Assumere un cittadino extracomunitario al solo scopo di fargli ottenere il permesso di soggiorno è reato (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 22 marzo 2019, n. 12748).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZEI Antonella – Presidente –

Dott. FIORDALISI Domenico – Consigliere –

Dott. SANTALUCIA Giuseppe – Consigliere –

Dott. APRILE Stefano – rel. Consigliere –

Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.C.D., nato a (OMISSIS);

S.F., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 30/01/2018 della CORTE APPELLO di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere STEFANO APRILE;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. TOCCI Stefano, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;

dato atto dell’assenza del difensore.

Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della sentenza pronunciata all’esito del giudizio abbreviato dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Vercelli in data 3 febbraio 2017, ha, per quello che qui interessa, riqualificato la condotta originariamente contestata ex al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 8 bis, a P.C.D. e S.F. ai capi B), E), M), O) e Q), in quella di cui all’art. 12, comma 5, stesso decreto, rideterminando la pena, anche in conseguenza di altre statuizioni che non vengono qui impugnate, rispettivamente in anni 1, mesi 3 e giorni 16 di reclusione e in anni 1 e mesi 6 di reclusione, riducendo la durata della pena accessoria e confermando nel resto la decisione del primo giudice.

1.1. La sentenza impugnata, confermando sostanzialmente quella di primo grado, ad eccezione della esclusione del ruolo direttivo contestato a P. nel delitto associativo di cui all’art. 416 c.p., (non oggetto di impugnazione), e dell’esclusione della recidiva per il medesimo, ha operato la ridetta riqualificazione giuridica della condotta di falsificazione della certificazione dei redditi nonchè dei dati riguardanti i cittadini extracomunitari che erano stati inseriti nel portale UNILAV, mediante la comunicazione obbligatoria di assunzione fatta pervenire alla competente Questura al fine di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, facendo apparire i suddetti come regolarmente assunti da società inesistenti e comunque non operative, in cambio del pagamento di una somma di denaro.

2. Ricorrono con unico atto entrambi gli imputati P.C.D. e S.F., a mezzo del difensore avv. Fabrizio Michelatti, che chiedono l’annullamento della sentenza impugnata, denunciando la violazione di legge, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5, e il vizio della motivazione con riguardo alla mancanza del requisito del profitto ingiusto e all’omessa valutazione dell’elemento soggettivo del dolo specifico nonchè del nesso tra la condizione irregolare degli stranieri e il profitto conseguito, elementi richiesti dalla fattispecie incriminatrice in concreto applicata dalla Corte d’appello, ma estranei alla condotta materiale così come contestata e a quanto emerso dall’istruttoria.

3. In particolare, non sussiste lo squilibrio delle prestazioni sinallagmatiche poiché gli imputati hanno ricevuto unicamente la somma di Euro 300 per ogni pratica, somma che corrisponde al compenso per l’opera professionale finalizzata al rinnovo del permesso di soggiorno, non potendosi la medesima ritenere sproporzionata e non essendo, comunque, tale compenso stato ottenuto approfittando della condizione di irregolarità del soggetto che ha richiesto il rinnovo del permesso di soggiorno.

Motivi della decisione

1. I ricorsi sono infondati per le ragioni che saranno esposte.

2. Non è controversa la materialità delle condotte e neppure la complessiva ricostruzione degli elementi di fatto che hanno portato, con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito, a riconoscere gli imputati responsabili della partecipazione, con un terzo soggetto giudicato separatamente, a un’associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento della immigrazione clandestina e alla commissione dei connessi delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e falso.

In particolare, P., sotto la veste di imprenditore titolare di quote di diverse società non operative, agiva come falsario e fittizio datore di lavoro in quanto amministratore di una delle imprese che effettuava le dichiarazioni di assunzione, mentre S. materialmente realizzava le false buste paga, i falsi documenti di identità e i contratti di lavoro e agiva anch’egli come fittizio datore di lavoro,quale amministratore di un’altra impresa che effettuava le dichiarazioni di assunzione, tutti percependo per ogni pratica un compenso in denaro.

