In tema di ricorso per cassazione, va recepita e applicata anche in sede penale la teoria della “autosufficienza del ricorso”, elaborata in sede civile; ne consegue che, quando i motivi riguardino specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, e’ onere del ricorrente suffragare la validita’ del suo assunto mediante l’allegazione o la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati, non potendo egli limitarsi ad invitare la Corte Suprema alla lettura degli atti indicati, posto che anche in sede penale e’ precluso al giudice di legittimita’ l’esame diretto degli atti del processo.

(Corte di Cassazione, sezione II penale, sentenza 14 ottobre 2016, n. 43585)

…, omissis …

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 2704/2011 CORTE APPELLO di BARI, del 21/02/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso.

udita in PUBBLICA UDIENZA del 24/06/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. BELTRANI Giovanni;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. CARDIA Delia che ha concluso per l’annullamento con rinvio delle sentenze impugnate previa riqualificazione ex articolo 393 c.p. del fatti contestati, per la rideterminazione della pena, con rigetto nel resto;

il difensore della parte civile ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi il ricorso, riportandosi alle conclusioni scritte con nota spese che ha depositato;

il difensore dell’imputato ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Bari ha confermato in toto la sentenza emessa in data 15.11.2010 dal GUP del Tribunale di Trani, che aveva dichiarato (OMISSIS), in atti generalizzato, colpevole dei reati di cui all’articolo 629 c.p., articolo 483 c.p. e articolo 2636 c.c., unificati dal vincolo della continuazione, come in dettaglio indicato nel capo di imputazione in atti, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, con le statuizioni accessorie, anche in favore delle parti civili (l’imputato, quale presidente di una cooperativa edilizia, avrebbe ingiustamente minacciato i soci di escluderli dalla cooperativa stessa e di far, quindi, perdere l’assegnazione degli alloggi a ciascuno spettanti in un edificio in costruzione, per indurli a non opporsi all’assegnazione in suo favore di determinati locali posti al piano terra del medesimo edificio).

2. Contro tale provvedimento, l’imputato (con l’ausilio di un difensore iscritto nell’apposito albo speciale) ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1: violazione di legge e vizio di motivazione quanto all’affermazione di responsabilita’, alla configurabilita’ della circostanza aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 2, ed alla quantificazione della provvisionale liquidata in favore delle parti civili.

2.1. L’imputato lamenta, in particolare, che il reato contestato potrebbe, al piu’, integrare in diritto gli estremi di quello di cui all’articolo 393 c.p., essendo egli convinto della bonta’ delle proprie ragioni quanto al suo diritto all’assegnazione dei locali controversi, a nulla rilevando, in ipotesi, l’infondatezza delle stesse; quanto all’azionabilita’ della pretesa, ricorda che era intervenuto inter partes un lodo arbitrale, sopraggiunto rispetto all’originaria denunzia penale delle presunte parti lese e non ancora definitivo; ne’ potrebbe assumere rilievo, ai fini della qualificazione giuridica del fatto contestato, la maggiore o minore gravita’ della minaccia; la ritenuta estorsione si sarebbe, in ogni caso, risolta in un mero tentativo, non avendo l’imputato conseguito l’ingiusto profitto in ipotesi perseguito. Lamenta, inoltre, mancanza di motivazione in ordine ad una serie di deduzioni difensive.

Con riferimento agli ulteriori reati, lamenta omessa motivazione quanto alle doglianze di cui a f. 15 e 17 dell’atto di appello, per quanto in particolare riguarda l’insussistenza del fine di perseguire un ingiusto profitto, che deve integrare l’elemento psicologico del reato di cui all’articolo 2636 c.c., e l’inesistenza del presunto smarrimento del registro delle assemblee dei soci, in realta’ gia’ ritrovato dall’imputato e dallo stesso esibito agli ispettori: cio’ farebbe venire meno la configurabilita’ del reato (invoca, sul punto, l’intervenuto travisamento di quanto risultante ex actis). Conseguentemente, non sarebbe configurabile la circostanza aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 2.

Quanto alle statuizioni civili, l’imputato lamenta, infine, l’immotivata quantificazione della provvisionale.

3. In data 8.6.2016 e’ stata depositata nell’interesse del ricorrente una memoria intestata “motivi nuovi” ma in realta’ reiterativa, con esposizione riepilogativa, delle doglianze gia’ formulate.

