Luogotenente dei Carabinieri accusato di portare con sé un armamento diverso da quello prescritto; di avere alterato il serbatoio della pistola Berretta calibro 9 parabellum modello 92FS; e di avere falsificato un verbale in concorso con altri ufficiali (un capitano e un tenente colonnello dei CC).

(Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza 13 aprile 2017, n. 18509)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTEMBRE Antonio – Presidente –
Dott. MAZZITELLI Caterina – Consigliere –
Dott. CATENA Rossella – rel. Consigliere –
Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.D.S., nato a (OMISSIS), il (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce emessa in data 23/09/2015;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa CATENA Rossella;

udito il Pubblico ministero, in persona del Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per l’imputato il difensore di fiducia Avv.to LILLO Gianvito, anche in sostituzione dell’Avv.to LODESERTO Cosimo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Lecce in riforma della sentenza emessa in data 04/07/2013 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brindisi, che aveva assolto il C.D.S. dai reati a lui ascritti

– A) art. 81 c.p., comma 1, L. n. 895 del 1967, art. 2, L. n. 110 del 1975, art. 1, commi 1 e 3, art. 61 c.p., n. 9, perché, commettendo il fatto con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione di ispettore dell’Arma dei Carabinieri (da lui esercitata con il grado di luogotenente in servizio presso il Reparto Operativo del Comando Provinciale di Brindisi), giacché portava con sé un armamento diverso da quello prescritto, illegalmente deteneva e portava in luogo pubblico due munizioni da guerra, consistenti in cartucce destinate al caricamento di pistole Beretta calibro 9 parabellum; in (OMISSIS), il (OMISSIS);

– B) art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 9, L. n. 110 del 1975, art. 3, perchè, commettendo il fatto con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione di ispettore dell’Arma dei Carabinieri (da lui esercitata con il grado di luogotenente in servizio presso il Reparto Operativo del Comando Provinciale di Brindisi) – giacchè portava con sè un armamento diverso da quello prescritto – alterando il serbatoio della pistola Beretta calibro 9 parabellum modello 92FS, contraddistinta dalla matricola (OMISSIS), in modo tale da consentirvi l’immissione di 17 cartucce anzichè 15, aumentava le potenzialità di offesa di quell’arma da guerra in sua dotazione; in (OMISSIS), il (OMISSIS) o epoca a questa antecedente e prossima;

– D) artt. 110, 479 c.p., art. 476 c.p., commi 1 e 2, art. 61 c.p., n. 2, perchè, in concorso con R.G. e V.G., il C. anche quale determinatore nel reato ed i primi due quali esecutori materiali, formando, nell’esercizio delle funzioni e nelle rispettive qualità, il V. di Tenente Colonnello dei Carabinieri, Comandante il Reparto Operativo del Comando CC di (OMISSIS), il R. di Capitano dei CC, Comandante il Nucleo Investigativo del medesimo Reparto, cui il pubblico ministero aveva demandato, con decreto emesso in data 21/09/2010, il compito di eseguire, fra l’altro, il sequestro “del caricatore consegnato a C.D.S. in data (OMISSIS), ore 03,00”, il verbale di sequestro redatto e sottoscritto da entrambi in data (OMISSIS), ore 15,00, attestavano falsamente che un serbatoio non in dotazione dell’Arma, marca Meg-Car e contraddistinto, fra l’altro, dalle scritte MG-B92-17-A e Patient 5,386,657, era quello consegnato a C. nella predetta data del (OMISSIS) e dunque, implicitamente, non quello alterato che il Luogotenente C., pure in servizio presso il medesimo reparto, aveva in dotazione, insieme con la pistola semiautomatica Beretta mod. 92FS, cal. 9 parabellum, contraddistinta dalla matricola (OMISSIS), nel momento in cui aveva, a suo dire, patito la rapina di quell’arma militare da parte di due ignoti; fatto del quale l’atto, facente fede fino a querela di falso, perchè redatto da ufficiali di polizia giudiziaria nell’esercizio delle loro funzioni di accertamento ed assicurazione del corpo del reato, era destinato a provare la verità; In (OMISSIS), il (OMISSIS) – dichiarava il ricorrente colpevole dei reati a lui ascritti, ritenuta, quanto al capo A), l’ipotesi di cui alla L. n. 895 del 1967, art. 5, e qualificato il fatto di cui al capo D) ai sensi dell’art. 48 c.p., escluso l’art. 110 c.p. e l’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 476 c.p..

