Giustizia Militare: C.p., artt. 133 e 163; C.p.m.p., art. 196 cpv. (Corte Costituzionale, Sez. 1^ pen., 8 novembre 1999).

La sospensione condizionale della pena ha fondamento, per la prevenzione speciale, nel potersi ritenere che la non esecuzione sia remora per il condannato con la prospettiva che, ricadendo nel reato, verrà scontata. Anche la pena pecuniaria, ben potendo avere efficacia redimente, può essere sospesa. E pure la non menzione della condanna, avendo affini finalità, è compatibile con la pena pecuniaria.

Per aversi il reato di ingiuria, non si deve, quanto al dolo relativo, particolarmente provare l’intenzione di ledere l’altrui onore, che è insita nella pronunzia delle espressioni offensive, consapevolmente voluta, se aventi oggettiva e autonoma capacità lesiva di prestigio, onore o dignità del destinatario (nella fattispecie, per grado inferiore, parte lesa di abuso di autorità)(1b).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:

««Con sentenza del 26.3.1999 il GUP del Tribunale Militare di Torino, dichiarava, a seguito di giudizio abbreviato, il Maresciallo dei carabinieri R. colpevole del reato di ingiuria continuata ad un inferiore, per avere, in più occasioni, rivolto a B. e C. e al L. alcune frasi offensive, condannandolo, con le attenuanti generiche e della provocazione e la diminuente del rito, alla pena di un mese di reclusione militare, convertita nella multa di £. 2.250.000. Il giudice suddetto riteneva provata la penale responsabilità dell’imputato in base alle parziali ammissioni del medesimo e alle dichiarazioni dei testi che erano stati presenti ai fatti.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il R., deducendo:

  1. omessa motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, asserita con affermazioni del tutto apodittiche oltre che di difficile comprensione;
  2. omessa valutazione del contenuto delle dichiarazioni dei testi e, in particolare, di quelle del teste L., indicate, contrariamente al vero, come confermatorie della tesi accusatoria;
  3. illogicità della motivazione in ordine al diniego dei benefici di legge, giustificato dalla disposta conversione della pena detentiva in quella pecuniaria, cosa che aveva impedito al ricorrente di proporre appello.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è fondato nei limiti di cui appresso.

Il diniego dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna è stato giustificato dal Tribunale Militare di Torino in base alla considerazione che la sanzione pecuniaria, nella quale quella detentiva era stata convertita, non poteva avere alcuna “efficacia redimente”.

Ora, a prescindere dalla considerazione che la conversione della pena non era stata chiesta dall’imputato ma è stata disposta d’ufficio dal tribunale, l’affermazione, secondo cui una pena pecuniaria, a differenza di quella detentiva, non ha, in via di principio, efficacia redimente, è, oltre che criticabile sul piano psico-sociologico, chiaramente smentita sul piano normativo.

L’art. 163 c.p. prevede infatti esplicitamente la possibilità di sospendere condizionalmente anche le pene pecuniarie considerandole con ciò tutt’altro che prive, di per se stesse, di efficacia redimente.

A ciò si aggiunga che la legge, nel prescrivere che l’istituto in esame si applica quando appaia fondata la presunzione che il colpevole si asterrà in futuro dal delinquere ulteriormente, persegue finalità di prevenzione speciale, nel senso che il beneficio va concesso quando si possa ritenere che la condanna non eseguita costituisca comunque una remora per il condannato nella prospettiva che, in caso di ulteriore commissione di condotte illecite, la pena avrà esecuzione.

Sotto tale profilo il giudice ha l’obbligo di verificare se sia formulabile la prognosi di non ricaduta nel delitto sulla scorta delle circostanze di cui all’art. 133 c.p. e non certo, come ha illegittimamente fatto il tribunale, in base alla natura della sanzione imposta.

Peraltro questa Corte ha già avuto modo di affermare, sotto un aspetto diverso ma comunque attinente al caso in esame, il principio che “configura una motivazione illegittima negare la sostituzione della pena detentiva irrogata, e condizionalmente sospesa, con l’argomento che per conferire efficacia preventiva alla sospensione condizionale necessita una remora valida e questa è rappresentata dal timore della pena carceraria”. (v. Cass., Sez. III, sent. n. 2655 del 11-03-1995, Ranieri).

Analogamente è a dirsi per quanto riguarda il beneficio della non menzione della condanna, che persegue finalità affini a quelle perseguite dall’istituto della sospensione condizionale della pena.

La sentenza impugnata va pertanto annullata limitatamente al diniego dei benefici di cui sopra, con conseguente rinvio, a norma dell’art. 623, lett. d) c.p.p., al medesimo Tribunale Militare di Torino sia pure in diversa composizione, che si atterrà ai principi come sopra affermati.

Infondate appaiono invece le altre doglianze.

In ordine alla doglianza relativa alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, vero è che alcune espressioni usate dal tribunale peccano, sotto certi aspetti, di incerta formulazione, ma ciò non vuol dire che esse siano da considerare del tutto apodittiche o illogiche.

Ed invero, dopo avere, sulla base degli elementi emersi, dato atto del pacifico profferimento delle frasi incriminate, aventi natura oggettivamente offensiva, i giudici di merito hanno inteso in buona sostanza affermare che la portata delle frasi suddette, il significato delle stesse ed il contesto nel quale sono state pronunciate erano tali da indurre fondatamente a ritenere che l’imputato non poteva non avere contezza piena della valenza offensiva delle sue parole per la dignità, l’onore e il decoro dei suoi sottoposti, cui le frasi erano indirizzate.

Si tratta, così intesa e interpretata, di una motivazione tutt’altro che apodittica e incongrua, essendo innegabile che l’intenzione di ledere l’altrui dignità è normalmente insita nella stessa volontà dell’azione ingiuriosa, per cui non ha bisogno di essere esplicitamente provata, salvo casi particolari in cui la peculiarità del fatto lasci intravedere che il fine dell’agente era diverso, e che, di conseguenza, il dolo è configurabile, senza necessità di una particolare dimostrazione, qualora l’espressione usata sia autonomamente e manifestamente offensiva, tale, cioè, da offendere, con il suo significato univoco, la dignità della persona. (In tal senso, v. fra le altre, Cass., Sez. V, sent. n. 3371 del 5-10-1998, Gravina).

Manifestamente infondata, infine, è l’affermazione del ricorrente secondo cui sarebbe stata omessa la valutazione delle dichiarazioni dei testi e la deposizione di L. sarebbe stata ritenuta, contrariamente al vero, come confermatoria della tesi accusatoria.

Invero il ricorrente avrebbe dovuto chiarire sotto quale profilo le affermazioni del L. erano tali da smentire la tesi accusatoria, mentre egli, dopo avere sostenuto, sulla base di una certa corrente giurisprudenziale, la possibilità per il giudice di legittimità di esaminare gli atti in presenza di una specifica doglianza riguardante l’errata valutazione di essi, si è astenuto dal fare qualsiasi precisazione in proposito, impedendo in tal modo qualsiasi possibilità di controllo, da parte di questa Corte, delle sue stesse censure.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al diniego dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p., e rinvia per nuovo giudizio sul punto al Tribunale Militare di Torino.

Rigetta nel resto»».