Le armi del “clan dei Casalesi” venivano date al proprietario di un ristorante per sviare le indagini (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 29 settembre 2017, n. 45122).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VECCHIO Massimo – Presidente

Dott. CIAMPI Francesco Mari – Consigliere

Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere

Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere

Dott. TARDIO Angela – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Caterino Vincenzo, nato ad Aversa il 14/03/1964;

avverso la sentenza del 15/01/2015 della Corte di appello di Napoli;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Angela Tardio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Francesco Mauro Iacoviello, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 15 gennaio 2015, ha confermato la sentenza del 4 aprile 2014 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che aveva condannato Caterino Vincenzo alla pena di anni quattro di reclusione ed euro seimila di multa, perché ritenuto colpevole:

– del reato di cui agli artt. 110, 112 n. 1, 61 n. 2 e 6 cod. pen., 10, 12 e 14 legge n. 497 del 1974 e 7 legge n. 203 del 1991, per avere, in concorso con Pagano Gaetano, Di Maio Francesco, Letizia Giovanni, Cesarano Alfonso, Grassia Luigi, Letizia Franco, Di Caterino Emilio e Pagano Esterina (nei cui confronti si procedeva separatamente), illegalmente detenuto una pluralità di armi comuni da sparo, che gli erano state affidate il 16 febbraio 2001 prima dell’intervento delle forze dell’ordine presso il ristorante “Baffone”, e che egli aveva occultato e sottratto di fatto al sequestro, al fine di agevolare il sodalizio camorrista denominato clan dei Casalesi – fazione Bidognetti e con le modalità previste dall’art. 416-bis cod. pen., durante il periodo in cui Di Maio Francesco e Cesarano Alfonso ai sottraevano volontariamente a provvedimenti restrittivi della libertà personale (capo 1);

– del reato di cui agli artt. 378, primo e secondo comma, cod. pen. e 7 legge n. 203 del 1991, perché, ricevendo le indicate armi e munizioni, aveva aiutato Di Maio Francesco, Letizia Giovanni, Letizia Franco, Di Caterino Emilio e Grassia Luigi a eludere le investigazioni da parte dei Carabinieri di Caserta, consequenziali all’esecuzione del decreto di fermo nei confronti di Di Maio Francesco, al fine di agevolare il predetto sodalizio camorrista (capo 2).

2. La vicenda, ricostruita dalla sentenza di primo grado, si inseriva nell’ambito del procedimento “Domitia” e atteneva, nei termini di cui alle imputazioni, alla detenzione di plurime armi comuni da sparo, affidate dal Di Maio, dai Letizia, dal Di Caterino e dal Grassia all’imputato, titolare del ristorante “Baffone”, il quale, ricevendole, aveva aiutato gli stessi a eludere le investigazioni intraprese dopo l’emissione del decreto di fermo a carico del Di Maio.

Il Tribunale riteneva provata la responsabilità dell’imputato sulla base delle risultanze processuali, e in particolare delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Spagnuolo Oreste, delle intercettazioni eseguite sulla utenza telefonica in uso al Di Maio (nei cui confronti era stato emesso il decreto di fermo), che aveva concordato con lo Spagnuolo un appuntamento per incontrarsi presso il ristorante “Baffone” dell’imputato, degli esiti delle attività di osservazione e di appostamento nei pressi del locale definite con il rinvenimento nel suo interno di Di Maio, Letizia Franco e Giovanni, Di Caterino e Grassia, e delle dichiarazioni rese dal Di Caterino e dal Grassia, che, divenuti in seguito collaboratori di giustizia, avevano riferito che i predetti erano andati al ristorante dell’imputato per affidargli le armi, che detenevano, per il loro occultamento.

3. Il percorso motivazionale del Tribunale era condiviso dalla Corte di appello, che, ritenutolo coerente con le risultanze processuali, esaustivo e immune da vizi logici, lo richiamava, ripercorrendo gli aspetti più specifici investiti dalle doglianze prospettate dall’appellante.

