REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI TOMASSI Maria Stefania – Presidente –
Dott. SARACENO Rosa Anna – Consigliere –
Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere –
Dott. CENTOFANTI Francesco – Consigliere –
Dott. CAPPUCCIO Daniele – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.R.S., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 08/06/2018 del TRIBUNALE di TERAMO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. DANIELE CAPPUCCIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. ANIELLO ROBERTO, il quale conclude chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. FUCILE EMILIA, che chiede l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza dell’8 giugno 2018 il Tribunale di Teramo ha condannato D.R.S. alla pena, condizionalmente sospesa, di 300,00 Euro di ammenda, oltre che al pagamento delle spese processuali, perchè responsabile del reato di molestia o disturbo alle persone.
Contestualmente, D.R. è stato condannato al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, arrecati alla costituita parte civile ed alla rifusione delle spese legali in favore della medesima parte civile.
2. Il procedimento nell’ambito del quale è stata emessa la citata sentenza è scaturito dalla querela sporta da L.L. il quale ha riferito che, a seguito dell’interruzione del contratto di fornitura di energia con il gestore I., ha ricevuto, per un periodo di quasi due mesi, un numero esorbitante – nell’ordine quotidiano di 8-10 – di chiamate telefoniche, distribuite lungo l’intero arco della giornata, provenienti da diversi incaricati ed intese ad ottenere il saldo delle fatture rimaste inevase all’atto della cessazione del rapporto negoziale.
Il Tribunale, ritenuta l’attitudine dei contatti, per la loro frequenza e collocazione oraria, ad integrare la petulanza richiesta dall’art. 660 c.p., ha individuato in D.R.S., amministratore della società Recus S.p.a., incaricata del recupero crediti per conto di I., il responsabile, quantomeno a titolo di colpa, dell’illecito, commesso in ossequio a precisa strategia aziendale e non in forza di autonome iniziative dei singoli addetti al call center.
Ha, inoltre, escluso, in ragione della sistematicità della condotta, l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p..
3. D.R. ha proposto, con il ministero dell’avv. Matteo Di Pede, ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo, deduce travisamento della prova, con riferimento al reato sanzionato dall’art. 660 c.p., sul rilievo che i tabulati telefonici versati in atti e la deposizione del teste C. concorrono nell’attestare, ad onta di quanto riferito dal querelante e dalla di lui fidanzata, che il personale della Recus chiamò L., in relazione a tre distinte pratiche di recupero, non più di venti volte nell’arco di due mesi, mai più di due volte nella stessa giornata, in giorni lavorativi (dal Lunedì al Venerdì, con una sola eccezione di Sabato mattina) ed in orari compresi, con sole tre eccezioni (telefonate effettuate, rispettivamente, alle 18,12, alle 19,30 ed alle 20,11) tra le 9,00 e le 16,00, sicchè contrastante con il dato probatorio si palesano le conclusioni esposte dal giudice di merito in ordine al carattere assillante e molesto dei contatti.
3.2. Con il secondo motivo, deduce carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere il Tribunale trascurato come, stando alla documentazione ritualmente versata in atti ed alla deposizione del teste B., la Recus S.p.a. avesse vincolato gli operatori al rispetto del protocollo d’intesa siglato tra le aziende del settore e le associazioni dei consumatori ed adottato un proprio codice etico e deontologico, al cui rispetto era vincolato chiunque agisse per conto della società.
Addebita, ulteriormente, al Tribunale di non avere tenuto conto delle discrasie tra i contributi della parte civile e della fidanzata in ordine all’identificabilità del chiamante, rivelatrici, unitamente ad altre risultanze istruttorie, dell’inattendibilità di L..
3.3. Con il terzo motivo, deduce violazione della legge processuale e vizio di motivazione per essere il Tribunale pervenuto all’affermazione della penale responsabilità di D.R., indicato nell’imputazione quale autore delle telefonate moleste, attribuendogli invece la paternità della prassi aziendale osservata da chi materialmente effettuò le chiamate, condotta radicalmente diversa da quella oggetto di originaria contestazione, con conseguente vulnus al precetto contenuto nell’art. 521 c.p.p. e, più in generale, al principio di correlazione tra accusa e sentenza consacrato anche nell’art. 6, commi 1 e 3, CEDU.
