Ogni giorno si presentava in un bar e con fare intimidatorio, minaccioso ed aggressivo, otteneva di bere alcolici senza pagare. Condannato per estorsione.

(Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 3 aprile 2017, n. 16568)

…, si omette …

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 27.1.2016 la Corte di appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Gorizia del 9.6.2015, riconoscendo all’imputato le attenuanti generiche, quella di cui all’art. 62 n. 4 cod.pen. ed escludendo la recidiva, riduceva la pena inflitta in primo grado a T.F. in relazione ai reati di estorsione (capo A) e minaccia aggravata (capo B, così riqualificando il fatto originariamente ascritto come ulteriore episodio di estorsione).

1.1. La Corte territoriale respingeva le ulteriori censure mosse con l’atto d’appello in punto di riconosciuta penale responsabilità dell’imputato.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato, per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando i seguenti motivi:

2.1. violazione ed erronea applicazione della legge penale nonché mancanza ed illogicità della motivazione, in relazione agli artt. 192 e 546 cod. proc. pen. e 629 cod. pen., per essere stata affermata la sussistenza del reato di estorsione di cui al capo A in difetto di dimostrazione dell’elemento soggettivo; in particolare, dall’istruttoria dibattimentale non è emerso che le condotte minacciose fossero rivolte all’ottenimento del vantaggio patrimoniale indebito (nella specie il bere alcolici senza pagare).

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile in quanto basato su un motivo manifestamente infondato.

1. Tutte le questioni proposte attengono a valutazioni di merito che sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di specie (Sez. U. n. 24 del 24/11/1999, Rv. 214794; Sez. U. n. 12 del 31.5.2000, Rv. 216260; Sez. U. n. 47289 del 24.9.2003, Rv. 226074).

1.1. Ed inoltre, nel caso di specie, ci si trova dinanzi ad una “doppia conforme” e cioè doppia pronuncia di eguale segno, per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.

Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla legge n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (sez. 2 n. 5223 del 24/1/2007, Rv. 236130).

Nel caso di specie, invece, il giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunto alla medesima conclusione in ordine alla responsabilità dell’imputato per i fatti allo stesso ascritti.

2. Orbene, fatta questa doverosa premessa e sviluppando coerentemente i principi suesposti, deve ritenersi che la sentenza impugnata regge al vaglio di legittimità, non palesandosi assenza, contraddittorietà od illogicità della motivazione, ovvero travisamento del fatto o della prova.

In particolare la Corte territoriale dà, adeguatamente, atto, del vaglio di credibilità al quale è stata sottoposta la deposizione della persona offesa con motivazione in fatto immune da vizi di legittimità (sez. 3 n. 8382 del 22/1/2008, Rv. 239342); in tal senso si è fatto riferimento alle dichiarazioni rese dal Colussi, il quale ha riferito del clima di pesante e prolungata intimidazione creato dall’imputato nel periodo compreso tra il maggio 2013 e il marzo 2014, durante il quale quest’ultimo, con frequenza quasi quotidiana, si recava presso l’esercizio commerciale della vittima con fare intimidatorio, minaccioso ed aggressivo, ottenendo di bere senza pagare, talvolta con richiesta esplicita, tra l’altro con comportamento concludente (cfr. pagg. 4 e 5 della sentenza impugnata).

Le ulteriori deposizioni raccolte hanno poi confermato il clima di intimidazione creato dall’imputato nel bar della vittima e in altri analoghi locali del territorio.

Del resto, anche sotto il profilo dell’inquadramento normativo, non vi è dubbio sul fatto che sia configurabile il delitto di estorsione, e non quello di violenza privata, nel caso in cui l’agente, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, faccia uso della violenza o della minaccia per costringere il soggetto passivo a fare od omettere qualcosa che gli procuri un danno economico (Si veda, in termini, Sez. 2, n. 5668 del 15/01/2013, Rv. 255242, pronunciata in fattispecie nella quale l’imputato aveva costretto, mediante violenza e minaccia, la P.O. a fornirgli cibo e bevande senza pagare il corrispettivo, così procurandosi un ingiusto profitto con danno della P.O. stessa).

3. Quanto ora detto comporta l’inammissibilità dell’impugnazione per manifesta infondatezza dei motivi proposti.

Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.500,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 a favore della Cassa delle ammende.