il reato in questione, se, in tal maniera, vengono vanificate le misure organizzative approntate per il regolare svolgimento del servizio stesso.

Se dunque rimane accertato l’aliud agere dei componenti delle pattuglie – di volta in volta – incaricate del controllo del territorio, non è dubbio che il servizio debba ritenersi, appunto, interrotto.

D’altra parte, proprio perché il servizio di vigilanza va considerato unitariamente (come giustamente sottolineano i ricorrenti), il venir meno di una o più condotte di sorveglianza compromette l’intero sistema, in quanto rappresenta una falla dello stesso.

È poi certo che la squadra “volanti”, nel suo insieme, costituisca un reparto della polizia di Stato e che la attività di sistematico e programmato controllo del territorio ben possa essere definita operazione di polizia.

6. Manifestamente infondata è poi la censura sub e).

E’ chiaro che non esiste rapporto sinallagmatico tra il compimento del singolo atto lavorativo di un appartenete alla polizia di Stato e il quantum di stipendio che a detta condotta potrebbe virtualmente corrispondere, ma è altrettanto evidente che se, con cadenza non trascurabile, il predetto dipendete si sottrae agli obblighi lavorativi derivanti dal rapporto di servizio, lo stesso sta conseguendo un profitto ingiusto, con corrispondente danno dell’Amministrazione.

E se ciò avviene perché il soggetto pone in atto artifizi e/o raggiri, il delitto ex comma 2 n. 1 dell’art. 640 cp resta perfettamente integrato.

D’altra parte, già la risalente giurisprudenza di questa corte (ASN 199001121-RV 183150) ebbe modo di chiarire che configura il delitto di truffa (aggravata ai sensi dell’art. 640 n. 1 e 61 nn. 9 e 11 cp) il fatto del pubblico funzionario che abbandona il posto clandestinamente, celandolo a chi avrebbe dovuto esserne al corrente, per compiere un’attività incompatibile, nell’orario impegnato, con le incombenze sue proprie, inducendo in tal modo la P.A. a ritenere erroneamente che le mansioni proprie del suo dipendente fossero da questi regolarmente espletate e che, quindi, lo stesso avesse titolo alla retribuzione.

7. Quanto alla censura sub f), va ricordato che, ai sensi del comma 2 dell’art. 187 cpp, “sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali”.

Secondo l’assunto dei ricorrenti, la prova sulla inadeguatezza degli impianti esistenti negli uffici della Procura della Repubblica (e dunque la prova della correttezza dell’utilizzo di impianti “esterni”) era indispensabile, quindi decisiva.

Orbene, questa corte ha evidenziato come, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, il requisito dell’inidoneità o insufficienza degli impianti installati presso la Procura della Repubblica deve essere valutato tenendo conto della 10 relazione tra le caratteristiche delle operazioni di intercettazione da svolgere nel caso concreto e le finalità perseguite attraverso tale mezzo di ricerca della prova, per le quali risultano (sci!. possono risultare) inadeguati gli impianti dell’ufficio di Procura e necessario, invece, il ricorso alle apparecchiature esterne (ASN 200902930-RV 246128).

A ben vedere, tuttavia, una differenza tra la ipotesi di inadeguatezza e quella di insufficienza deve essere fatta: quanto alla prima, infatti, non di una mera verifica si tratta (come sarebbe se si discutesse della insufficienza o – a maggior ragione – della inesistenza di impianti), ma di una valutazione.

Si tratta cioè di apprezzare se gli impianti, pur esistenti, siano funzionali allo specifico scopo investigativo che, attraverso la intercettazione, si intende conseguire. Ma, se così stanno le cose (ed è difficile sostenere il contrario), ciò che rileva non è il “dato storico” quale è quello che potrebbe essere fornito dal funzionario addetto al settore (o, addirittura – a seguire il ragionamento dei ricorrenti – del responsabile comunale incaricato della regolazione economica della operazione), quanto piuttosto il giudizio di adeguatezza/inadeguatezza che sulle attrezzature deve appuntarsi.

E tale giudizio non può che essere reso palese se non attraverso la giustificazione argomentativa che se ne fornisce.

Si tratta, in ultima analisi, di un problema di motivazione e non di prova, per la buona ragione che non c’è alcun fatto da accertare, alcuna circostanza da dimostrare, ma – invece – si tratta di illustrare la relazione tra gli scopi (investigativi) da raggiungere e i mezzi (strumentali) necessari.

Se il giudice ritiene che tali mezzi siano in dotazione alla Procura, ovviamente nulla quaestio; se ritiene il contrario, egli deve dar conto del perché.

È dunque errato porre il problema in termini di rigetto della richiesta di approfondimento probatorio, dovendosi viceversa, come si è appena scritto, porre attenzione all’apparato motivazionale con il quale è stata giustificata la scelta.

