Maresciallo dei cc rivolge ad un appuntato espressioni ingiuriose: bastardo, truffatore, criminale, delinquente e falso imprenditore.

(Corte di Cassazione penale, sez. I, sentenza 1 dicembre 2016, n. 51401)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Maria Stefani – Presidente –
Dott. TARDIO Angela – Consigliere –
Dott. SARACENO Rosa Anna – Consigliere –
Dott. MINCHELLA Antonio – Consigliere –
Dott. CENTONZE Alessand – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Procuratore Generale Militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Roma;

nei confronti di:

1) C.V., nato il (OMISSIS);

e da:

2) S.V., nato l'(OMISSIS);

Avverso la sentenza n. 118/2015 emessa il 15/12/2015 dalla Corte militare di appello di Roma;

Udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Alessandro Centonze;

Udito il Procuratore Generale Militare, in persona del Dott. Rivello Pierpaolo, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;

Udito per l’imputato l’avv. Salvatore Eugenio Daidone;

Udita per la parte civile l’avv. Raffaella De Vico.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 10/06/2015 il Tribunale militare di Roma assolveva C.V. dal reato ascrittogli – originariamente qualificato ai sensi dell’art. 81 c.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2 e art. 196 c.p.m.p. e riqualificato in sentenza ai sensi dell’art. 226 c.p.m.p. – perchè il fatto non costituisce reato.

2. Con sentenza emessa il 15/12/2015, pronunciandosi sull’impugnazione proposta dal Procuratore generale militare presso la Corte di appello militare di Roma e dalla parte civile costituita S.V., confermava la decisione impugnata.

3. Da entrambe le sentenze di merito emergeva che il C., in più occasioni e alla presenza di altri soggetti, rivolgeva epiteti ingiuriosi nei confronti del S., tra i quali “bastardo”, “truffatore”, “criminale”, “delinquente” e “falso imprenditore”.

All’epoca dei fatti, compresa tra il (OMISSIS), il C. e il S. prestavano servizio – rispettivamente con il grado di maresciallo capo e di appuntato scelto – presso il Nucleo Coordinamento del Comando dei Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari di Roma.

Nel caso in esame, emergeva che, a partire dal gennaio del 2013, il C. rivolgeva, in più occasioni e alla presenza di altri militari, le frasi ingiuriose sopra richiamate, come concordemente riferito dai testi G., D.L., R. e M..

Tali condotte ingiuriose traevano origine dal deterioramento dei rapporti personali tra il C. e il S., in conseguenza del quale quest’ultimo si rifiutava di restituire all’imputato la somma di 3.000,00 Euro che aveva ricevuto in prestito, senza addurre, nemmeno in sede processuale, alcuna giustificazione in ordine al suo comportamento.

In questo contesto processuale, i Giudici militari di merito escludevano che le frasi ingiuriose rivolte dal C. al S. avessero attinenza al servizio svolto da entrambi i militari, inerendo a una vicenda debitoria esclusivamente privata, escludendo al contempo che la condotta ingiuriosa dell’imputato valesse a integrare la fattispecie contestagli, ai sensi dell’art. 81 c.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2 e art. 196 c.p.m.p., sotto il profilo dell’elemento soggettivo.

Per queste ragioni, la fattispecie originariamente contestata all’imputato veniva riqualificata ai sensi dell’art. 226 c.p.m.p., con la conseguente assoluzione del C., previa applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 228 c.p.m.p..

2. Avverso questa sentenza venivano proposti ricorsi per cassazione separati dalla parte civile costituita S.V. e dal Procuratore generale militare presso la Corte di appello militare di Roma.

2.1. La parte civile costituita S.V. ricorreva per cassazione deducendo, mediante un unico motivo di ricorso, violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento agli artt. 226 e 228 c.p.m.p., conseguente al fatto che la Corte di appello militare di Roma aveva inserito le frasi pacificamente ingiuriose pronunziate dal C. in un contesto contrastante con le emergenze probatorie, univocamente orientate nella direzione della volontà dell’imputato di offendere il S. e della conseguente erroneità della qualificazione dei fatti operata dal Tribunale militare di Roma.