2. C.D.S. ricorre a mezzo dei difensori di fiducia Avv.to Lodeserto Cosimo ed Avv.to Gianvito Lillo, in data 07/04/2016 ed in data 08/04/2016 per:

2.1. violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione alla L. n. 895 del 1967, art. 2, e L. n. 110 del 1975, art. 1, artt. 25-103 Cost., art. 649 c.p.p., in quanto i proiettili cal. 9×19 parabellum devono essere qualificati come munizionamento di arma comune da sparo alla luce della giurisprudenza di legittimità sul punto e del D.M. 13 giugno 2003, che ha integrato la L. n. 185 del 1990, la quale definisce i criteri tecnici indicati nella L. n. 110 del 1975, art. 1, nonchè della deliberazione del Banco Nazionale di Prova di (OMISSIS) del 01/03/2013, da cui si evince che la pistola calibro 9×19 parabellum non è commercializzabile in Italia per i privati solo in quanto trattasi di arma in dotazione delle Forze armate e delle Forze dell’ordine, e non per le sue caratteristiche intrinseche; ne conseguirebbe che il ricorrente avrebbe dovuto essere ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 166 c.p.m.p. in relazione ai due proiettili in più della dotazione ordinaria, reato per il quale egli era stato deferito anche all’A.G. militare e dal quale risulta prosciolto con sentenza definitiva agli atti, con conseguente sussistenza della violazione del principio di cui all’art. 649 c.p.p.; in ogni caso la fattispecie in esame avrebbe dovuto essere qualificata ai sensi dell’art. 697 c.p., con conseguente maturazione del termine di prescrizione;

2.2. violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione alla L. n. 110 del 1975, art. 3, art. 61 c.p., n. 9, in quanto la corretta qualificazione dei proiettili come proiettili di arma comune da sparo avrebbero consentito di ritenere come, alla luce della motivazione stessa della sentenza impugnata, il caricatore non possa essere considerato parte dell’arma ma suo accessorio, con la conseguenza che la sua detenzione non può essere considerata come reato, alla luce del D.Lgs. n. 204 del 2010 che ha eliminato la parola caricatore dall’elenco delle parti di arma, rendendo, in tal modo, possibile la libera detenzione ed il porto in luogo pubblico dello stesso; infondata, in ogni caso, sarebbe l’affermazione secondo la quale il ricorrente avrebbe alterato o manomesso il caricatore, come risulta dalle foto del caricatore stesso allegate al ricorso, che riproducono sia il caricatore della versione civile della Beretta in dotazione alle forze di Polizia, camerato per 18 colpi, che il caricatore della Beretta in dotazione alle Forze di Polizia, camerato per 15 colpi, in quanto la struttura del caricatore camerato per 15 colpi renderebbe impossibile qualsivoglia alterazione ovvero un’alterazione estremamente macchinosa e, soprattutto, irragionevole, potendosi reperire sul mercato caricatori camerati per 18 colpi; la Corte territoriale, inoltre, sarebbe incorsa in un vero e proprio travisamento della prova in relazione alle dichiarazioni rese dal maresciallo P. in data (OMISSIS), circa le caratteristiche del caricatore camerato per un numero di colpi superiore ai 15, senza dimenticare le ulteriori inesattezze affermate dal citato militare in relazione alle caratteristiche tecniche del caricatore in oggetto;

2.3. violazione di legge, vizio di motivazione e violazione di norme previste a pena di nullità, ex art. 606 c.p.p., lett. b), c) e), in relazione agli artt. 48, 479, 476 c.p., art. 597 c.p.p., in quanto, in relazione al capo D), la condanna del ricorrente è avvenuta a seguito di una modifica del capo d’imputazione, essendo stata qualificata la fattispecie sub D) ai sensi dell’art. 48 c.p., mai contestato in precedenza al ricorrente; in ogni caso la Corte di merito sarebbe pervenuta all’affermazione di penale responsabilità sulla scorta di un error in procedendo, costituito dal fatto che il decreto di sequestro emessa dal pubblico ministero in data (OMISSIS) presupponeva che il caricatore di cui il ricorrente aveva denunciato la rapina fosse stato alterato e che, al fine di occultare detta alterazione, egli avesse consegnato ai suoi superiori che avevano eseguito il sequestro, un caricatore fuori ordinanza con 17 proiettili, laddove il caricatore consegnato ai due ufficiali in sede di esecuzione del decreto di sequestro era esattamente quello esaminato dal maresciallo P. e ritenuto un caricatore di riserva, come si evince dalle indicazioni che individuano il caricatore descritto dal colonnello V. e dal capitano R. in sede di esecuzione del decreto di sequestro in data (OMISSIS);