E in ciò non può che farsi riferimento all’insegnamento delle SS.UU. sent. n. 919 del 26.11.2003 (dep. 19.1.2004, ric. Gatto, RV 226487), per la quale la motivazione deve specificare – sia pure in maniera sintetica – la ragione della inidoneità, purché ciò non si riduca alla riproduzione del testo di legge, dando, viceversa, conto delle concrete ragioni che hanno imposto il ricorso agli impianti esterni.

Ebbene, nel caso in esame, a pag. 28 della sentenza di appello viene riprodotto il testo dell’ordinanza dibattimentale con la quale fu rigettata la richiesta istruttoria di audizione di persone che avrebbero potuto riferire sugli impianti esistenti negli uffici di Procura.

Correttamente si fa osservare che costoro, al più, avrebbero potuto fornire notizie sulla disponibilità di tali impianti, non certo sulla loro idoneità (sci!. idoneità allo scopo per il quale essi dovevano essere utilizzati per quella particolare attività di indagine). Invero tale valutazione non avrebbe potuto essere richiesta, né al legale rappresentante della società che aveva noleggiato le apparecchiature, né ad altri soggetti “tecnici” (tale sembra essere un certo ing. L.i, di cui si legge a pag. 27), né allo stesso funzionario (S. G.), responsabile della sala intercettazioni della Procura della Repubblica, cui certamente non competeva alcun raffronto tra le potenzialità dei mezzi a disposizione e la loro funzionalità al raggiungimento degli scopi (a lui ignoti, ovviamente) per i quali avrebbero dovuto essere usati.

La censura sub f), dunque, per le ragioni sopra sintetizzate, è infondata.

8. Le censure sub g) ed x) sono manifestamente infondate. Non vi è ragione di ritenere che il PM non possa delegare alla polizia giudiziaria attività di accertamento, sia pure da compiersi all’interno del suo (del PM) Ufficio.

Ai sensi dell’art. 391 quater cpp, poi, il difensore, per l’espletamento delle sue indagini, “può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione e [può chiedere] di estrarne copia a sue spese”.

È però evidente che, in tal caso, nel concetto di “pubblica amministrazione” non può essere ricompresa anche un’altra parte processuale (anche se parte pubblica), vale a dire l’Ufficio del PM, se i documenti richiesti sono inerenti alla attività di indagine.

Diversamente ragionando, si consentirebbe a una parte di conoscere – anzitempo – le notizie, le informazioni e le strategie investigative dell’avversario processuale. Il che è palesemente assurdo e contrario alla ratio stessa del sistema accusatorio, anche perché il PM non potrebbe, a sua volta, rivolgere analoga richiesta alla difesa 11 dell’imputato e delle altre parti.

Quanto alla c. d. remotizzazione, è di tutta evidenza che essa rappresenta per l’inquirente una mera possibilità e non certo un obbligo.

9. La censura sub h) è a anche essa manifestamente infondata. Ai sensi del comma 2 dell’art. 266 cpp, l’intercettazione può avvenire nei luoghi indicati nell’art. 614 cp “solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo la attività criminosa”.

Ebbene, premesso che tale fondato motivo certamente ricorreva (come hanno dimostrato le intercettazioni stesse), va ricordato che l’abitacolo di un autoveicolo privato non può essere considerato luogo di privata dimora (ASN 201445512-RV 260760); meno che mai può esserlo quello di una vettura di servizio della polizia di Stato, sia perché a tali “luoghi” non fa riferimento l’art. 614 cp, sia perché esso è luogo di lavoro, non solo per chi vi si trova al momento della intercettazione, ma anche per chi, pur non presente in esso, sta coordinando il servizio.

D’altra parte, sostenere che la intercettazione “sul luogo di lavoro” debba essere effettuata con il benestare delle associazioni sindacali (a ciò condurrebbe lo sviluppo “logico” della premessa sulla quale si basa la censura in esame) sarebbe affermazione al limite del grottesco.

10. La censura sub i) è manifestamente infondata.

La sentenza in questione chiarisce come il convincimento dei giudicanti si sia formato su di una “prova complessa” e come gli esiti degli accertamenti GPS si integrino con la prova scaturente dall’analisi del contenuto delle intercettazioni effettuate, le quali dunque erano effettivamente indispensabili per il prosieguo delle indagini.

Si tratta di motivazione compiuta e congrua a fronte dell’orientamento di giurisprudenza (ASN 200349119 – RV 227708) che ha puntualizzato che l’assoluta indispensabilità delle operazioni ai fini della prosecuzione delle indagini – cui l’art. 267 comma 1 cpp subordina tra l’altro il rilascio dell’autorizzazione giudiziale – è questione rimessa alla valutazione esclusiva del giudice di merito, la cui decisione può essere censurata, in sede di legittimità, sotto il solo profilo della manifesta illogicità della motivazione.

