“Appello infondato”: Consiglio di Stato boccia il ricorso di Davigo contro la decadenza dal Csm (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, Sentenza 7 gennaio 2021, n. 215).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

con l’intervento dei magistrati:

Dott. Carlo Saltelli, Presidente

Dott. Raffaele Prosperi, Consigliere

Dott. Angela Rotondano, Consigliere

Dott. Giovanni Grasso, Consigliere, Estensore

Dott. Elena Quadri, Consigliere

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9328 del 2020, proposto da:

Piercamillo Davigo, rappresentato e difeso dagli avvocati Massimo Luciani e Patrizio Ivo D’Andrea, con domicilio digitale come da registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Massimo Luciani in Roma, al Lungotevere Raffaello Sanzio, n. 9;

contro

Consiglio Superiore della Magistratura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, 12;

Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, 12;

nei confronti

Carmelo Celentano, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. I, n. 11814/2020, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Consiglio Superiore della Magistratura e del Ministero della Giustizia;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli artt. 105, comma 2 e 87, comma 3 cod. proc. amm.;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2020, tenuta da remoto secondo quanto stabilito dall’art. 25, comma 1, del d.l. 18 ottobre 2020, n. 137, il Cons. Giovanni Grasso e uditi da remoto per le parti gli avvocati Luciani e D’Andrea, nonché gli avvocati dello Stato Di Martino e De Bonis, ritualmente avvisati dell’intenzione del Collegio di non limitare la propria decisione alla sola istanza cautelare;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1.- Con atto di appello, notificato nei tempi e nelle forme di rito, il dott. Piercamillo Davigo esponeva di essere stato eletto, nell’anno 2018, Consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura, primo nel collegio nazionale comprendente i magistrati con funzioni di legittimità, con conseguente collocamento in posizione di fuori ruolo nell’organico della Magistratura.

In vista della maturazione, al compimento del settantesimo anno, dell’età anagrafica per il collocamento obbligatorio a riposo, aveva, “con opportuno anticipo”, chiesto “l’apertura di una pratica”, al preordinato fine di sollecitare il Consiglio Superiore alla verifica degli effetti del conseguimento del limite massimo d’età per il servizio attivo sul munus di Consigliere.

Con due voti favorevoli e un’astensione, all’esito della personale audizione e previa acquisizione di alcuni documenti nonché del parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, la Commissione verifica titoli aveva proposto al Plenum di deliberare la cessazione “dalla carica di membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura a seguito di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, a partire dal 20/10/2020” e di contestualmente “convalidare l’elezione a componente del Consiglio Superiore della Magistratura, subentrante a componente cessato dalla carica per raggiunti limiti di età, quale magistrato che esercita funzioni effettive di legittimità, [del] dottor Carmelo Celentano”.

In data 19 ottobre 2020, il Plenum aveva, di conserva, approvato la ridetta proposta con tredici voti a favore, sei contrari e cinque astensioni, in pari data disponendo il collocamento a riposo a far data dal 21 ottobre 2020.

2.- Avverso tali determinazioni era tempestivamente insorto con ricorso proposto dinanzi al TAR per il Lazio, lamentando – con unico, articolato motivo di gravame – “violazione dell’art. 104 Cost.; violazione degli artt. 30, 32, 37 e 39 della l. 24 marzo 1958, n. 195. Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà”, sul complessivo, argomentato e critico assunto che la cessazione anticipata dal mandato del consigliere elettivo “togato” del Consiglio, in conseguenza del collocamento a riposo:

a) non fosse, anzitutto, prevista da alcuna disposizione vigente (l’unico articolo di legge che tanto disponeva essendo stato, in realtà, soppresso e novellato nel 1990);

b) fosse, per di più, violativa delle disposizioni normative di rango costituzionale ed ordinario che fissavano in quattro anni la durata del mandato;

c) fosse, più specificamente, motivata sulla base di una ricostruzione del ruolo e delle funzioni dei consiglieri elettivi “togati” del CSM palesemente in contrasto con i princìpi e i precetti della Costituzione.

In subordine, chiedeva che fosse sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale degli artt. 32, 37 e 39 della l. n. 195 del 1958, recante le norme sulla costituzione e sul funzionamento del CSM, per violazione dell’art. 104 della Costituzione.

