Maresciallo capo dei Carabinieri offende il prestigio e la dignità di un carabiniere scelto e di altro carabiniere, dicendo loro “io parlo solo col mio avvocato per me potete andare a fare in culo pure voi”.

(Corte di Cassazione penale, sez. I, sentenza 7 aprile 2017, n. 17830)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VECCHIO Massimo – Presidente –
Dott. TARDIO Angela – Consigliere –
Dott. SARACENO Rosa Anna – Consigliere –
Dott. BONI Monica – rel. Consigliere –
Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso proposto da:

T.S., N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 34/2016 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA, del 11/05/2016;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/01/2017 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONICA BONI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dr. FLAMINI Luigi Maria, che ha concluso per il rigetto del ricorso anche per la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 196 c.p.m.p..

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza resa l’11 maggio 2016 la Corte militare di Appello confermava la sentenza del Tribunale militare di Verona del 10 novembre 2015 che aveva condannato l’imputato T.S., previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di mese uno, giorni dieci di reclusione militare perchè ritenuto responsabile del delitto di ingiuria continuata ad inferiore aggravata, contestatogli perchè, nella qualità di maresciallo capo in servizio presso il Comando stazione Carabinieri di (OMISSIS), offendeva il prestigio e la dignità del carabiniere scelto S.M. e del carabiniere M.G.D., dicendo loro “io parlo solo col mio avvocato per me potete andare a fare in culo pure voi”.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato a mezzo del difensore, il quale ha dedotto i seguenti motivi:

a) incostituzionalità dell’art. 196 c.p.m.p., comma 2. Premesso che con D.Lgs. n. 7 del 2015 è stato abrogato, tra l’altro, il delitto di ingiuria di cui all’art. 594 c.p., che è perfettamente sovrapponibile a quella dell’art. 196 c.p.m.p., comma 2, la depenalizzazione avrebbe dovuto estendersi anche al reato militare, non essendovi alcuna ragione per mantenere tale disparità di trattamento; pertanto, dovranno essere trasmessi gli atti alla Corte costituzionale per la declaratoria di illegittimità costituzionale.

b) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.

La Corte di appello ha ritenuto che l’imputato fosse stato consapevole del grado dei militari intervenuti poichè in uniforme, ma non ha considerato che quando il S. gli aveva richiesto la consegna dell’arma egli era in stato di agitazione, era chiuso nella parte posteriore dell’auto della polizia, intento a sbattere la testa contro la divisoria interna del veicolo, per cui non vi è certezza che egli avesse percepito la qualità personale dei militari personali.

Nè alcuno ha richiesto a costoro se egli li avesse visti e riconosciuti nelle loro uniformi o se si fossero già conosciuti con l’imputato.

Ne discende che in applicazione del principio del “favor rei” avrebbe dovuto farsi applicazione dell’art. 226 c.p.m.p., che tuttavia richiede ai fini della procedibilità la domanda del comandante del Corpo, domanda che difetta nel caso.

La Corte di appello ha altresì escluso l’applicabilità della causa di punibilità di cui all’art. 199 c.p.m.p. per avere ritenuto che l’ingiuria non fosse estranea al servizio ed alla disciplina militare, cosa, invece, che avrebbe dovuto essere esclusa per il fatto che l’intervento dei militari non era stato funzionale al compimento di accertamenti in relazione al sinistro stradale, che il T. era libero dal servizio, non si era qualificato quale maresciallo ed era stato già ampiamente perquisito dal personale della Polizia di Stato, che aveva altresì controllato anche l’autovettura e le zone limitrofe, per cui non vi era alcuna ragione di prelevare l’arma di servizio.

Inoltre, non è condivisibile perchè assunta in violazione di legge la decisione di escludere l’applicabilità della causa di non punibilità della speciale tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., dal momento che: la pena prevista per il reato contestato è inferiore a cinque anni; la condotta è stata del tutto episodica ed istantanea; l’offesa al bene giuridico è di particolare tenuità anche in relazione all’intervenuta depenalizzazione del parallelo reato di ingiuria.

Per contro, secondo la Corte di appello la condotta sarebbe stata protratta per un tempo considerevole, l’imputato aveva posto in essere condotte autolesionistiche, non compatibile con lo “status” di ufficiale di polizia giudiziaria, il che contrasta con l’unicità della violazione commessa.

Considerato in diritto

Il ricorso è parzialmente fondato e merita accoglimento nei limiti in seguito specificati.

1.La questione di legittimità costituzionale dell’art. 196 c.p.m.p., comma 2, sollevata col primo motivo di ricorso, è inammissibile, sia perchè genericamente formulata in assenza della puntuale indicazione delle norme costituzionali costituenti il parametro di riferimento rispetto alle quali dovrebbe rilevarsi il denunciato contrasto e delle ragioni della denunciata violazione, sia per la sua manifesta infondatezza.

