Rimasta basita dalla lettura dell’articolo “Ecco perché l’Arma va smilitarizzata e sindacalizzata” proprio non sono riuscita a resistere alla tentazione di rispondere al segretario generale del sindacato di Polizia Daniele Tissone.
Innanzitutto, mi ha fatto sorridere l’apertura: “Le donne generali nell’Arma dei Carabinieri – e in generale nelle Forze Armate – si contano sulla punta delle dita”.
Diciamo che non servirebbe un matematico per fare due conti partendo dal fatto che i primi arruolamenti risalgano al 2000 e che, con tutta la buona volontà, per conseguire il numero utile di scatti di carriera occorre un tempo congruo perché la prima di noi possa arrivare a rivestire quel prestigioso traguardo.
Quindi, non riesco proprio a capire come mai il fatto che si sia parlato di “generalesse” donne che ora a tutti gli effetti vestono la nostra stessa divisa (ma che tutti sanno che hanno iniziato il loro percorso in amministrazioni diverse) possa essere definita una “non notizia”.
Non dimentichiamo, infatti, che la primissima donna Generale dei Carabinieri fu Laura De Benedetti, anche lei transitata dalla Polizia. È stato emozionante, per noi, vedere la collega indossare quel grado, ma tutte sapevamo da dove fosse partita!
In merito al tardivo ingresso delle donne nell’Arma, poi, andrebbe fatta più di qualche precisazione. Partendo da differenze fisiologiche che ci rendono diverse rispetto agli uomini e dal fatto che un’amministrazione seria, nell’effettuare le sue scelte, non può preoccuparsi di rispondere a un mero fatto di introduzione di quote rosa, ma piuttosto di vantaggi per tutto il sistema a cui risponde.
Quindi, le donne sono entrate a far parte della compagine militare a partire dal 2000. Quando, in effetti, in Polizia un reparto femminile esisteva già dagli anni ’60. Ma esisteva per “apertura alle quote rosa” o per rispondere a determinate esigenze socio-culturali?
Vediamo. Innanzitutto, a quel tempo non esisteva la Polizia di Stato, bensì il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza e la Buoncostume, entrambe confluite poi nel corpo della Polizia di Stato all’indomani della Legge 121 del 1981, che ne decretò anche la smilitarizzazione.
La Buoncostume era nata proprio negli anni ’60 a seguito della promulgazione della Legge Merlin, che abolì le case chiuse e introdusse i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. In quella circostanza, l’introduzione delle donne fu una risposta alla necessità operativa di contrastare il dilagante fenomeno della prostituzione, perché certo tipo di servizi sarebbe stato veramente molto difficile farlo fare agli uomini.
Allo stesso identico modo, nell’Arma l’apertura al gentil sesso si è avuta come risposta a un cambiamento sociale a seguito dell’introduzione di nuove ipotesi di reato e un nuovo assetto dell’Istituzione.
Infatti, un tempo le attività investigative erano condotte quasi del tutto privilegiando la fisicità (pedinamenti, inseguimenti, irruzioni, rastrellamenti) per la quale, obiettivamente, proprio per differenze fisiche imprescindibili, noi donne non siamo portate e l’introduzione forzata in certe compagini avrebbe rischiato di mettere a dura prova la sicurezza del dispositivo e la riuscita delle operazioni.
Si pensi a certe attività nelle zone più aspre della Sardegna, della Calabria o di altri territori difficili del nostro Paese. Quindi, la scelta di impiegare solo personale maschile per quasi 185 anni era dovuta alla particolare tipologia dell’impiego, che mal si conciliava con il sesso femminile.
Poi, invece, con il passare del tempo e il diffondersi delle nuove tecnologie e di carichi amministrativi – o anche operativi, ma di diversa portata rispetto al passato – si è iniziata ad avvertire la necessità di affiancare alla brutale forza fisica maschile anche certe competenze e certo tipo di qualifiche acquisite dall’altro genere. Sono nati nuovi reparti e nuovi incarichi in cui la presenza femminile fornisce un valore aggiunto concreto e tangibile e l’Arma ne ricava un contributo di cui certamente va fiera.
Questo per dire che le differenti scelte poste alla base dell’apertura alle donne nelle due diverse amministrazioni altro non sono state che una risposta storica e sociale e non, invece, come si cerca di far passare nel post citato, a qualche dietrologia o, ancor meno, a idee discriminatorie e di matrice maschilista.
Posso dire con sincero orgoglio di aver visto una donna entrare addirittura in qualche reparto davvero difficile per la natura delle attività espletate, ma si trattava di una donna speciale, estremamente preparata e a cui non era stato regalato nulla: aveva semplicemente saputo dimostrare, con fatica e impegno e determinazione, di meritare quel posto e alla fine, con grande soddisfazione dei suoi superiori, le era stato assegnato. Ma tendenzialmente, è bene che le differenze fisiologiche e attitudinali maschio/femmina vengano rispettate.
Personalmente, posso dire di essere stata in diverse collocazioni, diversi uffici, anche a contatto con generali “anziani” e probabilmente figli di un retaggio più tradizionalista o, per dirla nei termini che tanto piacciono al segretario Tissone, più maschilista: ebbene, anche in quelle circostanze, mi è stata pienamente offerta la possibilità di fare il mio e di farlo in un ambiente di grande serenità.
Ho avuto, infine, due gravidanze, durante le quali la buona salute mi ha permesso di lavorare fino all’ultimo giorno utile. Dal momento in cui mi sono assentata, mi sono stati riconosciuti pienamente tutti i diritti che la legge attribuisce senza che nessuno, e ripeto nessuno, me lo abbia minimamente fatto pesare.
Con questo, certamente non posso escludere che qualche mia collega possa aver avuto, invece, esperienze negative, ma io le ricondurrei a un alveo meramente fisiologico, riconducibile piuttosto a quella ancora troppo diffusa tendenza del maschio a voler prevalere, a prescindere dal fatto di indossare o meno una divisa.
E a conforto di questo mio pensiero ci sono tante storie di gente che conosco e che vive in ambienti cosiddetti “civili” in cui il trattamento riservato alle donne di civile c’è davvero molto poco.
Essere militari è frutto di una scelta. Una scelta a cui, finché la nostra amministrazione non vorrà orientarsi diversamente, aderiamo con orgoglio e una dose spropositata di passione.
Articolo a cura di Palma Lavecchia