La Corte, giudicando i motivi infondati, rappresentava in particolare, a ragione della decisione, che:

– era infondata l’eccezione di prescrizione dei reati, già rigettata dal Tribunale, e posta dall’appellante in correlazione alla data di commissione del reato in materia di armi (febbraio 2001), all’applicabilità della disciplina previgente alla legge del 2005, alla entità della pena massima per il reato di detenzione (anni cinque e mesi quattro), al suo aumento di due terzi per l’aggravante di cui all’art. 7, alla entità della pena massima come quantificata (anni otto, mesi sei e giorni venti), e all’antecedenza del termine massimo di prescrizione al primo atto interruttivo (12 ottobre 2010, data di emissione dell’ordinanza custodiale), e ugualmente argomentata per il reato di favoreggiamento. Il rigetto della eccezione trovava fondamento, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, nella circostanza che, secondo la nuova disciplina, avuto riguardo all’aggravante di cui all’art. 7, il reato di porto di armi si prescriveva in anni ventidue, quello di detenzione di armi in anni sedici e quello di favoreggiamento in anni dodici, oltre all’aumento di almeno un quarto ai sensi dell’art. 161, comma 2, cod. proc. pen., e secondo la vecchia disciplina, in anni ventidue e mesi sei ciascuno;

– andavano condivise le valutazioni del Tribunale in ordine alla piena attendibilità del collaboratore Di Caterino, che sintetizzava nel contesto della motivazione, ritenendole precise, dettagliate e coerenti; evidenziava che anche a voler ritenere sussistente un contrasto tra le prime dichiarazioni e quelle dibattimentali, non emergente in modo evidente per il carattere riassuntivo delle prime, avevano esclusiva valenza probatoria le seconde seguite all’operata contestazione, oltre a essere stato il contrasto superato dallo stesso collaboratore, che aveva confermato che erano state affidate all’imputato quattro armi corte, spiegando la ragione per la quale il fucile a pompa già indicato non era stato portato nel ristorante dello stesso; ricordava che il collaboratore aveva riferito chiaramente che la consegna delle armi era avvenuta appena entrati nel locale per la rilevata presenza dei Carabinieri in borghese, conoscendo a memoria la targa dell’auto in loro uso, che la perquisizione eseguita era stata fatta in modo accurato nel locale e nelle auto con esito negativo e che erano sopraggiunti altri uomini del comando, accompagnandosi, poi, ciascuno dei presenti in caserma in auto separate;

– andavano condivise le valutazioni del Tribunale anche in ordine alla attendibilità del collaboratore Grassia, le cui dichiarazioni, pur meno dettagliate sull’episodio, erano coincidenti con le altre sui punti focali, quali l’essere andati presso il ristorante “Baffone” dell’imputato, persona di fiducia, per consegnargli le armi, dopo un accordo telefonico tra lo Spagnuolo e il Di Maio, poi arrestato all’interno del locale, aggiungendo che si era trattato di armi corte (quattro o cinque), che nel ristorante non vi erano a!tre persone oltre a loro stessi, all’imputato e al personale di servizio e che era stata notata l’auto dei Carabinieri prima di entrare, e precisando di non ricordare chi avesse materialmente recuperato le armi, consegnate subito all’imputato, una volta entrati nel locale, nel quale dopo pochissimo tempo avevano fatto irruzione i Carabinieri;

– confortavano tali dichiarazioni quelle rese dai collaboratori Spagnuolo e Cesarano, che erano a conoscenza della dazione delle armi all’imputato e al loro occultamento da parte dello stesso, oltre che della prestazione da parte del medesimo di precedente attività a favore del clan;

– andavano condivise le ragioni della ritenuta inattendibilità dei testi a discarico, nessuno dei collaboratori avendo parlato di presenze estranee nel locale ed essendosi i testi Di Bona e Della Corte limitati a dire che si era alzato uno di un gruppo di ragazzi entrati per mangiare, seguendo l’imputato nella sala riservata alla preparazione degli antipasti, venendo per questo rimproverato, e che dopo qualche minuto avevano fatto irruzione i Carabinieri, senza che essi avessero notato nulla di strano;

– era mera illazione non supportata da alcun elemento la circostanza relativa a ragioni di astio del Di Caterino nei confronti dell’imputato, e non avevano valenza probatoria le emergenze della consulenza tecnica, quanto alla esatta distanza tra cancello di accesso e ingresso del locale e all’altezza della siepe lungo il viale, poiché i componenti del gruppo erano entrati nel locale sapendo che all’esterno vi era un’auto dei Carabinieri;

– quanto all’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, erano del tutto condivisibili le considerazioni svolte dal primo Giudice, che aveva ritenuto contestata l’aggravante sotto il profilo dell’agevolazione del sodalizio, essendo evidente l’apprezzabile contributo al perseguimento dei fini del clan prestato dall’imputato, anche alla luce della sua personalità come descritta dai collaboratori;

– non avevano fondamento, infine, le doglianze relative al diniego delle attenuanti generiche, alla entità della pena, all’aumento disposto per la continuazione e alla esclusa attenuante di cui all’art. 114 cod. pen.

4. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del suo difensore avv. Raffaele Ambrosca, l’imputato, che ne chiede l’annullamento sulla base di quattro motivi.

4.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 157 cod. pen. Secondo il ricorrente, la sentenza è incorsa nei denunciati vizi per non avere ritenuto i reati contestati prescritti, nonostante che il tempo di prescrizione fosse maturato prima del compimento del primo atto interruttivo, adottando argomenti censura bili.

4.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 192, commi 2 e 3, cod. proc. pen. ed erronea applicazione di legge in relazione agli artt. 10, 12 e 14 legge n. 497 del 1974.

Secondo il ricorrente, la Corte di appello, ricostruendo in chiave accusatoria, la vicenda fattuale non si è confrontata con il principio del ragionevole dubbio e ha valorizzato le chiamate in correità dei collaboratori Di Caterino e Grassia prive di riscontri individualizzanti, oltre che generiche, poco circostanziate, non sovrapponibili, e valutate in modo non attento né scrupoloso.

La Corte ha, in particolare, omesso di valutare e/o di considerare le contraddizioni, emerse in sede dibattimentale, in cui sono incorsi i collaboratori, con riguardo al tipo di armi assunte come consegnate a esso ricorrente; il contrasto tra la dichiarazione del Di Caterino di avere avuto il tempo di consegnargli le armi per la distanza di cento metri tra il cancello carraio e l’ingresso del ristorante e la verifica tecnica, di cui alla perizia descrittiva sullo stato dei luoghi del geometra Verazzo, che tale distanza era di m. 49,50, e tra la dichiarazione dello stesso di avere visto dall’interno del ristorante sopraggiungere l’auto dei Carabinieri e l’altezza (m. 1,80) della siepe che delimitava il confine con la strada; il sentimento di astio nutrito dal Di Caterino nei suoi confronti, riferito in sede di istruttoria dibattimentale dai testi Palrniero Giuseppe e Caterino Luigi; l’incidenza sulle sopraggiunte dichiarazioni collaborative di Grassia Luigi della lettura degli atti processali.

4.3. Con il terzo motivo sono denunciate violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla mancata esclusione dell’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del 1991, senza valutarsi l’assenza del dolo specifico, ossia della volontà di agevolare con la condotta tenuta l’intera organizzazione camorrista.

4.4. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente denuncia violazione di legge e difetto assoluto di motivazione, in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., per omessa valutazione del comportamento processuale tenuto e del ruolo assunto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, proposto sulla base di motivi infondati ovvero non consentiti o generici, deve essere rigettato.

2. È, innanzitutto, privo di fondatezza il primo motivo del ricorso, attinente alla censurata omessa declaratoria di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, non ricorrendo i dedotti vizi di violazione di legge e di vizio della motivazione, congiuntamente denunciati.

2.1. La Corte di appello, rivedendo i calcoli operati nella sentenza impugnata per individuare il termine prescrizionale e dando per presupposto il condiviso rilievo del Tribunale che l’imputato appellante non aveva tenuto conto -nella rappresentazione della sua tesi alla cui stregua la maturazione del termine ordinario di prescrizione aveva preceduto, in assenza di atti interruttivi, lo stesso esercizio dell’azione penale- della contestazione per ciascun reato della circostanza aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, ha proceduto dal corretto rilievo preliminare che una esaustiva disamina doveva apprezzare le ricadute, in termini favorevoli all’imputato, delle discipline normative succedutesi, e segnatamente di quella vigente alla data del fatto (16 febbraio 2001) e di quella successiva, introdotta con legge n. 251 del 2005.

L’esame da farsi, e che è stato svolto, ha quindi riguardato, pur senza esplicito richiamo ai pertinenti principi di diritto ed esplicazione dei singoli passaggi, il dato normativo che, secondo la disciplina dettata -quanto alla prescrizione- dalla indicata legge, il termine di prescrizione previsto dal nuovo testo dell’art. 157 cod. pen. corrisponde al massimo della pena edittale stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, e comunque non inferiore a sei anni se si tratta di delitto, «senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante» (primo e secondo comma), e detto termine è raddoppiato «[..] per i reati di cui all’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater, del codice di procedura penale» (sesto comma), a differenza di quanto disposto dalla disciplina previgente, che, graduando i tempi di prescrizione per scaglione in relazione ai previsti limiti massimi delle pene edittali stabilite per legge, rinviava «per determinare il tempo necessario a prescrivere” alla necessaria considerazione «dell’aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti», senza eccezioni per la predetta categoria di reati.