2.4. violazione di legge, ex art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all’art. 51 c.p., in quanto, in relazione al capo D), secondo la motivazione della Corte, nel settembre 2010, prima del D.Lgs. 2014/10, la condotta del ricorrente sarebbe stata penalmente rilevante, con la conseguenza che, a seguito di formale richiesta di consegna del caricatore, la consegna del caricatore alterato sarebbe stata equivalente alla confessione della commissione di reati, per cui la condotta ascritta al ricorrente al capo D) risulterebbe posta in essere in applicazione del principio del nemo tenetur se detegere.

Motivi della decisione

Il ricorso è parzialmente fondato, nei sensi di seguito specificati.

1. Quanto al primo motivo, va ricordato che la più recente, e tuttavia consolidata giurisprudenza, ritiene qualificabile come arma comune da sparo la pistola semiautomatica Beretta cal. 9×9 parabellum e, quindi, il relativo munizionamento come munizionamento per arma comune da sparo.

In tal senso si sono espresse: Sez. 1, sentenza n. 6875 del 05/12/2014, dep. 17/02/2015, Colitti, Rv. 262609; Sez. 1, sentenza n. 11172 del 11/11/2014, dep. 17/03/2015, Carfora, Rv. 262850; Sez. 1, sentenza n. 52526 del 17/09/2014, Raso, Rv. 262186.

In particolare, la rivisitazione del precedente orientamento, come descritto nella motivazione della citate sentenze, è stata elaborata in quanto il criterio della spiccata potenzialità offensiva – che caratterizza la definizione normativa delle armi da guerra e delle munizioni destinate al loro caricamento, contenuta nella L. n. 110 del 1975, art. 1, commi 1 e 3, requisito tipico ed individualizzante dell’appartenenza del modello di pistola calibro 9×19 alla categoria delle armi da guerra o tipo guerra, secondo la più risalente impostazione – è stato contraddetto e messo in crisi dalla pacifica qualificazione normativa come arma comune da sparo della pistola semiautomatica calibro 9×21, liberamente commerciabile sul mercato interno, che costituisce un modello di arma corta da fuoco munita di caratteristiche tecniche e di capacità balistiche pressoché identiche a quelle del modello 9×19, rispetto al quale l’unica differenza è rappresentata dal fatto di essere camerata per le cartucce calibro 9×21 IMI, dotate di un bossolo più lungo di 2 mm e di una potenza di sparo certamente non inferiore a quella della cartuccia 9×19 parabellum.

L’esclusione dell’intrinseca potenzialità offensiva, tipica del munizionamento per armi da guerra o tipo guerra – secondo la definizione contenuta nella L. n. 110 del 1975, art. 1, comma 2 – della cartuccia calibro 9×19 parabellum, è confermata dall’esistenza e dalla commerciabilità sul mercato italiano di munizioni per arma comune da sparo dotate di una superiore capacità di offesa alla persona, ad esempio il calibro 357 magnum 9×33 mm R, liberamente detenibili da soggetti privati nel rispetto della normativa di pubblica sicurezza, nonchè, soprattutto, dalla circostanza che armi lunghe da fuoco camerate per cartucce del medesimo calibro 9×19 parabellum, come la carabina Thureon Defense di fabbricazione statunitense, hanno recentemente ottenuto dal Banco nazionale di prova di (OMISSIS) la certificazione di armi comuni da sparo importabili e commerciabili in Italia.

La conclusione che ne consegue – per cui la qualificazione in termini di arma da guerra della pistola semiautomatica camerata per l’utilizzo di munizionamento calibro 9×19 parabellum non può discendere da un inesistente carattere intrinseco della stessa come arma destinata, in forza di una naturale potenzialità offensiva, all’impiego bellico – trova riscontro, sul piano normativo-sistematico, nel fatto che la relativa disciplina è contenuta non già nella L. n. 110 del 1975, art. 1 – che definisce, come si è visto, le armi da guerra, le armi tipo guerra e le munizioni da guerra -, ma nel successivo art. 2, che definisce le armi e le munizioni comuni da sparo, prevedendo, al comma 2, il divieto di fabbricazione, di introduzione nel territorio dello Stato e di vendita del relativo modello di armi corte da fuoco “salvo che siano destinate alle forze armate o ai corpi armati dello Stato, ovvero all’esportazione”, così presupponendo che, in mancanza di tale divieto, le armi stesse sarebbero altrimenti commerciabili nello Stato secondo la disciplina delle armi comuni da sparo, posto che, se si trattasse di armi da guerra rientranti nella definizione dell’art. 1, l’importazione in Italia e la vendita ai soggetti privati sarebbe di per sè inibita dalla relativa qualità, senza la necessità di stabilire un apposito divieto al riguardo.