3.4. Con il quarto ed ultimo motivo, deduce mancanza o mera apparenza della motivazione con riferimento all’elemento soggettivo del reato, che, a dispetto della sua natura contravvenzionale, indica quale dolo specifico.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile perché propone motivi manifestamente infondati o non consentiti.
2. Con il primo motivo, il ricorrente, nel dedurre vizio della motivazione e travisamento della prova, asserisce che il prospetto dei contatti telefonici risultante dai tabulati ed il tenore della deposizione resa in dibattimento dal M.llo C. smentirebbero l’assunto accusatorio, che il Tribunale ha avallato sulla scorta del contributo della parte civile L.L. e della fidanzata V.C., secondo cui gli operatori incaricati dalla I. avrebbero contattato l’utenza di L. per otto/dieci volte al giorno, per un turno di tempo consistente ed anche in orari serali o, comunque, ordinariamente dedicati al riposo.
Il ricorrente, tuttavia, non allega al ricorso copia degli atti indicati e non ne trascrive in forma integrale il relativo contenuto, sicchè l’impugnazione risulta, per questa parte, inammissibile per difetto di specificità ed autosufficienza (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. 1, n. 25834 del 04/05/2012, Massaro, Rv. 253017), non potendosi apprezzare la sussistenza della denunziata divergenza tra il dato documentale e quello dichiarativo nè scrutinarsi, sotto l’indicato angolo prospettico, la conformità a logica del giudizio di attendibilità riservato dal Tribunale ai testimoni di accusa, il cui apporto è stato ritenuto dal giudice di merito idoneo a fondare, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’addebito, in quanto rappresentativo di una condotta che, per le modalità con cui è stata posta in essere, soddisfa gli elementi costitutivi della contravvenzione sanzionata dall’art. 660 c.p..
3. Analoghe considerazioni devono essere dedicate al secondo motivo di ricorso, con il quale si lamenta che il Tribunale non abbia dato conto della produzione documentale effettuata dalla difesa di D.R., attestante la vigenza di una policy interna all’azienda da lui amministrata, diretta a garantire la limitazione dei contatti telefonici a determinati orari e giorni della settimana ed a mantenere le iniziative nei binari corretti dell’interlocuzione negoziale.
Tanto, a riprova, oltre che dell’inattendibilità dei testi di accusa, del fatto che l’eventuale violazione dei protocolli sarebbe stata frutto di autonoma iniziativa degli addetti e non espressiva di apposita strategia aziendale nè ascrivibile, neanche a titolo di colpa, all’odierno ricorrente.
Anche in questo caso, invero, il ricorrente omette di suffragare la censura con la prescritta esibizione del compendio documentale evocato, sì da incorrere nel vizio di genericità e difetto di autosufficienza.
Avuto riguardo, poi, alla doglianza che si appunta sull’avere il Tribunale, nella motivazione del provvedimento impugnato, omesso di esaminare quanto dedotto con la memoria difensiva depositata, nel corso della discussione, all’udienza dell’8 giugno 2018, è sufficiente segnalare l’intempestività della produzione, eseguita – secondo quanto risulta dal verbale di udienza – dopo che il pubblico ministero aveva già rassegnato le proprie richieste finali, ciò che, stando al consolidato e condiviso della giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 38757 del 22/06/2016, Alibani, Rv. 268093), esclude la nullità della sentenza che non abbia valutato la memoria e non incide sulla correttezza della motivazione che ne abbia pretermesso i contenuti.
Tendente ad una rivalutazione del materiale probatorio non consentita nella sede di legittimità è, infine, la censura incentrata su presunte discrasie tra le dichiarazioni rese dai testimoni L., V. e B. in ordine, specificamente, all’identificabilità del numero chiamate e sull’intrinseca inattendibilità dell’apporto della persona offesa, profili già posti all’attenzione del giudice di merito a da questi risolti nel contesto di un iter argomentativo esente da crismi di manifesta illogicità.
4. Manifestamente infondato è il terzo motivo, con il quale si deduce la violazione dell’art. 521 c.p.p. e art. 6 Cedu per essere stato l’imputato indicato, in rubrica, quale autore delle telefonate in realtà effettuate dagli incaricati della società da lui amministrata.
