Oltre ad essere condannato a 12 anni per vari reati penali, la Suprema Corte ne decide la sua rimozione da Magistrato (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza 25 giugno 2019, n. 16984).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sez. –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6034-2019 proposto da:

D.G.M.P.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Dè Cestari 34, presso lo studio dell’avvocato Giuseppe Valentino, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO la CORTE di CASSAZIONE, MINISTERO della GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 187/2018 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 14/11/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/06/2019 dal Consigliere Dott. Luigi Giovanni Lombardo;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito l’Avvocato Giuseppe Valentino.

Svolgimento del processo

1. – La Procura Generale presso questa Suprema Corte e il Ministro della Giustizia esercitarono l’azione disciplinare nei confronti del magistrato Dott. D.G.M.P.G., sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, formulando nei suoi confronti nove capi di incolpazione per gli illeciti disciplinari – costituenti fatti di reato commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni – di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, lett. d) e art. 3, lett. h).

In particolare, venne contestato al Dott. D.G.:

di avere costretto il consigliere del Comune di (OMISSIS) T.D. a rassegnare le dimissioni dalla sua carica, minacciando in caso contrario l’arresto dei suoi prossimi congiunti, così determinando lo scioglimento dell’amministrazione comunale e la cessazione dalla carica di Sindaco di L.R., in vista della propria ascesa politica nell’ambito locale (capo A).

Di avere indotto D.M., nell’estate del 2008, a procurargli l’indebita utilità di soggiorni gratuiti, per sè e per la famiglia, presso il villaggio residenziale “(OMISSIS)” appartenente ad una società amministrata dal D., incutendo in quest’ultimo il timore del sequestro dell’intero complesso residenziale e prospettando il proprio interessamento presso un collega di ufficio, titolare della relativa indagine, in modo da evitare il provvedimento di sequestro preventivo (capo B).

Di avere, nel contesto del rapporto col D., costretto quest’ultimo ad allontanare dal villaggio residenziale “(OMISSIS)” il responsabile del servizio di portierato, P.V.F., in quanto appartenente a schieramento politico opposto al proprio, nonchè indotto il D. a proporre all’assemblea dei condomini di non accettare la proposta contrattuale di rinnovo del servizio formulata dal P., benchè maggiormente favorevole rispetto alle altre (capo C).

Di avere, abusando della propria qualità di sostituto procuratore della Repubblica, indotto D.F.G., vittima di usura da parte di Pe.An. (parente del magistrato), a non denunciare l’autore del reato (capo D).

Di avere, con la condotta di cui sopra, aiutato Pe.An. ad eludere le indagini penali in ordine al reato di usura da lui commesso in danno del D.F. (capo E).

Di avere, in concorso col Sindaco del comune di (OMISSIS) e col Comandante della Polizia municipale dello stesso comune, in contropartita della promessa rivolta a C.G. di un generale trattamento di favore (relativamente alla gestione abusiva di un pubblico esercizio, alla elargizione di contributi economici e alla assunzione della figlia), ricevuto l’utilità della ritrattazione delle dichiarazioni accusatorie precedentemente formulate dal C. nei confronti del Dott. D.G. nell’ambito di un procedimento penale pendente a carico dello stesso presso l’Autorità giudiziaria di Potenza nonchè l’ulteriore utilità della proposizione di denunce del C. contro L.R., avversario politico del D.G. (capo F).

Di avere, con le condotte contestate nei capi di cui sopra, fatto uso della propria qualità di magistrato per ottenere o fare ottenere a terzi le indebite utilità e gli ingiusti vantaggi indicati nei medesimi capi (capo G).

Di avere svolto in maniera sistematica e continuativa attività correlata ad un partito politico, partecipando alle riunioni operative di partito e prendendo parte alle relative decisioni, in vista della propria possibile candidatura alle elezioni per l’amministrazione provinciale di Taranto del 2009 (capo H).

Di avere, infine, nei giorni 26 e 27 maggio 2007, nel corso di tre interviste rilasciate a quotidiani ed emittenti televisive, offeso la reputazione di L.P. e L.A., assumendo, contrariamente al vero, che essi avevano minacciato il nipote M.A., nonchè di aver offeso la reputazione di L.R., assumendo contrariamente al vero, che lo stesso aveva rivolto minacce a suo figlio P. e che aveva investito denaro all’estero in attività funerarie (capo I). Fatti commessi in (OMISSIS).

