REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente –
Dott. CAPOZZI Angelo – Consigliere –
Dott. BASSI Alessandra – Rel. Consigliere –
Dott. COSTANTINI Antonio – Consigliere –
Dott. SILVESTRI Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto dal
Procuratore generale presso la Corte d’appello di Messina, nel procedimento a carico di:
Lin Jinmei nato il xx/xx/xxxx;
avverso la sentenza del 15/05/2019 della Corte d’appello di Messina;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Alessandra Bassi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Renato Finocchi Ghersi, che ha concluso chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato.
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Messina ha confermato la sentenza del 28 febbraio 2018, con la quale il Tribunale di Messina ha condannato Jinmei Lin alla pena di mesi due di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale della pena, per il delitto di cui all’art. 348 cod. pen. sub capo A) (per avere abusivamente esercitato la professione medica in assenza della richiesta speciale abilitazione dello Stato, offrendo alla clientela la somministrazione di massaggi e contestualmente di sostanze connotate da proprietà terapeutiche analgesiche ed antinfiammatorie) e per il reato contravvenzionale di cui all’art. 6, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, sub capo B) (per non aver ottemperato, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato).
1.1. Quanto al capo A), la Corte d’appello ha rilevato come debba ritenersi provato lo svolgimento da parte della Lin di un’attività riconducibile alla professione medica atteso che l’imputata veniva osservata passeggiare su di una spiaggia indossando uno zaino sul quale erano appesi dei fogli volti a pubblicizzare vari tipi di massaggi, con la specificazione della loro utilità a curare alcune patologie e, quindi, avvicinarsi ai bagnanti per offrire loro dei massaggi e che i Carabinieri dei N.A.S. hanno accertato che, nello zaino, la donna custodiva bottiglie contenenti canfora, cioè una sostanza avente proprietà curative.
1.2. Con riferimento al capo B), il Collegio di merito ha evidenziato che i Carabinieri non erano in grado di procedere immediatamente all’identificazione della prevenuta perché la stessa aveva dimenticato i documenti a casa, circostanza non integrante un giustificato motivo avendo tutti gli stranieri l’obbligo di portare con sé il documento identificativo.
2. Nel ricorso proposto, il Sostituto Procuratore Generale della Repubblica della Corte d’appello di Messina chiede l’annullamento del provvedimento per i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo ed il terzo motivo, il ricorrente eccepisce l’inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche in relazione all’art. 348 cod. pen. nonché la mancanza, la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione quanto alla ritenuta integrazione del reato di esercizio abusivo della professione medica.
A sostegno della deduzione, il Procuratore generale evidenzia come non possa ritenersi provato che la Lin praticasse massaggi a scopo curativo, atteso che, da una parte, non è possibile scambiare per medico o paramedico colei la quale offra dei massaggi sulla spiaggia; dall’altra parte, la finalità terapeutica dei massaggi non può desumersi dall’uso della canfora, là dove le generiche qualità “terapeutiche” di un prodotto non ne rendono di per sé professionale l’impiego.
2.2. Con il secondo motivo, il P.G. deduce l’inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche in relazione all’art. 6, comma 3, D.Igs. 25 luglio 1998, n. 286, per avere la Corte siciliana erroneamente ritenuto integrato il reato contravvenzionale, dal momento che l’imputata non si rifiutava di esibire i documenti, ma si limitava, a causa di un giustificato motivo – cioè per il fatto averli dimenticati a casa – ad ottemperare in ritardo all’ordine di esibizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato in relazione ad entrambi i motivi di ricorso.
2. Occorre premettere che il delitto di esercizio abusivo di una professione previsto dall’art. 348 cod. pen. è volto a tutelare il buon andamento della pubblica amministrazione affinchè sia garantito che l’esercizio di determinate attività professionali avvenga da parte di chi sia munito della necessaria competenza tecnica, verificata mediante il rilascio di una speciale attestazione di idoneità da parte dello Stato o l’iscrizione in un albo professionale.
Si tratta di un delitto di pericolo presunto in quanto esso è integrato a prescindere dal fatto che il soggetto non qualificato o non iscritto sia o meno munito della perizia necessaria per eseguire una determinata prestazione.