In virtù della incontroversa ricostruzione operata dai giudici di merito, le verifiche documentali e le intercettazioni telefoniche consentivano di risalire agli imputati, solo formalmente imprenditori, ma in realtà impegnati ad accettare da cittadini extracomunitari, privi del regolare permesso di soggiorno, remunerati incarichi di precostituzione di apparenze documentali di fittizi rapporti di lavoro dipendente che, registrati dal correo nell’apposito sistema informativo pubblico, erano finalizzati al rinnovo o al rilascio del permesso di soggiorno a favore di soggetti privi dei requisiti.

3. I ricorrenti dubitano che le indicate condotte possono essere qualificate alla stregua del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5.

Le censure sono infondate perché la giurisprudenza di legittimità ha affermato, proprio con riguardo a un caso di fittizia assunzione di un lavoratore extracomunitario per fargli ottenere il permesso di soggiorno, che “integra il reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale nel territorio dello Stato il fatto di chi avvii una pratica di assunzione di lavoratore straniero, dichiarando falsamente di voler costituire un rapporto di lavoro dipendente, ma avendo realmente come unico fine quello di trarre profitto illecito dal conseguimento del permesso di soggiorno da parte dello straniero stesso” (Sez. 1, n. 20883 del 21/04/2010, P.M. in proc. Yaqub, Rv. 247421).

L’orientamento giurisprudenziale può definirsi assolutamente costante e stabile nell’affermare che “per la configurazione del reato di favoreggiamento della permanenza, nel territorio dello Stato, di stranieri, previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5, (testo unico delle norme in tema di immigrazione), al fine di trarre ingiusto profitto dalla loro condizione di illegalità, è irrilevante che si attivi la procedura di regolarizzazione della loro posizione e che essa pervenga ad un esito positivo mediante il rilascio del permesso di soggiorno, non essendo tanto richiesto dalla norma incriminatrice, che contempla qualsiasi attività con cui si favorisca comunque la permanenza degli stranieri nel territorio dello Stato” (Sez. 1, n. 40320 del 09/10/2008, Russo, Rv. 241434); il caso citato era relativo ad attività propedeutiche a pratiche di regolarizzazione di lavoratori stranieri per i quali erano stati stipulati fittizi rapporti di lavoro (analogamente: Sez. 1, n. 2934 del 11/10/2013 dep. 2014, Riu, Rv. 258387).

3.1. Sono, in effetti, infondate le censure che denunciano la mancata verifica delle indicate condizioni di disequilibrio, posto che la sentenza impugnata pone in evidenza la totale assenza di una lecita controprestazione a fronte del versamento della somma di denaro, mentre risultano manifestamente infondate le doglianze concernenti l’assenza di sproporzione, fondate sulla pretesa che “l’opera professionale” (sic: pag. 8 del ricorso) posta in essere dagli imputati sia suscettibile di lecita valutazione economica poiché, come detto, si tratta di una attività illecita per ciò solo non suscettibile di retribuzione.

3.2. Nel caso in esame, infatti, se, per un verso, è evidente, come correttamente affermato dai giudici di merito, che il profitto conseguito, pari alla somma di denaro consegnata dal cittadino irregolare, è di per sé ingiusto, in quanto costituisce il corrispettivo per la illecita condotta di realizzazione della falsa documentazione idonea a trarre in inganno la pubblica amministrazione per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno, è, d’altra parte, indubitabile, come logicamente affermato nella sentenza impugnata, che il cittadino irregolare è indotto a sottostare alla richiesta degli imputati perché si trova in una condizione di inferiorità caratterizzata proprio dall’assenza di un valido titolo di soggiorno e dalla necessità di ottenere, seppure in modo illecito, un titolo abilitativo, così realizzandosi quella condotta di approfittamento consapevole della condizione di irregolare che la fattispecie pone a fondamento della punibilità.

4. Al rigetto dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2019.