I fatti hanno formato oggetto di procedimento penale iscritto presso la Procura della Repubblica di Potenza competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., che contestò al Dott. D.G. i delitti di concussione (art. 317 c.p.), corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), diffamazione col mezzo della stampa (art. 595 c.p., comma 3).

In ragione di ciò, il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo aver adottato nei confronti del Dott. D.G. la misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio e dopo averlo collocato fuori dal ruolo organico della Magistratura, dispose la sospensione del procedimento disciplinare a carico dello stesso in attesa della definizione del giudizio penale.

Il Tribunale di Potenza dichiarò il Dott. D.G. responsabile di plurimi episodi di concussione (capi A, B e C), corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio (capo G), diffamazione col mezzo della stampa (capi 1 e 2) e lo condannò alla complessiva pena di anni quindici di reclusione, con la interdizione perpetua dai pubblici uffici e la interdizione legale per la durata della pena detentiva inflitta.

La sentenza di primo grado fu confermata dalla Corte di Appello di Potenza, che tuttavia dichiarò estinti per sopravvenuta prescrizione i due delitti di diffamazione contestatigli (capi 1 e 2) e rideterminò la pena nella misura di anni dodici e mesi sei di reclusione, ferme le pene accessorie irrogate.

Il procedimento penale si concluse con la sentenza n. 47602 del 2017 emessa da questa Suprema Corte, che annullò senza rinvio la sentenza di appello limitatamente al delitto di concussione contestato al capo A) perchè estinto per sopravvenuta prescrizione, nonchè in ordine al delitto di diffamazione ascritto al capo 2) (già dichiarato estinto per prescrizione) perchè il fatto non sussiste, rigettando nel resto il ricorso del D.G. e rideterminando la pena nella misura di anni otto di reclusione.

2. – A seguito di tale sentenza, il Procuratore generale presso questa Corte riformulò le contestazioni disciplinari alla luce delle conclusioni dei giudici penali e chiese, alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, la fissazione dell’udienza dibattimentale.

A conclusione del giudizio disciplinare, il Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza n. 187 del 2018, ha irrogato al Dott. D.G. – ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, la sanzione disciplinare della rimozione.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso D.G.M.P.G. sulla base di quattro motivi.

4. – Il Ministero della Giustizia non ha svolto attività difensiva.

5. – In prossimità dell’udienza, il ricorrente ha depositato memoria, con la quale ha formulato ulteriori censure.

Motivi della decisione

1. – Col primo motivo, si deduce (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)) la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, per avere la Sezione disciplinare ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., laddove non prevede la sospensione obbligatoria del procedimento disciplinare nel caso in cui l’incolpato, condannato in sede penale, abbia chiesto la revisione del processo ai sensi gli artt. 629 c.p.p. e segg..

La censura non è fondata.

Com’è noto, l’istituto della revisione, previsto dagli artt. 629 c.p.p. e segg., costituisce un mezzo di impugnazione straordinario, che – dando priorità all’esigenza di giustizia sostanziale rispetto a quella di certezza dei rapporti giuridici – consente, in casi tassativi, di rimuovere gli effetti del giudicato (da ultimo, Cass., Sez. Un. pen., n. 6141 del 25/10/2018).

Il D.Lgs. n. 109 del 2006 prevede già la sospensione del procedimento disciplinare nei casi in cui i fatti contestati costituiscano anche fatti di reato per i quali l’incolpato sia sottoposto a procedimento penale (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4 e art. 15, comma 8); e la previsione di una ulteriore sospensione obbligatoria come pretesa dal ricorrente – per il fatto che il condannato in via definitiva in sede penale abbia proposto richiesta di revisione della sentenza di condanna si porrebbe in patente conflitto con la necessità di assicurare la tempestività del giudizio disciplinare.

