La Cassazione conferma la condanna per il commerciante che ha posto in vendita I-Phone col software sbloccato (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 24 febbraio 2021 n. 7131).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente –

Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere –

Dott. DI STASI Antonella – Consigliere –

Dott. GALTERIO Donatella – Rel. Consigliere –

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) Carmine, nato a (OMISSIS) il 28.11.1976;

avverso la sentenza in data 13.3.2019 della Corte di Appello di Bologna;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Donatella Galterio;

lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa Paola Filippi che ha concluso per l’annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 13.3.2019 la Corte di Appello di Bologna ha confermato la penale responsabilità di Carmine (OMISSIS) per il reato di cui all’art. 517 cod. pen., così come riqualificata l’originaria imputazione dal giudice di primo grado, per aver detenuto per la vendita sedici apparecchi cellulari tipo I-phone 3G privi delle caratteristiche previste per ciascuno di essi in quanto oggetto di manomissione e disassemblaggio con modifica dei componenti hardware e software, ma avendolo assolto dal reato di ricettazione perché il fatto non sussiste ha ridotto la pena inflittagli dal tribunale di Rimini ad C 15.150 di multa previa sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria.

2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando tre motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge processuale riferito agli artt. 185, terzo comma e 552 primo comma lett. c) cod. proc. pen. e al vizio motivazionale, che essendogli stato, contestato, nel capo di imputazione la detenzione per la vendita di prodotti con marchi contraffatti, non era evincibile dallo stesso quali fossero i titoli di proprietà industriale violati, con conseguente indeterminatezza della contestazione in ordine all’enunciazione del fatto.

Contesta la motivazione con la quale il giudice di appello aveva ritenuto l’infondatezza della doglianza, ovverosia che fosse evidente che oggetto di contestazione fosse il marchio Apple concernente i notissimi cellulari I-phone, sul rilievo che in nessuno dei due capi di imputazione comparisse alcun marchio, venendo ivi menzionati soltanto 16 apparecchi I-phone mai registrati da Apple e che pertanto il ragionamento di stampo circolare non forniva alcuna risposta ala devoluta censura volta ad evidenziare la mancata indicazione dell’oggetto materiale dei reati contestatigli, con conseguente nullità della vocatio in jus.

2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. e al vizio motivazionale, che, costituendo il tema del processo quello della contraffazione dei marchi Apple intorno al quale ruotavano entrambi i capi di imputazione, la difesa non aveva articolato alcun mezzo di prova posto che gli apparecchi telefonici non recavano alcuna contraffazione, come del resto anche solo incidentalmente riconosciuto dalla sentenza di primo grado che dava atto che all’esterno sulla scocca di ogni cellulare era riportato il logo Apple originale, la scritta I-phone ed i codici identificativi del singolo modello e che la componentistica interna era corrispondente a quella presente sull’originale.

Lamenta conseguentemente che la riqualificazione del fatto da parte del Tribunale di Rimini ai sensi dell’art. 517 cod. pen. rispetto al delitto ex art. 474 originariamente contestato aveva comportato un radicale mutamento del fatto posto che dall’ipotesi del marchio contraffatto si era passati alla diversa fattispecie di prodotti originali con segni mendaci, atti ad indurre il compratore in inganno.

2.3. Con il terzo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 517 cod. pen. nonché agli artt. 192, 526, 546, 530 e 533 cod. proc. pen. e al vizio motivazionale, che sulla scorta dell’accertamento eseguito in primo grado secondo cui i cellulari in questione presentavano un sistema operativo “jailbrekkato” così da superare le limitazioni imposte dal sistema Apple, la Corte di Appello censura la condotta dell’imputato per aver posto in vendita degli apparecchi disassemblati e riassemblati senza che i potenziali acquirenti fossero edotti della intervenuta operazione, contraddicendo l’affermazione contenuta nella stessa pronuncia secondo cui gli apparecchi telefonici recavano l’indicazione che si trattava di cellulari “ricondizionati pari al nuovo” e soprattutto senza dar conto dell’attitudine ingannevole di tale condotta sull’origine, provenienza o qualità del prodotto configurante elemento costitutivo del delitto di vendita di prodotti industriali con segni mendaci.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le contestazioni che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato devono ritenersi manifestamente infondate tanto sul piano processuale quanto su quello sostanziale.

Ai fini di una più chiara comprensione della questione sub judice, occorre puntualizzare che la vicenda nasce da un’indagine in cui il personale del nucleo dell’Ispettorato del Lavoro, nell’effettuare un controllo, rinveniva presso l’esercizio commerciale gestito dall’imputato ventinove cellulari apparentemente riconducibili alla Apple, di cui tuttavia quest’ultima ne riconosceva come propri soltanto tredici, e non invece i restanti sedici il cui codice IMEI, ovverosia il cifrario identificativo di ogni apparecchio, non era corrispondente a quello della casa madre, senza che in assenza di bolle di importazione o documenti di trasporto si fosse riusciti a far luce sulla loro provenienza.