Nè poteva rilevare, in senso contrario, la pregressa vicenda debitoria alla quale i Giudici militari di appello avevano fatto riferimento nelle sentenze di merito, atteso che il mancato pagamento di un debito, a prescindere dall’effettiva esistenza del sottostante rapporto di provvista, non era comunque idonea a giustificare la condotta ingiuriosa del C., che non poteva trovare alcuna giustificazione, anche in conseguenza dell’applicazione della speciale causa di giustificazione prevista per il reato di ingiuria militare dall’art. 228 c.p.m.p., comma 2.

Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.

2.2. Il Procuratore generale militare presso la Corte di appello militare di Roma ricorreva per cassazione proponendo un unico motivo di ricorso, con cui si deduceva violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento agli artt. 226 e 228 c.p.m.p., conseguente al fatto che la Corte militare territoriale, pur confermando la decisione assolutoria di primo grado, era pervenuta a tale giudizio confermativo sulla base di una pluralità di elementi valutativi, estranei al processo di primo grado e fondati su un’incongrua applicazione della speciale causa di giustificazione prevista per il reato di ingiuria dall’art. 228 c.p.m.p., comma 2.

In questo modo, i Giudici militari di appello avevano dato luogo a un’illogicità motivazionale, atteso che facendo riferimento alle condizioni di alterazione emotiva dell’imputato – che peraltro non potevano ritenersi giustificate sulla base dell’indimostrata vicenda debitoria esistente tra i due militari – avevano erroneamente richiamato gli elementi costitutivi della causa di giustificazione della provocazione prevista dall’art. 228 c.p.m.p., che non consentivano il proscioglimento del C. per l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestatogli, così come riqualificato ai sensi dell’art. 226 c.p.m.p..

Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi proposti sono dal Procuratore generale militare presso la Corte di appello militare di Roma e dalla parte civile costituita S.V. sono inammissibili.

Prendendo le mosse dal ricorso proposto dalla parte civile, S.V., deve rilevarsi che la difesa del ricorrente, con la sua impugnazione, censurava la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, in riferimento agli artt. 226 e 228 c.p.m.p., ritenendola fondata su una ricostruzione degli accadimenti criminosi contrastante con le emergenze processuali, univocamente orientate nella direzione della volontà dell’imputato di ingiuriare il S..

Secondo la ricostruzione degli accadimenti criminosi posta a fondamento delle sottostanti sentenze di merito, il C., in più occasioni e alla presenza di altri militari, rivolgeva epiteti ingiuriosi nei confronti del S., appellandolo, tra l’altro, come “bastardo”, “truffatore”, “criminale”, “delinquente” e “falso imprenditore”.

In questa cornice, deve innanzitutto rilevarsi che, nel caso in esame, non rileva tanto la condotta dell’imputato finalizzata a ingiuriare il S. – non essendo dubitabile che la persona offesa veniva ingiuriata – quanto le ragioni che avevano indotto il C. a ingiuriare la persona offesa, correttamente ricostruite dai Giudici militari di merito, che attribuivano alla vicenda criminosa esaminata una connotazione esclusivamente privata ed escludevano conseguentemente la sussistenza di forme di strumentalizzazione del rapporto di subordinazione gerarchica esistente tra i due militari.

Sulla base di una tale ineccepibile ricostruzione degli accadimenti criminosi veniva formulato un giudizio di proscioglimento del C. attraverso una corretta applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 228 c.p.m.p., comma 2, che imponeva di escludere nella condotta dell’imputato la sussistenza di profili di offensività ricollegabili alla fattispecie di cui all’art. 226 c.p.m.p., tenuto conto del contesto nel quale le frasi ingiuriose venivano rivolte al S..

Secondo la Corte di appello militare di Roma, in particolare, lo stato di tensione personale esistente tra il C. e il S. traeva origine da “ragioni di carattere privato”, alla luce delle quali doveva essere valutato l’atteggiamento del C., le cui frasi ingiuriose venivano pronunciate esclusivamente allo scopo di sollecitare la restituzione della somma di denaro precedentemente prestata alla persona offesa dal reato, ammontante a 3.000,00 Euro; somma di denaro che era stata espressamente richiesta dal C. ripetutamente e senza successo.

Sul punto, non si possono non condividere le conclusioni alle quali giungeva la sentenza impugnata, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 8, nel quale, richiamandosi la condotta inequivocabilmente inadempiente assunta dal S. nella vicenda debitoria in questione, si affermava che “la totale indifferenza mostrata dal predetto, di volta in volta, a fronte delle reiterate richieste avanzate in modo veemente dall’imputato (…) è idonea a determinare in chi chieda la restituzione di denaro dato in prestito uno stato d’ira giustificabile, non potendosi d’altronde dubitarsi della ingiustizia del comportamento di chi tali somme non intende restituire senza nemmeno opporre alcuna ragione”.