Invero, posto che corrisponde ad un pregnante interesse pubblico sanzionare disciplinarmente il magistrato che ha tenuto una condotta contraria ai propri doveri d’ufficio, sarebbe certamente irrazionale, per il sistema, prevedere che il procedimento disciplinare rimanga sospeso a seguito della mera iniziativa unilaterale del condannato che proponga richiesta di revisione, quando si è concluso l’iter del processo penale, si sono esaurite le impugnazioni ordinarie e si è pervenuti ad una condanna definitiva.

Piuttosto, il giusto bilanciamento con le esigenze di garanzia dell’incolpato è assicurato dalla previsione dell’istituto della revisione della condanna disciplinare divenuta definitiva (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25), che è ammesso in una serie di ipotesi in gran parte coincidenti con quelle previste dall’art. 630 c.p.p.; cosicchè il condannato che abbia ottenuto la revisione della condanna penale può successivamente chiedere la revisione anche della condanna disciplinare.

D’altra parte, il fatto che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20 non preveda la sospensione obbligatoria del giudizio disciplinare per la proposizione della richiesta di revisione della condanna penale non appare porsi in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto alla sospensione prevista per la pendenza del processo penale, data la diversità di situazione che si determina dopo formazione del giudicato penale; nè appare configurare una violazione dell’art. 24 Cost. sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, il cui pieno esercizio è invece assicurato dalla possibilità di richiedere in ogni tempo la revisione della condanna disciplinare (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25); tantomeno si profila una violazione del principio della “ragionevole durata del processo” di cui all’art. 111 Cost., neppure adeguatamente sviluppata nel motivo dal ricorrente.

Esattamente, dunque, la Sezione disciplinare ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, sollevata dall’incolpato, in riferimento ai parametri costituzionali degli artt. 3, 24 e 111 Cost..

2. – Col secondo motivo, si deduce (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)) l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, comma 2, nonchè la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, per avere il Consiglio Superiore della Magistratura ritenuto operante il vincolo del giudicato penale, non solo con riferimento al capo di incolpazione disciplinare denominato con la lettera C) rispetto al quale vi era corrispondenza tra il fatto materiale contestato disciplinarmente e quello oggetto di condanna penale, ma anche con riferimento agli altri capi di incolpazione per i quali tale corrispondenza non vi era (capi A, B, D, E, F, G, H, I).

Il motivo è inammissibile, per un verso, per difetto di specificità e, per altro verso, per difetto di interesse (sotto il profilo della mancata censura della ratio decidendi della sentenza impugnata).

Sotto il primo profilo, va rilevato che il ricorrente non riporta i fatti posti a fondamento degli illeciti disciplinari contestati e quelli per i quali vi è stata condanna penale, non consentendo così alla Corte di cogliere il tenore delle doglianze, di verificarne la fondatezza e, in definitiva, di svolgere il proprio sindacato.

Il ricorrente, per di più, richiama esclusivamente i capi di incolpazione originari, senza considerare che, a seguito della conclusione del giudizio penale, il Procuratore generale presso questa Corte ha formulato un capo di incolpazione “nuovo”, col quale ha tenuto conto dell’esito del giudizio penale.

Sotto il secondo profilo, poi, il ricorrente non coglie come, a seguito del giudicato penale di condanna (con la irrogazione della pena finale di anni otto di reclusione, la interdizione perpetua dai pubblici uffici e la interdizione legale per la durata della pena inflitta), la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura non poteva che determinarsi ad applicare la sanzione della rimozione ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, disposizione puntualmente richiamata dal giudice della disciplina.

Sul punto, va ricordato che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12 (intitolato “Sanzioni applicabili”) al comma 5 stabilisce: “Si applica la sanzione della rimozione al magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, comma 1, lett. e), che incorre nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p. o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’art. 168 c.p.”.

Si tratta di una disposizione che prevede tre distinte ipotesi nelle quali la rimozione del magistrato è “obbligatoria” (Cass., Sez. Un., n. 23677 del 06/11/2014).