In data 21 ottobre 2020, il Plenum del CSM deliberava il collocamento fuori del ruolo organico della magistratura, a decorrere dal 21 ottobre 2020, del dott. Carmelo Celentano, eletto componente del Consiglio Superiore della Magistratura, ai sensi dell’art. 30, comma 2 del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, facendolo subentrare all’appellante.

3.- Nella resistenza delle intimate Amministrazioni – che avevano pregiudizialmente eccepito il difetto di giurisdizione (in quanto la controversia avrebbe avuto ad oggetto il diritto soggettivo alla titolarità del munus consiliare) ed avevano, in ogni caso, complessivamente contestato la fondatezza del ricorso (sull’assunto che l’appartenenza, in servizio attivo, alla magistratura costituisse un prerequisito per la titolarità del munus, destinato a cessare col collocamento a riposo per sopraggiunti limiti d’età) – l’adito Tribunale, all’esito della camera di consiglio dell’11 novembre 2020, aveva dichiarato – con sentenza n. 11814, depositata il 13 novembre successivo – l’inammissibilità del ricorso, indicando, quale giudice munito di giurisdizione, il giudice ordinario, dinanzi al quale la domanda avrebbe potuto essere riproposta ai sensi dell’art. 11 cod. proc. amm.

4.- Avverso la ridetta statuizione insorge il dott. Davigo, che ne lamenta la complessiva erroneità ed ingiustizia ed ne invoca l’integrale riforma.

Si sono costituiti, in resistenza, il Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministero della Giustizia.

Alla camera di consiglio del 17 dicembre 2020, sulle reiterate conclusioni di parte, la causa, previo rituale avviso dell’intenzione del Collegio di non limitare la propria decisione alla richiesta cautelare, è stata riservata per la decisione.

DIRITTO

1.- L’appello non è fondato e va respinto.

2.- Importa anzitutto rammentare che la sentenza impugnata, nell’argomentare il ritenuto difetto di giurisdizione:

a) ha richiamato, in premessa, la consolidata giurisprudenza in materia di “elezioni amministrative”, secondo cui l’ordinario riparto sulla base del criterio del c.d. doppio binario (ancorato alla consistenza della situazione giuridica di diritto soggettivo o di interesse legittimo della quale si invochi la tutela) trova applicazione nel senso della devoluzione al giudice ordinario delle controversie afferenti “questioni di ineleggibilità, decadenza e incompatibilità dei candidati (concernenti diritti soggettivi di elettorato)”, spettando, per contro, alla giurisdizione amministrativa “le questioni afferenti alla regolarità delle operazioni elettorali, in quanto relative a posizioni di interesse legittimo”;

b) ha ribadito che tale conclusione discendesse dalla premessa per cui, una volta esaurita la fase elettorale, all’amministrazione spettasse solo “il compito di verificare la sussistenza o meno di una causa di incompatibilità ovvero di decadenza correlata alla pregressa nomina”, non risultando intaccata dall’esercizio di simili “poteri di verifica” la posizione soggettiva dell’interessato in ordine alla “pretesa […] ad essere dichiarata eletta ovvero a mantenere la carica”, per comune intendimento costruita in termini di diritto soggettivo pieno;

c) ha, in ogni caso, manifestato consapevolezza della peculiarità della vicenda in esame (non essendo, in concreto, in discussione “un’ipotesi di ineleggibilità, incompatibilità o decadenza in senso proprio nello svolgimento del mandato”), ritenendola, tuttavia, non idonea ad alterare le ribadite premesse, sull’assunto che i poteri esercitati non avessero “natura autoritativa”, in quanto concretanti mera “attività di verifica amministrativa della sussistenza dei requisiti necessari per il mantenimento della carica”, costituenti “un prius logico del diritto di elettorato passivo”;

e) ha, segnatamente, osservato che tale attività di verifica – conclusasi con l’”accertamento” che l’appellante non fosse più “in possesso di un (pre)requisito necessario per mantenere la carica” – concretasse, nella divergente posizione delle parti, l’esito di una mera “interpretazione del panorama legislativo e dei principi da esso ricavabili”, in quanto tale inidoneo a “degradare” al rango di interesse legittimo la “pretesa dell’interessato alla permanenza in carica”;

f) ha, sotto distinto profilo, ritenuto non pertinente il richiamo all’art. 135, comma 1, lett. a) cod. proc. amm. (attributivo della competenza funzionale inderogabile sulle “controversie relative ai provvedimenti riguardanti i magistrati ordinari adottati ai sensi dell’articolo 17, primo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195”, concernenti segnatamente “tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati”), trattandosi di mera norma sulla competenza, non attributiva della giurisdizione in via esclusiva.

