La donna affida il proprio cane al suocero che, a distanza di giorni, viene trovato morto. Condannato l’uomo (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 27 aprile 2021, n. 15672).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAMACCI Luca – Presidente –

Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere –

Dott. MACRI’ Ubalda – Rel. Consigliere –

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –

Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) Angelo, nato a (OMISSIS) il 23/05/19xx;

avverso la sentenza in data 23/04/2018 del Tribunale di Brindisi;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Ubalda Macrì;

letta la memoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Luigi Giordano, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 23 aprile 2018 il Tribunale di Brindisi ha condannato Angelo (OMISSIS) alle pene di legge per il reato di cui all’art. 727 cod. pen., perché aveva abbandonato in aperta campagna un cane meticcio provvisto di microchip di proprietà della nuora.

2. L’imputato presenta un atto di appello riqualificato come ricorso per cassazione.

2.1. Con il primo motivo chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato perché la prova acquisita era contraddittoria.

Sostiene che aveva portato il cane fuori per una passeggiata e che l’animale era sfuggito al suo controllo.

Ritiene inattendibile la nuora per gli screzi che aveva avuto con il figlio.

Nega l’elemento soggettivo del dolo.

2.2. Con il secondo eccepisce l’omessa motivazione e invoca l’assoluzione ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.

2.3. Con il terzo lamenta l’eccesso di pena.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato perché consiste in generiche deduzioni di fatto che sono state già vagliate e disattese con adeguata motivazione giuridica nella sentenza impugnata.

Il Tribunale ha accertato che la proprietaria della cagnetta non sì era mai costituita parte civile e aveva persino rimesso la querela sporta nei confronti del suocero.

Inoltre, non vi erano motivi per ritenere non veri i fatti da lei esposti nella denuncia-querela, atteso che apparivano connotati da linearità, coerenza e plausibilità, a differenza delle dichiarazioni dell’imputato.

La donna, dopo aver descritto i rapporti tesi con il suocero, aveva infatti raccontato che l’uomo si era dichiarato disponibile, nonostante tutto, a custodire la cagnetta, ma il giorno in cui l’aveva chiesta indietro aveva risposto che era scappata.

Quindi lei l’aveva cercata per quattro giorni e poi l’aveva trovata morta. Alla notizia lui le aveva riso in faccia.

Il Giudice non ha ritenuto credibile invece l’imputato, dal momento che era caduto in contraddizione dicendo prima che l’animale era intestato al figliastro e poi alla nuora che l’aveva denunciato per non incorrere in responsabilità a causa della scomparsa dell’animale.

Tale circostanza non era stata ritenuta credibile perché, per andare esenti da responsabilità bastava dichiarare che la cagnetta era sfuggita alla custodia del suocero.

Di qui la prova logica della sussistenza dei presupposti del reato ascritto.

L’esile tesi difensiva non è idonea a disarticolare il ragionamento del Tribunale.

2. Va disatteso anche il secondo motivo sulla non particolare tenuità del fatto, perché la motivazione risulta implicitamente dalla pena irrogata in una misura superiore al minimo edittale, circostanza questa che costituisce chiaro indice della gravità della condotta.

3. Infine, per il terzo motivo sulla congruità della pena si ricorda che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, non è necessaria una motivazione approfondita se la pena è, come nella specie, al di sotto del minimo edittale (Cass., Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288).

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.

5. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso, il 15 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.