Sono perciò i suddetti sedici apparecchi, il cui funzionamento software risultava, stando alle conclusioni raggiunte dal consulente del PM, manomesso attraverso la procedura di jailbreak, ad essere oggetto del capo di imputazione di cui al presente processo, originariamente configurato ai sensi dell’art. 474 cod. pen., trattandosi di cellulari “sprovvisti di IMEI e mai registrati da Apple”.

Seppur riferita ad altra fattispecie criminosa rispetto a quella poi ritenuta già dal primo giudice, non può tuttavia ritenersi, così come si assume nel primo motivo del ricorso, che l’originaria contestazione presentasse i profili di genericità lamentati dalla difesa in relazione ai titoli di proprietà industriale ipoteticamente violati.

La circostanza che venga espressamente menzionata la mancanza, ancorché riferita alla condotta di contraffazione, di codici identificativi della Apple nei sedici I-phone, anch’essi prodotti esclusivi della Apple, non consente di ravvisare alcun elemento atto ad ingenerare confusione nell’identificazione del marchio, non risultando necessaria nella sintetica riproduzione del fatto contestato la specificazione, su cui si incentra la doglianza in esame, che si trattasse di segno distintivo oggetto di protezione nazionale o internazionale, la quale è contenuta in nuce nella tutela apprestata ad esso dal legislatore nell’ipotesi delittuosa dell’art. 474 cod. pen., ma che comunque non è affatto richiesta ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 517 cod. pen. che, avendo ad oggetto la tutela dell’ordine economico inteso come trasparenza del mercato ed affidabilità delle merci in circolazione a presidio dei consumatori, prescinde dall’esistenza di un marchio registrato in capo a terzi del prodotto immesso in commercio (Sez. 5, n. 13322 del 23/01/2009 – dep. 25/03/2009, Liang e altro, Rv. 243937).

E’ la menzione della casa madre, nominativamente individuata, che in assenza di indicazioni con essa contrastanti, consente all’evidenza di ritenere l’usurpativa contestata ai danni della Apple, restando ferma la regola di base, come già a suo tempo chiarito da questa Corte nel suo supremo consesso, che impone, al fine di stabilire la determinatezza dell’imputazione, di aver riguardo alla contestazione sostanziale e che consente di escludere eccezioni di nullità ogniqualvolta il prevenuto abbia avuto modo di individuare agevolmente gli specifici fatti, intesi come accadimenti materiali, con riferimento ai quali l’accusa è stata formulata (Sez. U. n.16 del 19/6/1996, Di Francesco).

2. Né maggior fondamento riveste il secondo motivo, da esaminarsi congiuntamente al successivo posto che ai fini dell’eccepito difetto di correlazione tra l’accusa contestata e la decisione giurisdizionale assunta, occorre preliminarmente chiarire il campo applicativo delle due fattispecie delittuose, l’una ritenuta dal pubblico ministero e l’altra accertata dal giudice.

2.1. A differenza della fattispecie prevista dall’art. 474 cod. pen. che punisce, a tutela della pubblica fede e del diritto all’esclusiva del legittimo titolare, la riproduzione integrale, emblematica e letterale del segno distintivo o del marchio (contraffazione) ovvero la loro riproduzione parziale, realizzata in modo tale da potersi confondere col marchio o col segno distintivo protetto (alterazione), ai fini del delitto di cui all’art. 517 cod. pen che punisce la vendita di prodotti industriali con segni mendaci) è sufficiente che i nomi, marchi o segni distintivi, portati dai prodotti posti in vendita, risultino semplicemente ingannevoli, così da ingenerare confusione nel pubblico degli utenti e dei consumatori sulla loro origine, qualità o provenienza.

Nel caso di specie la condotta delittuosa accertata dai giudici di merito è consistita nel fatto che, quantunque gli involucri esterni (ovverosia la scocca, il display, etc.) fossero originali della Apple, il meccanismo interno risultava essere stato integralmente modificato nel senso che il software originale era stato rimosso e sostituito con componenti di software diversi non provenienti né autorizzati dalla casa madre, così da rendere i cellulari, originariamente destinati ad un mercato estero, compatibili con i sistemi telefonici utilizzati dagli operatori telefonici italiani. Pertanto gli apparecchi in questione, pur avendo le sembianze di un I-phone non ne avevano più, per effetto dell’operazione di jailbreak (letteralmente dall’inglese “evasione”) su di essi effettuata, le funzionalità.

Che poi tale funzionamento in quanto diverso comportasse vantaggi (quali l’installazione di applicazioni diverse da quelle App Store) o svantaggi (impossibilità di effettuare gli aggiornamenti e maggiore vulnerabilità dei sistemi di sicurezza) è questione che poco importa ai fini del perfezionamento della fattispecie delittuosa, integrata proprio dalla differente funzionalità accertata.

