Violazione obblighi assistenza familiare (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 25 novembre 2016, n. 50075).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARCANO Domenico – Presidente –

Dott. TRONCI Andrea – rel. Consigliere –

Dott. MOGINI Stefano – Consigliere –

Dott. GIORDANO Emilia Anna – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.F., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 25/09/2015 della CORTE APPELLO di PERUGIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/10/2016, la relazione svolta dal Consigliere Dott. ANDREA TRONCI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Sost. Dott. PAOLO CANEVELLI, che ha concluso per la declaratoria d’inammissibilità del ricorso;

Uditi i difensori:

– Avv. VENANZINA TESEI, in sostituzione dell’Avv. GIAN VITO RANIERI, per l’imputato, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

– Avv. SALVATORE QUINTINO FEROCINO, per la parte civile, che si riporta alle conclusioni scritte che deposita.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza del 25.09.2015, la Corte di appello di Perugia confermava la condanna alla pena di mesi sette di reclusione ed Euro 600,00 di multa, oltre al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede in favore della costituita parte civile (cui era assegnata una provvisionale dell’ammontare di Euro 60.000,00), irrogata a C.F. dal giudice monocratico del Tribunale del capoluogo umbro – sezione di Foligno, a seguito della declaratoria di colpevolezza dell’imputato per violazione dell’art. 570 c.p. ; reato allo stesso contestato per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore D., non avendo mai corrisposto la somma mensile di Euro 300,00, stabilita per il suo mantenimento con pronuncia definitiva del Tribunale per i minorenni di Perugia, nè l’importo di Euro 2.500,00 a titolo di contributo per le spese sostenute dalla madre del ragazzo, D.T., così privando lo stesso anche della dovuta assistenza morale, “non essendosi mai interessato di lui ed ad avendolo visto solo due volte nel corso del primo anno di vita” (condotta posta in essere dal 21.07.2007 fino al 24.02.2010, data di presentazione dell’ultima integrazione di querela).

2. Avverso la menzionata pronuncia il difensore di fiducia del C. ha interposto ricorso per cassazione, articolata in otto profili di doglianza così strutturati:

2.1 nullità del decreto di citazione a giudizio per genericità, ex art. 179 c.p.p. e art. 552 c.p.p. , comma 1, lett. c), stante la mancata specificazione di quale delle tre ipotesi contemplate dal contestato art. 570 c.p. dovesse ritenersi ascritta a carico del prevenuto;

2.2 violazione dell’art. 192 c.p.p. , per via della mancata valutazione dell’attendibilità della teste D., sulla cui sola parola si assume basata la statuizione di condanna a carico dell’odierno ricorrente; 2.3 errata applicazione dell’art. 570 c.p. e, insieme, vizio di motivazione, in ordine alla sussistenza dei due requisiti essenziali del reato di cui trattasi, costituiti dallo “stato di effettivo bisogno del soggetto passivo” e dalla “disponibilità risorse sufficienti da parte dell’imputato”;

2.4 inosservanza del disposto dell’art. 533 c.p.p. , in forza della “violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, con peculiare riferimento alla ritenuta disponibilità di risorse sufficienti in capo all’odierno ricorrente, onde far fronte all’obbligo a suo carico;

2.5 carenza di motivazione, quanto alla omessa concessione dell’invocato beneficio della sospensione condizionale della pena;

2.6 insufficienza di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche;

2.7 analogamente, insufficienza di motivazione in relazione al rigetto dell’istanza di conversione della pena detentiva, ai sensi della L. n. 689 del 1981 ;

2.8 inosservanza dell’art. 599 cod. c.p.p., alla luce del denunciato difetto di “indicazione dei criteri di quantificazione” utilizzati per pervenire alla determinazione della somma liquidata a titolo di provvisionale, dovendo anzi reputarsi del tutto mancante la prova del danno esistenziale lamentato ex adverso.

3. Il ricorso proposto consiste nella pedissequa ripetizione delle identiche doglianze poste a base dell’impugnazione formalizzata innanzi alla Corte territoriale e dalla stessa motivatamente disattese, onde va dichiarato senz’altro inammissibile.

4. Indubbiamente tale è il primo profilo di doglianza: innanzi tutto, l’eccezione risulta essere stata formalizzata per la prima volta in sede d’appello e, ad abundantiam, essa risulta anche manifestamente infondata, non potendo qui che ribadirsi – anche a voler per assurdo accedere al profilo della sua valutazione – le corrette osservazioni già sviluppate dalla sentenza impugnata, a proposito della puntuale descrizione della condotta ascritta al C., il quale ha dunque avuto modo di esercitare il proprio diritto di difesa in modo pieno, senza limitazioni di sorta.

5. Identica valutazione, seppur in relazione al diverso profilo della genericità, s’impone in ordine al secondo motivo del ricorso.

La Corte umbra ha osservato, in proposito, che il Tribunale ha debitamente compiuto la valutazione di attendibilità della parola della teste costituitasi parte civile, scaturita dalla constatazione della linearità e congruenza del narrato e dall’assenza in atti di qualsivoglia elemento di segno contrario.