3.- Ciò posto, l’appellante assume criticamente (lamentando, con unico mezzo, violazione dell’art. 7 cod. proc. amm. e dell’art. 37 cod. proc. civ.):

a) che, in realtà, con l’adozione della misura in contestazione – lungi dal limitarsi ad una “presa d’atto” della cessazione delle funzioni, in termini di “automatica e inoppugnabile conseguenza del collocamento a riposo” – il Consiglio Superiore avrebbe piuttosto ritenuto di dover assumere delle “determinazioni”, cioè a dire di adottare, anche dal punto di vista formale, “un atto avente la tipica veste del provvedimento amministrativo”, concretante, come tale, “esercizio di potere autoritativo”, e non un mero “atto gestorio”, integralmente vincolato da un puntuale precetto di legge;

b) che, peraltro, anche il relativo iter procedimentale (illustrato dalla “proposta” che ne costituiva l’esito) sarebbe stato: b1) (“sintomaticamente”) attivato (mercé la formale richiesta della “apertura di una pratica”) dalla “a istanza di parte” (senza, dunque, l’automatismo dell’impulso officioso ex lege); b2) accompagnato, sul piano infraorganizzativo, da puntuale identificazione dell’articolazione funzionale interna competente per l’istruttoria (individuata nel “Comitato di Presidenza alla Commissione verifica titoli”); b3) connotato da un “particolare approfondimento istruttorio” (sotto il concorrente profilo della strumentale acquisizione documentale, della funzionale audizione in contraddittorio della parte “interessata”, dell’apporto consultivo ausiliario di parere appositamente richiesto – a riprova della obiettiva complessità ed opinabilità della questione e della pedissequa determinazione – all’Avvocatura dello Stato);

d) che (a fronte del laconico tratto giustificativo affidato alla coeva delibera di collocamento a riposo, essa sì effettivamente correlata alla mera ed automatica “presa d’atto”, sub specie facti, dell’obiettivo raggiungimento del limite di età per la permanenza in servizio) l’articolato apparato motivazionale posto a corredo dell’atto impugnato (che – sia pure per relationem – avrebbe ben colto e diffusamente tratteggiato, quand’anche abbia poi opinabilmente finito per disattenderle in concreto, le possibili ragioni di una opzione decisionale alternativa, orientata al non recepimento del parere elaborato dall’Avvocatura) testimonierebbe della concreta spendita di “di poteri autoritativi discrezionali” (id estautoritativi proprio in quanto connotati da discrezionalità e, come tali, in thesi accompagnati dalla ordinaria attitudine degradatoria delle incise posizioni soggettive);

e) che, del resto, la preoccupazione – emersa esplicitamente nel contesto della discussione che aveva preceduto la decisione ed orientato il confronto dialettico – di corredare ogni valutazione da “apparato argomentativo adeguato” per sottrarsi ad una possibile censura di “eccesso di potere”, di “contraddittorietà”, di complessiva “illogicità” potenzialmente idonea a concretizzare un rischio di “annullamento” in sede giurisdizionale, suonerebbe espressiva conferma (a fronte della consapevole evocazione di “tipiche figure sintomatiche dell’eccesso di potere”, per definizione estranee alla logica degli atti interamente vincolati incisivi di diritti soggettivi, nonché di formali e paventati esiti demolitori, tipici dell’ordinaria modalità remediale operante dinanzi al giudice amministrativo anche quando strumentali a tutele di matrice risarcitoria e, per contro, di regola preclusi al giudice ordinario) della consapevole volontà di assumere una decisione “di natura propriamente provvedimentale”;

f) che, ancora, sotto l’obiettivo profilo assiologico, la volontà prevalsa all’esito della discussione aveva valorizzato (nel ponderato apprezzamento comparativo dell’“interesse personale” dell’appellante, a fronte del confliggente e prevalente “interesse pubblico”) la logica di una decisione “discrezionale”, emergente dal dialettico confronto fra le “opinioni” maturate nel dibattito, e degli apprezzamenti di “opportunità”, in ogni senso estranei alla logica della mera “presa d’atto”;