3.1. L’imputato reitera, infatti, le doglianze riguardanti la non configurabilita’ dell’estorsione, rievocando le intervenute, complesse, vicende civilistiche, concludendo che le pp.oo. non potevano vantare alcuna pretesa legittima sui locali siti al piano terra dell’edificio de quo; quanto al reato di falso, sin dal 14.11.2006 l’imputato aveva denunciato il sopravvenuto (rispetto all’iniziale denuncia di smarrimento) rinvenimento del registro di cui trattasi, prima che lo stesso fosse ritrovato dalla P.G. operante: quanto in proposito risultante dal verbale esibito in Corte di appello all’udienza 13.11.2012 non sarebbe stato considerato dalla sentenza impugnata, senza alcuna motivazione.

4. All’odierna udienza pubblica, e’ stata verificata la regolarita’ degli avvisi di rito: all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, ed il collegio riunito in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.

Considerato in diritto

La sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui all’articolo 483 c.p., dal quale l’imputato deve essere assolto perche’ il fatto non costituisce reato (con eliminazione della relativa pena, e rideterminazione di quella da irrogare); il ricorso va, nel resto, dichiarato inammissibile.

I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA’ SULLA MOTIVAZIONE;

1. E’ necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di legittimita’ sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che, a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la possibilita’, per il giudice della legittimita’, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella gia’ effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimita’ limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si e’ avvalso per giustificare il suo convincimento.

1.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni processuali puo’, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. “travisamento della prova” (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessita’ che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisivita’ nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purche’ siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessita’ di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.

Permane, al contrario, la non deducibilita’, nel giudizio di legittimita’, del travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6, sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).

1.1.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), intenda far valere il vizio di “travisamento della prova deve, a pena di inammissibilita’ (Cass. pen., Sez. 1, sentenza n. 20344 del 18 maggio 2006, CED Cass. n. 234115; Sez. 6, sentenza n. 45036 del 2 dicembre 2010, CED Cass. n. 249035):

(a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la doglianza;

(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;

(c) dare la prova della verita’ dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonche’ dell’effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;

(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilita’” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

1.1.2. In proposito, puo’ ritenersi ormai consolidato, nella giurisprudenza di legittimita’, il principio della c.d. “autosufficienza del ricorso”, inizialmente elaborato dalle Sezioni civili di questa Corte Suprema.

Valorizzando dapprima la formulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (a norma del quale le sentenze pronunziate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione: “(…) 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio”; la disposizione stabilisce attualmente, all’esito delle modifiche apportate dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, convertito in L. n. 134 del 2012, che le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione “(…) 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti”), ed attualmente la formulazione (introdotta dal Decreto Legislativo n. 40 del 2006) dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a norma del quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilita’: “(…) 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”), si e’ osservato che il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile in generale, in relazione al principio dell’autosufficienza, che lo connota, quando da esso, pur mancando l’esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di avere adeguata contezza, senza necessita’ di utilizzare atti diversi dal ricorso, della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle ragioni che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo esse univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte (Cass. civ. Sez. 2, sentenza 2 dicembre 2005, n. 26234, CED Cass. n. 585217; Sez. lav., sentenza 17 agosto 2012, n. 14561, CED Cass. n. 623618).

Tenuto conto dei principi e delle finalita’ complessivamente sottesi al giudizio di legittimita’, questa Corte Suprema ha gia’ ritenuto che “la teoria dell’autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba essere recepita e applicata anche in sede penale con la conseguenza che, quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, e’ onere del ricorrente suffragare la validita’ del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato gia’ dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale – in virtu’ del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato -deve ritenersi precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso” (Sez. 1, sentenza n. 16706 del 18 marzo – 22 aprile 2008, CED Cass. n. 240123; Sez. 1, sentenza n. 6112 del 22 gennaio – 12 febbraio 2009, CED Cass. n. 243225; Sez. 5, sentenza n. 11910 del 22 gennaio – 26 marzo 2010, CED Cass. n. 246552, per la quale e’ inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicita’ della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, cosi’ da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze; Sez. 6, sentenza n. 29263 dell’ 8 – 26 luglio 2010, CED Cass. n. 248192, per la quale il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilita’ e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non puo’ limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto e’ alla stessa precluso; Sez. 2, sentenza n. 25315 del 20 marzo – 27 giugno 2012, CED Cass. n. 253073, per la quale in tema di ricorso per cassazione, e’ onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni effettuate, indicare l’atto asseritamene affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimita’ o anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione).