Affinché il delitto de quo possa ritenersi integrato è però necessario che il soggetto agente abbia posto in essere una condotta che rientri nell’ambito delle professioni “protette”, id est il cui esercizio sia disciplinato dallo Stato e subordinato al conseguimento di una specifica abilitazione professionale ovvero all’iscrizione in appositi albi o elenchi.
2.1. Orbene, giudica il Collegio che, nella specie, non sussistano i presupposti per affermare che Jinmei Lin esercitasse un’attività effettivamente riconducibile ad una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato e, dunque, per ritenere integrato il reato di cui all’art. 348 cod. pen. L’imputata è accusata di avere abusivamente praticato l’attività di massaggiatrice “professionale”.
Non può nondimeno non notarsi come sotto la denominazione “massaggio” ricadano plurime tipologie di manipolazione, sia le operazioni che sono rivolte ad una specifica finalità terapeutica (in quanto tese a dare sollievo a patologie vere e proprie, quali distorsioni o lombosciatalgie, ernie o semplici protrusioni, dolori articolari, slittamenti delle vertebre, ecc.) e che presuppongono uno specifico titolo di studio e la relativa abilitazione professionale (cioè la qualifica professionale di massofisioterapista della riabilitazione), sia le operazioni che invece hanno una mera finalità di benessere o distensivi ovvero a fini meramente estetici (quali quelli antietà, anticellulite, antistress, ecc.), in relazione ai quali non è invece necessario il conseguimento di alcun titolo rilasciato da parte dello Stato.
Ne discende che l’esercizio abusivo della professione medica o paramedica può configurarsi soltanto con riguardo alla pratica dei massaggi che abbiano una specifica finalità curativa, cioè di quelli che, stante la diretta incidenza sulla salute delle persone, postulano specifiche e riscontrate competenze mediche, terapeutiche o fisioterapiche.
Diversamente, detto delitto non è ravvisabile in caso di manipolazioni che non abbiano una finalità propriamente terapeutica e non postulino pertanto una tecnica particolare, essendo volti a dispensare benessere, inteso in senso lato, anziché a curare una patologia o a lenirne gli effetti.
2.2. Fatte tali premesse, ritiene il Collegio che – avuto riguardo alla ricostruzione storico-fattuale della vicenda e, precisamente, alle modalità al luogo di esecuzione delle operazioni – non sia revocabile in dubbio l’estraneità delle manipolazioni praticate dall’imputata dalla categoria dei massaggi terapeutici in senso proprio.
Non può ritenersi atto a conferire alla condotta della Lin la “qualità” di esercizio di una professione subordinata al conseguimento di una speciale abilitazione il riferimento alle proprietà terapeutiche contenuto nel cartello appeso sullo zaino che ella teneva sulle spalle.
Detto riferimento assolveva chiaramente ad una finalità solo promozionale della propria attività e non vale di per sé a mutare la natura oggettiva delle prestazioni manuali da ella erogande.
Né pare revocabile in dubbio che, per le modalità ed il contesto nel quale le manipolazioni venivano praticate (su di un asciugamano o un lettino su di una spiaggia pubblica affollata di turisti), da parte di un soggetto che non faceva alcun riferimento a competenze particolari né ad una specifica abilitazione professionale, le persone che vi si sottoponevano potessero realmente trarre da tali circostanze il convincimento che si trattasse di massaggi praticati in modo professionale, da persona munita di una specifica qualifica sanitaria e muniti di una reale valenza terapeutica.
2.3. La natura terapeutica dei massaggi praticati dalla Lin non può neanche desumersi dalla circostanza che ella utilizzasse per le manipolazioni canfora o olio di lino, trattandosi di prodotti di libero acquisto senza necessità di alcuna prescrizione da parte di un medico.
D’altra parte, le qualità asseritamente “terapeutiche” di un prodotto non ne rendono professionale l’impiego, così come non può ritenersi tale da integrare l’esercizio abusivo della professione medica la somministrazione da parte di un ristoratore di pasti cucinati con uno qualunque dei plurimi alimenti notoriamente aventi qualità lato sensu “terapeutiche” o favorevoli per la salute.