Sul punto, va premesso che la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza postula che la diversità – lungi dall’afferire ad elementi marginali, secondari o di valenza aggiuntiva, che non risultano decisivi per la struttura della contestazione e per il tema della prova – attinga, attraverso l’istruttoria, un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale e strutturale con una trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto possibilità di effettiva difesa (Sez. 6, n. 17799 del 06/02/2014, M., Rv. 260156; Sez. 6, n. 899 del 11/11/2014, dep. 2015, Isolan, Rv. 261925).
Nel caso di specie, contestandosi a D.R. di avere, “nella sua qualità di amministratore della Recus S.p.a.”, recato disturbo o molestia a L.L. “inviando numerose telefonate all’utenza (OMISSIS)”, è stata descritta una condotta che, tenuto conto del ruolo assunto dall’imputato in seno all’azienda ed alla composizione di quest’ultima, era senz’altro riferite, come percepibile a semplice lettura, alla promozione di politiche di impresa suscettibili di ledere il bene protetto dalla norma penale ovvero all’inadempimento dei prescritti doveri di vigilanza.
E’ sufficiente, d’altro canto, scorrere le pagine della sentenza impugnata e del ricorso per comprendere come la trama del processo, a partire dall’istruttoria, abbia investito sia l’effettuazione delle telefonate, da parte di soggetti diversi dall’odierno ricorrente, che le azioni promosse dalla dirigenza al fine di evitare l’eccessività invasività delle iniziative finalizzate al recupero dei crediti nei confronti degli utenti morosi, e come la responsabilità di D.R., mai indicato, neanche implicitamente, quale autore delle telefonate, sia stata esaminata esclusivamente sotto il secondo aspetto, che la sentenza impugnata ha cura di analizzare con sufficiente livello di approfondimento.
Priva di pregio si palesa, pertanto, l’obiezione difensiva che ipotizza un vulnus al diritto di difesa del tutto insussistente, essendo stata affermata la penale responsabilità di D.R. per il fatto compiutamente descritto nell’imputazione ed accertato attraverso un’istruttoria sviluppatasi in perfetta coerenza all’originarioi assunto accusatorio.
5. Con l’ultimo motivo, il ricorrente si duole che il Tribunale abbia rinunziato ad accertare la sussistenza, nella condotta dell’imputato, della petulanza o altro biasimevole motivo che costituisce elemento costitutivo della contravvenzione.
La censura muove dal presupposto, avallato da un risalente orientamento giurisprudenziale (Sez. 5, n. 2766 del 09/01/1989, Adamo, Rv. 183515; Sez. 1, n. 1460 del 21/06/1974, Manfredini, Rv. 129249; Sez. 6, n. 960 del 15/04/1970, Tinti, Rv. 114987), che il reato sanzionato dall’art. 660 c.p., a dispetto della sua natura contravvenzionale, richieda il dolo specifico, in tal senso dovendosi interpretare il riferimento alla petulanza o ad altro biasimevole motivo.
Tale indirizzo appare, tuttavia, frutto di una concezione da tempo superata (già Sez. 1, n. 12230 del 25/10/1994, Mammoli, Rv. 199682 inseriva la petulanza o l’altro biasimevole motivo all’interno dell’elemento oggettivo del reato) perchè frutto di una non ancora matura consapevolezza della distinzione tra una determinata finalità dell’azione illecita, ad essa esterna, nella quale si traduce la specificità del dolo, ed il motivo che ha originato la condotta.
Nel caso di specie, appare indubbio che l’illiceità dell’azione posta in essere con il decisivo concorso di D.R.S. è derivata dalla scelta, presumibilmente compiuta dalla governance aziendale, di ricorrere ad insistite e pressanti iniziative finalizzate al recupero del credito, così anteponendo gli obiettivi di profitto al rispetto dell’altrui diritto al riposo ed a non essere disturbati, ciò che integra il biasimevole motivo richiesto dalla norma incriminatrice; il Tribunale, del resto, è esplicito nell’attestare, sul punto, che già l’elevata frequenza delle telefonate quotidiane risponde alla nozione di petulanza richiesta dalla disposizione applicata.
Non può allora dirsi, conclusivamente, che il Tribunale sia incorso, in proposito, nell’evocato deficit motivatorio, avendo il giudice di merito spiegato, sia pure sinteticamente, che D.R. era sicuramente a conoscenza delle violazioni dei codici interni di comportamento, ciò che vale a qualificare il suo contegno in termini quantomeno colposi ed attesta la manifesta infondatezza della deduzione sottesa all’impugnazione.
6. Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale, rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 Euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 5 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019