g) che, sotto distinto e concorrente profilo, una corretta esegesi dell’art. 135, comma 1, lettera a) cod. proc. amm. avrebbe dovuto indurre a considerare, in difformità dell’apprezzamento sul punto operato dal primo giudice, che – pur trattandosi, con ogni evidenza, di “norma sulla competenza”, la stessa presupporrebbe il conferimento della giurisdizione (non potendo darsi, per ragioni di ordine logico prima che strettamente positivo, l’eventualità di una competenza territoriale attribuita ad un giudice privo di giurisdizione),

4.- Le esposte ragioni, per quanto suggestive, non sono persuasive.

Importa rammentare che il perimetro della giurisdizione del giudice amministrativo (fuori dalle ipotesi in cui, per espressa indicazione di legge, gli è attribuita, in via esclusiva, anche la tutela ratione materiae di posizioni di diritto soggettivo: caso che qui non ricorre perché si è al di fuori dell’ipotesi dell’art. 133, comma 1, lett. i), cod. proc. amm., cioè delle “controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico”, non essendo fatta questione del rapporto di lavoro dell’interessato) è individuato dall’art. 7 cod. proc. amm. con il richiamo alle “controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi”, tali essendo quelle “concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo”.

Dando positiva attuazione all’art. 103 Cost. e recependo i più maturi esiti della elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria, la regola (che figura e scolpisce un criterio discretivo della giurisdizione direttamente affidato alla causa petendi, cioè, appunto, alla intrinseca natura della situazione soggettiva dedotta in giudizio) individua il nesso tra potere amministrativo ed interesse legittimo, orientando all’esatto intendimento di quest’ultimo in termini di situazione soggettiva dinamica, attivamente orientata alla conservazione o alla acquisizione di beni della vita, in contesti relazionali non paritari, a connotazione per l’appunto “potestativa”.

La stessa disposizione chiarisce peraltro (a superamento della tradizionale struttura meramente impugnatoria del giudizio amministrativo) che non è essenziale al radicamento della giurisdizione amministrativa che l’oggetto immediato della controversia concerna atti (e, più specificamente, provvedimenti: cfr. ancora l’art. 113 Cost.), essendone piuttosto condizione necessaria (ma anche sufficiente) la manifestazione di un potere amministrativo.

Il nesso tra potere amministrativo interesse legittimo va precisato alla luce della asimmetria di posizioni sussistente, in base alla norma attributiva del potere, tra il decisore pubblico e i destinatari dell’attività amministrativa.

5.- Nel caso di specie, la questione si risolve nel quesito se la determinazione assunta dal Consiglio Superiore della Magistratura, che ha inteso dichiarare la “cessazione dalla carica” dell’appellante, consista in un (vero e proprio) “provvedimento amministrativo” (motivato ed elaborato frutto di una determinazione volitiva intesa a privilegiare, in chiave autoritativa, un determinato assetto dei confliggenti interessi, in concreto sfavorevoli all’appellante) ovvero un “mero atto” paritetico (con funzione di vincolato “accertamento” di un effetto decadenziale, discendente dal paradigma normativo, così come concretamente interpretato).

5.1.- Ritiene il Collegio che sia corretta la seconda prospettiva, motivatamente affermata dal primo giudice.

In quanto frutto di mera attività ricognitiva della volontà di legge e puramente intesa all’automatica applicazione della stessa, la decisione (che si muove, allora, secondo lo schema dinamico norma-fatto-dichiarazione-effettonon rappresenta l’esercizio di un potere (e, tanto meno, di un potere pretesamente “discrezionale”: essendovi, con ogni evidenza, estraneo l’apprezzamento comparativo di “interessi” in conflitto) e non concreta manifestazione di autoritatività, rientrando nella attività (vincolata) di “verifica” della sussistenza dei requisiti legalmente necessari per il mantenimento della carica, ivi compresi quelli costituenti un prius logico del diritto di elettorato passivo.