Da questo punto di vista, non si può non rilevare che, come osservato dalla Corte di appello militare di Roma, le frasi pronunciate dal C. miravano a ottenere la soddisfazione di una legittima pretesa economica vantata nei confronti del S. che, del resto, ammetteva le connotazioni esclusivamente private del conflitto personale insorto con il ricorrente e non contestava in alcun modo la veridicità delle affermazioni e della ricostruzione dei fatti fornita dal suo contendente, nei termini correttamente esplicitati a pagina 7 della sentenza impugnata.

Deve, dunque, ribadirsi che, nel caso in esame, il contesto privato nel quale il C. pronunciava le frasi ingiuriose nei confronti del S. e le connotazioni di ingiustizia del suo rifiuto di saldare il debito vantato dall’imputato, sulla base della ricostruzione degli accadimenti criminosi effettuata nelle sottostanti sentenze di merito, impone di ritenere la condotta del ricorrente giustificata alla luce della previsione dell’art. 228 c.p.m.p., comma 2, a tenore della quale: “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 226 e 227 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.

In questo contesto processuale, deve rilevarsi, conformemente alla giurisprudenza consolidata in tema di applicazione dell’art. 599 c.p., mutuabile in relazione alla previsione dell’art. 228 c.p.m.p., comma 2, che nel caso in esame sussistono un fatto ingiusto e una reazione collegabile etiologicamente a tale fatto, legittimante l’applicazione dell’esimente in questione.

Quanto alla proporzione tra fatto ingiusto e reazione deve precisarsi ulteriormente che tale requisito non è richiesto per la configurazione dell’esimente in esame, anche se l’eventuale sproporzione manifesta – non riscontrabile nel caso di specie – viene comunemente considerata un elemento indicatore di prova dell’inesistenza del nesso causale e della presa a mero pretesto del fatto ingiusto attribuito all’offeso (cfr., mutatis, Sez. 5, n. 21709 del 26/03/2009, Lazzarini, Rv. 243893; Sez. 5, n.40256 del 16/09/2008, Pilla, Rv. 241732).

Sulla base di tale ineccepibile ricostruzione processuale, dunque, la Corte di appello militare di Roma riteneva che i comportamenti reiterati di inadempienza del S. – sui quali peraltro la persona offesa dal reato non forniva alcun chiarimento nei sottostanti giudizi di merito – erano idonei ad acuire progressivamente lo stato di intensa frustrazione del C., conseguente alla “perdurante ingiustizia della ritenzione del denaro”, giustificando la sua condotta ingiuriosa e legittimando l’applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 228 c.p.m.p., comma 2, e il conseguente proscioglimento dell’imputato.

Queste ragioni processuali impongono di ritenere manifestamente infondato il ricorso proposto dalla parte civile S.V..

2. Analogo giudizio di inammissibilità deve essere espresso con riferimento al ricorso proposto dal Procuratore generale militare presso la Corte di appello militare di Roma.

Non occorre, innanzitutto, soffermarsi sulla correttezza dell’inquadramento della vicenda delittuosa esaminata, la cui qualificazione risulta conforme alla dinamica degli accadimenti criminosi e alle ragioni che inducevano il C. a ingiuriare il S., su cui ci si è soffermati nel paragrafo precedente, cui si deve rinviare.

Deve, in proposito, ribadirsi che la Corte di appello militare di Roma confermava il proscioglimento del C. evidenziando correttamente che le frasi ingiuriose rivolte al S. dovevano ricondursi alle tensioni personali esistenti tra i due militari, connesse alla vicenda debitoria di cui si è già detto, nell’ambito delle quali le aggressioni verbali rivolte alla persona offesa – ritenuta corretta la riqualificazione dei fatti operata dal Tribunale miliare di Roma ai sensi dell’art. 226 c.p.m.p. – si giustificavano alla luce della previsione dell’art. 228 c.p.m.p., comma 2.