Il divieto assoluto, stabilito dalla normativa nazionale per i soggetti privati, di acquistare, detenere e portare, con le debite autorizzazioni, il modello di pistola calibro 9 parabellum è dunque funzionale ad assicurarne la destinazione esclusiva alla dotazione delle forze armate e dei corpi di polizia, e prescinde da una presunta qualità e natura intrinseca di arma da guerra dovuta ad una inesistente maggiore potenzialità offensiva delle cartucce 9×19 parabellum, il cui impiego sarebbe altrimenti proibito anche per le armi lunghe da fuoco; la relativa disciplina assolve, così, la funzione non già di tutelare la sicurezza pubblica inibendo la disponibilità ai soggetti privati di un’arma e di un munizionamento dotati della spiccata pericolosità e azione lesiva tipiche delle armi da guerra, ma di consentire – o per converso di escludere – l’immediata riferibilità, in termini di tendenziale certezza, all’azione delle forze armate o di polizia, in caso di sparo o conflitto a fuoco, dei bossoli dei colpi esplosi da armi corte il cui calibro corrisponda o, viceversa, non corrisponda, allo specifico modello della pistola di servizio in dotazione esclusiva ai corpi armati dello Stato, posto che la similare cartuccia calibro 9×21 IMI, proprio a causa della maggiore lunghezza del bossolo, è impossibile da camerare sulle pistole munite di una camera di scoppio lunga solo 19 mm.

La destinazione, per quanto esclusiva, all’armamento delle forze armate e dei corpi armati dello Stato italiano, non può pertanto assumere, nel caso della pistola semiautomatica calibro 9 parabellum, alcun ruolo decisivo ai fini della sua classificazione e qualificazione giuridica come arma da guerra, che – a seguito dell’abrogazione della L n. 110 del 1975, art. 7, per effetto della novella di cui alla L. n. 183 del 2011, art. 14, con conseguente soppressione con decorrenza dal 01/01/2012 del catalogo ivi previsto – non è più possibile ricavare, per esclusione, neppure dalla mancata iscrizione nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo.

Importanza fondamentale rivestono, inoltre, agli effetti della risoluzione della questione di diritto inerente alla corretta qualificazione che deve attualmente riconoscersi alla pistola calibro 9×19, la sopravvenienza della norma di cui alla L. 7 agosto 2012, n. 135, art. 23, comma 12 sexiesdecies, di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, che, a seguito della abolizione del catalogo previsto dalla L. n. 110 del 1975, art. 7, ha attribuito al Banco nazionale di prova, di cui all’art. 11, comma 2 della medesima legge, la competenza a verificare, per ogni arma da sparo prodotta, importata o commercializzata in Italia, la qualità di arma comune da sparo, nonchè le conseguenti determinazioni che sono state adottate dal suddetto Banco nazionale di prova in attuazione dei nuovi compiti assegnati dalla legge nella procedura per la classificazione e il riconoscimento delle armi comuni da sparo.

In particolare, per quanto qui interessa, deve essere richiamata la deliberazione, pubblicata sul sito internet ufficiale del Banco nazionale di prova di (OMISSIS), adottata all’esito della riunione del consiglio di amministrazione del 01/03/2013, approvata dal Ministero dello sviluppo economico in data 19/04/2013, che, con specifico riguardo alle armi da fuoco corte semiautomatiche calibro 9×19 parabellum, dopo aver dato atto che la normativa nazionale di cui al D.Lgs. 204 del 2010, art. 5, ne consente “la fabbricazione e l’esportazione secondo la normativa delle armi comuni”, ma “tuttavia ne vieta la commercializzazione in Italia ai soggetti privati”, ha precisato che “per evitare equivoci” le armi stesse non saranno inserite nell’elenco delle armi classificate, ma che sul certificato di prova rilasciato al produttore/importatore il Banco dichiarerà che si tratta di “arma comune non commercializzabile in Italia”.

