Impossessamento di reperti, no alla particolare tenuità anche se il valore è modesto (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 22 aprile 2020, n. 12653).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. GAI Emanuela – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. CORBETTA Stefano –  Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

Nista Claudio, nato a San Paolo Di Civitate il xx/xx/xxxx;

Focarete Incoronata, nata a Torremaggiore il xx/xx/xxxx;

avverso la sentenza del 07/02/2019 della Corte di appello di Bari;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Stefano Corbetta;

letta le requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Pasquale Fimiani, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

udito il difensore, avv. Colucci che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Bari Torino confermava la pronuncia resa dal Tribunale di Foggia e appellata dagli imputati, che aveva condannato Claudio Nista e Incoronata Focarete alla pena di giustizia, perché ritenuto responsabili di concorso nel reato di cui all’art. 176, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, loro contestato per esseri impossessati di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto da ritenersi reperti di interesse storico e archeologico, costituiti da cinque monete, di cui una in argento risalente al II secolo a.C. e un frammento di moneta in bronzo ossidato, nonché da una serie di oggetti (un orecchino in bronzo, un bracciale, una spilla, un peso da telaio in terracotta, due olle, uno stamnos, due cantaros integri, uno skphios, una bocchetta tribolata, una bocchetta integra, una olla rotta) tutti del IV secolo a.C. Con la medesima decisione, i due imputati venivano assolti dal reato di ricettazione di beni culturali appartenenti allo Stato perché il fatto non sussiste.

2. Avverso l’indicata sentenza, gli imputati, per il tramite del comune difensore di fiducia, con un unico atto propongono ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 10 e 13 d.lgs. n. 42 del 2004.

Ad avviso dei ricorrenti, la Corte territoriale avrebbe erroneamente interpretato gli artt. 10 e 13 d.lgs. n. 42 del 2004, a cui fa rinvio l’art. 176, in quanto, ai fini della sussistenza del reato sarebbe sempre necessaria la dichiarazione di interesse culturale prevista dal comma 3, lett. a) dell’art. 10. In ogni caso, difetterebbe la prova sia dell’illegittimità del possesso dei beni culturali, sia dell’elemento soggettivo.

2.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. in ordine alla valutazione delle prove.

La Corte territoriale, argomentano i ricorrenti, avrebbe erroneamente rigettato la prospettazione difensiva, secondo cui i beni in esami sono stati acquisiti iure hereditario, in quanto, per un verso, la denuncia di successione era stata omessa in considerazione della tenuità del valore dei beni, e, per altro, verso, sui reperti sarebbe presente materiale di incrostazione, come dichiarato dal teste Rinaldi, e non tracce di terriccio, come ritenuto dalla Corte territoriale.

2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 131-bis cod. pen.

Deducono i ricorrenti che la Corte d’appello avrebbe erroneamente negato il riconoscimento della causa di non punibilità in questione, nonostante l’eseguo valore dei reperti, stimato in soli 50 euro.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono infondati.

2. Il primo motivo è infondato.

2.1. Ai sensi dell’art. 176, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, chiunque si impossessa di beni culturali indicati nell’art. 10 appartenenti allo Stato ai sensi dell’art. 91 è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da Euro 31 a Euro 516,50.

2.2. L’art. 10, prevede, al comma 1, che “Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonchè ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”.

Il successivo comma 3 stabilisce, ai fini che qui rilevano, che “Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13:

a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1″.

2.3. Il quadro normativo è integrato dall’art. 91, comma 1, il quale prevede che “Le cose indicate nell’art. 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile, ai sensi degli artt. 822 e 826 c.c.”.

Tale ultima disposizione prevede che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo.

Conseguentemente, la disposizione di cui all’art. 10, comma 3, contiene una previsione residuale, che trova applicazione per quelle cose di interesse archeologico non ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini e che, quindi, non appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato.

3. Da tale complesso di disposizioni deriva che esistono due categorie di cose di interesse archeologico (quali, come nella specie, monete, monili, vasellame) che devono essere considerate “beni culturali”, il cui impossessamento è sanzionato penalmente dall’art. 176 d.lgs. n. 42 del 2004:

1) le cose ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, perché, in tal caso, esse appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato, trattandosi, per definizione, di “cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico o artistico”;

2) le cose per le quali, al di fuori del caso che precede (ossia per quelle non ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini e che, quindi, non appartengono allo Stato) sia intervenuta la dichiarazione di cui all’art. 13 d.lgs. n. 42 del 2004.

4. Nel caso di specie, la Corte si è attenuta ai principi ora indicati, avendo correttamente escluso la necessità della dichiarazione di cui all’art. 13 d.lgs. n. 42 del 2004, come opinato dal ricorrente, in quanto i beni in questione, in quanto rinvenuti nel sottosuolo, appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato e, conseguentemente, essendo stati rinvenuti nella disponibilità dei ricorrenti, a costoro è stata correttamente ascritta la fattispecie di cui all’art. 176, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.

5. Il secondo motivo è inammissibile perché fattuale. Invero, la Corte territoriale ha accertato, con apprezzamento fattuale logicamente motivato – e quindi insindacabile in questa sede di legittimità – che su alcuni reperti erano stati trovati del terriccio e delle incrostazioni, da ciò desumendo la loro provenienza dagli scavi clandestini operanti in zona, nota per i suolo insediamenti risalenti anche ad epoca preromana.

E tanto basta per confutare la prospettazione difensiva secondo cui i reperti in esami erano stati acquisti dai ricorrenti per successione ereditaria, conclusione peraltro confermata, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, dall’assenza di qualsivoglia denuncia di successione ereditaria alle competenti autorità.

6. Il terzo motivo è infondato.

6.1. La speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen. – applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta – è configurabile in presenza di una duplice condizione, essendo congiuntamente richieste la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.

Il primo dei due requisiti richiede, a sua volta, la specifica valutazione della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 cod. pen., cui segue, in caso di vaglio positivo – e dunque nella sola ipotesi in cui si sia ritenuta la speciale tenuità dell’offesa -, la verifica della non abitualità del comportamento, che il legislatore esclude nel caso in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

6.2. Con riferimento, in particolare, alla speciale tenuità dell’offesa, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che prenda in esame tutte le peculiarità della fattispecie concreta riferite alla condotta in termini di possibile disvalore e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto, che comunque ricorre senza distinzione tra reati di danni e reati di pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 – dep. 06/04/2016, Tushaj, Rv. 266590).

6.3. Nel caso in esame, la Corte territoriale, con apprezzamento fattuale logicamente motivato, ha escluso correttamente la sussistenza dei presupposti applicativi della speciale causa di non punibilità in esame, individuando, quale elemento ostativo presente nella fattispecie concreta, il fatto che i reperti in esame, pur di modesto valore economico, provengano da scavi clandestini, e quindi da una vero e proprio saccheggio di un patrimonio della collettività.

7. Per i motivi indicati, i ricorsi devono essere rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 21/02/2020.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.