REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Rel. Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14552-2019 proposto da:
(OMISSIS) GIANFRANCO, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall avvocato ANTONIO (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale 2021 rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata 630 in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE (OMISSIS) (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1662/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 06/03/2019 R.G.N. 3374/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. NICOLA DE MARINIS.
RILEVATO
che, con sentenza del 6 marzo 2019, la Corte d’Appello di Napoli confermava la decisione resa dal Tribunale di Benevento e rigettava la domanda proposta da Gianfranco (OMISSIS) nei confronti di Poste Italiane S.p.A., avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli per aver costretto con minacce taluni colleghi di lavoro a ritrattare dichiarazioni già rese durante un precedente procedimento disciplinare e non aver comunicato all’azienda la propria situazione personale dei carichi pendenti e del casellario giudiziale;
che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto sufficiente ai fini della ricorrenza della giusta causa di licenziamento, in ragione della sua gravità, l’addebito risultato provato all’esito dell’espletata istruttoria di aver costretto con minacce taluni colleghi di lavoro a ritrattare dichiarazioni già rese durante un precedente procedimento disciplinare e, su questa base, suscettibile di essere superata l’eccezione della tardività della contestazione ritenuta fondata solo con riguardo al secondo addebito;
che per la cassazione di tale decisione ricorre il (OMISSIS), affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la Società;
che la Società controricorrente ha poi presentato memoria;
CONSIDERATO
che, con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. lamenta la non rispondenza dell’iter valutativo seguito dalla Corte per la formazione del giudizio in ordine alla ricorrenza della giusta causa ai criteri elaborati da questa Corte per la formulazione di tale giudizio;
che, con il secondo motivo, si deduce, alla stregua degli artt. 111 Cost. e 132, comma 1, n. 4, la nullità del procedimento e della sentenza a motivo del carattere meramente apparente della motivazione con la quale rigetta la sollevata eccezione di tardività della contestazione con riferimento all’addebito relativo all’intimidazione e minaccia ai colleghi;
che, prendendo le mosse dal secondo motivo, con il quale il ricorrente mira all’accoglimento dell’eccezione di tardività della contestazione anche con riguardo al primo addebito, che inficerebbe ab imis la pronuncia della Corte territoriale la quale, riconosciuta la tardività della contestazione del secondo addebito, fonda esclusivamente sul primo la ritenuta ricorrenza della giusta causa di recesso, ne va rilevata l’infondatezza;
che, invero, non trova riscontro la censura sollevata dal ricorrente, per la quale la Corte territoriale, dato conto della data del 26.9.2016 in cui la Società, su denuncia del collega del ricorrente poi fatto oggetto delle minacce contemplate dal primo addebito, veniva a conoscenza dei fatti che avrebbero poi dato luogo al procedimento a carico del ricorrente medesimo, non avrebbe motivato sulla ritenuta tempestività dell’inoltro della relativa contestazione solo il successivo 17.5.2017;
che, al contrario, la Corte territoriale dà conto del proprio pronunciamento in relazione alla necessità di avviare una verifica interna sui fatti denunciati dal collega a carico del ricorrente ed alle dimensioni della Società che, lungi dal potersi qualificare riferimento meramente generico, come pretenderebbe il ricorrente, evoca chiaramente la complessità organizzativa della Società datrice, cui evidentemente si correla la dilatazione dei tempi di avvio e di esecuzione dell’indagine, così che la pronunzia ben può ritenersi conforme all’orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte per cui “il requisito dell’immediatezza della contestazione va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile, nei limiti della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto da parte del datore di lavoro, con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo” (cfr. Cass. 11.4.2017, n. 9285);
che parimenti infondato si rivela il primo motivo, dovendosi ritenere la piena congruità con il disposto dell’art. 2119 c.c., nei termini in cui questa Corte ha ritenuto di delinearne il procedimento valutativo utile per ritenerne integrati gli estremi, di un giudizio che, muovendo dalla considerazione della condotta sotto il profilo oggettivo e soggettivo che approda alla qualificazione della medesima come condotta intenzionale spinta fino ai limiti della rilevanza penale e tenendo conto altresì di come quella condotta dal secondo addebito, (pur tardivamente contestato, relativo alla mancata comunicazione della propria posizione circa i carichi pendenti ed il casellario giudiziale) riceva un’ulteriore illuminazione, riflettendo da parte dell’azienda l’acquisizione in quel momento della consapevolezza di una certa dimestichezza del ricorrente con azioni penalmente perseguibili, che certamente non si confanno, come ulteriormente motiva la Corte territoriale, all’affidamento di posizioni di preposizione gerarchica come quella di supervisore rivestita dal ricorrente, perviene alla conclusione della idoneità della condotta medesima a pregiudicare l’affidamento del datore di lavoro sull’esatto adempimento delle prestazioni future;
che, il ricorso va dunque rigettato;
che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 10 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2021.