2.2. È coerente con detti criteri, resistendo alle generiche, e in ogni caso infondate, deduzioni difensive, il rilievo conclusivo, cui la Corte di appello è pervenuta nel senso della infondatezza della eccezione per essere il termine prescrizionale, comunque maturato, a oggi non decorso, considerando, e in tal senso intervenendo sul discorso giustificativo della decisione, sia l’entità della pena prevista per ciascuno dei reati ascritti, sia (nella vigenza dell’attuale sistema normativo) l’operatività del disposto dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., e (nella vigenza del pregresso) la incidenza delle contestate e ritenute aggravanti, oltre alla sospensione del corso del termine prescrizionale, per complessivi centottanta giorni, consequenziale alla sospensione dei termini di custodia cautelare durante la pendenza di quelli previsti per il deposito delle sentenze (ex artt. 159, vecchio e nuovo testo, cod. pen., 304, comma 1, lett. c, e 544, comma 3, cod. proc. pen.), anche senza tenere conto degli effetti degli intervenuti atti interruttivi ai sensi e per gli effetti dell’art. 160 cod. pen., antecedente alla riforma del 2015, ovvero dei novellati artt. 160 e 161 cod. pen.

3. Né meritano accoglimento le censure svolte con il secondo motivo, che attengono alle ragioni della disposta conferma del giudizio di colpevolezza del ricorrente per il reato ascritto in materia di armi, in dipendenza della illegittima, carente e/o illogica valutazione degli elementi di prova utilizzati e della omessa verifica della sussistenza di alternativa chiave di lettura, rispetto a quella meramente accusatoria valorizzata per la ricostruzione della intera vicenda fattuale, per l’espressione di un convincimento oltre ogni ragionevole dubbio.

3.1. Emerge con evidenza dal loro contenuto, sintetizzato sub 4.2. del «ritenuto in fatto», che dette censure si sviluppano tutte, benché inscenate sotto la prospettazione di vizi di legittimità, sul piano della valutazione di merito compiuta nella sentenza impugnata, proponendo un diverso apprezzamento dell’attendibilità soggettiva dei collaboratori di giustizia e/o del contenuto delle loro dichiarazioni, nella non consentita prospettiva di accreditare una rilettura) 17 degli elementi di fatto, enucleati nel correlato tema di accusa, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito, senza che, per consolidato orientamento (tra le altre, Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099), possa integrare un vizio di legittimità la rappresentazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, disamina delle risultanze processuali.

3.2. Ad ogni buon conto, la Corte di appello ha richiamato le motivazioni espresse nella sentenza appellata, che ha argomentativamente condiviso, nelle quali era stato trattato, con esito positivo, il tema dell’attendibilità dei collaboratori di giustizia Di Caterino Emilio e Grassia Luigi in linea con consolidati principi giurisprudenziali, e si è fatta carico di dare congruente risposta alle doglianze afferenti tale tema, fatte oggetto dei motivi di appello, e ora riproposte.

3.2.1. La sentenza, invero, esplicando l’itinerario interpretativo percorso (il cui sviluppo è sintetizzato sub 3 del «ritenuto in fatto»), ha richiamato le dichiarazioni rese, al riguardo dei fatti in esame, dai predetti collaboratori; ha puntualizzato, controbattendo criticamente alle deduzioni e obiezioni difensive, le ragioni della loro soccombenza rispetto all’analisi del complessivo apporto dichiarativo del collaboratore Di Caterino (circa il numero e il tipo di armi consegnate all’imputato e i tempi della consegna, in particolare) e di quello, coincidente nei descritti punti focali, del collaboratore Grassia, e ha ragionevolmente rimarcato, facendo espresso riferimento alle circostanze narrate e a correlate considerazioni di natura logica, afferenti ai comportamenti degli «uomini del gruppo», entrati nel locale dell’imputato e autori della dazione delle armi allo stesso, l’assenza di contraddizioni tra il rispettivo narrato e di illogicità di ciascuno di essi.