Discendeva da tale ambito interpersonale, ricostruito in termini processuali ineccepibili nel passaggio motivazionale esplicitato nelle pagine 5-7 del provvedimento impugnato, che la condotta ingiuriosa dell’imputato non poteva essere ricondotta alla fattispecie originariamente contesta al C. e dovesse essere giustificata, ai sensi dell’art. 228 c.p.m.p., comma 2, sul presupposto, richiamato nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 7 del provvedimento impugnato, che “non vi è dubbio che le espressioni utilizzate depongono in modo incontestabile per l’esistenza di un diritto di credito che il C. vantava nei confronti dell’interlocutore (…)”.

Ricostruita in questi termini la vicenda criminosa in esame il percorso argomentativo seguito dalla Corte di appello militare di Roma risulta ineccepibile e conforme alle emergenze processuali, le quali non consentivano di ricondurre i fatti ascritti al C. alla fattispecie originariamente contestatagli ai sensi dell’art. 81 c.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2 e art. 196 c.p.m.p., tenuto conto della giurisprudenza consolidata di questa Corte che, per la configurazione del reato di cui all’art. 196 c.p.m.p., richiede che la condotta sia ricollegabile al servizio militare e rappresenti una strumentalizzazione, inesistente nel caso di specie, del rapporto di subordinazione gerarchica tra vittima e offensore (cfr. Sez. 1, n. 1428 del 17/12/2008, Badolati, Rv. 242472).

Deve, pertanto, escludersi che la Corte di appello militare di Roma, al contrario di quanto dedotto dal ricorrente, abbia operato un’indebita commistione tra l’elemento psicologico del reato e la speciale causa di giustificazione applicabile ai sensi dell’art. 228 c.p.m.p., comma 2, atteso che il proscioglimento del C. conseguiva a una corretta ricognizione del contesto personale – pacificamente estraneo all’ambiente militare al quale entrambi i soggetti appartenevano – nel quale maturavano gli accadimenti criminosi.

Tali accadimenti criminosi venivano correttamente valutati dalla Corte territoriale alla luce della giurisprudenza consolidata di legittimità, correttamente richiamata nel provvedimento impugnato, secondo cui: “In tema di tutela penale dell’onore, al fine di accertare se l’espressione utilizzata sia idonea a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 594 c.p., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale, in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore, unitamente al contesto nel quale l’espressione è pronunciata ed alla coscienza sociale” (cfr. Sez. 5, n. 46488 del 24/06/2014, Toraldo, Rv. 261031).

2.1. In questa cornice, deve aggiungersi che, al contrario di quanto dedotto dal ricorrente, assolutamente corretta è la soluzione di proscioglimento, adottata in una situazione nella quale, pur con qualche margine di dubbio, la sussistenza dell’esimente di cui all’art. 228 c.p.m.p., comma 2, appariva sorretta da elementi di riscontro, fattuali e logici, che la facevano apparire probabile o comunque ragionevolmente non da escludere.

E’ pacifico difatti che, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 3, la sentenza do assoluzione va pronunciata non solo quando vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione, ma anche quando vi è dubbio sull’esistenza della stessa. E il dubbio sull’esistenza di una causa di giustificazione, sussistendo il quale il giudice deve pronunziare sentenza di assoluzione, va ricondotto a quello di insufficienza o contraddittorietà della prova, di cui all’art. 529 c.p.p., comma 2 e art. 530 c.p.p., comma 2, (cfr. Sez. U, n. 40049 del 29/08/2008, Guerra, Rv. 240814).

Ne discende che l’esistenza della scriminante va in conclusione verificata, sotto il profilo tanto oggettivo quanto putativo, secondo i normali criteri d’accertamento probatorio, con la conseguenza che nessun elemento per quanto indiziario o indiretto può essere in radice isolatamente escluso e che il complesso degli elementi acquisiti deve essere sottoposto a verifica quanto a tenuta fattuale e logica unitaria e a univocità di risultato. E poichè, per quanto si è detto, a siffatti metodi e principi risulta essersi esattamente conformata la sentenza impugnata, il ricorso proposto dal Procuratore generale militare presso la Corte di appello militare di Roma deve essere dichiarato inammissibile.

3. Per queste ragioni processuali, i ricorsi proposti dal Procuratore generale militare presso la Corte di appello militare di Roma e dalla parte civile costituita S.V. devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna della parte civile al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, che si determina in 1.500,00 Euro, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna la parte civile S.V. al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di 1.500,00 Euro alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2016.