Minaccia un poliziotto con una stampella. Per i Giudici anche il supporto ortopedico per la deambulazione può essere catalogato come strumento atto ad offendere (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 2 settembre 2021, n. 32714).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PEZZULLO Rosa – Presidente

Dott. BELMONTE Maria Teresa – Consigliere

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere

Dott. CALASELICE Barbara – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) FRANCESCO nato a MESSINA il 04/12/19xx;

avverso la sentenza del 18/09/2019 della CORTE APPELLO di MESSINA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa BARBARA CALASELICE;

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa PERLA LORI che ha concluso chiedendo l’inammissibilità;

udito il difensore.

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d’appello di Messina ha confermato la condanna, emessa dal Tribunale in sede, in data 28 novembre 2017, nei confronti di Francesco (OMISSIS), alla pena di mesi uno di reclusione, per il reato di minaccia aggravata commesso in data 13 marzo 2014.

2. Avverso la sentenza indicata, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, attraverso il difensore, denunciando tre vizi.

2.1. Con il primo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché vizio di motivazione, in relazione all’art. 612, comma 2, cod, pen. e 192 cod. proc. pen.

La sentenza di appello è priva di motivazione, circa la qualificazione del fatto e, comunque, si presenta contraddittoria.

Per il ricorrente, infatti, la sentenza di condanna e quella di appello che alla prima si riporta, fondano solo sulle dichiarazioni della parte lesa, senza considerare che l’imputato è claudicante e necessita di stampelle sicché non potrebbe incutere timore alcuno, con particolare riferimento all’agente che in quel momento lo aveva in custodia.

Né la minaccia era grave e tale da provocare alcun turbamento nella vittima.

Del resto l’unico teste, escusso sul punto, si è limitato a leggere l’annotazione di servizio depositata in atti.

Dunque, si invoca il proscioglimento, ai sensi dell’art. 129, cod. proc . pen. esclusa la gravità della minaccia, per difetto di querela.

Infine, si osserva che, per il reato commesso, pur aggravato per non esserlo ai sensi dell’art. 339 cod. pen., necessiterebbe la querela ai sensi del d. Igs. n. 36 del 9 maggio 2018.

2.2. Con il secondo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché vizio di motivazione, in relazione all’art. 131-bis cod. pen.

Nel caso di specie ricorre la minimalità del fatto e dell’offesa, tenuto conto delle condizioni soggettive dell’imputato, non in grado di intimorire alcuno.

Nel caso in esame, poi, manca il requisito dell’abitualità del comportamento, come invece reputato dalla sentenza censurata, essendo necessario almeno che la condotta sia ripetuta per tre volte.

2.3. Con il terzo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 133 cod. pen. e 62-bis cod. pen. con correlato vizio di motivazione.

Il trattamento sanzionatorio sarebbe eccessivo e la corte territoriale omette di motivare adeguatamente circa i criteri in base ai quali si è considerata la pena finale del primo giudice.

3. Il Procuratore generale ha fatto pervenire requisitoria scritta, ex art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, con la quale ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.

La censura indica come unica prova a carico, considerata dai provvedimenti di merito, la deposizione della persona offesa.

Omette di considerare il ricorrente, la conferma di detta deposizione indicata come proveniente da altro testimone, motivazione con la quale il ricorso non si confronta risultando in tale parte aspecifico.

Peraltro, il ricorrente non considera che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., come è noto, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste, da sole, a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto che, peraltro, deve, in tal caso, essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’arte, Rv. 253214; Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico, Rv. 271623; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575 – 01; Sez. 7, n. 12406 del 19/02/2015, Micciché, Rv. 262948; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajno, Rv. 261730; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362).

La circostanza di fatto sottolineata (condizioni di salute dell’imputato inconciliabili con l’attuazione del male minacciato e comunque tali da non incutere turbamento nella vittima) è irrilevante.

Il giudice di secondo grado, invece, ha correttamente confermato la qualificazione in termini di minaccia grave delle espressioni rivolte dall’imputato alla persona offesa, tenendo nel dovuto conto il contesto in cui vennero pronunciate, in modo da evidenziarne l’idoneità minatoria, conformemente al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità.

E’ noto che per integrare il reato di minaccia non è necessario, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, che la prospettazione intimidisca, effettivamente, il soggetto passivo essendo, invece, sufficiente che la condotta posta in essere dell’agente, in relazione alla situazione contingente, sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima (cfr. ex multis, Sez. 5, n. 6756 del 11/10/2019, dep. 2020, Giuliano, Rv. 278740).

Quanto alla procedibilità del reato in questione si osserva che a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 2, del d. Igs. n. 36 del 2018, si procede di ufficio, per il reato di minaccia, soltanto se questa è grave in quanto attuata nei modi di cui all’art. 339 cod. pen.

Infatti, la norma ha previsto che il reato di minaccia grave sia perseguibile a querela di parte, sempre che non rientri nelle ipotesi di cui all’art. 339 cod pen.

Invero, all’interno dell’art. 612 cod. pen. è stato inserito il terzo comma che, a fronte della previsione generale della punibilità a querela di parte, fissata dal comma primo, limita la procedibilità d’ufficio ai soli casi di minaccia “fatta in uno dei modi indicati dall’art. 339 cod. pen.”

