REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIDELBO Giorgio – Presidente –
Dott. SILVESTRI Pietro – Rel. Consigliere –
Dott. RICCIARELLI Massimo – Consigliere –
Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere –
Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da:
1. Angelino Nicolò, nato a Borgosesia il 30/10/1984;
2. Stella Cecilia, nata a Torino il 17/04/1986;
3. Benintende Fabio, nato Torino il 04/09/1985;
4. De Costanzo Fabiola, nata a Napoli il 02/12/1970;
5. Lorenzi Elisa, nata a Volta Mantovana il 07/09/1981;
6. Garau Michele, nato a Cagliari il 28/01/1988;
7. Blasi Niccolò, nato a Pesaro il 15/11/1989;
8. Pepino Daniele, nato a Torino il 19/12/1976;
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Torino il 14/12/2018;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott. Pietro Silvestri;
udito il Sostituto Procuratore Generale, Dott. Marco Dall’Olio, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso di Pepino Daniele e l’annullamento senza rinvio della sentenza per essersi i reati estinti per prescrizione.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza con cui:
a) Benintende Fabio è stato condannato per il reato di danneggiamento aggravato di cose esposte a pubblica fede e destinate al pubblico servizio.
L’imputato avrebbe danneggiato, in concorso con Angelino Nicolò, Stella Cecilia, De Costanzo Fabiola, Lorenzi Elisa, Garau Michele e Blasi Niccolò i “betafence” posti a protezione del cancello collocato nei pressi della Centrale idroelettrica in Chiomonte (Capo a);
b) Blasi Niccolò è stato condannato anche per il reato di cui all’art. 341 bis cod. pen. per avere offeso, in presenza di più persone, l’onore ed il prestigio dell’assistente di polizia, Mattina Paolino, colpendolo con uno sputo mentre questi compiva un atto del suo ufficio (Capo b);
c) Angelino Nicolò è stato condannato anche per il reato di danneggiamento aggravato, per avere divelto un palo della segnaletica stradale posto nelle vicinanze del cancello su indicato (capo c);
d) Pepino Daniele è stato condannato invece per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, per avere usato violenza – consistita nel rivolgere insistentemente un raggio di colore rosso prodotto da un puntatore laser verso gli occhi dell’assistente capo della polizia di stato Pezzera Vincenzo- al fine di costringere questi ad interrompere la sua attività di ordine pubblico in occasione di una manifestazione NO Tav (capo d).
1.2. I fatti oggetto del processo attengono agli avvenimenti verificatisi la sera del 17 luglio 2011 presso l’area del cantiere Tav a Chiomonte; si sarebbe trattato di un’area protetta da un cancello appoggiato, da un lato, su un muraglione preesistente e, dall’altro, su una serie di reticolati metallici, fissati a dei blocchi di cemento infissi sul terreno, i c.d. betafence; nel corso di quella sera alcuni dei soggetti che stazionavano all’esterno del cancello per una manifestazione di protesta, fra cui gli odierni imputati, avrebbero dapprima scandito slogan di protesta e poi danneggiato la struttura a protezione del cancello.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Benintende Fabio articolando due motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla configurabilità del reato ed al giudizio di penale responsabilità.
La Corte avrebbe individuato due condotte al fine di ritenere sussistente il reato: lo scuotimento del betafence ed il piegamento di una parte metallica dello stesso.
La rilevanza delle prima condotta sarebbe stata esclusa dal Tribunale ma la Corte, pur affermando di condividere le valutazioni del primo Giudice, avrebbe poi di fatto mutato convincimento senza spiegarne la ragione.
Quanto alla seconda condotta, la stessa Corte di appello avrebbe affermato che l’azione sarebbe consistita “nel tentativo di staccare il pezzo di ferro per contribuire all’ulteriore demolizione del betafence”.Dunque, si sarebbe trattato di un tentativo e non di un danneggiamento consumato.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge quanto alla ritenuta aggravante di cui all’art. 625, n. 7, cod. pen.; la circostanza non sarebbe configurabile in quanto la zona in cui il betafence era collocato sarebbe stata presidiata dalle Forze dell’Ordine che, dunque, avrebbero operato un controllo continuo sul bene.
