(Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 12 marzo – 13 aprile 2015, n. 14998)
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. Con sentenza del 21 marzo 2013 il GUP del Tribunale di Tivoli, all’esito di giudizio abbreviato, condannava alla pena di anni trenta di reclusione S.A. , giudicato colpevole dell’omicidio pluriaggravato, mediante undici coltellate, della ex convivente B.B.C. (artt. 575, 577 commi 1 e 2, artt. 61 n. 4 e 5 c.p.).
Secondo quanto ricostruito dal giudice di merito sulla base della confessione dell’imputato e delle dichiarazioni di numerosi testimoni, l’imputato e la vittima avevano avuto una relazione protrattasi per alcuni mesi e tradottasi anche in una convivenza, interrotte, l’una e l’altra, per iniziativa della ragazza stanca dell’assillante gelosia del compagno; nel pomeriggio del (omissis) l’imputato si era recato presso il bar dove la vittima lavorava per convincerla a riprendere la loro relazione ed alla risposta negativa della ragazza, si era recato presso l’abitazione di un amico dove si era cambiato d’abito e dalla quale era uscito, verso le ore 19, armato di un coltello da cucina con il quale – in tal senso sono state le dichiarazioni del prevenuto – aveva deciso di tagliare le gomme dell’autovettura della vittima; vicino ad essa il prevenuto aveva atteso fino alle 22,00 quando la ragazza, al termine del suo turno lavorativo, l’aveva raggiunto accettando di farsi accompagnare a prelevare il figlioletto di due anni affidato ad una baby sitter; sistemato il bimbo sul seggiolino fissato sul sedile posteriore, la vittima aveva invitato l’imputato ad uscire dall’autovettura e questi, per tutta risposta, aveva iniziato a colpirla ripetutamente uccidendola; il prevenuto era quindi uscito dall’automezzo colpendosi alla gola ed al torace con lo stesso coltello usato contro la vittima; una coppia di giovani fidanzati, di passaggio in quel momento sulla piazza, aveva notato l’imputato mentre si colpiva, il corpo esanime ed insanguinato della vittima ed il bambino che piangeva, ed aveva pertanto immediatamente dato l’allarme telefonico consentendo in tal modo l’intervento delle forze dell’ordine.
Sulla base di siffatta ricostruzione, come detto suffragata dalla confessione dell’imputato, dalle dichiarazioni dei due giovani fidanzati che per primi sopraggiunsero sul luogo del delitto, di numerosi connazionali della coppia, degli esiti dell’esame autoptico e dei rilievi di polizia, l’imputato veniva accusato e condannato per il reato di omicidio premeditato, ulteriormente aggravato dalla crudeltà e dalla minorata difesa.
2. Avverso la sentenza di primo grado proponeva appello l’imputato chiedendo la rinnovazione della istruttoria dibattimentale per l’espletamento di una perizia psichiatrica e, nel merito, la riforma della decisione impugnata con la esclusione delle ritenute aggravanti della premeditazione e della crudeltà. La difesa appellante chiedeva altresì la riduzione della pena ed il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza. La Corte di assise di appello di Roma, con sentenza del 17 dicembre 2013, rigettava ogni motivo di doglianza e confermava integralmente la decisione di primo grado.
3. Ricorre per cassazione avverso la pronuncia di appello l’imputato, assistito dal difensore di fiducia, sviluppando tre motivi di impugnazione.
3.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente vizio della motivazione in relazione alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’espletamento della perizia psichiatrica per valutare la capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento del fatto, in particolare deducendo: con l’appello la difesa dell’imputato aveva domandato la rinnovazione del dibattimento per espletare la perizia psichiatrica sulla persona dell’imputato; la corte territoriale ha rigettato l’istanza difensiva sul rilievo che l’appellante non avrebbe fatto riferimento a patologie né avrebbe tenuto comportamenti sintomatici di reale alterazione mentale; eppure la vicenda evidenzia due circostanze estremamente significative, il tentato suicidio mediante profonda lesione alla gola e la presenza sul corpo dell’imputato, sottoposto a consulenza medico legale per iniziativa del P.M., di pregresse ferite espressione di atti di autolesionismo; di qui l’evidenza di un disagio mentale del prevenuto liquidato senza adeguata motivazione dai giudici di primo e secondo grado.