11. La censura sub k) è manifestamente infondata e, si potrebbe dire, al limite della provocazione.

È evidente (dovrebbe esserlo) che tanto il capo della squadra mobile, quanto il questore stavano adempiendo al loro dovere (art. 51 cp) in virtù della delega conferita dal PM.

Diversamente ragionando, anche lo stesso sostituto procuratore avrebbe dovuto essere iscritto nel registro degli indagati in quanto concorrente nei delitti sui quali stava svolgendo (e delegando) attività di indagine, o come favoreggiatore degli stessi. L’assunto sarebbe grave, se non fosse assurdo.

12. Le censure sub m) ed u) – in aperto contrasto, per altro, con quello che hanno sostenuto altri ricorrenti (cfr. censura sub e) – sono infondate.

Il documento col quale gli appartenenti alla polizia di Stato danno atto del servizio svolto e dell’esito dello stesso è – e non può non essere – atto pubblico, anche se non allegato alla relazione di servizio. Irrilevante è il fatto che esso non sia normativamente previsto, ma sia stato istituito per disposizione di un superiore gerarchico; resta il fatto che, in tale atto – la cui compilazione costituisce una specifico dovere di ufficio, appunto perché imposto da una disposizione organizzativa emanata da chi aveva il potere di farlo – il pubblico ufficiale è tenuto ad attestare il vero.

Così è stato ritenuto per le relazioni di servizio degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria (ASN 201238085- RV 253543), così è stato ritenuto, ancor più significativamente, per il memoriale giornaliero dei Carabinieri (ASN 200914902- RV 243607).

Per quanto specificamente riguarda la figura dell’autista, è pur vero che lo stesso non è il materiale redattore della scheda, ma non può essere ignorato che costui era pienamente consapevole della falsità della dichiarazione che il collega andava a redigere, dichiarazione che riguardava anche il suo (dell’autista) operato. Il ruolo di P.U. che anche egli rivestiva gli imponeva di opporsi efficacemente alla consumazione del reato in questione.

Non si tratta dunque di passiva connivenza, ma di significativa partecipazione (sia pure connotata da condotta omissiva).

13. Le censure sub n) e v) sono manifestamente infondate.

Quella sub n), per altro, è formulata in modo non del tutto comprensibile. Invero a pag. 103 del ricorso dell’avv. Zarbo e a pag. 76 del ricorso dell’avv. Malasomma si legge testualmente “è evidente che se la scheda obiettivi (per la qualificazione dell’abbandono del posto e del delitto di falso acquisisce valore di atto pubblico e non di mero brogliaccio, come confermato dal questore) è evidente che l’induzione in errore non si è verificata e la vittima ha voluto disporre del suo patrimonio per ragioni indipendenti dal raggiro subito. Con la conseguenza che non ricorre l’elemento materiale del delitto ascritto”.

Orbene, sembra di poter intendere il brano nel senso che alla causazione del danno alla Amministrazione avrebbero dato corso, non solo gli imputati, ma anche i loro superiori, i quali, consapevoli dell’inganno e dell’indebita percezione dei compensi, non sono intervenuti per interrompere l’attività criminosa, ma hanno consapevolmente consentito l’esborso. Il presupposto, a ben vedere, è il medesimo che “ispira” la censura sub k) ed è parimenti fallace.

L’attività di indagine in corso imponeva il silenzio ai superiori degli imputati, i quali erano anche gli inquirenti per delega del PM. Costoro – doverosamente – non hanno informato gli organi della Amministrazione delegati alla quantificazione e al pagamento degli stipendi ai dipendenti. Gli artifizi – evidentemente – consistettero nelle false attestazioni contenute nelle schede-obiettivo.

14. La censura sub o), nella parte in cui fa riferimento alla pretesa erronea applicazione dell’art. 430 cpp è manifestamente infondata, in quanto confonde il concetto di sufficienza con quello di completezza.

Se gli elementi raccolti sono sufficienti per richiedere il giudizio immediato, il PM può determinarsi in tal senso, ma nulla vieta di completare la attività di indagine, appunto, ai sensi dell’art. 430 del codice di rito.

Nella residua parte la censura (sostanzialmente sovrapponibile a quella sub a) è infondata per le ragioni espresse al superiore punto 2.

15. La censura sub p) è manifestamente infondata. è previsto che il fascicolo del dibattimento si formi con il contributo (eventuale) delle parti (art. 431 cpp).

Le questioni concernenti la sua formazione devono essere proposte subito dopo gli accertamenti sulla costituzione delle parti (art. 491 commi 1 e 2 cpp). Tali questioni non possono quindi certamente essere proposte per la prima volta con il ricorso per cassazione.