In proposito, va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto:

“In tema di ricorso per cassazione, va recepita e applicata anche in sede penale la teoria della “autosufficienza del ricorso”, elaborata in sede civile; ne consegue che, quando i motivi riguardino specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, e’ onere del ricorrente suffragare la validita’ del suo assunto mediante l’allegazione o la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati, non potendo egli limitarsi ad invitare la Corte Suprema alla lettura degli atti indicati, posto che anche in sede penale e’ precluso al giudice di legittimita’ l’esame diretto degli atti del processo”.

1.2. La mancanza, l’illogicita’ e la contraddittorieta’ della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimita’, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimita’ al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purche’ siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validita’, e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez. un., sentenza n. 24 del 24 novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un., sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED Cass. n. 216260; Sez. un., sentenza n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).

Devono tuttora escludersi la possibilita’, per il giudice di legittimita’, di “un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonche’ i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi” (Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 14624 del 20 marzo 2006, CED Cass. n. 233621; Sez. 2, sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789), e di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. 6, sentenza n. 27429 del 4 luglio 2006, CED Cass. n. 234559; Sez. 6, sentenza n. 25255 del 14 febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).

1.3. Il giudice di legittimita’ ha, pertanto, ai sensi del novellato articolo 606 c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 35964 del 28 settembre 2006, CED Cass. n. 234622; Sez. 3, sentenza n. 39729 del 18 giugno 2009, CED Cass. n. 244623; Sez. 5, sentenza n. 39048 del 25 settembre 2007, CED Cass. n. 238215; Sez. 2 sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789):

(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra individuati);

(b) la decisivita’ del materiale probatorio richiamato (che deve essere tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da determinare almeno una complessiva incongruita’ della motivazione);

(c) l’esistenza di una radicale incompatibilita’ con l’iter motivazionale seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto;

(d) la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d. “travisamento del fatto”, ma solo qualora la difformita’ della realta’ storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu oculi ed assuma anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non e’ sindacabile in sede di legittimita’ se non manifestamente illogico e, quindi, anche contraddittorio).

1.4. Va, infine, evidenziato che non e’ denunciabile il vizio di motivazione con riferimento a questioni di diritto.

1.4.1. Invero, come piu’ volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. 2, sentenze n. 3706 del 21. – 27 gennaio 2009, CED Cass. n. 242634, e n. 19696 del 20 – 25 maggio 2010, CED Cass. n. 247123), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. 4, sentenza n. 6243 del 7 marzo – 24 maggio 1988, CED Cass. n. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimita’ e’ solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacche’ ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non puo’ sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano.

E, d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneita’ degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. 4, sentenza n. 4173 del 22 febbraio – 13 aprile 1994, CED Cass. n. 197993).

Va, pertanto, ribadito il seguente principio di diritto:

“nel giudizio di legittimita’ il vizio di motivazione non e’ denunciabile con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta. D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere soltanto dall’errata soluzione delle suddette questioni, non dall’indicazione di ragioni errate a sostegno di una soluzione comunque giuridicamente corretta).

1.5. E’ anche inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell’articolo 192 c.p.p., anche se in relazione all’articolo 125 c.p.p., e articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera e), per censurare l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in quanto i limiti all’ammissibilita’ delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullita’ (Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 45249 dell’8 novembre 2012, CED Cass. n. 254274).

La necessaria specificità del ricorso per Cassazione;

2. La giurisprudenza di questa Corte Suprema e’, condivisibilmente, orientata nel senso dell’inammissibilita’, per difetto di specificita’, del ricorso presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa (Sez. 6, sentenza n. 32227 del 16 luglio 2010, CED Cass. n. 248037: nella fattispecie il ricorrente aveva lamentato la “mancanza e/o insufficienza e/o illogicita’ della motivazione” in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a fondamento di un’ordinanza applicativa di misura cautelare personale; Sez. 6, sentenza n. 800 del 6 dicembre 2011 – 12 gennaio 2012, Bidognetti ed altri, CED Cass. n. 251528).