A questo secondo proposito, non può negarsi che il delitto di ingiuria ad inferiore presenti profili di similitudine con quello comune di ingiuria, già incriminato dall’art. 594 c.p., poichè da questo ripete le sue caratteristiche di delitto a dolo generico, che si realizza allorchè l’agente rivolga al destinatario, in questo caso un militare di grado inferiore, una frase lesiva del prestigio e dell’onore dello stesso, senza che sia necessaria la volontà di offendere o umiliare.

Deve però riscontrarsi la natura plurioffensiva della fattispecie, volta a tutelare, sia il patrimonio morale della persona, sia il bene indisponibile della disciplina militare (Cass. sez. 1, n. 12997 del 10/02/2009, Ottaviano e altro, rv. 243545; sez. 1, n. 42367 del 16/11/2006, P.G. in proc. Toraldo, rv. 235569; sez. 1, n. 58 del 16/11/2006, Rizzi, rv. 235335).

Se dunque entrambi i delitti sul piano oggettivo richiedono il compimento di una condotta che rechi offesa all’onore ed alla dignità del soggetto passivo, va però aggiunto che la fattispecie di cui all’art. 196 c.p.m.p., comma 2, è qualificata da elementi specializzanti, rappresentati dalla qualità personale dell’offeso, che deve essere un militare di grado inferiore rispetto all’agente, collocato in posizione di supremazia nell’organizzazione gerarchica dell’istituzione di appartenenza, che esige un più rigoroso rispetto della dignità di ciascun militare e dalla pluralità di beni giuridici lesi.

E sulla scorta di tali presupposti si è osservato nella giurisprudenza di legittimità che le stesse espressioni, anche se intrinsecamente volgari e sgradevoli, sono ormai correnti nel linguaggio colloquiale comune, quindi consentite dal costume sociale specie nelle relazioni tra pari, assumono specifico rilievo illecito per il contenuto dispregiativo e denigratorio, quando siano rivolte dal superiore all’inferiore gerarchico.

Da tali premesse discende una giustificazione ragionevole per il mantenimento nell’ordinamento giuridico del delitto militare, nonostante l’intervenuta abrogazione del delitto di ingiuria, poichè la sua incriminazione risponde ad esigenze di salvaguardia dell’ordine e della disciplina militare che riceve dall’art. 52 Cost., comma 3, copertura costituzionale laddove stabilisce che “l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, che assegna rilievo ai diritti inviolabili della persona anche nel contesto lavorativo e nel rapporto di dipendenza gerarchica.

2. Anche il secondo motivo è privo di fondamento. Con corretta valorizzazione dei dati conoscitivi offerti dall’istruttoria la sentenza impugnata ha ricostruito il dolo che ha caratterizzato l’azione incriminata, ossia ha riferito alla consapevole volontà dell’imputato la pronuncia della frase volgare, mortificante e spregiativa rivolta ai due militari di grado inferiore, intervenuti dopo il suo fermo momentaneo da parte di personale di una pattuglia della Polizia di Stato ad accertare ed eventualmente recuperare l’arma di servizio in suo possesso.

Ha quindi riscontrato che, per quanto confuso e sconvolto dal sinistro stradale nel quale era rimasto coinvolto, tale comunque da non averne compromesso le facoltà di discernimento, il m.llo T. aveva compreso perfettamente di trovarsi al cospetto di colleghi, gerarchicamente sottoposti, a prescindere da una pregressa conoscenza personale e dell’attinenza al servizio d’istituto del loro intervento poichè costoro si erano presentati, indossando la divisa ed i contrassegni dell’Arma ed avevano manifestato le ragioni del loro intervento.

Risulta dunque giustificata in modo congruo e pertinente ai dati istruttori la ravvisata superfluità, quale condizione di procedibilità, della domanda del comandante del Corpo; così, del pari, ha ricevuto adeguata replica in senso reiettivo la pretesa di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 199 c.p.m.p. per avere agito l’imputato in danno di due militari, presentatisi al suo cospetto per assolvere un accertamento, attinente al servizio, sulla scorta di un ordine impartito loro da superiore gerarchico ed al fine di assicurare la corretta custodia e l’eventuale recupero dell’arma d’ordinanza del maresciallo T. dopo il sinistro di cui era stato vittima.

Pertanto, non rileva che essi non fossero stati addetti a rilievi riguardanti l’incidente stradale, che il T. fosse libero dal servizio e non si fosse qualificato col grado e con l’appartenenza all’Arma e che la sua identificazione fosse stata già compiuta dai componenti della pattuglia, dal momento che essi erano stati impegnati nel portare a compimento l’incarico loro assegnato per ragioni di ordine e sicurezza pubblica, legati all’esigenza di assicurare la corretta conservazione dell’arma di servizio.

