Il danno da perdita del coniuge separato è quello che si verifica quando uno dei coniugi muore per colpa di terzi. Sì al risarcimento (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 11 gennaio 2019, n. 1182).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IZZO Fausto – Presidente –

Dott. DI SALVO Emanuele – rel. Consigliere –

Dott. MONTAGNI Andrea – Consigliere –

Dott. SERRAO Eugenia – Consigliere –

Dott. BRUNO Mariarosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

dalla parte civile A.M.G., nato a (OMISSIS);

nel procedimento a carico di:

T.A. nato a (OMISSIS);

D.E. nato a (OMISSIS);

VITTORIA ASSICURAZIONI SPA;

ALLIANZ RAS ASSICURAZIONI;

avverso la sentenza del 27/11/2017 della CORTE APPELLO di GENOVA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere DI SALVO EMANUELE;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore CASELLA GIUSEPPINA che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

E’ presente l’avvocato PASSERO CINZIA del foro di Roma in difesa di A.M.G. in sostituzione dell’avvocato CANOBBIO GIULIO del foro di GENOVA come da nomina a sostituto processuale ex art. 102 c.p.p., depositata in udienza che insiste per l’accoglimento del ricorso.

E’ presente l’avvocato PERUGINI SABINA del foro di ROMA in difesa di VITTORIA ASSICURAZIONI SPA che insiste per il rigetto del ricorso. Deposita procura speciale e atto di nomina di difensore di fiducia nonchè revoca di procura e procura speciale.

Svolgimento del processo

1. A.M.G., in qualità di parte civile, ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna emessa in primo grado nei confronti di T.A. e D.E., in ordine ai reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p., ma è stata respinta la richiesta di risarcimento del danno avanzata dalla ricorrente.

2. La A. deduce violazione di legge e vizio di motivazione, poichè erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto non provata la ripresa della vita coniugale e quindi la sussistenza di un danno non patrimoniale, correlato al dolore e alla sofferenza morale per la morte del soggetto passivo, in quanto nell’aprile 2008 la ricorrente aveva ritrasferito la propria residenza insieme al marito e ben tre testimoni hanno riferito circa il ripristino della vita coniugale.

La persona deceduta aveva successivamente trasferito la propria residenza in (OMISSIS) ma solo perchè aveva ivi trovato un lavoro, ragion per cui ciò non smentisce le dichiarazioni della parte civile, che possono, d’altronde, essere anche da sole poste a fondamento del convincimento del giudice circa la fondatezza della pretesa risarcitoria, senza alcuna necessità di riscontro.

Per di più, i coniugi avevano aperto un conto corrente cointestato, su cui confluiva lo stipendio del soggetto passivo. Anche la figlia, G.E., ha confermato le dichiarazioni della madre.

D’altronde i coniugi si conoscevano da oltre 27 anni e dunque non può dubitarsi della sussistenza tra loro di un vincolo affettivo, da cui è derivata una sofferenza morale per la ricorrente, la quale ha avuto anche necessità del sostegno di uno psicologo.

Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.

Motivi della decisione

1. Le doglianze formulate dalla ricorrente sono fondate.

E’ da premettere che, in tema di sindacato del vizio di motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta dai giudici di merito bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni, a preferenza di altre (Sez. U.,13-12-1995, Clarke, Rv. 203428).

Il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve pertanto essere volto a verificare che quest’ultima:

a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;

b) non sia “manifestamente illogica”, perchè sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica;

c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero sia esente da antinomie e da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”, indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente, nei motivi posti a sostegno del ricorso, in misura tale da risultare radicalmente inficiata sotto il profilo della razionalità (Cass., Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Rv. 251516).

2. Nel caso in disamina, l’apparato giustificativo posto a base della sentenza di secondo grado non è esente da vizi, non evincendosi con chiarezza sulla base di quali argomentazioni i giudici di merito siano pervenuti all’asserto relativo alla insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale.

Costituisce, infatti, ius receptum, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui il danno morale è da ravvisarsi nell’ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato e nel dolore generato dall’illecito.