3.2 Col secondo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente vizio della motivazione in ordine alla mancata esclusione delle aggravanti della premeditazione e della crudeltà, in particolare osservando: quanto all’aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p., essa è stata argomentata dai giudici di merito con il numero delle coltellate, undici, e con la consumazione dell’aggressione alla presenza del figlio della vittima di neppure due anni; secondo i giudicanti i colpi inferti dopo i primi tre o quattro, riconosciuti come immediatamente mortali dalla consulenza autoptica, assumono il valore di gratuita violenza ed esprimono la volontà di infierire sulla vittima; l’azione delittuosa, viceversa, non dimostra affatto il quid pluris rispetto all’attività volta all’omicidio richiesto per l’aggravante in parola; anche la presenza del piccolo figlio della vittima non può configurare l’aggravante in parola giacché è ragionevole pensare che proprio l’età del minore non gli abbia consentito di comprendere quello che tragicamente accadeva attorno a lui; la sentenza argomenta sulla possibilità di futuri traumi, conseguenza del tutto congetturale priva di riscontri; quanto poi alla premeditazione, la sentenza utilizza, per affermarla, la testimonianza della madre della vittima, secondo la quale l’imputato da tempo minacciava di morte la figlia prefigurando il suo contestuale suicidio e la circostanza che il prevenuto aveva portato con sé il coltello; nessuna delle due circostanze appare decisiva per provare i requisiti della premeditazione; la ricostruzione della vicenda è invece dimostrativa di un dolo d’impeto esploso dopo l’ennesimo rifiuto della donna e della premeditazione manca in concreto l’elemento temporale.
3.3 Col terzo ed ultimo motivo di impugnazione, denuncia la difesa ricorrente vizio della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche rispetto alle aggravanti contestate, in particolare osservando: non ha fatto la corte territoriale buon uso dell’art. 133 c.p.; non ha considerato, in particolare, la corte di merito, la personalità dell’imputato, giovanissimo, di modestissima cultura, straniero, immaturo, con precario inserimento sociale, incensurato e mosso all’azione delittuosa da una patologica gelosia; neppure ha considerato il giudice di merito il comportamento processuale del prevenuto, che ha confessato, contra se, di essersi armato di coltello, circostanza questa poi utilizzata per contestargli l’aggravante della premeditazione.
4. Il ricorso è fondato nei limiti che si passa ad esporre.
4.1 Infondato è, in particolare, il primo motivo di impugnazione. Sulla censura di natura processuale ad esso affidata, giova richiamare la costante, reiterata e sempre convergente lezione interpretativa di questa corte di legittimità, secondo cui, nel giudizio d’appello, la rinnovazione del dibattimento, implicando una deroga alla presunzione di completezza dell’indagine istruttoria svolta nel primo grado di giudizio, rappresenta un istituto di carattere eccezionale.
Ne consegue che l’art. 603, comma 1, c.p.p. non riconosce il carattere dell’obbligatorietà all’esercizio del potere di rinnovazione da parte del giudice, anche quando è richiesta per assumere nuove prove, ma subordina tale potere alla condizione rigorosa che egli non possa decidere allo stato degli atti, nel senso che risulta indispensabile – ai fini della pronuncia – un approfondimento probatorio (Cass., Sez. IV, 02/12/2009, n. 47095).
In riferimento particolare poi alla motivazione del rigetto della istanza istruttoria, ha avuto modo di osservare il giudice di legittimità che esso si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fondi su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità (Cass., Sez. VI, 21/05/2009, n. 40496).
Non solo: per Cass., Sez. II, 16/03/2005, n. 13489, in tema di rinnovazione in appello dell’istruzione dibattimentale, il giudice, pur investito di specifica richiesta con i motivi di impugnazione, è tenuto a motivare solo nel caso in cui a detta rinnovazione acceda. Infatti, in considerazione del più volte evocato principio di presunzione di completezza dell’istruttoria compiuta in primo grado, egli deve dar conto dell’uso che va a fare del suo potere discrezionale conseguente alla convinzione maturata di non poter decidere allo stato degli atti.
Non così, viceversa, nell’ipotesi di rigetto, in quanto, in tal caso, la motivazione può anche essere implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della sentenza d’appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti all’affermazione, o negazione, di responsabilità. Pertanto, nell’ambito di tale quadro normativo e giurisprudenziale, deve essere valutata la censura mossa dalla difesa alla sentenza del giudice dell’appello sotto il profilo del vizio della motivazione, riconducibile alla fattispecie processuale di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), delibandola nel contesto della ulteriore specificità data nel caso di specie dalla celebrazione del primo grado di giudizio nelle forme del rito abbreviato, nel cui ambito, secondo comune insegnamento, la mera sollecitazione probatoria non è idonea a far sorgere in capo all’istante quel diritto alla prova, al cui esercizio ha rinunciato formulando la richiesta di rito alternativo (Cass. Sez. 5, n. 5931 del 7.12.2005 rv. 233845).