In tal senso, si richiama la giurisprudenza formatasi in tema di furto aggravato. Quanto alla natura di bene destinato ad un pubblico servizio, si sostiene che il betafence non sarebbe un bene di per sé destinato alla resa di un servizio fruibile dal pubblico.
3. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli altri imputati.
3.1. Con il primo motivo, relativo al capo A), formulato nell’interesse degli imputati Lorenzi e Garau, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione; il presupposto da cui muovono i ricorrenti è che il reato sarebbe stato ritenuto facendo riferimento a due diverse condotte, quali l’attività di battitura delle reti – in segno di protesta – e quella di scuotimento delle stesse da parte di più soggetti.
Nell’ambito di tale seconda condotta, si aggiunge, sarebbe possibile soggettivamente distinguere fra chi avrebbe operato in concreto per divellere la rete (De Costanzo, Stella, Blasi, Angelino) e chi, come i ricorrenti, si sarebbero invece limitati ad una mera attività di scuotimento: si sostiene che tale attività non sarebbe riconducibile a nessuna delle condotte indicate nell’art. 635 cod. pen.
Né, si aggiunge, la sentenza avrebbe adeguatamente affrontato il tema del concorso di persone, e cioè se l’attività dei ricorrenti fosse stata causale rispetto al danneggiamento commesso da altri e sorretta dal dolo di compartecipazione.
3.2. Con il secondo motivo, relativo ai reati di cui ai capi a) e c) e formulato nell’interesse di Angelino, Stella, De Costanzo, Lorenzi, Garu e Blasi, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta aggravante di cui all’art. 625, n. 7, cod. pen.
Il tema è sostanzialmente quello già indicato nel ricorso proposto nell’interesse di Benintende.
3.3. Con il terzo motivo, relativo ai reati di cui ai capi a) e c) e predisposto nell’interesse di Angelino, Stella, De Costanzo, Lorenzi, Garu e Blasi si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., esclusa in ragione dell’intervenuto danneggiamento di larga parte della recinzione posta a protezione del cantiere; l’assunto difensivo è che la Corte di appello avrebbe travisato gli elementi di prova ed avrebbe trasformato il danneggiamento in più punti della rete in un danneggiamento di larga parte della recinzione (in tal senso si richiama il contenuto di alcune testimonianze).
3.4. Con il quarto motivo si lamenta, quanto al capo b), l’erronea declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale in relazione al reato di oltraggio rispetto agli artt. 3- 27 Cost.
Il reato in questione sarebbe plurioffensivo e tutelerebbe l’onore ed il decoro della persona che agisce quale organo della P.A. nonchè quello della stessa Pubblica amministrazione; si assume, tuttavia, che la maggior parte della condotte riconducibili al reato in esame sarebbero offensive del solo onore della persona fisica che agisce e non anche l’andamento dell’azione amministrativa.
Il contrasto con i parametri costituzionali si porrebbe sotto il profilo della ragionevolezza rispetto ad altre due fattispecie, quella di cui all’art. 342, oltraggio a corpo politico, e quella di cui all’art. 594, aggravato dall’art. 61, n. 10, cod. pen.
Il primo di detti reati, anch’esso di natura plurioffensiva, tutelerebbe l’interesse al normale funzionamento della P.A., al prestigio di questa, ma anche quello del rispetto dovuto ai Corpi ed alle rappresentanze e sarebbe attualmente punito in modo meno grave rispetto all’oltraggio: ciò rivelerebbe l’irrazionalità del diverso più grave trattamento sanzionatorio previsto per il reato previsto dall’art. 341 bis cod. pen.
Quanto al secondo illecito, ormai depenalizzato, l’assunto è che una offesa priva di uno dei due requisiti di cui all’art. 341 bis cod. pen. sarebbe irrilevante penalmente, mentre condotte analoghe, cioè con la offesa solo alla persona che agisce, sarebbe sanzionata molto severamente.
