Vedova nigeriana perseguitata dal cognato che la reclama in sposa. Si allo status di rifugiata.

(Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 24 novembre 2017, n. 28152)

…, omissis …

Fatto e diritto

Con ordinanza del 04/02/2013 il Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso proposto da Ja. Ob. St., cittadina nigeriana (omissis…), avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale, riconoscendole per l’effetto il diritto alla protezione sussidiaria.

Con sentenza n. 9/2014 la Corte d’appello di Bologna ha accolto l’appello principale proposto dal Ministero dell’interno e rigettato l’appello incidentale della cittadina straniera volto al riconoscimento dello status di rifugiato, e, in riforma dell’ordinanza impugnata, le ha negato ogni forma di protezione.

La richiedente ha dedotto di essere stata costretta ad abbandonare il proprio Paese d’origine in quanto, in seguito alla morte del marito, si era rifiutata di sottoporsi alle pratiche funebri tradizionali imposte alle vedove e di unirsi in matrimonio con il cognato (fratello del defunto) secondo il diritto consuetudinario locale. In conseguenza del rifiuto, Ja. Ob. St. veniva allontanata dalla sua abitazione, privata della potestà genitoriale sui figli, spogliata dalle sue proprietà e perseguitata dal cognato, il quale reclamava il suo diritto ad averla in sposa.

La Corte territoriale, per quanto ancora interessa, ha ritenuto che tale situazione non fosse riconducibile ad alcuna forma di persecuzione ex art. 7, D.Lgs. 251/2007, giacché la richiedente, appellatasi all’autorità del villaggio, aveva potuto sottrarsi all’applicazione delle norme consuetudinarie locali e aveva scelto volontariamente di andare via.

Avverso suddetta pronuncia propone ricorso per cassazione la cittadina straniera, sulla base di due motivi.

Non svolge difese l’Amministrazione intimata.

Con il primo motivo viene lamentata la violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c, degli artt. 3 e 7, D.Lgs. 251/2007, nonché difetto di motivazione in ordine alla mancata valutazione delle condotte subite dalla ricorrente quali atti di persecuzione basati sul genere.

Gli atti subiti dalla richiedente hanno determinato la lesione di diritti fondamentali quali il diritto alla genitorialità, alla proprietà privata, alla libertà di scegliere se e con chi contrarre nuovo matrimonio. Il diritto consuetudinario locale nega alle donne, in quanto tali, pari diritti di proprietà e genitorialità in caso di morte del marito, e le autorità tradizionali del villaggio hanno soltanto protetto la richiedente da un rischio immediato alla vita, ma non hanno posto fine alla violazione dei suoi diritti fondamentali.

Con il secondo motivo viene lamentata la violazione dell’art. 112 c.p.c, per non essersi la Corte d’appello pronunciata sul secondo motivo di appello incidentale relativo alla fondatezza dell’ordinanza del Tribunale nel punto in cui ha riconosciuto la protezione sussidiaria; nonché la violazione dell’art. 14, D.Lgs. 251/2007, per difetto di motivazione in ordine alla rilevanza della situazione personale della ricorrente rispetto alla situazione di conflitto esistente nel Paese d’origine.

  1. Il primo motivo è meritevole di accoglimento.

2. Ai sensi dell’art. 7, D.Lgs. 251/2007, gli atti di persecuzione, che devono essere «sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali» (primo comma, lett. a), possono assumere la forma, tra l’altro, di «atti di violenza fisica o psichica» (secondo comma, lett. a), o di «atti specificatamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia» (secondo comma, lett. f).

2.1. Ai sensi dell’art. 3, comma 4, D.Lgs. cit., «il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi».

2.2. La pronuncia impugnata si pone in contrasto tanto con tali norme quanto con il quadro di riferimento internazionale e comunitario.

3. Invero, come già statuito da questa Corte, in virtù degli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul dell’11/05/2011 (resa esecutiva in Italia con L. 77/2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all’ambito dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale (Cass. n. 12333 del 17/05/2017).

4. Ai sensi dell’art. 60, par. 1, della Convenzione «Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare / sussidiaria».

5. In base all’art. 3, lett. b), «l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

6. Infine, a livello di soft law, le linee guida dell’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) del 07/05/2002 sulla persecuzione basata sul genere, al punto 25 specificano – come posto in luce dalla ricorrente – che si ha persecuzione anche quando una donna viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali religiose legate al suo genere.

6.1. Nel caso di specie la richiedente, professante la religione cristiana, si era rifiutata di rispettare le regole consuetudinarie del proprio villaggio, subendo per tal motivo la persecuzione da parte del cognato (il quale la “rivendicava” per averla come sposa), l’allontanamento dalla propria abitazione, la privazione di tutte le proprietà e della potestà genitoriale sui figli.

6.1.1. Risulta pertanto illogico l’assunto della Corte territoriale secondo cui l’allontanamento della richiedente dal proprio villaggio sarebbe frutto di una scelta volontaria, giacché le autorità tribali cui si è rivolta le hanno consentito di sottrarsi al rispetto delle consuetudini locali più brutali, ma a condizione di allontanarsi dai figli e perdere i propri beni. La richiedente infine ha continuato a subire le molestie e le minacce da parte del fratello del defunto marito.

7. La vicenda narrata dalla ricorrente, come incontestatamente accertata e ricostruita dal giudice di merito, rientra pienamente nelle previsioni della Convenzione sopra richiamata nonché nella fattispecie di cui all’art. 7, D.Lgs. 251/2007, essendo presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (Cass. 14157 del 11/07/2016, Rv. 640261 – 01).

7.1. Non c’è dubbio, per quanto sopra esposto, che l’odierna ricorrente sia stata vittima di una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza a un gruppo sociale (ovvero in quanto donna), nella forma di «atti specificatamente diretti contro un genere sessuale» (art. 7, comma secondo, lett. f, D.Lgs. 251/2007).

8. Invero, ai sensi dell’art. 5, lett. c, D.Lgs. 251/2007, responsabili della persecuzione possono anche essere “soggetti non statuali” se le autorità statali o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio “non possono o non vogliono fornire protezione” adeguata ai sensi dell’art. 6, comma 2 (Cass. n. 25873 del 18/11/2013); nella specie, come riportato nel provvedimento impugnato, proprio il peso delle norme consuetudinarie locali ha impedito che Ja. Ob. St. potesse trovare adeguata protezione da parte delle autorità statali.

9. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con assorbimento del secondo motivo.

10. La sentenza impugnata va pertanto cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384, secondo comma, c.p.c, riconoscendo a Ja. Ob. St., nata in (omissis…), lo status di rifugiato.

10.1. In considerazione della particolarità della vicenda e degli alterni esiti dei giudizi di merito, il Collegio ritiene equo compensare integralmente le spese di lite di tutti i gradi di giudizio.

P.Q.M. 

La Corte accoglie il ricorso in relazione al primo motivo e dichiara assorbito il secondo.

Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, riconosce a Ja. Ob. St., nata in (omissis…), lo status di rifugiato. 

Compensa le spese di tutti i gradi del giudizio.