Invero, l’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per “mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.

La disposizione, se letta in combinazione con l’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera c), (a norma del quale e’ onere del ricorrente “enunciare i motivi del ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”) evidenzia che non puo’ ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorieta’ od alla manifesta illogicita’ ovvero a una pluralita’ di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.

Il principio e’ stato piu’ recentemente accolto anche da questa sezione, a parere della quale “E’ inammissibile, per difetto di specificita’, il ricorso nel quale siano prospettati vizi di motivazione del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure siano riferite alla mancanza, alla contraddittorieta’ od alla manifesta illogicita’ ovvero a piu’ di uno tra tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame” (Sez. 2, sentenza n. 31811 dell’8 maggio 2012, CED Cass. n. 254329).

Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione risulta priva della necessaria specificita’, il che rende il ricorso inammissibile.

2.1. Infine, secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. 4, sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. 6, sentenza n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), e’ inammissibile per difetto di specificita’ il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al piu’ con l’aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtu’ delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.

2.1.1. Si e’, infatti, esattamente osservato (Sez. 6, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che “La funzione tipica dell’impugnazione e’ quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilita’ (articoli 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione e’, pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioe’ con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta).

2.1.2. Il motivo di ricorso in cassazione e’ caratterizzato da una “duplice specificita’”: “Deve essere si’ anch’esso conforme all’articolo 581 c.p.p., lettera c, (e quindi contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell’impugnazione); ma quando “attacca” le ragioni che sorreggono la decisione deve, altresi’, contemporaneamente enucleare in modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisivita’ rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, si’ da condurre a decisione differente” (Sez. 6, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).

2.1.3. Risulta, pertanto, evidente che, “se il motivo di ricorso si limita a riprodurre il motivo d’appello, per cio’ solo si destina all’inammissibilita’, venendo meno in radice l’unica funzione per la quale e’ previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmente “attaccato”, lungi dall’essere destinatario di specifica critica argomentata, e’ di fatto del tutto ignorato. Ne’ tale forma di redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica del motivo d’appello) potrebbe essere invocata come implicita denuncia del vizio di omessa motivazione da parte del giudice d’appello in ordine a quanto devolutogli nell’atto di impugnazione. Infatti, quand’anche effettivamente il giudice d’appello abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica del motivo d’appello condanna il motivo di ricorso all’inammissibilita’. E cio’ per almeno due ragioni. E’ censura di merito. Ma soprattutto (il che vale anche per l’ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d’appello) non e’ mediata dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa motivazione (e tanto piu’ nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a differenza della mancanza “grafica”, pretende la dimostrazione della sua mera “apparenza” rispetto ai temi tempestivamente e specificamente dedotti); denuncia che, come detto, e’ pure onerata dell’obbligo di argomentare la decisivita’ del vizio, tale da imporre diversa conclusione del caso”.

2.1.4. Puo’, pertanto, concludersi che “la riproduzione, totale o parziale, del motivo d’appello ben puo’ essere presente nel motivo di ricorso (ed in alcune circostanze costituisce incombente essenziale dell’adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso), ma solo quando cio’ serva a “documentare” il vizio enunciato e dedotto con autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che, ancora indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso e con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei principi consolidati in materia di “motivazione per relazione” nei provvedimenti giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei parametri della prima sentenza con i motivi d’appello e della seconda sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano piena applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione” (Sez. 6, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584).

La motivazione della sentenza d’appello;

3. Anche il giudice d’appello non e’ tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacche’ le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilita’ con la ricostruzione effettuata (per tutte, Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 1307 del 26 settembre 2002 – 14 gennaio 2003, CED Cass. n. 223061).

3.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di responsabilita’, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilita’ della motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli gia’ esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non e’ tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.

In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruita’ della motivazione, tanto piu’ ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicche’ le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entita’ (Cass. pen., Sez. 2, sentenza n. 1309 del 22 novembre 1993 – 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. 3, sentenza n. 13926 del 1 dicembre 2011 – 12 aprile 2012, CED Cass. n. 252615).

L’AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITA’ “OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO”.

4. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, presente nel testo novellato dell’articolo 533 c.p.p., quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di responsabilita’ dell’imputato, e’ opportuno evidenziare che, al di la’ dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui e’ permeato il nostro sistema processuale.

Si e’, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva piu’ che sostanziale, giacche’, in precedenza, il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’articolo 530 c.p.p., comma 2, sicche’ non si e’ in presenza di un diverso e piu’ rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma e’ stato ribadito il principio, gia’ in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere gia’ stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema – per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell’articolo 533 c.p.p.), secondo cui la condanna e’ possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilita’ dell’imputato (Cass. pen., Sez. 2 sentenza n. 19575 del 21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. 2, sentenza n. 16357 del 2 aprile 2008, CED Cass. n. 239795).

In argomento, si e’ piu’ recentemente, e conclusivamente, affermato (Sez. 2, sentenza n. 7035 del 9 novembre 2012 – 13 febbraio 2013, CED Cass. n. 254025) che “La previsione normativa della regola di giudizio dell’ “al di la’ di ogni ragionevole dubbio”, che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e piu’ restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilita’ dell’imputato”.

IL RICORSO;

5. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l’odierno ricorso.

5.1. Con riguardo alle plurime doglianze riguardanti presunti difetti di motivazione in ordine a censure formulate con l’atto di appello, asseritamente decisive, salvo quello che si dira’ nei §§ che seguono, non puo’ che farsi rinvio a quanto premesso nei §§ 3 ss. di queste Considerazioni in diritto.

5.2. Con riguardo al delitto di estorsione, deve premettersi che, secondo l’orientamento che il collegio condivide e ribadisce (fra le tante, Sez. 2, sentenza n. 33870 del 6 maggio 2014, CED Cass. n. 260344, e n. 34147 del 30 aprile 2014, CED Cass. n. 264628), i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione, pur caratterizzati da una materialita’ non esattamente sovrapponibile, si distinguono tendenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia.

In applicazione del principio, e’ stata, ad esempio, ritenuta la configurabilita’ del delitto di estorsione, e non di quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, nei confronti del creditore che eserciti una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, poiche’ egli e’ consapevole di porre in essere una condotta per ottenere il soddisfacimento di un profitto ingiusto, in quanto derivante da una pretesa contra ius (Sez. 2, sentenza n. 9931 del 9 marzo 2015, CED Cass. n. 262566), e con riguardo alla pretesa (esplicitata in piu’ occasioni con violenza e minacce) di ottenere, per conto di terzi creditori, l’adempimento di un debito dal padre del debitore, poiche’ essa non e’ tutelabile dinanzi l’Autorita’ giudiziaria, ma e’ diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Sez. 2, n. 16658 del 16 gennaio 2014, CED Cass. n. 259555).

5.2.1. Nel caso in esame, l’accertamento del fatto operato dalle due sentenze di merito, in proposito assolutamente conformi, non risulta, in concreto, contestato (si rinvia, in proposito, a quanto incensurabilmente osservato dalla Corte di appello a f. 4 ss. della sentenza impugnata): lo stesso ricorrente non deduce, al riguardo, decisivi ed effettivi travisamenti; quella che ne e’ contestata e’ la qualificazione giuridica.

Ma e’ proprio il ricorrente a travisare l’in se’ della contestazione: l’oggetto della contestazione non riguarda, infatti, di per se’, l’assegnazione dei due locali al piano terra dell’edificio in costruzione de quo, risultata in concreto realmente oggetto di una complessa controversia civilistica, in relazione alla quale sarebbe in ipotesi sostenibile, se non il fondamento delle pretese dell’imputato, quanto meno la sua convinzione circa il fondamento di esse. In realta’, come correttamente e con chiarezza osservato in piu’ punti dalla Corte di appello (in particolare, f. 5 ss.), e come sin dall’inizio enucleabile dalla contestazione, le minacce de quibus (in ordine alla cui effettivita’ lo stesso ricorrente nulla dice) avevano ad oggetto ritorsioni che nulla avevano a che fare con l’assegnazione dei soli locali controversi (l’estromissione dei soci nolenti dalla cooperativa, con quel che ne civilisticamente ne sarebbe conseguito quanto all’assegnazione dei diversi appartamenti – non condizionata ne’ condizionabile all’assegnazione all’imputato dei locali a piano terra che egli mirava, non e’ importante se a torto od a ragione, a conseguire -, alla quale i predetti avevano pacificamente diritto).

