REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GALLO Domenico – Presidente –
Dott. TUTINELLI Vincenzo – Consigliere –
Dott. CIANFROCCA Pierluigi – Rel. Consigliere –
Dott. BORSELLINO Maria Daniela – Consigliere –
Dott. RECCHIONE Sandra – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di:
(OMISSIS) Aurelio, nato a (OMISSIS) il 19.10.1957;
contro la sentenza della Corte di Appello di Bologna del 22.1.2020;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Pierluigi Cianfrocca;
letta la requisitoria del PG che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza dell’1.12.2017 il Tribunale di Rimini aveva riconosciuto Aurelio (OMISSIS) (con Franco Ugo (OMISSIS)) responsabile dei fatti di truffa e di estorsione a lui ascritti e, con le ritenute circostanze attenuanti generiche stimate prevalenti sulle contestate aggravanti, lo aveva condannato alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione ed Euro 900 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento del danno patito dalla costituita parte civile in cui favore aveva liquidato le spese ed una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 10.000;
2. la Corte di Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha qualificato il reato di cui al capo B) come esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed ha di conseguenza rideterminato la pena in quella di mesi 9 di reclusione ed Euro 500 di multa confermando la sentenza impugnata con riguardo, in particolare, alle statuizioni civili;
3. ricorre per cassazione il difensore del (OMISSIS) lamentando, con un unico motivo, violazione di legge e vizio di motivazione:
– violazione di legge: rileva che la Corte di Appello ha confermato la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa senza dar rilievo alle circostanze invece introdotte dalla difesa;
– ricorda come debba atteggiarsi il dolo nel delitto di truffa c.d. contrattuale integrata dalla induzione della controparte ad obbligarsi prestando il proprio consenso viziato dalla condotta ingannatoria;
– segnala come la Corte territoriale abbia ritenuto gli estremi della truffa non considerando i fatti come ricostruiti dal Tribunale e da cui risulta la sottoscrizione, da parte di Marco (OMISSIS), di due successivi contratti conclusi con la (OMISSIS) (OMISSIS) srl, società di recupero crediti operante sull’intero territorio nazionale, con cui era stato convenuto un compenso per la attività che sarebbe stata svolta e che, tuttavia, non aveva consentito di recuperare i crediti da costui vantati come, peraltro, previsto dallo stesso (OMISSIS) che aveva affidato il recupero di crediti ritenuti ormai inesigibili;
vizio di motivazione:
– segnala che la Corte di Appello si è limitata a richiamare le considerazioni svolte dal Tribunale senza dar conto ed affrontare rilievi articolati dalla difesa venendo meno al suo onere di argomentare sulle doglianze devolutegli con il gravame;
4. in data 12.1.2021 il PG ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell’art. 23 comma 8 del DL 137 del 2020 concludendo per la inammissibilità del ricorso: segnala come la Corte di Appello non si sia limitata a richiamare le motivazioni articolate dal giudice di prime cure ma abbia evidenziato diversi elementi che avevano consentito di configurare la truffa contrattuale dovendosi escludere, in questa sede, una rivalutazione dei profili fattuali già compiutamente operata dai giudici di merito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per essere articolato su censure non consentite in questa sede.
1. Il fatto è stato ricostruito sulla scorta di una conforme valutazione, nei due gradi, delle medesime emergenze istruttorie.
Ed è noto che, in tal caso, la sentenza appellata e quella di appello si integrano vicendevolmente formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico – giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione tanto che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure (cfr., Cass. Pen., 2, 19.3.2013 n. 30.838; Cass. Pen., 2, 13.2.2014 n. 19.619, Bruno).
1.1 Marco (OMISSIS), titolare della ditta “(OMISSIS) (OMISSIS) Marco srl”, aveva riferito che nel febbraio del 2013 si erano presentati da lui, in due diverse occasioni, il (OMISSIS) ed il Di (OMISSIS), qualificandosi come agenti della società di recupero crediti “(OMISSIS) (OMISSIS) srl”, vantando le proprie capacità professionali e le “performance” in termini di conseguimento di risultati inducendolo ad affidare loro alcune pratiche “incagliate”; aveva perciò corrisposto un fondo spese iniziale di 1.500 Euro circa e, in un secondo tempo, aveva affidato altre pratiche per un compenso di 5.000 Euro circa dando mandato di agire nei confronti di alcune società nei cui confronti vantava crediti per complessivi Euro 75.000 circa; ulteriori Euro 800, aveva riferito il (OMISSIS), erano stati richiesti ed ottenuti dagli imputati per spese a loro dire dovute a bolli su cambiali.
