Trasformazione del rapporto a tempo determinato, per prosecuzione oltre il termine pattuito, in rapporto a tempo indeterminato (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 26 luglio 2018, n. 19860).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

…, omissis …

Fatti di causa

1.1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Roma, decidendo sull’impugnazione proposta dall’A. (…) nei confronti di F.B., in riforma della decisione del Tribunale della stessa sede, respingeva la domanda della B. intesa ad ottenere la trasformazione del rapporto a tempo determinato intercorso tra le parti, per prosecuzione dello stesso oltre il termine pattuito, la declaratoria d’inefficacia del licenziamento verbale in tronco intimatole in data 17/2/2009 e la condanna dell’Associazione alla reintegra nel posto di lavoro con tutte le conseguenze risarcitone oltre che al pagamento della maggiorazione ex art. 5 del d.lgs. n. 368/2001, di un giorno di retribuzione.

1.2. La ricorrente era stata assunta con contratto a termine del 14/6/2007 per la sostituzione della dipendente A.B., temporaneamente assente per gravidanza e puerperio ed aveva dedotto di aver continuato a lavorare anche dopo il rientro in servizio della B. nel gennaio 2009 e dopo che quest’ultima aveva presentato le proprie dimissioni. Ad avviso della ricorrente, tale prosecuzione dell’attività avrebbe inficiato la legittimità del contratto a termine.

La Corte territoriale riteneva innanzitutto che il termine apposto al contratto non potesse che essere legato alla cessazione della causa dell’assenza della lavoratrice sostituita e richiamava, al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in caso di assunzione a termine per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, è legittima la fissazione di un termine determinato con riferimento alla non prefissata data di rientro del lavoratore sostituito (termine ‘incertus quando’) ed è assolutamente indifferente che nel corso del periodo di sostituzione muti la ragione dell’assenza del sostituito, purché costui non rientri in servizio (Cass. 23 gennaio 1998, n. 625).

Evidenziava, inoltre, che dalla documentazione prodotta dall’A. fosse emerso non solo che il protrarsi dell’assenza della lavoratrice sostituita era comunque dipeso da ragioni connesse alla maternità ma altresì che non era mai accaduto che le due lavoratrici avessero prestato servizio contemporaneamente

e che la B. si era dimessa in data 19/1/2009, con termine di preavviso fino al 16/2/2009, data di cessazione del rapporto a termine instaurato con la B.

2. Avverso tale sentenza F.B. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

3. L’A. resiste con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Ragioni della decisione

1.1. Con il primo motivo la ricorrente formula due distinti rilievi denunciando la nullità della sentenza o del procedimento in relazione agli artt. 112, 329 e 115 cod. proc. civ. per avere la Corte territoriale ignorato l’eccezione d’improponibilità dell’appello per intervenuta acquiescenza dell’A. alla sentenza di primo grado cui era stata data esecuzione prima dell’interposizione del gravame e per aver ritenuto pacifica la circostanza (che tale non era) che la dipendente sostituita/invece di rientrare al lavorò, avesse preferito rassegnare le proprie dimissioni e più in generale per aver violato il principio dell’indisponibilità delle prove ponendo a base della pronuncia fatti e documenti apertamente contestati, considerandoli, invece, pacifici.

1.2. Con il secondo motivo (connesso al secondo rilievo di cui al primo motivo) la ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione al ritenuto mancato rientro in servizio della dipendente sostituita, circostanza questa smentita dalla stessa produzione dell’A. che documentava il rientro in servizio in data 22/11/2008 e la coincidenza dello svolgimento delle mansioni con la ricorrente. Rileva che tale omissione avrebbe determinato un vero e proprio capovolgimento istruttorio.

1.3. Con il terzo motivo a ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 368/2001 anche in rapporto al d.lgs. n. 151/2001 con particolare riferimento agli artt. 16 e 32 per avere la Corte territoriale privato del suo contenuto il dato normativo stabilito dall’art. 5 del d.lgs. citato riconducendolo ad una tipologia regolata dalla previgente normativa che invece era stata espressamente abrogata.

2.1. Il primo rilievo di cui al primo motivo non è fondato.

La decisione di accoglimento dell’appello per ragioni di merito comporta, infatti, l’implicito rigetto delle eccezioni, non espressamente esaminate, che risultino incompatibili con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia e, quindi, esclude il vizio di omessa pronuncia lamentato dalla ricorrente (v. Cass. 4 ottobre 2011, n. 20311; Cass. 11 settembre 2015, n. 17956).

In ogni caso, il rilievo è privo di elementi sufficienti per considerare corredata, sul piano fattuale, la formulata eccezione di acquiescenza.

Ed infatti la disposta reintegra della dipendente in servizio ed il pagamento di quanto dovuto (v. pag. 13 del ricorso per cassazione), ad opera del datore di lavoro soccombente, anteriormente alla proposizione del gravame (unica circostanza, questa, posta dalla B. a sostegno dell’eccezione formulata al giudice di appello), non costituisce di per sé una forma di acquiescenza alla pronuncia che tale reintegra e tale pagamento ha disposto.