Alla stregua di tale ultima determinazione, proveniente dall’ente istituzionalmente deputato a verificare la qualità di arma comune da sparo delle armi da fuoco prodotte o importate in Italia, non è dunque più possibile dubitare della qualità di arma comune da sparo che deve riconoscersi, sul piano normativo, alla pistola semiautomatica calibro 9×19, camerata per le munizioni calibro 9 parabellum, il cui inserimento nell’elenco delle armi commercializzabili in Italia ai soggetti privati e inibito soltanto dal divieto normativo – contenuto nella L. 110 del 1975, art. 2, comma 2 – che ne riserva la destinazione d’uso alle forze armate e ai corpi armati dello Stato, e non dalla natura e qualità intrinseca del modello di pistola in oggetto, che è e resta quella di un’arma comune da sparo.

Tale articolata motivazione è del tutto condivisa da questa Corte, con la conseguenza che devono essere qualificate come munizioni per arma comune da sparo le relative cartucce calibro 9×19, costituenti la naturale dotazione dell’arma da fuoco in questione e prive delle caratteristiche di micidialità e di forza dirompente che costituiscono il discrimine per poterle qualificare come munizionamento da guerra.

Da ciò consegue che – in accoglimento del primo motivo di ricorso – la detenzione delle cartucce, di cui al capo A), deve essere riqualificata nella violazione di cui all’art. 697 c.p.; detta fattispecie, pertanto, risulta senza alcun dubbio estinta per intervenuta maturazione del termine massimo di prescrizione, pari ad anni quattro, alla data del 22 agosto 2014. Ne consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza in relazione alla detenzione di munizioni.

Parimenti la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, in relazione alla condotta di porto di munizionamento di arma comune da sparo, di cui al capo A), così qualificata l’originaria imputazione, in quanto il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Ed infatti la legge penale non contempla alcuna ipotesi di reato che tipizzi la specifica condotta di porto, in quanto il richiamo contento nella L. 2 ottobre 1967, n. 895, art. 7, attiene esclusivamente alle condotte concernenti le armi e non anche le munizioni relative (Sez. 1, sentenza n. 12941 del 29/01/2014, Mucaj, Rv. 259545; Sez. 1, sentenza n. 6914 del 29/04/1992, Rivelli, Rv. 190561; Sez. 1, sentenza n. 3432 del 10/05/1988, dep. 04/03/1989, Betori, Rv. 180703).

2. Quanto al secondo motivo di ricorso, esso appare infondato e va, pertanto, rigettato.

Come affermato pacificamente da questa Corte, il caricatore di un’arma va considerato, anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 26 ottobre 2010, n. 204, parte di arma, con la conseguenza che la vendita, la detenzione ed il porto di esso sono punibili ai sensi della L. 2 ottobre 1967, n. 895 (Sez. 3, sentenza n. 45151 del 14/10/2015, Rv. 265458; Sez. 6, sentenza n. 16141 del 02/04/2014, Baglivo ed altro, Rv. 259765; Sez. 1, sentenza n. 50912 del 26/11/2013, Zaccaria, Rv. 259400). Il citato orientamento ha osservato che il D.Lgs. richiamato, nel dare attuazione alla direttiva 91/477/CEE, come modificata dalla direttiva 2008/51/CE, relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi, si è limitato ad un elenco esemplificativo delle parti di un’arma; inoltre lo stesso art. 2 del citato D.Lgs. ha specificato che va qualificata come “parte” di un’arma “qualsiasi componente o elemento di ricambio specificamente progettato per un’arma da fuoco e indispensabile al suo funzionamento”, qual è appunto il caricatore di munizioni in tutte quelle armi, diverse dai revolver o dalle automatiche con nastro di munizioni, che non potrebbero funzionare se non munite di quell’essenziale componente.

In senso contrario risulta essersi espressa solo Sez. 1, sentenza n. 4050 del 17/10/2013, Canovari, Rv. 254190 che, tuttavia, risulta superata da un maggiormente meditato approfondimento della questione, come dimostrato dal conforme indirizzo in seguito uniformemente accreditato.