Risultava, quindi, certamente non tutelabile civilisticamente la presunta pretesa – non fondata su alcuna apprezzabile ragione in astratto sostenibile, e quindi di chiara matrice estorsiva – di ostacolare, fino ad impedire, l’assegnazione dei diversi appartamenti dell’edificio in costruzione ai soci che si fossero opposti all’assegnazione all’imputato dei due locali a piano terra che tanto gli stavano a cuore, procurando loro la perdita delle somme all’uopo anticipatamente versate.

5.2.2. Deve aggiungersi che la doglianza riguardante la presunta mancata consumazione del reato risulta proposta per la prima volta in questa sede (come e’ agevolmente verificabile dall’atto di appello, in tal modo interpretato anche dalla Corte di appello, che sul punto non a caso non si e’ pronunciata), e non e’ quindi consentita poiche’, pur riguardando la qualificazione in iure del fatto contestato, comporterebbe di necessita’ lo svolgimento per la prima volta in sede di legittimita’ di verifiche in fatto, e dei relativi apprezzamenti, in tal sede non consentiti ex novo.

5.2.3. Le complessive doglianze riguardanti la configurazione della contestata estorsione risultano, pertanto, nel complesso, inammissibili, in quanto in parte prive della necessaria specificita’, perche’ meramente reiterative di doglianze gia’ incensurabilmente esaminate e disattese dalla Corte di appello, e comunque manifestamente infondate, in parte non consentiteper la prima volta in sede di legittimita’, anche in considerazione dell’inammissibilita’ delle doglianze ritualmente formulate.

5.3. Anche le doglianze riguardanti la configurabilita’ del reato di cui all’articolo 2636 c.c., sono del tutto prive di specificita’ in quanto meramente reiterative, manifestamente infondate, e quindi inammissibili: il ricorrente in concreto non si confronta adeguatamente con la motivazione della Corte di appello che, dopo aver ricostruito l’intera vicenda (f. 5 ss.), anche riproponendo legittimamente le considerazioni del primo giudice, condivise perche’ suffragate dagli elementi di prova acquisiti, ha incensurabilmente concluso che “la strumentalita’ del reato ex articolo 2636 c.c., rispetto all’estorsione e’ evidente ed e’ con essa collegata finalisticamente”: invero, l’intera vicenda evidenzia l’esistenza alla base di una finalita’ dell’imputato di profitto ingiusto, consistente nel desiderio di vincere le resistenze – non importa se civilisticamente fondate od infondate – mosse in sede contenziosa, e quindi con strumenti legittimi, da alcuni soci all’assegnazione all’imputato dei locali fin qui piu’ volte citati, a sua volta ostacolando l’assegnazione ad essi di diversi locali, cui essi avevano diritto, e che nulla aveva a che vedere con quella dei locali che l’imputato aveva premura di conseguire.

5.4. Sono, al contrario, fondate le doglianze dell’imputato riguardanti l’affermazione di responsabilita’ in ordine al reato di cui all’articolo 483 c.p.: invero, il ricorrente offre documentazione di tutto quanto esposto in ricorso, ovvero della tempestiva dichiarazione, da parte sua, di ritrovamento del registro che per mera negligenza (e quindi in difetto del necessario dolo) aveva denunciato di avere smarrito, prima che lo stesso fosse ritrovato dalla P.G. operante.

Su cio’ la Corte di appello nulla aveva osservato.

5.4.1. La sentenza impugnata deve, quindi, essere annullata limitatamente al reato di cui all’articolo 483 c.p., dal quale l’imputato deve essere assolto perche’ il fatto non costituisce reato, con eliminazione del relativo aumento per la continuazione, tenuto anche conto della diminuente per il rito abbreviato, e rideterminazione della pena da irrogare all’imputato nella misura complessiva di anni due, mesi dieci, giorni venti di reclusione ed Euro trecentosessantasei di multa.

5.5. Inammissibile risulta anche la doglianza riguardante la configurabilita’ della circostanza aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 2, per la quale non risulta operato alcun aumento di pena, e non risulta esposto in ricorso alcun diverso interesse alla sollecitata decisione.