Ciò posto, l’atto d’impugnazione, per un verso, si limita all’apodittica negazione della sussistenza di tale verifica – dunque, in mancanza di un reale confronto con l’apparato argomentativo posto a supporto delle due convergenti decisioni di merito, che danno conto, senza alcun evidente salto logico, del convincimento maturato – e, per altro verso, evidenzia il difetto di elementi di riscontro esterni alla parola della D., notoriamente non richiesti ai fini della valenza probatoria delle dichiarazioni testimoniali, ove pure provenienti da parte lesa.

6. Manifestamente infondati sono anche il terzo ed il quarto motivo di ricorso, relativi alla pretesa carenza degli elementi costitutivi del reato previsto e punito dall’art. 570 c.p..

Invero, essendo stato commesso il reato ascritto in danno di soggetto minorenne, lo stato di bisogno di quest’ultimo è in re ipsa, salva la sussistenza di elementi concreti idonei a consentire il superamento della relativa presunzione: ne discende che la deposizione della madre del minore, circa il ricorso all’aiuto di terzi per far fronte alle esigenze del figlio, lungi dall’essere insufficiente – così come si assume dal ricorrente – altro non fa che corroborare ulteriormente, ancorchè non ve ne fosse necessità, la presunzione anzidetta.

Mentre, per ciò che concerne la disponibilità di risorse sufficienti in capo all’obbligato, la produzione della mera sentenza dichiarativa del fallimento della ditta di cui il C. era titolare non vale certo a ritenere assolto l’onere probatorio pacificamente incombente sull’imputato, a fronte del non contestato dato rappresentato dalla sentenza impugnata, nel senso dell’omessa corresponsione, da parte del C., del benchè minimo contributo economico e del totale disinteresse manifestato nei confronti del piccolo D., che si sottolineano inoltre datare già da epoca precedente alla ricordata declaratoria di fallimento.

7. Inficiati da genericità sono il quinto ed il sesto motivo d’impugnazione: la Corte ha ravvisato, non certo illogicamente, nella sistematicità e nella lunga ed ininterrotta durata del comportamento illecito dell’imputato, la presenza di elementi tali da imporre la formulazione di una prognosi negativa, quanto alla possibilità di una sua astensione futura dalla commissione di condotte dello stesso tipo, valorizzando gli elementi medesimi al fine della negazione del beneficio delle attenuanti generiche, in assenza di circostanze concrete apprezzabili a tale ultimo fine.

8. Altrettanto dicasi con riferimento al settimo motivo di doglianza, in tema di mancata sostituzione della pena detentiva inflitta con la corrispondente sanzione pecuniaria: anche qui, infatti, si assiste ad un’apodittica contestazione della motivazione della Corte territoriale, che, ponendo l’accento sui plurimi precedenti penali a carico dell’imputato – come tali, ovviamente indicativi della sua negativa personalità – e sulla conseguente impossibilità, per la pena sostituita, di esplicare la funzione rieducativa sua propria, ha doverosamente effettuato la valutazione che la L. n. 689 del 1981, art. 58, attraverso il richiamo ai criteri previsti dall’art. 133 c.p. , impone sia compiuta, in funzione dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 53 della stessa legge. Si veda in proposito, in senso conforme, Cass. sez. 5, sent. n. 10941 del 26.01.2011, Rv. 249717, secondo cui “Ai fini della sostituzione della pena detentiva con pena pecuniaria il giudice ricorre ai criteri previsti dall’art. 133 c.p. ; tuttavia, ciò non implica che egli debba prendere in esame tutti i parametri contemplati nella suddetta previsione, potendo la sua discrezionalità essere esercitata motivando sugli aspetti ritenuti decisivi in proposito, quali l’inefficacia della sanzione. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la motivazione con cui il giudice di appello – confermando la decisione del Gup che aveva condannato l’imputato alla pena di mesi due di reclusione per il reato di lesioni personali ha rigettato l’istanza di conversione, ritenendo la pena pecuniaria inadeguata alla gravità del fatto ed alla personalità dell’imputato, non esercitando la stessa efficacia afflittiva nè rieducativa in presenza di un comportamento violento)” (adde anche, ancor più di recente, Sez. 2, sent. n. 28707 del 03.04.2013, Rv. 256725, nonchè, a contrario, Sez. 3, sent. n. 37814 del 06.06.2013, Rv. 256979).

9. Non consentita, infine, è l’ottava censura, relativa alla quantificazione della provvisionale, poichè – giusta il consolidato insegnamento di questa Corte – “Il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento.

Fattispecie relativa a rigetto di ricorso della parte civile avverso la decurtazione, operata in appello, della provvisionale riconosciuta dal giudice di primo grado (così Cass. Sez. 6, sent. n. 50746 del 14.10.2014, Rv. 261536; conf. Sez. 3, sent. n. 18663 del 27.01.2015, Rv. 263486). Ferma restando, dunque, la possibilità per l’imputato di far valere nell’apposita sede tutte le proprie ragioni eventuali in proposito.

Seguono le statuizioni previste dall’art. 616 c.p.p. , nonchè la condanna alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile, ammessa al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende, nonchè a rifondere alla parte civile D.T. le spese sostenute nel grado, liquidandole in Euro 2.000,00 oltre spese generali in misura del 15% (percento), IVA e CPA, come per legge; spese da versarsi allo Stato.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2016

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