Fatta questa necessaria precisazione, va osservato che, nel caso in esame, il ricorso contesta l’affermazione di sussistenza del reato in quanto l’impianto motivazionale si basa sulle dichiarazioni del maresciallo P., come risultano dal verbale del (OMISSIS), integralmente riportato in ricorso. Il maresciallo P. – che aveva visionato l’arma oggetto di denuncia di rapina da parte del C., immediatamente dopo il rinvenimento della stessa e la consegna presso la Stazione dei CC – aveva affermato che il serbatoio dell’arma non era quello della pistola Beretta FS, in quanto il fondello del caricatore era più sottile ed aderiva perfettamente alla pistola, e poteva contenere 17 cartucce solo in quanto la molla era stata tagliata o sostituita; egli non aveva fatto caso, nell’occasione, se il caricatore recasse la scritta “9 para”, che appare sui caricatori FS, ma aveva pensato che si trattasse, comunque, del secondo caricatore fornito in dotazione a ciascun militare, proprio in quanto esso era più sottile.

La difesa, che deduce il travisamento della prova, in realtà, mira ad una ricostruzione alternativa della vicenda, sottoponendo alla valutazione di questa Corte le raffigurazioni dei due tipi di caricatore, il caricatore della versione civile della pistola, la 98FS cal. 9×21, camerato per 15 colpi, l’altro tratto da un sito statunitense che pubblicizza un caricatore Mec-Gar per Beretta 92 camerato per 18 colpi, al fine di dimostrare la loro identità.

Come noto, infatti, il vizio di travisamento della prova deducibile in cassazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), può essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche da altri atti del processo specificamente indicati ed è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia, ma non allorquando si sottopongono al giudice di legittimità atti processuali, al fine di verificare l’adeguatezza dell’apprezzamento probatorio ad essi relativo compiuto dal giudice di merito ed ottenerne una diversa valutazione, perchè lo stesso costituisce censura non riconducibile alle tipologie di vizi della motivazione tassativamente indicate dalla legge (Sez. 7, ordinanza n. 12406 del 19/02/2015, Miccichè, Rv. 262948; Sez. 2, sentenza n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499).

Nel caso in esame, invece, la struttura del motivo di ricorso tende ad una ricostruzione alternativa della vicenda scaturente dalla dimostrazione della tesi difensiva che implica la rivalutazione della dichiarazione del maresciallo P., contestata sulla scorta di precise risultanze fattuali già sottoposte al giudice di merito, in ciò configgendo con la struttura del sindacato di legittimità, circoscritta alla verifica sulla completezza e sulla correttezza della motivazione della sentenza impugnata, non potendo essa esondare dai limiti cognitivi di cui agli artt. 606 e 609 c.p.p. mediante una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito; l’indagine sul discorso giustificativo della decisione ha, pertanto, un orizzonte circoscritto, dovendo essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (Sez. U, sentenza n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).

Nè può, nel caso in esame, farsi questione della necessità di riesaminare il maresciallo P. in grado di appello, alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 46718 del 19/01/2017 che ha deciso affermativamente la questione concernente la necessità per il giudice di appello, che riformi la sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato ed impugnata dal pubblico ministero, di disporre l’esame delle persone che hanno reso tali dichiarazioni, in quanto, nel caso in esame, la pronuncia del giudice di appello non è dipesa dalla diversa valutazione di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, non essendo state le dichiarazioni del maresciallo P. sul punto in esame, oggetto di difforme valutazione nei due gradi di merito.

Ed infatti il primo giudice era pervenuto ad una pronuncia assolutoria sulla scorta della considerazione che non vi fosse una prova univoca circa il fatto che l’alterazione del caricatore fosse stata commessa dal C., atteso che non sussisteva alcuna evidenza circa la falsità della denuncia di rapina dell’arma, con la conseguenza che, essendo stata l’arma nella disponibilità di terze persone, queste ben avrebbero potuto porre in essere la condotta di alterazione del caricatore. Evidentemente, quindi, anche il primo giudice aveva ritenuto, sulla scorta delle dichiarazioni del maresciallo P., che l’alterazione del caricatore fosse circostanza accertata.

3. In relazione, infine, alla condotta contestata al capo D), il ricorso sul punto va accolto.

Va premesso che, come costantemente affermato da questa Corte regolatrice, la novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L. n. 46 del 2006, nella parte in cui consente, per la deduzione dei vizi della motivazione, il riferimento anche a specifici atti del processo, e quindi permette un’indagine extratestuale, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che ha ad oggetto la verifica se il giudice del merito abbia trascurato di prendere in esame fatti decisivi ai fini del giudizio, e quindi fatti che, se convenientemente valutati, avrebbero potuto determinare una soluzione diversa, e se abbia svolto un concreto apprezzamento delle risultanze processuali, restando pur sempre escluse dall’ambito del controllo di legittimità non soltanto le deduzioni circa l’interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova, ma anche le incongruenze logiche che non siano assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate dal giudice del merito in altri passaggi argomentativi (Sez. 3, sentenza n. 37006 del 27/09/2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 2, sentenza n. 31980 del 14/06/2006, Brescia, Rv 234930).

