Anche con l’intervento della Polizia Giudiziaria, il reato di estorsione lo si intende consumato nel momento in cui il soggetto, passivo, ha consegnato il danaro all’estorsore (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 4 marzo 2019, n. 9337).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMMINO Matilde – Presidente

Dott. IMPERIALI Luciano – Consigliere

Dott. ALMA Marco Maria – Consigliere

Dott. PELLEGRINO Andrea – rel. Consigliere

Dott. AIELLI Lucia – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), n. a (OMISSIS), rappresentata ed assistita dall’avv. (OMISSIS), di fiducia;

avverso la sentenza della Corte di appello di Bari, seconda sezione penale, n. 2856/2016, in data 13/03/2017;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere Dr. Pellegrino Andrea;

udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale Dr. Sante Spinaci che ha concluso chiedendo di rigettarsi il ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 13/03/2017, la Corte di appello di Bari, in riforma della pronuncia resa in primo grado all’esito di giudizio abbreviato dal Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Bari in data 12/02/2016, rideterminava la pena inflitta ad (OMISSIS) in relazione al reato di estorsione nella misura di anni due, mesi quattro di reclusione ed Euro 600,00 di multa, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, revoca della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e conferma nel resto della sentenza di primo grado.

2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di (OMISSIS), viene proposto ricorso per cassazione, i cui motivi vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..

Censura la ricorrente:

– vizio di mancanza, contraddittorieta’ ed insufficienza di motivazione nella parte in cui si da’ atto della credibilita’ soggettiva ed oggettiva delle dichiarazioni rese dalla persona offesa (OMISSIS), da un lato, ritenute riscontrate dall’attivita’ della polizia giudiziaria espletata in concomitanza dell’arresto con travisamento del contenuto; dall’altro, omettendo di valutare la prova processuale offerta dalle dichiarazioni rese da (OMISSIS), coindagata archiviata nel medesimo processo, nonche’ i contenuti dell’interrogatorio di convalida dell’arresto in data 17/04/2014 che di quello effettuato in data 10/06/2014 dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, che contraddicono la versione dei fatti resa dalla persona offesa (primo motivo);

– erronea applicazione della legge penale che ha ritenuto consumato anziche’ tentato il reato di estorsione nonche’ contraddittorieta’ e/o manifesta illogicita’ della motivazione nella parte in cui, pur dandosi atto che dal verbale di arresto in flagranza risulta che persona diversa dall’imputata abbia richiesto e si sia impossessata del denaro, si riconosce e si afferma che la richiesta e la successiva consegna del denaro siano stati fatti dalla (OMISSIS) (secondo motivo);

– mancanza, contraddittorieta’ e insufficienza della motivazione nella parte in cui nella stessa viene omessa la valutazione della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’articolo 393 c.p. (terzo motivo).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ inammissibile.

2. Va preliminarmente rilevato che sia la sentenza della Corte di appello di Bari che quella “doppia conforme” del Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Bari, che tra loro si integrano nella formazione di un unico complesso probatorio, risultano caratterizzate da una motivazione ampia e congrua, di certo non manifestamente illogica e tantomeno contraddittoria.

I Giudici del merito hanno ampiamente ricostruito gli sviluppi fattuali ed il ruolo rivestito negli stessi dall’imputata.

Giova, inoltre, fin da subito ricordare che e’ giurisprudenza consolidata di questa Corte che, nella motivazione della sentenza, il giudice di merito non e’ tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso, devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (in questo senso v. Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005, dep. 2006, Mirabilia, Rv 233187).

Del resto, questa Suprema Corte ha chiarito che, in sede di legittimita’, non e’ censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa e’ disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata.

Pertanto, per la validita’ della decisione non e’ necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa.

Sicche’, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicita’ – come avvenuto nella fattispecie – quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, si’ da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi e’ luogo per la prospettabilita’ del denunciato vizio di preterizione (Sez. 2, n. 29434 del 19/05/2004, Candiano, Rv. 229220; Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, dep. 2014, Cento, Rv. 259643).