2.4. Conclusivamente, giudica la Corte che, tenuto conto delle modalità di espletamento e del contesto storico e ambientale della condotta, Jinmei Lin non esercitasse in concreto alcuna attività per la quale era richiesta una specifica abilitazione professionale, di tal che si è al di fuori del perimetro dell’art. 348 cod. pen.
3. Ad analoga conclusione deve pervenirsi quanto alla contestazione sub capo B), nella quale è ascritto all’imputata il reato di cui all’art. 6, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per non aver ottemperato, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione di un documento d’identità e del permesso di soggiorno.
3.1. Secondo la ricostruzione compiuta dai Giudici di merito, Jinmei Lin controllata sulla spiaggia nel mentre stava tenendo la condotta sub A) e richiesta di esibire il proprio documento d’identità ed il permesso di soggiorno, non era in grado di fornire i documenti asserendo di averli dimenticati a casa, veniva pertanto condotta nella Caserma dei Carabinieri ove venivano portati (evidentemente da altri) ed esibiti i documenti richiesti, cioè un valido documento di riconoscimento ed il regolare permesso di soggiorno.
3.2. Giudica invero il Collegio che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte siciliana, l’imputata non esibiva immediatamente i documenti richiesti sulla base di un “giustificato motivo” — espressamente previsto quale esimente dall’art. 6, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 —, là dove asseriva, a giustificazione dell’omessa presentazione, di averli dimenticati a casa, con ciò fornendo una ragione dell’inottemperanza plausibile e suscettibile di verifica da parte degli operanti, risultata per di più veritiera e prontamente superata dall’esibizione del passaporto e del permesso di soggiorno in Caserma.
3.3. Ma quand’anche si ritenesse che la prospettazione della dimenticanza a casa dei documenti non sia suscettibile di integrare il “giustificato motivo” previsto dall’art. 6, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, non può trascurarsi di considerare come l’imputata producesse comunque i documenti de quibus presso la Caserma dei Carabinieri ove era stata condotta per gli accertamenti in ordine alla sua identità, pertanto nell’ambito di un contesto accertativo unitario o comunque in un lasso di tempo accettabilmente breve, senza soluzione di continuità e dunque nell’immediatezza del primo controllo sulla spiaggia, il che – in definitiva – impedisce di ritenere integrata l'”inottemperanza” sanzionata dalla fattispecie contravvenzionale (in questo senso si veda, in una fattispecie assimilabile, Sez. 1, n. 12511 del 11/03/2010, Rv. 246536; Sez. 1, n. 47512 del 29/11/2007, P.M. in proc. Zhang, Rv. 238374).
Deve invero essere considerato che – come precisato dal più ampio consesso di questa Corte (nella sentenza n. 16453 del 24/02/2011 – Rv. 249546) – l’interesse protetto dalla norma di cui al citato art. 6, comma 3, “è quello di procedere immediatamente alla verifica della regolarità della presenza dello straniero in territorio nazionale, per poter il più rapidamente possibile mettere in opera il meccanismo processual-penale e amministrativo volto all’espulsione dal territorio nazionale dello straniero in posizione irregolare.
L’identificazione e l’accertamento di regolare presenza degli stranieri legalmente soggiornanti costituiscono, infatti, attività prodromiche e funzionali a innescare il procedimento di espulsione di quelli in posizione irregolare. Invero, la mancata esibizione di documenti attestanti la regolarità del soggiorno, di per sé, costituisce un indizio del reato di cui all’art. 10-bis, con tutto ciò che consegue in termini di accertamenti di polizia giudiziaria, a cominciare dai poteri d’identificazione di cui all’art. 349 cod. proc. pen.”.
Detto interesse non può, pertanto, ritenersi offeso allorché l’identificazione circa la regolare presenza dello straniero sul territorio nazionale sia comunque possibile, quand’anche con un ragionevole ritardo dovuto ad un riscontrato motivo, come appunto nella specie.
4. In definitiva, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio in relazione ad entrambi i capi d’imputazione perché i reati ivi contestati non sussistono.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Così deciso il 12 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2020.
Si dà atto che il presente provvedimento redatto dalla Consigliera Alessandra Bassi viene sottoscritto dal solo Presidente del Collegio per l’impedimento dell’estensore ai sensi dell’art. 1 lett. a) del d.p.c.m. 8 marzo 2020.