3. Piuttosto merita accoglimento l’ultimo motivo articolato dalla difesa. L’istanza di applicazione dell’altra causa di non punibilità, disciplinata dall’art. 131-bis c.p., è stata respinta per effetto di rilievi non pertinenti e non coerenti con i criteri di valutazione dettati dalla norma di riferimento.

Invero, la Corte militare ha addebitato all’imputato di non avere collaborato lealmente per l’accertamento della verità giudiziale dei fatti, di non avere mostrato resipiscenza per l’accaduto e di avere tenuto una condotta aggressiva “per un lasso di tempo estremamente considerevole, nonostante l’intervento dei colleghi, avendo lo stesso posto in essere anche una condotta auto lesiva che appare del tutto incompatibile con lo status di ufficiale di polizia giudiziaria”.

In tal modo ha ignorato il diritto di discolparsi e di negare l’addebito, riconosciuto a ciascun imputato, ma soprattutto ha palesemente frainteso il contenuto dell’accusa come espressa nell’imputazione, che addebita al m.llo T. di avere rivolto espressioni offensive e mortificanti a due sottoposti, non già il compimento di condotte violente, minacciose, lesive o pericolose per l’altrui integrità fisica, contro la quale non emerge dalla sentenza il compimento di alcuna condotta aggressiva.

Non è poi dato comprendere su quali basi imputative si sia apprezzato, quale elemento negativo e significativo di concreta offensività dell’azione, la sua protrazione “per un lasso di tempo estremamente considerevole”, quando in realtà la frase incriminata è unica, rivolta contestualmente ai due militari e l’unico gesto aggressivo risulta dalla stessa sentenza avere avuto carattere autolesivo in un contesto di forte turbamento per il sinistro, l’abuso di alcolici, il fermo subito e l’apposizione delle manette.

I profili fattuali così evidenziati dai giudici di appello avrebbero forse potuto essere valorizzati per giustificare un eventuale giudizio negativo sulla personalità dell’imputato o sui connotati dell’azione, tale da condurre al diniego delle circostanze attenuanti generiche o da determinare un incremento del trattamento punitivo, ma non ostacolare legittimamente l’applicazione dell’art. 131-bis c.p..

3.1 Occorre a questo punto precisare che tale disposizione ha introdotto un nuovo istituto di diritto sostanziale, la causa di esclusione della punibilità della speciale tenuità del fatto di reato, per il cui riconoscimento è richiesto un apprezzamento di merito, volto a riscontrare la sussistenza dei presupposti applicativi richiesti dalla norma.

In primo luogo il rispetto del limite di pena detentiva stabilito per il reato, che, secondo il comma 1 dell’articolo in esame, non deve superare nel massimo i cinque anni, quando sia comminata da sola o congiuntamente alla pena pecuniaria senza tener conto delle circostanze, salvo quelle ad effetto speciale oppure che comportino una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Inoltre, sono richieste quali ulteriori condizioni la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità della condotta illecita, a fronte della cui individuazione, nonostante la commissione del reato, perfetto in tutte le sue componenti oggettive e soggettive, ma di tale minima offensività, sia per la sanzione in astratto irrogabile, sia per le sue modalità concrete di commissione, sia per l’unicità della violazione, lo Stato rinuncia a punirne il responsabile.

Il riconoscimento dei presupposti applicativi dell’istituto, introdotto per deflazionare il ricorso al processo e garantire proporzione tra pena e fatto illecito nella sua manifestazione concreta, è frutto di un giudizio complesso che postula l’analisi e la considerazione della condotta, delle conseguenze del reato e del grado della n colpevolezza, passaggi obbligati del giudizio sul fatto, conducibile nella fase di merito del procedimento.

Pertanto, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, rv. 266590) “l’esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza. E potrà ben accadere che si sia in presenza di elementi di giudizio di segno opposto da soppesare e bilanciare prudentemente”, in modo che la considerazione del caso non potrà esaurirsi nella valutazione dell’entità del danno o del pericolo, da sola insufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalità del fatto.

3.2 Raffrontate le argomentazioni esposte nella motivazione della sentenza, in esame emerge che si è assegnato rilievo ad elementi in sè non pertinenti al perimetro valutativo segnato dall’art. 131-bis c.p., si è attribuito un comportamento violento contro terzi, che non è contestato e nemmeno probatoriamente ricostruito, si è ignorato che la commisurazione della pena inflitta rivela una considerazione della fattispecie quale meritevole di punizione minima, contenuta per effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, dei doppi benefici di legge e dell’irrogazione di minimo aumento per la continuazione, configurata per la duplicità dei soggetti offesi nell’unico contesto commissivo.

Per tali considerazioni, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello militare che dovrà riesaminare la possibilità di escludere la punibilità dell’imputato ai sensi dell’art. 131-bis c.p. alla luce dei principi e dei rilievi sopra svolti.

Nel resto il ricorso va respinto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al diniego del riconoscimento della particolare tenuità del fatto e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte militare di appello.

Rigetta il ricorso nel resto.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2017