3. Manifestamente infondato oltre che evocativo di non consentite censure in fatto e’ il primo motivo di ricorso.

Lo stesso tende, infatti, a sottoporre al giudizio di legittimita’ aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito. Invero, la mera riproposizione delle medesime doglianze gia’ oggetto dei motivi di appello, attiene a valutazioni di merito che sono insindacabili nel giudizio di legittimita’ quando – come nella fattispecie – il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici (cfr., Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

E cosi’ segnatamente – la Corte territoriale da’, adeguatamente, atto del vaglio di credibilita’ al quale e’ stata sottoposta la deposizione della persona offesa con motivazione immune da vizi di legittimita’, dando conto anche delle discrasie evidenziate nei motivi di gravame, che, alla luce del complesso delle risultanze istruttorie, non vengono ritenute rilevanti ai fini della ricostruzione del fatto descritto nell’imputazione e della responsabilita’ della ricorrente nonche’ spiegando adeguatamente l’impossibilita’, sulla base degli elementi probatori emersi nel corso del giudizio, di accedere alla diversa ricostruzione della vicenda prospettata dalla difesa della ricorrente.

Nel ricorso, invece, viene prospettata una valutazione delle prove diversa e piu’ favorevole alla ricorrente rispetto a quella accolta nella sentenza di primo grado e confermata dalla sentenza di appello; in sostanza si ripropongono questioni di mero fatto che implicano una valutazione di merito preclusa in sede di legittimita’, a fronte di una motivazione esaustiva, immune da vizi logici.

Esula, infatti, dai poteri della Suprema Corte quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e’, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimita’ la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente piu’ adeguata, valutazione delle risultanze processuali.

4. Manifestamente infondato e’ il secondo motivo di ricorso.

La contestazione elevata a carico della (OMISSIS) e’ quella di aver usato minaccia nei confronti di (OMISSIS), minaccia consistita nell’aver inviato sull’utenza mobile in uso a quest’ultima ben ottantre’ messaggi intimidatori di ritorsione e di morte, costringendola la persona offesa a consegnarle la somma di trecentottanta Euro, quale ulteriore presunto corrispettivo per prestazioni di magia, con corrispondente conseguimento di ingiusto profitto.

4.1. In relazione al primo profilo proposto attinente alla qualificazione giuridica dei fatto, evidenzia il Collegio come la ricostruzione della dinamica del fatto, cosi’ come sviluppata nella sentenza impugnata anche attraverso il richiamo alla decisione di primo grado, consente di escludere, alla luce del costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte pienamente condiviso dal Collegio, che possa versarsi in un’ipotesi di delitto tentato; in tal senso, si e’ affermato che si ha consumazioneie non mero tentativo, allorche’ la cosa estorta venga consegnata dal soggetto passivo all’estortore e cio’ anche nell’ipotesi in cui sia predisposto l’intervento della polizia giudiziaria che provveda immediatamente all’arresto del reo ed alla restituzione del bene all’avente diritto (Sez. 2, n. 27601 del 19/06/2009, Gandolfi e altro, Rv. 244671).

Infatti, nel delitto di estorsione la modalita’ di lesione si incentra sulla coazione esercitata dall’agente sulla vittima, perche’ tenga una condotta positiva o negativa in ambito patrimoniale, il cui esito e’ il profitto che il reo intende procurarsi, che non puo’ essere integrato da altre note, quali la disponibilita’ autonoma della cosa, senza violare la tassativita’ della fattispecie (Sez. U, n. 19 del 27/10/1999, P.M. in proc. Campanella, Rv. 214642).

Va ancora precisato che i motivi della scelta di aderire alla pretesa espressa dal soggetto agente attengono al foro interno della persona lesa e non rilevano ai fini del verificarsi dell’evento; il fatto, poi, che la vittima dell’estorsione si adoperi affinche’ la polizia giudiziaria possa pervenire all’arresto dell’autore della condotta illecita non elimina lo stato di costrizione, ma e’ una delle molteplici modalita’ di reazione soggettiva della persona offesa allo stato di costrizione in cui essa versa.

Il legislatore, con la formula adottata “… costringendo taluno a fare od omettere qualche cosa”, prende in considerazione lo stato oggettivo di costrizione e non distingue le ragioni che possono indurre la persona offesa ad aderire alla pretesa estorsiva (Sez. 2, n. 44319 del 18/11/2005, Terrenghi, Rv. 232506; Sez. 2, n. 1619 del 12/12/2012, dep. 2013, Russo, Rv. 254450).