Nella disciplina previgente, comunque, la minaccia grave perché intervenuta nelle forme di cui all’art. 339 cit., era, del pari, condotta perseguibile di ufficio.

Tale considerazione si ricava dalla lettura del combinato disposto di cui agli artt. 612, comma 2 e 339 cod. pen., secondo la formulazione precedente a quella da ultimo modificata con il decreto legislativo citato.

Ciò posto si osserva che, nel caso al vaglio, il fatto è commesso in data 13 agosto 2014 e la minaccia contestata nell’imputazione è grave ai sensi dell’art. 339 cod. pen., perché commessa con l’uso di uno strumento atto ad offendere (una stampella).

Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza, anche di questa Corte di legittimità, per armi vanno intese non solo quelle proprie, ma anche quelle improprie, ovvero gli strumenti atti ad offendere, dei quali è vietato l’uso in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo, come precisa l’art. 585, comma 2, cod. pen. cod. pen.

La legge n. 110 del 1975 ha esteso, invero, il novero di entrambe le categorie di armi e ha compreso nelle armi improprie di cui al secondo comma dell’art. 4 citato, qualsiasi altro strumento, non considerato espressamente come arma da punta o da taglio “chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona”, dunque solo occasionalmente lesivi per la persona (Sez. 1, n. 40207 del 08/06/2016, Pashkaj, Rv, 268102).

E’, quindi, fuori dubbio che anche oggetti comuni possono essere qualificati come armi improprie ai sensi dell’art. 339, comma 1, cod. pen. quando, in un contesto aggressivo, possano essere utilizzati come mezzi di offesa alla persona e, come tali, siano stati impiegati, anche se solo per minacciare (Sez. 5, n. 682 del 13/12/2006, dep. 2007, Rv. 235776).

E’ stato infatti, reiteratamente affermato, in relazione all’interpretazione dell’art. 585, comma 2, cod. pen. che ricorre la circostanza aggravante dell’ uso di uno strumento atto ad offendere di cui all’art. 585, comma secondo, n. 2, cod. pen., laddove la condotta lesiva sia in concreto realizzata adoperando qualsiasi oggetto, anche di uso comune, privo di apparente idoneità all’ offesa (in tale prospettiva è stato ritenuto un pezzo di legno, usato in un contesto aggressivo, nella specie, scagliato contro la persona offesa, arma impropria ai fini dell’applicazione dell’aggravante in esame, da ciò derivando la procedibilità d’ufficio del reato: Sez. 5, n. 8640 del 20/01/2016, R., Rv. 267713).

Nello stesso senso, del resto, si è espressa Sez. 5, n. 41284 del 24/04/2015, Airoldi, Rv. 265090, che ha reputato sussiste l’aggravante prevista dall’art. 585, comma secondo n. 2, cod.pen., nel caso in cui le lesioni personali siano state cagionate alla vittima con l’uso di una stampella da deambulazione, ritenuto che devono considerarsi armi improprie tutti gli strumenti, ancorché non da punta o da taglio, che, in particolari circostanze di tempo o di luogo, possono essere utilizzati per l’offesa alla persona.

2.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.

Come chiarito dal noto condivisibile arresto della Suprema Corte nella sua espressione più autorevole, ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame.

In motivazione, la Corte ha chiarito che, ai fini della valutazione del presupposto indicato, il giudice può fare riferimento non solo alle condanne irrevocabili ed agli illeciti sottoposti alla sua cognizione — nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui — ma anche a reati in precedenza ritenuti non punibili ex art. 131-bis cod. pen. (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, rv. 266593).

Ciò premesso, si osserva che del tutto immune da vizi è la decisione della Corte territoriale, che ha correttamente escluso la suddetta causa di non punibilità sul presupposto che l’offesa, considerate le espressioni utilizzate e il soggetto da cui queste provenivano, gravato da numerosi precedenti penali, non fosse di speciale tenuità.

Sicché, il giudizio della Corte territoriale non si è soffermato sulla presenza, a carico del ricorrente, di precedenti per reati della stessa indole e sull’abitualità del comportamento, ma sulla entità dell’offesa arrecata.

Il giudizio di fatto, sul punto, è rimesso al giudice di merito che, peraltro, viene censurato in considerazione dell’intrinseca inidoneità della condotta ad intimo-ire effettivamente la persona offesa, circostanza non rilevante ai fini della qualificazione della condotta.

Peraltro, il giudizio sulla tenuità dell’offesa è stato effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma 1, cod. pen., senza che sia necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647).

2.3. Le censure inerenti il trattamento sanzionatorio ed il diniego delle circostanze di cui all’art. 62-bis cod. pen. di cui al terzo motivo di ricorso sono inammissibili perché inedite, come risulta dalla incontestata sintesi dei motivi di appello contenuto nella sentenza censurata.

Inoltre, tali critiche risultano generiche e comunque, attingono il potere, rimesso al giudice di merito, di graduare la sanzione, nella specie esercitato correttamente e senza arbitrio come emerge dalla motivazione esauriente della pronuncia di merito.

3. All’inammissibilità consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.

4. Tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. l’onere del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata equitativamente nelle misura di cui al dispositivo, considerati i motivi devoluti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile i! ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 9/04/2021.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.