Sul punto, va ricordato che, con la sentenza n. 197 del 12 novembre del 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il profilo del difetto di ragionevolezza, della disparità di trattamento e della proporzionalità della sanzione. In tale occasione, il giudice delle leggi ha osservato come vada ripudiata la tesi della natura cumulativa dei presupposti previsti dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, ai fini della rimozione, perchè “conduce all’illogica conseguenza che, a far scattare la sanzione della rimozione obbligatoria – prevista, nell’intero impianto del D.Lgs. n. 109 del 2006, soltanto dalla disposizione qui censurata – non sarebbe sufficiente che il magistrato incorra in una condanna penale che ne comporti l’interdizione dai pubblici uffici, ovvero in una condanna a pena detentiva non condizionalmente sospesa, occorrendo altresì che i fatti per i quali il magistrato sia stato penalmente condannato integrino anche l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e).

Conseguenza, questa, anch’essa palesemente assurda, posto che impedirebbe di ravvisare un’ipotesi di rimozione obbligatoria – ad esempio – nel caso in cui il magistrato venisse condannato per reati gravissimi, come l’omicidio volontario o la violenza sessuale, le cui rispettive fattispecie astratte tuttavia nulla hanno a che fare con quella dell’illecito disciplinare di cui è discorso”.

Deve perciò ritenersi che il legislatore abbia inteso prevedere la rimozione obbligatoria del magistrato allorchè si verifichi, nei suoi confronti, una soltanto delle seguenti situazioni giuridiche, connotate da speciale gravità rispetto alla generalità degli altri illeciti disciplinari:

1) la condanna per l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e), la cui condotta consiste nell’aver ottenuto, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili, dai difensori di costoro, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti;

2) la condanna penale che abbia importato la irrogazione della pena accessoria della interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici (pena accessoria, questa, la cui esecuzione risulta evidentemente incompatibile con l’esercizio delle funzioni giudiziarie per tutto il tempo in cui essa opera);

3) la condanna penale a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa (sin dall’inizio ovvero a seguito di revoca della sospensione già concessa).

Sul punto, va enunciato, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, il seguente principio di diritto:

“In tema di sanzioni disciplinari dei magistrati, il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, prevede tre diverse ipotesi, alternative tra di loro, ricorrendo una sola delle quali va disposta obbligatoriamente la rimozione del magistrato”.

Nella specie, il Dott. D.G. ha riportato condanna penale alla pena di anni otto di reclusione, che ha comportato la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Ricorrevano, pertanto, ben due delle tre ipotesi previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, ciascuna sufficiente a determinare la irrogazione obbligatoria della sanzione della rimozione. Ed è evidente che il Consiglio Superiore della Magistratura non avrebbe potuto determinarsi altrimenti.

3. – Col terzo mezzo, si deduce l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., art. 6, par. 1 della C.E.D.U. e art. 2 del protocollo n. 7 della C.E.D.U., per la mancata previsione, in seno al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, di un doppio grado di giurisdizione di merito.

Il motivo è privo di fondamento.

La Corte costituzionale ha affermato e costantemente ribadito che il principio del doppio grado di giurisdizione non gode di copertura costituzionale, non essendo riconosciuto dalla Costituzione quale necessaria garanzia di difesa (Corte Cost., nn.: 243 del 2014; 351 del 2007; 42 del 2014, 190 del 2013, 410 del 2007 e 84 del 2003), spettando piuttosto al legislatore ampia discrezionalità in tema di conformazione degli istituti processuali (Corte Cost. nn.: 65 del 2014, 216 del 2013, 48 del 2014 e 190 del 2013).

Anche questa Suprema Corte, con specifico riferimento al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, ha statuito che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non è costituzionalmente sancito, sicchè, dalla circostanza che il processo disciplinare nei confronti dei magistrati – secondo la struttura delineata con il D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 – si svolga in un unico grado di merito, con facoltà per l’incolpato di impugnare la sentenza che lo definisce davanti alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, non può ricavarsi alcun giudizio di incongruenza od aporia del sistema, con conseguente manifesta infondatezza della relativa eccezione di legittimità costituzionale (Cass., sez. Un., n. 22610 del 24/10/2014).