16. Complessivamente infondata è la censura sub q). Le ragioni di eccezionale urgenza, come si evince dal testo della sentenza impugnata (e di quella di appoello), risiedevano – quantomeno – nel fatto che l’attività criminosa era in corso. Il fatto che il dott. C. fosse, ad un tempo, superiore gerarchico degli indagati e delegato alle indagini non si vede (né è adeguatamente chiarito) quale rilievo possa avere.

È poi ovvio che in sentenza sia riportata solo parte delle conversazioni intercettate, ma l’intero compendio era a disposizione dei difensori, i quali dunque avrebbero potuto valorizzare le conversazioni che, a loro parere, avrebbero militato a favore dei loro assistiti.

Definire poi genericamente inattendibile il contenuto delle conversazioni utilizzate dai giudici di merito costituisce – ad evidenza – censura del tutto aspecifica. Quanto alle residue doglianze, si richiama quanto premesso ai punti 7 e 8.

17. Le censure sub s) ed y) sono infondate.

La attività integrativa di indagine si espleta, di regola, nella raccolta di nuove fonti di prova e nella successiva produzione delle stesse in dibattimento.

Naturalmente, poiché il più contiene il meno, non vi è alcuna ragione logica o giuridica perché non possano essere introdotte fonti di prova già raccolte, ma, per qualsiasi ragione, non ancora “offerte” ai giudicanti.

È appena il caso di sottolineare che l’art. 430 cpp, al primo comma, faculta tutte le parti (esplicitamente vengono indicati tanto il PM quanto i difensori) ad integrare le loro indagini, al secondo, impone il deposito del materiale probatorio 13 così raccolto per consentire un reale contraddittorio su di esso al momento dell’ammissione.

Dunque: i difensori degli indagati ben avrebbero potuto, da un lato, sviluppare – eventualmente – loro attività di indagine in merito, dall’altro, compiutamente argomentare sul “contenuto” e la significatività del “materiale” successivamente introdotto dal PM.

Quanto alla doglianza per il mancato espletamento della perizia, è noto che essa è mezzo di prova neutro ed è sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze. La sua assunzione è pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non è sanzionabile ai sensi dell’ad 606 lett d) cpp. e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell’ad 606 lett e) cpp (ASN 200136290-RV 219745).

18. La censura sub t) è manifestamente infondata.

La fattispecie incriminatrice ex art. 340 cp costituisce chiaramente una norma di chiusura, come reso evidente dall’inciso “fuori dai casi preveduti da particolari disposizioni di legge”, casi nei quali è certamente inquadrabile quello di cui all’art. 72 della legge 121/1981.

Le argomentazioni “di contorno” (possibilità che gli agenti siano rientrati in Questura per rifocillarsi o soddisfare bisogni fisiologici), oltre ad essere formulate come mere eventualità, costituiscono considerazioni in fatto, non ammissibili in questa sede.

19. La censura sub aa) è articolata in fatto e tendente a richiedere a questa corte di legittimità una (ri-)valutazione del materiale probatorio utilizzato dai giudici del merito.

Come tale, essa è inammissibile. Sostenere, per altro, che le disposizioni dei superiori gerarchici (asetticamente definite “meri schemi organizzativi”) non abbiano natura vincolante costituisce una palese assurdità, tanto più se ci si riferisce ad un corpo di polizia con funzione di controllo del territorio e con compiti di prevenzione/repressione dei reati e di tutela dell’ordine pubblico.

20. La censura sub bb), nella parte “sovrapponibile” alle censure sub m) ed u), è infondata per i motivi sopra illustrati.

Quanto al fatto che la non corrispondenza al vero di quanto annotato nelle schede-obiettivo potrebbe essere frutto di impreciso ricordo, è da notare che dette schede, se pure non compilate (come è ovvio) contestualmente allo svolgimento del servizio, non potevano che essere compilate subito dopo la sua conclusione, in quanto, in ‘genere, allegate alla relativa relazione, che mai avrebbe potuto essere depositata a distanza di giorni.

Ciò rende certamente non credibile che gli operanti possano avere (per altro sistematicamente) mal ricordato ciò che, poche ore prima, avevano fatto. Per altro, tale versione difensiva, per quanto si legge nella sentenza di appello, non risulta, a suo tempo, prospettata ai giudici del merito.

21. La censura sub cc) ha carattere meramente congetturale, essa dunque è inammissibile.

Fatto sta che, a quanto risulta, E. e B. non hanno fornito giustificazione alcuna in relazione alle ragioni per le quali non hanno eseguito (ovvero hanno eseguito solo parzialmente) un ordine loro legittimamente impartito.

P.Q.M

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma in data 25 novembre 2015.