Ciò posto, va osservato che la motivazione della sentenza della Corte territoriale (da ritenersi integrata della decisione di primo grado, attesa la conformità delle due decisioni) sul tema dell’invocato accertamento peritale, non presenta alcuno dei vizi previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) che devono essere desumibili dal testo del provvedimento impugnato.
Nella decisione in scrutinio è stato infatti evidenziato che nulla, nel presente e nel passato esistenziale dell’imputato giustificava un accertamento sulle sue capacità di intendere e di volere al momento del fatto e che le stesse circostanze della vicenda in esame apparivano dimostrative di una piena sua coscienza e consapevole volontà di agire, argomenti del tutto logici e coerenti con le regole processuali, in nulla inficiati dal tentativo di suicidio posto in essere dal prevenuto né dagli atti di autolesionismo verificati dal consulente del P.M., la cui possibile incidenza sulla capacità dell’imputato non risulta affatto dimostrata.
4.2 Altresì infondato è il motivo di ricorso affidato dalla difesa ricorrente al secondo motivo di impugnazione al fine di contestare la legittimità della riconosciuta aggravante della premeditazione.
Al riguardo è noto l’insegnamento di legittimità secondo cui elementi costitutivi della circostanza aggravante in parola sono un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso (elemento di natura cronologica) e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica) (Cass., Sez. Unite, 18/12/2008, n. 337).
Nel caso in esame hanno logicamente sostenuto i giudici di merito che la premeditazione dell’omicidio risulta dimostrata da una serie di dati fattuali di essa sintomatici: innanzitutto il proposito da tempo manifestato dall’imputato di uccidere la ex convivente e di uccidersi se non ripristinata la convivenza, proposito riferito dalla madre della vittima e singolarmente, quanto tragicamente aderente ai fatti di causa così come essi in seguito concretizzatisi; il movente dell’omicidio valorizzato dai giudici territoriali, dato dalla mancata accettazione della volontà della donna di liberarsi da una convivenza divenuta inaccettabile per la morbosa gelosia del compagno; le modalità dell’azione delittuosa, accuratamente preparate e programmate nel tempo. L’imputato, già nel pomeriggio, aveva cercato, riuscendo nell’intento, un incontro con la vittima, la quale, alla sua rinnovata richiesta di tornare insieme, aveva opposto l’ennesimo rifiuto; il comportamento successivo del prevenuto appare dimostrativo, per i giudici territoriali, di un progetto a lungo meditato e con cura preparato: dopo il rifiuto anzidetto, infatti, l’imputato si è recato a casa di un amico dove si è cambiato di abito e si è armato di coltello, l’arma del delitto, facendo poi ritorno nei pressi dell’autovettura della vittima; qui ha atteso la vittima pazientemente per alcune ore, fino alle ventidue, orario di uscita dal luogo di lavoro; a questo punto ha chiesto ed ottenuto di accompagnarla a prelevare il bimbo di due anni accudito da una baby sitter ed all’ennesimo rifiuto della compagna, venuta meno la condizione alla quale aveva sottoposto il proposito omicidiario, ha consumato il delitto, per quanto detto, a lungo meditato e preparato. Orbene, in tema di premeditazione, la causale omicidiaria costituisce uno degli elementi dai quali va desunta la sussistenza dell’aggravante (Cass., Sez. I, 04/12/2008, n. 2439) al pari della predisposizione dei mezzi per l’attuazione del piano (Cass., Sez. I, 16/06/2005, n. 26793, Giampà) alle quali nella fattispecie si deve aggiungere, per la rilevanza opportunamente data dalla corte territoriale a tale fatto, le minacce di morte ripetutamente indirizzate dall’imputato alla vittima eppoi realizzate nei profili con esse prefigurate (omicidio e suicidio contestuale ancorché tentato).
Sul valore della minaccia del fatto delittuoso come fatto sintomatico della premeditazione cfr. Cass., Sez. I, 25/01/1996, n. 1910, Bima. Ricorrono pertanto nella specie i requisiti richiesti dalla norma per l’affermazione dell’aggravante in discorso e del tutto logica si appalesa la motivazione sviluppata sul punto dalla corte territoriale, alla quale la difesa ricorrente ha opposto censure generiche e comunque di merito.