In ordine alle pretese violazioni della C.E.D.U., la censura è inammissibile quanto alla denunciata violazione dell’art. 6 della C.E.D.U., perchè del tutto generica; è, invece, manifestamente infondata quanto alla pretesa violazione dell’art. 2 del protocollo n. 7 allegato alla C.E.D.U. (che garantisce ad ogni persona dichiarata colpevole da un tribunale il diritto a far esaminare la dichiarazione di colpevolezza da una giurisdizione superiore), sia perchè trattasi di disposizione specificamente dettata per la “materia penale” e non estensibile alla materia disciplinare, sia perchè la garanzia del ricorso per cassazione, assicurata dall’art. 111 Cost., soddisfa comunque la garanzia del riesame (sia pure limitatamente alle questioni di diritto) della sentenza di condanna (Cass. pen., Sez. 6, n. 30059 del 05/06/2014).

4. – Col quarto motivo, si deduce ancora la violazione degli artt. 24 e 111 Cost. e art. 6 C.E.D.U., nonchè la mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, per avere la Sezione disciplinare omesso di prendere in esame la doglianza dell’incolpato con la quale si lamentava che la Corte di Appello penale aveva utilizzato atti contenuti nel fascicolo del P.M. e non transitati nel fascicolo per il dibattimento, il cui esame, perciò, le era precluso.

Il motivo è inammissibile, perchè con esso si deducono pretese nullità della sentenza penale di condanna, che avrebbero dovuto essere dedotte con apposito motivo di impugnazione e che sono ormai coperte dal giudicato penale.

4. – Come si è detto, con la memoria il ricorrente ha formulato ulteriori censure alla sentenza della Sezione disciplinare.

4.1. – Innanzitutto, il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, perchè la Sezione disciplinare non avrebbe considerato che gli illeciti di cui ai capi di incolpazione contrassegnati con le lettere D), E), G, ed F) erano estinti per prescrizione.

La censura è inammissibile per difetto di specificità.

Il ricorrente, infatti, non riporta i fatti contestati con i capi di incolpazione disciplinare e quelli contestati con i capi di imputazione per i quali vi è stata condanna in sede penale, e non considera che, a seguito della conclusione del giudizio penale, il Procuratore generale presso questa Corte ha formulato un nuovo capo di incolpazione col quale ha espunto diversi dei capi di incolpazione originari. Parimenti, il ricorrente non considera che la Sezione disciplinare ha inteso sanzionare l’incolpato limitatamente ai fatti per i quali vi è stata condanna penale, non considerando gli altri.

4.2. – Il ricorrente deduce poi la illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 17, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost. e art. 6 C.E.D.U., per il fatto di non prevedere il diritto dell’incolpato detenuto di partecipare all’udienza disciplinare.

Anche questa questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata.

Invero, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, nel giudizio disciplinare si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale sul dibattimento (eccezion fatta per quelle che comportano l’esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell’imputato, dei testimoni, dei periti e degli interpreti).

Devono pertanto ritenersi applicabili, al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, le norme del codice di procedura penale che assicurano agli imputati detenuti la possibilità di partecipare al dibattimento (art. 484, comma 2 bis, in relazione agli artt. 420 bis, 420 ter, 420 quater e 420 quinquies c.p.p., nonchè art. 22 disp. att. c.p.p.); con la conseguenza che l’asserito vuoto normativo e la pretesa lesione del diritto di difesa non sussistono.

4.3. – Il ricorrente deduce, infine, la nullità della sentenza impugnata per l’omessa traduzione dell’incolpato detenuto dinanzi alla Sezione disciplinare.

Anche questa censura è destituita di fondamento.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, la mancata traduzione in udienza dell’imputato detenuto e regolarmente citato determina la nullità assoluta ed insanabile del giudizio e della relativa sentenza solo nell’ipotesi in cui il detenuto abbia formulato espressa richiesta di comparire all’udienza (Cass. pen.: Sez. 4, n. 51517 del 21/06/2013; Sez. 2, n. 28780 del 22/06/2016; Sez. 2, n. 5950 del 22/01/2014).

Nella specie, il ricorrente non ha dedotto di aver avanzato richiesta, a seguito della citazione per il giudizio disciplinare, di comparire in udienza; cosicchè la doglianza, come formulata, risulta priva di fondamento.

3. – Il ricorso va pertanto rigettato.

Nulla va disposto sulle spese, non avendo il Ministero della Giustizia svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 4 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2019