Come da questa Corte già affermato, l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 cod. proc. civ. consiste nell’accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest’ultimo caso, però, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti da quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi, siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione, diversi ed ulteriori rispetto alla mera spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado a sé sfavorevole (v. tra le tante cfr. Cass. 13 dicembre 1999, n. 13927; Cass. 9 giugno 2004, n. 10963; anche Cass. 29 maggio 2012, n. 8537; Cass. 11 luglio 2012, n. 11769, Cass. 11 giugno 2014, n. 13293, Cass. 7 maggio 2015, n. 9223).

2.2. Il secondo rilievo di cui al primo motivo e il secondo motivo di ricorso (da trattarsi congiuntamene in ragione dell’intrinseca connessione) sono infondati.

Non c’è stato alcun omesso esame ma la valutazione da parte della Corte territoriale della documentazione prodotta con rilievo decisivo attribuito al report delle timbrature della lavoratrice sostituita da cui ha desunto che la stessa non aveva mai ripreso servizio nel periodo in cui l’appellata era al lavoro.

La Corte capitolina, poi, nel ritenere che il dedotto mancato rientro in servizio della lavoratrice sostituita non avesse formato oggetto di specifica contestazione alla prima udienza utile successiva alla produzione ha evidentemente ritenuto generiche quelle che la ricorrente assume essere state contestazioni svolte a tale udienza (e cioè all’udienza di comparizione dell’8/3/2010 in cui, come si rileva da pag. 16 del ricorso per cassazione, era stata verbalizzata ‘l’impugnazione e la contestazione delle avverse deduzioni e produzioni).

Del resto la stessa ricorrente assume che solo in sede di note autorizzate vi fosse stata una contestazione ‘dettagliata’ circa le avverse produzioni documentali ritenute ‘informali produzioni (mere fotocopie, prive di ogni elemento di riconducibilità e data certa e, in definitiva di ogni valenza probatoria concreta)’ e circa il rientro in servizio il giorno 22/11/2008.

Non vi è stata alcuna violazione del principio della disponibilità della prova anzi la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte secondo cui l’onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non i documenti prodotti, rispetto ai quali vi è soltanto l’onere di eventuale disconoscimento, nei casi e modi di cui all’art. 214 cod. proc. civ. o di proporre – ove occorra – querela di falso, restando in ogni momento la loro significatività o valenza probatoria oggetto di discussione tra le parti e suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice (Cass. 6 aprile 2016, n. 6606; Cass. 21 giugno 2016, n. 12748).

Quanto detto vale anche per le asserite contestazioni relative alle fotocopie, dovendosi ricordare che, in tema di prova documentale, l’onere di disconoscere la conformità tra l’originale della scrittura e la copia fotostatica prodotta in giudizio, pur non implicando necessariamente l’uso di formule sacramentali, va assolto mediante una dichiarazione di chiaro e specifico contenuto: tale, cioè, che possano da essa desumersi in modo inequivoco gli estremi della negazione della genuinità della copia.

Ne consegue che la copia fotostatica non autentica di una scrittura si ha per riconosciuta conforme all’originale ai sensi dell’art. 215, n. 2 cod. proc. civ., se la parte comparsa contro cui è stata prodotta, non la disconosce in modo formale e specifico nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla sua produzione (Cass. 14 marzo 2006, n. 5461; Cass. 30 dicembre 2009, n. 28096).

Per il resto la ricorrente in modo inammissibile pretende una lettura delle risultanze di causa difforme da quella della Corte territoriale.

2.3. Anche il terzo motivo è infondato.

La Corte territoriale, con motivazione congrua e logica, ha ritenuto che tra le assenze per ferie e quelle per malattia del bambino (successive ai periodi di astensione obbligatoria e facoltativa) e la gravidanza vi fosse una connessione.

Tale conclusione consente di ritenere che non sussistesse alcuna proroga del termine apposto al contratto ma la permanenza della causale sostitutiva nello stesso indicata. Del resto, in sede di contratto, il termine finale era stato previsto in coincidenza con il ‘rientro della signora A.B.’ o comunque con il ‘cessare della causa che lo ha determinato’.

Ciò è conforme ai principi enunciati da questa Corte (v. Cass. 23 gennaio 1998, n. 625; Cass. 28 ottobre 1999, n. 12098) secondo cui nel caso di assunzione a termine ai fini della sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, è legittima la fissazione di un termine determinato con riferimento alla non prefissata data di rientro del lavoratore sostituito (termine ‘incertus quando’), così come la prosecuzione del rapporto in occasione del mutamento del titolo dell’assenza indicato nel contratto è legittima, e non determina la trasformazione del medesimo a tempo indeterminato, sempreché anche per la nuova causale sia consentita la stipulazione del contratto a termine (si veda anche la più recente Cass. 16 maggio 2016, n. 10009 resa con riferimento ad un contratto stipulato nella vigenza del d.lgs. n. 368/2001 con il quale è stata recepita la direttiva CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e si sono ampliate le ragioni legittimanti l’assunzione a termine, con superamento della tassatività delle ipotesi previste dalla pregressa normativa abrogata).

3. Conclusivamente il ricorso va rigettato.

4. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

5. Va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese di lite che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.