Ciò sarebbe spiegabile solo se si considerasse essenziale nell’art. 341 bis cod. pen. l’offesa alla P.A. in quanto tale, ma ciò aumenterebbe i dubbi di legittimità della diversa sanzione prevista per fattispecie come quella in esame, nonché della previsione della procedibilità d’ufficio.
Dunque, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 341 bis cod. pen. in relazione, da una parte, all’art 3 Cost. quanto alla sua permanenza nel codice penale, e, dall’altra, in ordine alla sanzione prevista dalla legge.
3.5. Con il quinto motivo, relativo al capo b) e formulato nell’interesse di Niccolò Blasi, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità per il reato di cui all’art. 341 bis cod. pen. per avere la Corte ritenuto sussistente la fattispecie a prescindere dalla percezione effettiva dell’offesa oltraggiosa da parte di terzi.
3.6. Con il sesto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità per il reato di resistenza a pubblico ufficiale (capo d) con riguardo all’imputato Pepino; la sentenza sarebbe viziata per avere ritenuto violenta la condotta di rivolgere insistentemente un raggio laser di colore, verso gli occhi di terzi, senza considerare che la nozione di violenza presuppone una estrinsecazione di energia fisica immediatamente realizzativa di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica del soggetto passivo; sotto altro profilo, la sentenza sarebbe viziata per avere valorizzato un approccio prognostico, relativo, cioè, a ciò che sarebbe potuto accadere, laddove invece, ai fini del reato contestato, sarebbero necessari atti che immediatamente siano impeditivi per il pubblico ufficiale di compiere l’atto del suo ufficio.
Sotto ulteriore profilo la motivazione sarebbe viziata quanto alla prova dell’elemento soggettivo.
3.7. Con il settimo motivo, formulato per tutti gli imputati, si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta insussistenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1, cod. pen.
3.8. Con l’ottavo motivo, anch’esso formulati nell’interesse di tutti gli imputati, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata sostituzione della pena detentiva con quella della libertà controllata, ai sensi dell’art. 53 della legge n. 689 del 1981.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi presentati nell’interesse di Benintende Fabio, Angelino Nicolò, Stella Cecilia, De Costanzo Fabiola, Lorenzi Elisa, Garau Michele e Niccolò Blasi sono inammissibili.
2. Sono inammissibili il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse di Benintende ed il primo motivo di quello presentato dall’avv. Novaro nell’interesse degli imputati Lorenzi e Garau.
Rispetto ad una adeguata motivazione con cui la Corte di appello, richiamando anche la sentenza di primo grado, ha ricostruito i fatti in modo logico e spiegato perché le condotte attribuibili agli imputati assumono rilievo al fatto unitario e “collettivo”, posto in essere a titolo di compartecipazione criminosa, nulla di specifico è stato dedotto.
Le censure dedotte si sviluppano sul piano della ricostruzione fattuale e sono sostanzialmente volte a sovrapporre un’interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai giudici di merito, piuttosto che a far emergere un vizio della motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen.
Secondo i principi consolidati dalla Corte di cassazione la sentenza non può essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata ( Sez. 6,5 4 n. 47204 del 7/10/2015, Musso, rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, rv. 234148).
Gli odierni ricorrenti hanno riproposto con il ricorso per cassazione la versione dei fatti dedotta in primo e secondo grado e disattesa dai Giudici del merito; compito del giudice di legittimità nel sindacato sui vizi della motivazione non è tuttavia quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
E’ possibile che nella valutazione sulla “tenuta” del ragionamento probatorio, la struttura motivazionale della sentenza di appello si saldi con quella precedente per formare un unico corpo argomentativo, atteso che le due decisioni di merito possono concordare nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, rv. 2574595; Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez. 1, n. 8868 dell’8/8/2000, Sangiorgi, rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, rv. 209145).
Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di secondo grado, come nel caso in esame, esaminino le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con riferimenti alle determinazioni ed ai passaggi logico-giuridici della decisione di primo grado e, a maggior ragione, ciò è legittimo quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione del primo giudice (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116).