5.6. Non consentita e’ la doglianza riguardante la provvisionale (accordata in relazione alla sola vicenda estorsiva): questa Corte, con orientamento che il collegio condivide e ribadisce, ha gia’ evidenziato che non e’ impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27 gennaio 2015, CED Cass. n. 263486).

6. Riepilogando: la sentenza impugnata va impugnata senza rinvio limitatamente al reato di cui all’articolo 483 c.p., dal quale l’imputato va assolto perche’ il fatto non costituisce reato; va conseguentemente eliminata la relativa pena (tenuto anche conto della riduzione per il rito abbreviato), con rideterminazione di quella da irrogare all’imputato nella misura complessiva di anni due, mesi dieci, giorni venti di reclusione ed euro trecentosessantasei di multa, come da dispositivo.

Il ricorso va dichiarato nel resto inammissibile.

6.1. In virtu’ degli intervenuti periodi di sospensione, che ammontano nel complesso a giorni 294, il reato di cui all’articolo 2636 c.c., non e’ prescritto.

6.1.1. Peraltro, l’inammissibilita’ in parte qua del ricorso precluderebbe comunque la possibilita’ di rilevare d’ufficio la prescrizione del reato eventualmente maturata prima della sentenza di appello, ma non rilevata ne’ eccepita in quella sede o nei motivi di ricorso (Sezioni Unite, sentenza n. 12602 del 25 marzo 2016).

6.1.2. Ne’ potrebbe porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della inammissibilita’ in parte qua del ricorso. La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, piu’ volte chiarito che l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione “non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilita’ di rilevare e dichiarare le cause di non punibilita’ a norma dell’articolo 129 c.p.p.” (Cass. pen., Sez. un., sentenza n. 32 del 22 novembre 2000, CED Cass. n. 217266: nella specie, l’inammissibilita’ del ricorso era dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, e la prescrizione del reato era maturata successivamente alla data della sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. un., sentenza n. 23428 del 2 marzo 2005, CED Cass. n. 231164, e Sez. un., sentenza n. 19601 del 28 febbraio 2008, CED Cass. n. 239400).

6.1.3. Ad entrambi i fini innanzi indicati, non potrebbe, infatti, assumere rilievo l’intervenuto accoglimento delle sole censure riguardanti il reato di cui all’articolo 483 c.p.: all’udienza 27 maggio 2016, le Sezioni unite penali di questa Corte hanno, infatti, deciso che “in presenza di un ricorso per cassazione “cumulativo” riguardante plurimi ed autonomi capi di imputazione, per i quali sia sopravvenuto il decorso dei termini di prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di appello, l’ammissibilita’ del ricorso con riguardo ad uno o piu’ capi di imputazione, con conseguente declaratoria di estinzione dei rispettivi reati per prescrizione, non comporta l’estinzione per prescrizione anche degli altri reati di cui ai distinti ed autonomi capi per i quali, al contrario, il ricorso per cassazione risulti inammissibile”.

6.2. Il ricorrente (soccombente in riferimento alle doglianze mosse con riguardo al reato di estorsione) va condannato alla rifusione delle spese sostenute per questo grado di giudizio dalle parti civili, che si liquidano per la parte civile (OMISSIS) in euro tremilacinquecentodieci/00 oltre rimborso forfettario delle spese al 15%, C.P.A. ed I.V.A., e per le parti civili (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) complessivamente in euro seimilatrecentodiciotto/00, oltre rimborso forfettario delle spese al 15%, C.P.A. ed I.V.A..

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’articolo 483 c.p., perche’ il fatto non costituisce reato ed elimina la relativa pena.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Ridetermina la pena per i residui reati con la diminuente per il rito abbreviato in anni due, mesi dieci, giorni venti di reclusione ed euro trecentosessantasei/00 di multa.

Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute per questo grado di giudizio dalle parti civili, liquidate per la parte civile (OMISSIS) in Euro tremilacinquecentodieci/00 oltre rimborso forfettario delle spese al 15%, C.P.A. ed I.V.A., e per le parti civili (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) in euro seimilatrecentodiciotto/00, oltre rimborso forfettario delle spese al 15%, C.P.A. ed I.V.A..