Il (OMISSIS) aveva spiegato che il (OMISSIS), come risultato della attività di “recupero” dei crediti, gli aveva consegnato delle cambiali munite di bolli da un centesimo ciascuna e con intestatari risultati inesistenti e la apposizione di firme di girata illeggibili finendo per avere così contezza di essere stato vittima di una vera e propria truffa avendo il (OMISSIS) ed il Di (OMISSIS) presentato una fattura di 16.000 Euro per le loro competenze e fatti consegnare la somma ulteriore di 3.000 Euro a fronte di una attività che, in sostanza, non era stata effettivamente espletata.
Il Tribunale aveva ravvisato gli estremi del delitto di truffa atteso che, pur nella liceità della attività di recupero crediti caratterizzata da una obbligazione di mezzi e non di risultato, i due avevano dapprima vantato la loro capacità di raggiungere risultati superiori rispetto a quelli conseguibili da eventuali concorrenti; avevano così ottenuto l’incarico di recuperare alcuni crediti “incagliati” che avevano tuttavia “convertito” in cambiali false in quanto sottoscritte da soggetti inesistenti indicando sé stessi o la loro società come beneficiari con girata illeggibile, in tal modo precludendo qualsivoglia possibilità di azione giudiziaria da parte del (OMISSIS) dal quale avevano ricevuto due assegni per circa 6.500 Euro complessivi e la ulteriore somma di 800 Euro in contanti a fronte delle quali non avevano svolto in realtà alcuna attività finalizzata a recuperare i crediti.
In definitiva, il Tribunale aveva ravvisato la truffa proprio nella inesistenza della promessa e dovuta attività professionale svolta dagli imputati e meritevole di compenso a fronte della cessione di cambiali palesemente false e del tutto inidonee ad essere azionate.
1.2 A fronte dell’appello interposto dalla difesa del (OMISSIS), la Corte di Appello, sulla premessa del carattere sostanzialmente pacifico dei fatti, ha sottolineato come la malafede (o dolo) originaria in capo agli imputati fosse emersa “retrospettivamente”, ovvero alla luce di quanto accaduto successivamente, dalla falsa ed artefatta magnificazione delle proprie capacità professionali quanto al recupero dei crediti “incagliati” e come tale evidenziata dalla consegna di titoli di credito del tutto inidonei ad essere azionati in giudizio nei confronti dei debitori “ceduti”.
Rileva il collegio che la risposta fornita dalla sentenza impugnata è del tutto corretta in diritto.
È noto, infatti, che nella truffa contrattuale, l’elemento che imprime al fatto dell’inadempienza il carattere di illecito penale è costituito dal dolo iniziale, che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti – determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri e, quindi, falsandone il processo volitivo – rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria (cfr., tra le tante, Cass. Pen., 2, 8.11.2013 n. 5.801, Montalti; Cass. Pen., 2, 22.9.2010 n. 37.859, Bologna).
Per altro verso, è evidente che la prova del dolo “iniziale” non può che provenire ed essere fondata sulla valorizzazione di elementi fattuali che possono essere di più varia indole e che possono attingere la fase antecedente come anche quella successiva al perfezionamento dell’accordo purché tali da rivelare l’iniziale proposito dell’agente (cfr., Cass. Pen., 6, 6.4.2011 n. 16.465, Serena Monghini, in cui la Corte ha ribadito che la prova della volontà di commissione del reato è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l’azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l’evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione; conf., Cass. Pen., 2, 21.1.2015 n. 6.847, Spalanzino, resa in materia di d’insolvenza fraudolenta, in cui la Corte ha ribadito che la prova del preordinato proposito di non adempiere alla prestazione dovuta sin dalla stipula del contratto, dissimulando lo stato di insolvenza, può essere desunta anche da argomenti induttivi seri e univoci, ricavabili dal contesto dell’azione e dal comportamento successivo all’assunzione dell’obbligazione; conf., in tal senso, Cass. Pen., 2, 16.6.2015 n. 39.887, Straputicari ed altri).
Alla luce di questi principi di diritto si deve allora convenire nel senso che la argomentazione induttiva della Corte di Appello – di desumere il dolo iniziale e gli estremi della truffa dalla valutazione della condotta complessivamente tenuta dall’imputato ivi compresa quella susseguente alla assunzione dell’obbligazione – si risolve in una valutazione “in fatto” del tutto legittima in diritto e non manifestamente illogica, non suscettibile, per questa ragione, di essere censurata in questa sede sotto il profilo della violazione di legge o del vizio di motivazione.
2. L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende non sussistendo motivi d’esonero.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 22.1.2021.
Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2021.