La Corte di cassazione ha chiarito che sono censure di merito, inammissibili nel giudizio di legittimità, tutte quelle che attengono a “vizi” diversi dalla mancanza di motivazione, dalla sua “manifesta illogicità”, dalla sua contraddittorietà su aspetti essenziali perché idonei a condurre ad una diversa conclusione del processo. Inammissibili, in particolare, sono le doglianze che “sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento” (così, Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., rv. 262965).
Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione analitica ed autonoma sui punti specificamente indicati nell’impugnazione di appello, di talché la motivazione risulta esaustiva ed immune dalle censure proposte.
3. Non diversamente, sono inammissibili il secondo motivo proposto nell’interesse di Betafende ed il secondo motivo del ricorso sottoscritto dall’avv. Novaro, relativi alla configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 625, n. 7, cod. pen.; la Corte ed il Tribunale hanno precisato in punto di fatto che il presidio di polizia era stata attivato a protezione del cantiere Tav e delle lavorazioni che in esse venivano compiute e non della rete o della segnaletica stradale; dunque, un danneggiamento di un bene “fuori dalla diretta vigilanza e quindi esposta al rispetto dei terzi”.
Né dubbi possono sussistere quanto alla destinazione a pubblico servizio del bene danneggiato da Benintende; nel caso di specie, si trattava di un bene su cui appoggiava il cancello che impediva l’accesso al cantiere e che dunque assolveva una funzione di protezione dell’area pubblica: un bene che, per opera dell’uomo, assumeva una funzione di strumentalità e complementarietà funzionale di altro bene pubblico.
4. È inammissibile anche il terzo motivo proposto dall’avv. Notaro, quanto al mancato riconoscimento dell’attenuante prevista dall’art. 62, n. 4, cod. pen., in relazione ai delitti contestati ai capi a) e c), avendo i giudici di merito chiarito come nella specie si sia trattato di un danneggiamento di “più parti di una lunga recinzione del cantiere, “compiuto in un lasso considerevole di tempo, da più persone, con svariati strumenti, fino a divellere più betefence”.
Rispetto a tale trama argomentativa, il motivo rivela la sua aspecificità e tende a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale.
5. E’ manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale sollevata con il quarto motivo del ricorso dell’avv. Notaro.
Si tratta di una questione già ritenuta infondata il 04/12/2019 dalla Corte Costituzionale, che, con la sentenza n. 284, ha spiegato testualmente come:
– nella nuova fisionomia risultante dalla riforma del 2009, l’oltraggio si configuri come delitto offensivo anche del buon andamento della pubblica amministrazione, sub specie di concreto svolgimento della (legittima) attività del pubblico ufficiale, non diversamente da quanto accade per il delitto di cui all’art. 337 cod. pen. che si pone in rapporto di possibile progressione criminosa rispetto all’oltraggio;
– proprio tale specifica dimensione offensiva non sia invece presente – se non in termini del tutto sfumati ed eventuali – nel delitto di oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario, che si limita a richiedere che l’espressione offensiva sia profferita «al cospetto» del corpo, della sua rappresentanza o del collegio, ovvero addirittura mediante comunicazione offensiva “a distanza” diretta ai destinatari, senza esigere alcun nesso con il compimento di uno specifico atto dell’ufficio da parte dell’istituzione offesa;
– rispetto a tale dimensione offensiva – e a fronte della riduzione, rispetto al passato, dell’ambito applicativo della fattispecie – non possa ritenersi irragionevole la scelta del legislatore di stabilire per l’oltraggio “individuale” un quadro edittale più severo di quello previsto per il delitto di oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario;
– nemmeno possa ritenersi fondata la censura formulata con riferimento al principio di proporzionalità della pena, trattandosi di una doglianza “già in astratto poco plausibile” in rapporto al massimo edittale, essendo normalmente possibile per il giudice utilizzare i propri poteri discrezionali ex art. 133 cod. pen. per commisurare – all’interno della cornice edittale – una pena inferiore, proporzionata al disvalore del fatto concreto.