3.2.2. Né la Corte di merito ha prescisso dal confronto con le emergenze della consulenza tecnica di parte sullo stato dei luoghi, esterni al locale interessato, dedotte dalla difesa a conforto della denunciata scarsa coerenza delle dichiarazioni dei collaboratori, spendendo coerenti argomenti, logicamente correlati, per evidenziarne la irrilevanza probatoria a fronte della circostanza dirimente, segnalata come trascurata in appello, e rimasta ignorata nel ricorso, che l’interesse dell’affidamento immediato delle armi all’imputato, dismettendone il possesso, da parte dei componenti del gruppo, entrati nel locale «consapevoli della presenza, all’esterno, delle forze dell’ordine», era indipendente dalla osservazione e dalla visibilità, dall’interno, della zona esterna.

La Corte -che ha anche giudicato mera illazione la tesi difensiva circa la sussistenza di presunti sentimenti di astio del collaboratore Di Caterino verso l’imputato, affidata alla rappresentazione di circostanze astratte inidonee a conferirle una base di verosimiglianza, e rimasta aspecifica anche nella evocazione con il ricorso di diverse, non allegate, emergenze della istruttoria dibattimentale (dichiarazioni di Palnniero Giuseppe e Caterino Luigi)- ha anche ritenuto che fossero di ulteriore conforto al delineato quadro probatorio, non inciso dalle pure illustrate dichiarazioni dei testi a discarico giudicati inattendibili in primo grado e come tali confermati, le dichiarazioni rese dai collaboratori Spagnuolo e Cesarano, conoscitori della dazione delle armi e del loro occultamento da parte dell’imputato, oltre che della pregressa condotta di aiuto al clan da parte,del medesimo.

3.2.3. L’obiezione, infine, relativa alla omessa risposta al rilievo difensivo pertinente ai tempi delle collaborazioni, refluenti sulla genuinità delle dichiarazioni del collaboratore Grassia, non risulta devoluta alla Corte di appello, oltre a essere generica e non autosufficiente nella sua rappresentazione, ferma la predetta considerazione iniziale circa la inidoneità delle doglianze, che si risolvono in censure di fatto, ad attivare un sollecitato sindacato di legittimità.

4. È infondato il terzo motivo, con il quale il ricorrente ha eccepito la violazione di legge e il difetto di motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti dell’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, che la Corte di appello ha ritenuto -condividendo appieno le diffuse ed esaustive osservazioni svolte nella sentenza appellata- correttamente considerata dal Tribunale come contestata sotto il profilo dell’agevolazione del clan Bidognetti e legittimamente riconosciuta come integrata da un punto di vista oggettivo e soggettivo, mentre i rilievi difensivi sono limitati al rilievo contrapposto della necessità della prova dell’elemento soggettivo dell’aggravante mafiosa e della sua motivazione, che i Giudici di merito hanno, rispettivamente, apprezzato e offerto con concordanti, non considerati, argomenti, esenti da vizi giuridici e logici.

5. Neppure, infine, ha pregio l’ultimo motivo riguardante il trattamento sanzionatorio, promiscuamente denunciato per violazione di legge e vizio della motivazione, con richiamo all’art. 62-bis cod. pen. e ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen.

5.1. La sentenza impugnata ha, infatti, esplicitato, dopo le determinazioni in punto responsabilità, le ragioni che giustificavano la scelta giudiziale confermativa del trattamento già applicato, attribuendo rilievo preponderante alla gravità dei fatti, alle allarmanti modalità della condotta e al descritto particolare contesto in cui la vicenda si è realizzata, con giudizio di implicita sub valenza di diversi elementi, quali l’età e il comportamento processuale, ovvero ulteriori parametri traibili dal predetto art.133 cod. pen.

5.2. Tale valutazione, attinente ad aspetti che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, esercitato congruamente e anche coerentemente al principio di diritto secondo il quale l’onere motivazionale da soddisfare non richiede necessariamente, né in tema di attenuanti generiche (tra le altre, Sez. 1, n. 33506 del 07/07/2010, P.G. in proc. Biancofiore, Rv. 247959), né in materia di determinazione della pena (tra le altre, Sez. 2, n. 36425 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596), l’esame di tutti i parametri fissati dall’art. 133 cod. pen., si sottrae alle censure mosse, che, infondatamente denunciando affermate violazioni degli esposti principi di diritto e difetto di motivazione, oppongono il riferimento al comportamento processuale e al ruolo assunto in termini generici e in ogni caso invasivi di congrui apprezzamenti di merito.

6. Al rigetto del ricorso per le svolte considerazioni segue per legge, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 10/06/2016

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2017.

SENTENZA – copia non ufficiale -.