Non si tratta, perciò, contrariamente all’assunto di parte appellante, di un provvedimento amministrativo, ma di mero atto ricognitivo: il quale, incidendo sulla pretesa alla continuazione nel munus elettivo ed alla permanenza del relativo incarico, non ne comprime (di là dalla sua legittimità contenutistica, che è questione di merito che non è concesso vagliare nella presente sede), la consistenza di diritto soggettivo.

Le formule verbali dialetticamente adottate in sede di discussione consiliare, su cui insiste l’appellante, non incidono sulla giurisdizione e sulla natura dell’attività dispiegata; né rileva il soggettivo intendimento dei componenti dell’organo deliberante, trattandosi di dato da apprezzare secondo una logica obiettiva, onde plus est in re quam in existimatione ejus.

Non cambia dunque le cose, e la natura giuridica, il dato che l’atto contestato segua un’ampia discussione consiliare e recepisca una motivazione: il pur ricco apparato argomentativo rappresenta un mero supporto “giustificativo” della ricognizione di legge effettuata, a fronte della pluralità di opinamenti emersi in sede di dibattito.

Non si prospetta, infine, sotto il profilo remediale, un problema di “impugnazione”, con esito demolitorio: oggetto di tutela è infatti, in via immediata, la pretesa a permanere, ex art. 104, sesto comma, Cost., nelle funzioni di “membro effettivo” del C.S.M., per interi “quattro anni”, indipendentemente dal collocamento a riposo dal 20 ottobre 2020, dunque indipendentemente dall’attualità permanente dello status di magistrato: pretesa che – in quanto esplicazione di “diritti soggettivi di elettorato passivo” e che, in un ordinamento rappresentativo, non fa fronte all’esercizio (dall’alto), di un (grazioso) potere pubblico (concessione), ma al diretto fatto (dal basso) del risultato elettorale – ha, appunto, la consistenza del diritto soggettivo.

6.- Le riassunte conclusioni trovano conforto nell’orientamento del giudice della giurisdizione, che ha costantemente affermato che il diritto all’elettorato passivo (che rileva nella sua duplice portata genetica e funzionale: di diritto alla acquisizione, non meno che alla conservazione dello status elettivo) costituisce un diritto soggettivo perfetto, che non è sottratto alla giurisdizione ordinaria per il solo fatto che sia stato dedotto in giudizio mercé l’impugnazione di un apparente provvedimento amministrativo (si tratta, in realtà, come chiarito, di mero atto: non sussiste la giurisdizione del giudice ordinario benché sia stato adottato un provvedimento, ma proprio perché un provvedimento in realtà non c’è): cfr. ex permultis, Cass., SS.UU., 28 maggio 2015, n. 11131; Id., 26 maggio 2017, n. 13403; Id., 27 luglio 2015, n. 15691; Id. 6 aprile 2012, n. 5574, nonché Cons. Stato, V, 15 luglio 2013, n. 2836 (questa giurisprudenza, costante per gli organi amministrativi, vale anche per un organo di alta amministrazione, seppure di rilievo costituzionale, come il C.S.M.).

7.- Deve, infine, osservarsi che a diverso esito non può condurre l’art. 135, comma 1, lettera a) cod. proc. amm.: di là dal rilievo che l’ambito della norma deve ritenersi, anche sulla scorta del suo preciso tratto testuale, limitato ai “provvedimenti riguardanti i magistrati”, adottati ai sensi e con le forme di cui all’art. 17 della l. n. 195/1958 – il che qui comunque non è –, vale osservare che, trattandosi di norma intesa alla mera regolazione della competenza del giudice amministrativo di primo grado (cfr. etiam art. 14 cod. proc. amm.), essa a monte postula, ma non fonda la sussistenza della giurisdizione.

8.- Il complesso delle considerazioni che precedono milita per la complessiva reiezione del gravame e per la conferma della declinatoria della giurisdizione a favore del giudice ordinario, dinanzi al quale la lite potrà essere riproposta, ai sensi dell’art. 11, comma 3 cod. proc. amm..

9.- Le obiettive peculiarità della vicenda, una alla relativa novità delle questioni esaminate, giustificano l’integrale compensazione, tra le parti costituite, di spese e competenze di lite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2020, tenuta da remoto secondo quanto stabilito dall’art. 25, comma 1, del d.l. 18 ottobre 2020, n. 137.

Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2021.

SENTENZA