Alla luce delle considerazioni indicate discende l’inammissibilità della questione, proposta – al di là dell’ulteriore riferimento al depenalizzato reato di ingiuria- sostanzialmente negli stessi termini nel presente processo.
6. Manifestamente infondato è il quinto motivo del ricorso proposto dall’avv. Novaro, relativo al giudizio di penale responsabilità quanto al reato di cui all’art. 341 bis cod. pen., avendo la Corte di appello chiarito che i fatti furono commessi alla presenza di più persone; sul punto, la Corte di cassazione ha in più occasioni chiarito che ai fini della configurabilità del reato di oltraggio di cui all’art. 341-bis cod. pen., è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, poichè già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo mentre compie un atto del suo ufficio, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per la P.A. di cui fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie (Sez. 6, n. 19010 del 28/03/2017, Trombetta, Rv. 269828).
7. Sono inammissibili anche il settimo e l’ottavo motivo del ricorso proposto dall’avv. Nova ro. Quanto al settimo, relativo al mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’art. 62, n. 1, cod. pen., i motivi di particolare valore morale sono di norma ritenuti quelli che corrispondono a valutazioni etiche pressoché unanimemente condivise; in tal senso si fa tradizionalmente riferimento all’amore materno, alla solidarietà verso il prossimo.
I motivi di particolare valore sociale sono invece quelli che, in un determinato momento storico, sono valutati favorevolmente in una data comunità organizzata. In dottrina si è fatto rilevare come in una società pluralista, esigere una incondizionata approvazione da parte dell’intera collettività significherebbe fornire una interpretazione abrogativa della norma; in tal senso si ritiene preferibile fare riferimento ad un’etica che sia approvata “ampiamente” nel tempo e nel luogo in cui il reato è commesso.
Anche la Corte di Cassazione ha in più occasioni affermato che possono essere ritenuti motivi di particolare valore morale o sociale solo quelli avvertiti come tali dalla prevalente coscienza collettiva ed intorno ai quali vi sia un generale consenso.
Ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non è peraltro sufficiente l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività; ne consegue che l’attenuante non può trovare applicazione se il fatto di particolare valore morale o sociale esiste soltanto nell’erronea opinione del soggetto attivo del reato, ma non è conforme alla morale ed ai costumi condivisi dalla prevalente coscienza collettiva (Sez. 6, n. 27746 del 31/05/2018, T., Rv. 273681; Sez. 1, n. 20443 dell’08/04/2015, Nobile, Rv. 263593; Sez. 1, n. 20312 del 29/04/2010, Agostini, Rv. 247459; Sez. 5, n. 31635 del 24/06/2008, Beolchi, Rv. 241180; Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano ed altri, Rv. 224077).
Il motivo rilevante deve essere inoltre la vera causa psicologica del reato e non un indiretto riferimento. Nel caso di specie, i fatti oggetto del processo, che sono espressione della volontà di opporsi alle forze dell’ordine, alla esecuzione di una determinata opera pubblica, ovvero di riprendere il controllo di una parte del territorio dello Stato, non possono considerarsi affatto direttamente funzionali all’affermazione di motivi sociali generalmente condivisi, quali il diritto all’ambiente o il diritto alla salute; solo in via ipotetica, mediata, indiretta si può ritenere che le condotte attribuite agli imputati fossero volte al perseguimento di valori fondanti uno Stato democratico, costituzionalmente riconosciuti e tutelati, come, appunto, i diritti indicati.
La giurisprudenza ha escluso la configurabilità della circostanza attenuante in relazione ai reati di devastazione e saccheggio, violenza a pubblico ufficiale, lesioni personali commessi nel corso di una manifestazione pacifista, di protesta, atteso che anche la radicale contrarietà a ogni espressione di intolleranza razziale e di avversione ai principi democratici non vale a configurare l’attenuante (Sez. 1, n. 11236 del 27/11/2008, Rv. 243220).