Il risarcimento del danno morale può essere dunque accordato anche al coniuge separato, per la morte dell’altro coniuge, in quanto lo stato di separazione personale non è incompatibile, di per sè, con tale ristoro, dovendo aversi riguardo, oltre che alla sua tendenziale temporaneità e alla possibilità di una riconciliazione, anche alle ragioni che hanno determinato la separazione e ad ogni altra utile circostanza idonea a chiarire se e in quale misura l’evento luttuoso, dovuto all’altrui fatto illecito, abbia procurato al coniuge superstite quelle sofferenze morali che di solito si accompagnano alla morte di una persona cara (Cass. civ., Sez. 3, n. 10393 del 17-7-2002, Rv. 555866-01).

Il risarcimento del danno non patrimoniale può, dunque, essere accordato al coniuge, ancorchè separato legalmente, in considerazione della pregressa esistenza di un rapporto di coniugio, della sussistenza di figli, come nel caso in esame, della non definitività dello status connesso alla separazione legale e della possibile ripresa della comunione familiare (Cass. civ., n. 25415 del 12-11-2013, Rv. 629166-01), a condizione però che si dimostri che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso tra i coniugi (Cass.civ., Sez. 3, n. 25415 del 12-11-2013, Rv. 625065-01).

3. Nel caso di specie, la Corte d’appello indica alcune risultanze che sembrerebbero deporre per l’inesistenza di un vincolo affettivo, come l’epoca risalente della separazione, avvenuta nel 2004; il trasferimento della residenza all’estero del solo G., nel luglio 2009; la proposizione di una domanda di divorzio congiunto nel novembre 2009.

Lo stesso giudice a quo tuttavia dà atto di una serie di elementi che depongono in senso contrario: le dichiarazioni della parte civile, che ha riferito in ordine alla ripresa della relazione coniugale; le conformi dichiarazioni della figlia, G.E.; l’esistenza di un conto cointestato G. – A., risalente al 2008.

L’apparato giustificativo del decisum non può però ridursi alla semplice riproduzione delle risultanze acquisite, dovendo il giudice elaborare il materiale probatorio disponibile e dare puntuale risposta alle argomentazioni delle parti (Cass., Sez. 6, n. 34042 del 11-2-2008, Napolitano).

Qualora dunque la prospettazione di una delle parti sia estrinsecamente riscontrata da alcuni dati oggettivi, il giudice deve farsi carico di confutarla specificamente, dimostrandone in modo rigoroso l’inattendibilità, attraverso un adeguato apparato argomentativo.

Il giudice a quo avrebbe quindi dovuto chiarire le ragioni per le quali ha ritenuto inattendibili le deposizioni della persona offesa e della figlia, pur senza trascurare il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui la valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni processualmente rilevanti, da qualunque parte provengano, esige un’accurata disamina, anche in ordine ai rapporti tra i protagonisti della vicenda sub iudice, agli interessi e ai moventi che possono aver mosso un testimone a rendere una dichiarazione di un determinato tenore e a tutte le circostanze che abbiano eventualmente influito sulla deposizione (Sez. U., 4-2-1992, Ballan).

Occorre, in questa prospettiva, tener presente, in particolare, come la deposizione della persona offesa dal reato, pur potendo certamente rientrare nello spettro cognitivo e valutativo del giudice, in sede decisoria, vada riguardata con ogni cautela, considerato che la parte lesa è portatrice di un interesse contrapposto a quello dell’imputato (Cass., 13-5-1997, Di Candia, Rv. 208229).

E le Sezioni unite, pur ribadendo che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste anche da sole a fondamento della decisione del giudice, hanno sottolineato la necessità di una attenta verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella alla quale vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Nel caso poi in cui la persona offesa si sia costituita parte civile può essere opportuno procedere al riscontro delle sue dichiarazioni mediante altri elementi (Sez. U., n. 41461 del 19-7-2012, Bell’Arte, Rv. 253214).