E’ stato altresì chiarito, con pronunce parimenti costanti, che il vizio di travisamento della prova deducibile in cassazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), può essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato ma anche da altri atti del processo specificamente indicati ed è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia.

Detto vizio, in particolare per aver utilizzato un’informazione inesistente nel materiale processuale o per aver omesso di valutare una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione quando la decisione impugnata abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, essere superato il limite costituito dal devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (Sez. 2, sentenza n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, sentenza n. 19710 del 03/02/2009, P.C. in proc. Buraschi, Rv. 243636).

Quindi gli atti eventualmente indicati devono contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell’ambito di una valutazione unitaria, e devono pertanto essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso, con la precisazione che ciò che è deducibile in sede di legittimità e rientra, pertanto, in detto controllo è solo l’errore revocatorio sul significante, in quanto il rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata non può che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione sulle premesse, mentre ad esso è estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa (Sez. 5, sentenza n. 19542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168; Sez. 2, sentenza n. 7380 del 11/01/2007, Messina ed altro, Rv. 235716; Sez. 5, sentenza n. 8094 del 11/01/2007, Ienco, Rv. 236540).

Ciò significa altresì che la Corte di Cassazione – investita di un ricorso che indichi in modo specifico come il giudice di merito abbia (non erroneamente interpretato ma) indiscutibilmente travisato una prova decisiva acquisita al processo ovvero omesso di considerare circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati – può, nei limiti della censura dedotta, verificare l’eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obbiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto (Sez. 4, sentenza n. 21602 del 17/04/2007, Ventola, Rv. 237588; Sez. 3, sentenza n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia ed altro, Rv. 244623).

Nel caso in esame risulta essersi verificato precisamente quanto sin qui descritto: nel processo verbale a firma del V. e del R., datato (OMISSIS), di esecuzione del decreto di sequestro emesso dal pubblico ministero in pari data, infatti, si dà atto di aver sottoposto a sequestro due cartucce per pistola ca. 9 parabellum ed un serbatoio per pistola cal. 9 della capienza di 17 cartucce, marca Mec-Gar, indicando gli altri dati identificativi del caricatore stesso, attestando che il caricatore era stato consegnato dal C. ai verbalizzanti a loro richiesta, ed era stato estratto da un cassetto dove il ricorrente lo custodiva.

Ne deriva evidente – come emerge dal testo del documento in questione, di cui si deduce il travisamento – la mancanza dell’attestazione indicata nel capo di imputazione – e che costituirebbe la condotta incriminata – ossia la falsa attestazione che un serbatoio non in dotazione dell’Arma, marca Meg-Car e contraddistinto, fra l’altro, dalle scritte MG-B92-17-A e Patient 5,386,657, era quello consegnato al C. in data (OMISSIS); al contrario, l’unica attestazione contenuta nel verbale ritenuto falso è quella concernente la consegna del caricatore marca Mec-Gar, ossia una circostanza del tutto neutra e priva dei connotati indicati nel capo di imputazione.

Nel caso in esame, quindi, risulta essersi verificato proprio un errore cosiddetto revocatorio che, cadendo sul significante e non sul significato della prova, si è tradotto nell’utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall’atto.

Tuttavia la motivazione della sentenza appare viziata anche sotto altro aspetto, ossia quello, dedotto, della violazione di legge. Sotto detto aspetto la stessa motivazione della sentenza impugnata palesa il vizio riscontrato, nella parte in cui ci si afferma, alla pag. 1, che, in sede di sequestro del caricatore, il V. ed il R. avevano redatto il verbale annotando la consegna, da parte del C., di un caricatore civile Meg-Car, contraddistinto dalle scritte “MG-B9217-A” e “PATENT 5.386,657”, e “sottintendendo che tale serbatoio fosse quello inserito nella pistola la notte del suo ritrovamento”. Evidentemente non appare possibile attribuire all’atto pubblico in oggetto un significato implicito o sottinteso relativamente al contenuto di cui l’atto è destinato a provare la verità, in quanto nel caso in esame la condotta di falsificazione non può che afferire alla componente dichiarativa del documento stesso che, come tale, non può che essere quella esplicitata nell’attestazione.