In definitiva i prodotti offerti in vendita non erano cellulari soltanto rigenerati, i quali malgrado la cancellazione della precedente memoria e la conseguente perdita della garanzia Apple, ne conservano ciò nondimeno le funzionalità primigenie (aggiornamenti, installazione delle applicazioni Apple) non venendo sostituiti i componenti che restano quelli originali e risolvendosi l’intervento soltanto in una mera riprogrammazione del funzionamento, ma erano apparecchi diversi da quelli che l’aspetto esteriore indicava, senza che la dicitura “ricondizionati pari al nuovo” fosse idonea a renderne edotto il potenziale acquirente.

Correttamente pertanto il fatto è stato riqualificato come vendita di prodotti industriali con segni mendaci rispetto all’iniziale contestazione effettuata come commercio di prodotti contraffatti.

Invero il carattere sussidiario rivestito dalla norma di cui all’art. 517 cod. pen. derivante dalla clausola di riserva contenuta nella medesima disposizione rispetto alla fattispecie delittuosa ex art. 474 cod. pen. ne implica l’applicazione tutte le volte in cui la condotta delittuosa consista nell’immissione in commercio di prodotti industriali, così come di opere dell’ingegno, che, al di fuori della contraffazione materiale del marchio o del segno distintivo previamente registrato, siano comunque atti a trarre in inganno l’acquirente sulla loro origine, qualità o provenienza da un determinato produttore, indipendentemente dal fatto che l’attività decettiva si sia concretizzata in un’imitazione sia pure grossolana del logo.

Nella specie l’assemblaggio finale dei cellulari che presentavano all’esterno il “guscio” originale dell’I-Phone, e dunque un involucro scevro da contraffazioni, ma al loro interno un sistema di software del tutto differente da quello della Apple che proprio perciò li aveva disconosciuti come prodotti propri, rendeva il prodotto posto in vendita ben diverso dall’apparenza e dunque idoneo ad indurre i compratori in errore sulla sua qualità e provenienza.

Come, invero, già affermato in un risalente e tuttora condivisibile arresto da questa Corte il reato di cui all’art. 517 cod. pen., punendo chi mette in circolazione prodotti industriali con nomi, marchi e segni distintivi nazionali ed esteri atti ad indurre il compratore in inganno sull’origine, provenienza o qualità, quindi indipendentemente da ogni contraffazione, punisce anche chi mette in circolazione prodotti con nomi, marchi e segni distintivi genuini, cioè non contraffatti, ma illegittimi, in quanto illegittimamente sostituiti a quelli originari e quindi idonei ad indurre in inganno il compratore sull’origine e provenienza della merce (Sez. 3, n. 2250 del 11/12/1984 – dep. 08/03/1985, BIAGINI, Rv. 168206, in una fattispecie in cui in motocicli assemblati erano state cancellate le originarie diciture giapponesi apponendone altra italiana).

2.2. A tali rilievi consegue, a chiusura del cerchio, l’esclusione della contestata violazione della necessaria correlazione tra accusa e sentenza che, per poter essere ritenuta sussistente, deve aver comportato un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente determinato una novazione dei termini dell’addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel mutamento sono scaturiti.

Ebbene, dall’esame della imputazione originariamente contestata al ricorrente, emerge con chiarezza che l’intero quadro di riferimento fattuale su cui si è articolato il contraddittorio e il diritto alla prova ha avuto ad oggetto la genuinità degli apparecchi in contestazione, intesa come provenienza dei medesimi dalla Apple in relazione alle caratteristiche tecniche che presentavano, rimasta immutata a dispetto della diversità del bene giuridico tutelato dal reato contestato rispetto alla sua riqualificazione ai sensi dell’art. 517 cod. pen..

Per vero è la stessa difesa a riconoscere di non avere indicato alcun testimone né articolato alcun mezzo di prova sul presupposto che fosse lo stesso materiale raccolto, ovverosia gli apparecchi telefonici nella loro materialità, a contenere, a suo avviso, la dimostrazione dell’insussistenza del fatto: ma è proprio muovendo dal fatto contestato che i giudici di merito hanno proceduto alla sua riqualificazione ai sensi dell’art. 517 cod. pen., restando immutata la circostanza che si trattasse, così come risulta dall’imputazione, di “cellulari sprovvisti di IMEI e mai registrati da Apple”.

In tal senso, sia pure nell’ipotesi opposta, si è, del resto, già pronunciata questa Corte, avendo affermato che “non vi è la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.), ed è quindi legittima la riqualificazione giuridica del fatto – originariamente contestato ai sensi dell’art.517 cod. pen. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) – e la successiva condanna per il reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 cod. pen.), discutendosi sostanzialmente dello stesso fatto” (Sez. 5, n. 29869 del 14/06/2011 – dep. 26/07/2011, Diop, Rv. 25041401).

3. Il ricorso deve essere, in conclusione, dichiarato inammissibile.

Tenuto conto della sentenza del 13.6.2000 n.186 della Corte Costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità” all’esito del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000.00  in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 4.12.2020.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.