Tuttavia, come poc’anzi rilevato, dalla motivazione della pronuncia impugnata si evince che tali elementi erano riscontrabili nel caso in esame. E, al riguardo, occorre sottolineare come appaia di natura meramente congetturale l’asserzione del giudice a quo secondo cui l’apertura del conto cointestato, lungi dall’essere sintomatica di una ripresa della relazione tra gli interessati, poteva rappresentare soltanto un modo, pratico e rapido, per contribuire paritariamente ai bisogni della figlia, senza dover interagire ogni volta che vi fosse una particolare necessità di spesa.

Così come appare arduo comprendere sotto quale profilo le dichiarazioni della parte civile, secondo cui il G. era assente da casa per parecchio tempo durante gli imbarchi, dovrebbero assumere rilievo nell’ottica della dimostrazione di una mancata ripresa del rapporto coniugale, atteso che tale circostanza era correlata, secondo quanto emerge dall’apparato argomentativo della pronuncia impugnata, alla professione del G., ufficiale di marina.

Analoghe considerazioni valgono a proposito delle dichiarazioni della figlia, avendo il giudice a quo dato atto che ella ha riferito che l’assenza del padre era dovuta a null’altro che al suo lavoro.

Anche il rilievo secondo cui la necessità di sostegno psichico a tre anni dal decesso del G. potrebbe essere riguardata non come persistenza nel tempo di un significativo disagio psicologico, espressione di una relazione seria a monte, ma soltanto come indice di un atteggiamento strumentale rispetto al coevo inizio del procedimento penale, sembra configurarsi come null’altro che una congettura.

E, al riguardo, occorre notare come la giurisprudenza di legittimità abbia tracciato un netto discrimen tra massima di esperienza e mera congettura: una massima di esperienza è un giudizio ipotetico a contenuto generale, indipendente dal caso concreto, fondato su ripetute esperienze ma autonomo da esse e valevole per nuovi casi (Cass., Sez. 6, n. 31706 del 7-3-2003, Abbate, Rv. 228401).

Si tratta dunque di generalizzazioni empiriche, tratte, con procedimento induttivo, dall’esperienza comune, che forniscono al giudice informazioni su ciò che normalmente accade, secondo orientamenti largamente diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione.

Dunque, nozioni di senso comune (common sense presumptions), enucleate da una pluralità di casi particolari, ipotizzati come generali, siccome regolari e ricorrenti, che il giudice in tanto può utilizzare in quanto non si risolvano in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze e parametri riconosciuti e non controversi.

Nelle massime di esperienza, il dato è connotato da un elevato grado di corroborazione correlato all’esito positivo delle verifiche empiriche cui è stato sottoposto e quindi la massima può essere formulata sulla base dell’id quod plerumque accidit.

La congettura invece si iscrive nell’orizzonte della mera possibilità, sicchè la massima è insuscettibile di riscontro empirico e quindi di dimostrazione. Pertanto, nella concatenazione logica dei vari sillogismi in cui si sostanzia la motivazione, possono trovare ingresso soltanto le massime di esperienza e non, come nel caso in disamina, le mere congetture (Cass., 2210-1990, Grilli).

Dunque, sulla base dei criteri appena esposti, il giudice di merito avrebbe dovuto addivenire ad una ricostruzione fattuale strettamente aderente alle risultanze processuali, verificando se queste ultime, valutate non in modo parcellizzato ma in una prospettiva unitaria e globale, potessero essere ordinate in un quadro razionale, coerente e dunque tale da consentire di approdare sul solido terreno della verità processuale (Cass., 25-6-1996, Cotoli, Rv. 206131), facendo uso di massime di esperienza consolidate e affidabili e non di mere congetture.

Non può pertanto affermarsi che i giudici di secondo grado abbiano preso adeguatamente in esame tutte le deduzioni di parte nè che siano pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico immune da vizi, sotto il profilo della razionalità, sulla base di apprezzamenti di fatto esenti da connotati di contraddittorietà o di manifesta illogicità e di un apparato logico coerente con una esauriente analisi delle risultanze agli atti (Sez. U., 2511-1995, Facchini, Rv. 203767).

4. La sentenza impugnata va dunque annullata limitatamente agli effetti civili, con rinvio, per nuovo giudizio, al giudice civile competente per valore in grado di appello.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, con rinvio, per nuovo giudizio, al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2019.