Non a caso, infatti, è stato affermato che in tema di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto; diversamente, se l’atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni normative che dettano criteri di valutazione si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicchè l’atto potrà risultare falso se detto giudizio di conformità non sarà rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. F., sentenza n. 39843 del 04/08/2015, Di Napoli ed altri, Rv. 264364; Sez. 2, sentenza n. 1417 del 11/10/2012, dep. 11/01/2013, P.C. in proc. Platamone ed altro, Rv. 254305).

Evidentemente, nel caso in esame, l’atto incriminato, ossia il verbale di sequestro, non conteneva la manifestazione di alcun giudizio, essendo ontologicamente escluso qualsivoglia contenuto discrezionale in relazione ad un atto, come quello in esame, dal contenuto meramente esecutivo di una provvedimento adottato dall’A.G..

Inoltre va ricordato che il principio affermato dalle Sez. U, sentenza n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi ed altro, Rv. 236867 – secondo cui il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo può investire le attestazioni, anche implicite, contenute nell’atto e i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva dell’atto medesimo, che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità – è stato successivamente ribadito dalle Sezioni semplici che si sono confrontate con i più vari profili concreti e con le problematiche connesse alle false attestazioni dei privati che si trovino in rapporto strumentale con la falsità ideologica posta in essere dal pubblico ufficiale.

Tuttavia il presupposto su cui si fondavano le pronunce in esame – ossia la natura dispositiva dell’atto – appare del tutto eccentrico rispetto alla funzione dell’atto in esame, costituito da un verbale di sequestro, dal quale la natura dispositiva è chiaramente assente.

Ed infatti la giurisprudenza di questa Corte, ormai consolidata, in tema di atti dispositivi, ha affermato che essi consistono in una manifestazione di volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un fatto, con la conseguenza che appare configurabile la falsità ideologica in relazione alla parte descrittiva in essi contenuta e, più precisamente, in relazione all’attestazione, non conforme a verità, dell’esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell’atto, a nulla rilevando che tale attestazione non risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poichè, quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell’atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell’attestazione, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell’atto stesso, con la conseguente irrilevanza dell’omessa menzione ai fini della sussistenza della falsità ideologica (Sez. U, sentenza n. 1827 del 03/02/1995, P.G. in proc. Proietti ed altri, Rv. 200117; Sez. 5, sentenza n. 24301 del 19/03/2015, Paolone, Rv. 263909; Sez. 5, sentenza n. 48389 del 24/09/2014, P.G. in proc. Di Francesco, Rv. 261969; Sez. 5, sentenza n. 5353 del 2010; Sez. 5, sentenza n. 5397 del 14/10/2004, dep. 11/02/2005, Rv. 230683; Sez. 5, sentenza n. 10384 dl 10/06/1999, Rv. 214299).

E’ stato quindi affermato, nelle più svariate fattispecie esaminate, che tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 c.p., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera. Il provvedimento del pubblico ufficiale, infatti, è ideologicamente falso in quanto adottato sulla base di un presupposto che in realtà non esiste; del falso, però, non risponde il pubblico ufficiale, in quanto tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha ingannato.

Nel caso in esame, quindi, la Corte di merito non ha fatto buon governo dei principi indicati da questa Corte, non potendosi ravvisare, nel provvedimento di sequestro, non solo la natura di atto dispositivo – non manifestando esso alcuna volontà, bensì estrinsecandosi in una semplice attività esecutiva di un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria – ma, soprattutto, non presupponendo esso alcuna attestazione falsa da parte del privato, tale non potendosi considerare la mera consegna del caricatore, consistente, anch’essa, in una mera attività materiale e non certamente in un’attestazione.

4. Da ciò consegue l’annullamento della sentenza senza rinvio, in quanto il fatto non sussiste, restando assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso sul punto.

4.1. Dal rigetto del ricorso in relazione alla fattispecie di cui al capo B), deriva ex art. 623 c.p.p., lett. c), il rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce per la rideterminazione della pena.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al capo A), riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 697 c.p., perché il porto di munizioni di arma comune da sparo non è previsto dalla legge come reato e la detenzione di munizioni della medesima arma è, nella specie, prescritta.

Annulla la medesima sentenza in relazione al capo D) perché il fatto non sussiste.

Rigetta nel resto il ricorso e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce per la rideterminazione della pena.

Così deciso in Roma, il 17 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2017

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