Sotto altro profilo, con particolare riferimento al motivo politico, la Corte ha in maniera condivisibile affermato che i motivi politici e l’ideologia sociale o politica, pur potendo indubbiamente costituire motivi di particolare valore morale e sociale quando abbiano un elevato contenuto etico e siano condivisi dalla collettività, non sempre vanno considerati tali e certamente non lo sono quando diano origine a un disegno diretto a realizzare asserite finalità di giustizia sociale, mediante il ricorso generalizzato alla violenza indiscriminata e sopraffattrice dell’altrui liberta. (Sez. 1, n. 11160 del 14/05/1980, Picchiura, Rv. 146386).
La ragione, si è sottolineato, è di tutta evidenza, in quanto, diversamente ragionando, le più disparate motivazioni – facenti capo agli innumerevoli orientamenti politici che possono esser presenti nel corpo sociale (compresi quelli contrari allo spirito della Costituzione e che propagandano, ad es. la lotta armata) – dovrebbero essere meritevoli di trattamento sanzionatolo attenuato (Sul tema, in relazione a fatti sovrapponibili a quelli per cui si procede, Sez. 6, n. 54424 del 27/04/2018, Calabrò, in motivazione).
Non diversamente, quanto all’ottavo motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione del beneficio della conversione della pena detentiva con la libertà controllata, a fronte di una puntigliosa motivazione della Cotte di appello, che ha fatto riferimento alla personalità degli imputati, gravati da precedenti penali dimostrativi della “assoluta inefficacia deterrente delle precedenti condanne”, nulla di specifico è stato dedotto.
8. È invece infondato il sesto motivo del ricorso dell’avv. Novaro, relativo al giudizio di penale responsabilità per il reato di resistenza a pubblico ufficiale (capo d) con riguardo all’imputato Pepino; si è già detto di come, secondo il ricorrente, la sentenza sarebbe viziata per avere la Corte ritenuto violenta la condotta di rivolgere insistentemente un raggio laser di colore verso gli occhi di terzi, senza tuttavia considerare che la nozione di violenza presuppone una estrinsecazione di energia fisica immediatamente realizzativa di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica del soggetto passivo.
Il tema attiene al se l’uso di un raggio laser verso gli occhi di un terzo, possa essere considerata una condotta violenza. Il requisito della violenza generalmente si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di autodeterminazione e di azione della persona offesa (tra le tante, Sez. 2. n. 11522 del 3/03/2009, Rv. 244199 che ha definito la libertà morale come libertà di determinarsi spontaneamente secondo motivi propri, sicchè alla libertà morale va ricondotta sia la facoltà di formare liberamente la propria volontà sia quella di orientare i propri comportamenti in conformità delle deliberazioni liberamente prese; Sez. 5, n. 40291 del 06/06/2017, Rv. 271212).
Nel caso di specie, secondo la Corte di appello, la condotta dell’imputato sarebbe consistita “nel cercare di abbagliare l’Agente, direzionandogli negli occhi il puntatore laser” (così testualmente la sentenza impugnata a pag. 6; non diversamente, il Tribunale secondo cui la condotta sarebbe consistita in un “disturbo agli occhi”).
Si tratta di una motivazione che, obiettivamente, rispetto ad uno specifico motivo di appello non consente di comprendere in cosa specificamente sia consistita la condotta, quale sia stata la sua portata temporale, le modalità concrete con cui essa fu attuata e, dunque, di ritenere manifestamente infondato il motivo di ricorso per cassazione.
Ne consegue che, in assenza della prova evidente della innocenza ed esclusa l’inammissibilità del motivo dedotto, la sentenza deve essere annullata senza rinvio quanto al capo d), per essersi il reato contestato a Pepino (commesso il 17/07/2011), estinto per prescrizione.
9. Alla inammissibilità dei ricorsi proposti nell’interesse di Angelino Nicolò, Stella Cecilia, Benintende Fabio, Blasi Niccolò, De Costanzo Fabiola, Garau Michele e Lorenzi Elisa, consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento alla posizione di Pepino Daniele perché il reato ascrittogli è estinto per prescrizione.
Dichiara inammissibili gli altri ricorsi e condanna Angelino Nicolò, Benintende Fabio, Blasi Niccolò, De Costanzo Fabiola, Garau Michele e Lorenzi Elisa, al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, l’11 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2020.