A tutto questo si aggiunga come nella fattispecie risulti come dato incontestabile che “l’intervento della polizia giudiziaria si (fosse) verificato allorquando gia’ la somma di danaro era stata consegnata all’imputata”.

4.2. In relazione al secondo profilo proposto, attinente alla circostanza che il denaro oggetto della condotta criminosa non fosse stato consegnato all’imputata ricorrente bensi’ dia tale (OMISSIS), all’epoca dei fatti coindagata con la (OMISSIS) e successivamente archiviata, la Corte territoriale chiarisce come si fosse accertato che il ruolo della (OMISSIS) fosse stato solo quello di fare da intermediaria tra le due donne al solo fine di aiutare la (OMISSIS): da qui la totale irrilevanza del dedotto profilo di “contrasto” che non involge le responsabilita’ e tantomeno mette in dubbio la dinamica dei fatti.

5. Manifestamente infondato e’ il terzo motivo di ricorso.

Ritiene il Collegio come la qualificazione giuridica dei fatti sia corretta. Sul punto si rende tuttavia doverosa qualche breve considerazione di carattere preliminare.

5.1. In relazione alla vexata quaestio dei rapporti tra i reati di cui agli articoli 629 e 393 c.p. innanzitutto deve essere ricordato che in tempi certamente non remoti questa Suprema Corte ha chiarito che “I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono in relazione al profilo della tutelabilita’ dinanzi all’autorita’ giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta, giacche’ tale requisito – che il giudice e’ preliminarmente chiamato a verificare – deve ricorrere per la configurabilita’ del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua del secondo” (Sez. 2, n. 52525 del 10/11/2016, Rv. 268764) e cio’ gia’ di per se’ pone un primo tassello sulla qualificazione come estorsione delle condotte qui in esame.

Nella fattispecie, infatti, non e’ emerso in alcun modo e con certezza che la ” (OMISSIS) avrebbe solo preteso la restituzione di somme prestate alla (OMISSIS)”.

5.2. Peraltro, in ogni caso, “Integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di la’ di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui volonta’ assume di per se’ i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva” (Sez. 2, n. 51013 del 21/10/2016, Arcidiacono, Rv. 268512) e non pare porsi in dubbio nel caso in esame che il recapitare alla persona offesa ben ottantatre’ messaggi a carattere gravemente intimidatorio ed offensivo della liberta’ di autodeterminazione ed in una occasione con messaggio minatorio rivolto anche al figlio di nove anni della persona offesa, fatti verificatisi in un contesto temporale limitato, approfittando delle condizioni psicologiche non felici in cui versava la vittima, assuma le caratteristiche indicate.

5.2.1. Il richiamato principio costituisce frutto della constatazione che nel paradigma dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, la modalita’ strumentale, violenta o minacciosa, non puo’ trasmodare in manifestazioni sproporzionate e gratuite, in intima contraddizione con l’elemento psicologico della fattispecie condensato nella convinzione dell’esercizio, sia pure solo preteso, di un diritto.

5.2.2. Del resto, pare difficilmente contestabile come l’oggettivita’ giuridica del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone di cui all’articolo 393 c.p., anche per la sedes materiae, sia la tutela delle situazioni aventi apparenza di legalita’ contro le altrui violente manomissioni (v., Sez. 5, n. 7507 del 18/05/1983, Coppola, Rv. 160227).

La pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve quindi corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e cio’ che caratterizza il reato e’ pertanto la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato: ne consegue che nel delitto di cui all’articolo 393 c.p., la condotta violenta o minacciosa non e’ mai fine a se’ stessa, ma sia strettamente connessa alla finalita’ dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e pertanto non puo’ mai consistere in manifestazioni del tutto incompatibili con il ragionevole intento di far valere un diritto.

Quando la minaccia, invece, si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di sistematica pervicacia che vanno al di la’ di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, e la condotta finisce con l’essere fine a se’ stessa, allora la coartazione dell’altrui volonta’ e’ finalizzata a conseguire un profitto che assume di per se’ i caratteri dell’ingiustizia (cfr., Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255; Sez. 2, n. 9759 de 10/02/2015, Gargiuolo e altro, Rv. 263298; Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014, Donato, Rv. 261291; Sez. 2, n. 33712 del 08/06/2017, Michelini e altri, Rv. 270425).

6. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche’ al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.