4.3 Viceversa fondato giudica la corte il secondo motivo di doglianza là dove censura la motivazione impugnata nella parte in cui riconosce a carico dell’imputato l’ulteriore aggravante della crudeltà. Orbene, in materia è noto l’insegnamento costante del giudice di legittimità secondo cui la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p. ricorre allorquando vengano inflitte alla vittima sofferenze che esulano dal normale processo di causazione dell’evento, nel senso che occorre un “quid pluris” rispetto all’esplicazione ordinaria dell’attività necessaria per la consumazione del reato, poiché proprio la gratuità dei patimenti cagionati rende particolarmente riprovevole la condotta del reo, rivelandone l’indole malvagia e l’insensibilità a ogni richiamo umanitario. In applicazione di tale principio è stata pertanto negata la ricorrenza dell’aggravante in parola nella ipotesi dell’omicidio, commesso in un impeto di gelosia, caratterizzato dalla mera reiterazione di colpi di coltello inferti alla vittima e questo sul rilievo che tale reiterazione, essendo connessa alla natura del mezzo usato per conseguire l’effetto delittuoso, non eccede i limiti della normalità causale e non trasmoda in una manifestazione di efferatezza specie in considerazione del movente delittuoso (Cass., Sez. I, 06/10/2000, n. 12083 Khalid, rv. 217346; nello stesso senso ed in fattispecie analoga: Cass., Sez. V, 17/01/2005, n. 5678, rv. 20745, secondo cui “Nel delitto di omicidio, la mera reiterazione di colpi inferti alla vittima non è condotta rilevante ai fini della configurabilità della circostanza aggravante consistente nell’aver agito con crudeltà, in quanto, essendo connessa alla natura del mezzo usato per conseguire l’effetto delittuoso, non eccede i limiti della normalità causale e non trasmoda in una manifestazione di efferatezza”. Orbene, del tutto analoga è la concreta fattispecie giudicata con la sentenza impugnata, caratterizzata da undici fendenti portati per eseguire l’omicidio e non già per procurare una sofferenza aggiuntiva, peraltro divenuta impossibile dappoiché accertato che le primissime coltellate avevano immediatamente cagionato la morte della ragazza (Cass., sez. I, 21/10/2002, Botticelli, rv. 222519).
Del tutto eccentrico, rispetto alla questione giuridica in discussione, si appalesa infine il richiamo alla presenza del bimbo di due anni. È pur vero, infatti, che per Cass., Sez. I, 10/07/2002, n. 35187, Botticelli e altri, rv.222520, l’aggravante in parola ricorre anche quando l’azione del colpevole sia indirizzata verso una o più persone diverse dalla vittima del reato, che rimane però la destinataria della sofferenza.
Alla stregua delle esposte considerazioni non ricorre nella fattispecie, a carico dell’imputato, l’aggravante di cui all’art. 61 c.p.p., co. 1, n. 4. La sentenza impugnata va pertanto cassata sul punto, annullamento da deliberare senza rinvio giacché comunque non incidente la eliminazione dell’aggravante detta sulla pena inflitta, attesa riconosciuta legittimità dell’aggravante della premeditazione che comporta la pena dell’imputato e la ricorrenza, altresì, di quella della minorata difesa non censurata dalla difesa.
4.4 Manifestamente infondata è infine il terzo motivo di impugnazione, incentrato sulla censura del trattamento sanzionatorio ed in particolare sul diniego delle circostanze attenuanti generiche. È noto al riguardo l’insegnamento di questo giudice di legittimità secondo cui, in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio, trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti, tuttavia, la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Cass., Sez. II, 22/02/2007, n. 8413; Cass., Sez. II, 02/12/2008, n. 2769) giacché il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (Cass., Sez. II, 23/11/2005, n. 44322).
Ciò premesso ed in applicazione degli esposti principi deve concludersi che, ai fini dell’applicabilità o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, assolve all’obbligo della motivazione della sentenza il riferimento ai precedenti penali dell’imputato, ritenuti di particolare rilievo come elementi concreti della di lui personalità, non essendo affatto necessario che il giudice di merito compia una specifica disamina di tutti gli elementi che possono consigliare o meno una particolare mitezza nell’irrogazione della pena (Cass., Sez. V, 06/09/2002, n. 30284; Cass., Sez. II, 11/02/2010, n. 18158) ovvero, il che è lo stesso, alla gravità della condotta giudicata.
Nel caso di specie la Corte ha dapprima illustrato le ragioni della doglianza e ad esse ha poi opposto la motivazione di prime cure, ribadendo non solo la estrema gravità dei fatti, ma anche le modalità delle condotte giudicate, giudicate di rilievo maggiore, per la decisione, dell’età dell’imputato e del suo stato di incensuratezza, peraltro di per sé inidoneo, per disposizione normativa, a sostenere il riconoscimento del beneficio.
Palese pertanto, in applicazione dei principi innanzi esposti, la manifesta infondatezza della censura in esame, sia sotto il profilo del difetto di motivazione che della violazione di legge.
P.Q.M.
la Corte, annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante della crudeltà, che esclude;
rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere le spese sostenute in questo giudizio dalla parte civile S.V. che liquida in Euro 4000,00 oltre accessori come per legge.